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Tabacchine di Ponte Buggianese

di Laura Candiani

Riferimenti toponomastici: via delle Tabacchine si trova a Perugia, Bastia Umbra (PG), a Sannicola (LE), a Soleto (LE).
La memoria popolare a Lanciano (CH) ricorda una epica rivolta delle oltre 1000 lavoranti della Azienda Tabacchi avvenuta nel 1968, per la salvaguardia del posto di lavoro. In Valdinievole e aree vicine al Padule viene ricordata la strage nazifascista del 23 agosto 1944: piazza Martiri del Padule (Ponte Buggianese - local. Anchione - con monumento), via Martiri del Padule a Pieve a Nievole, a Lamporecchio, a Larciano (local. Castelmartini- con monumento), a Fucecchio(FI); a Monsummano si ricorda la data (via 23 agosto); altrove si trovano intestazioni più generiche come via dei Martiri (Montecatini, Monsummano - local. Cintolese) e via Martiri della Libertà (Casalguidi).

Le sigaraie, tre grandi edifici in mattoni ancora oggi visibili ai margini del Padule di Fucecchio, nel Comune di Ponte Buggianese (PT), costituiscono esempi di vera e propria archeologia industriale, ma due di essi purtroppo sono in grave stato di abbandono. Per chi vive in questa zona, sono anche un continuo monito contro la barbarie: nella tranquilla campagna circostante si perpetrò infatti una delle più gravi stragi nazifasciste della Toscana in cui persero la vita 175 persone fra vecchi, donne e bambini, il 23 agosto 1944, come testimoniano una lapide e i numerosi cippi sparsi fra fossi e prati. La coltivazione del tabacco fu incoraggiata dallo Stato, a partire dal 1917, perchè i 4/5 del fabbisogno venivano importati dagli Stati Uniti. Il ministro dell’Agricoltura Angelo Maiorana emanò una serie di provvedimenti sia per la costruzione di edifici idonei (con successivo rimborso degli 8/10 della spesa) sia per la fornitura di semi e di assistenza tecnica; il tabacco (di qualità Kentucky per i pregiati sigari “toscani” e Bright per le sigarette) sarebbe poi stato acquistato e lavorato regolarmente dallo Stato, nelle manifatture tabacchi gestite dal Monopolio. Alcuni imprenditori cominciarono l’impresa e in breve furono costruiti in questa zona (come altrove in Italia) tre imponenti edifici, di mattoni scempi “a faccia vista”: le sigaraie del Piaggione, dei Settepassi e del Pratogrande. L’unico vincolo era costituito dall’ampiezza del territorio inizialmente coltivato: non meno di un ettaro, non più di tre. Gradualmente le coltivazioni si ampliarono e raggiunsero considerevoli risultati, fino agli anni Sessanta, quando l’attività cessò. Piantare, curare, tenere pulite le piantine era un lavoro complesso e accurato, tenuto sotto controllo dalla Finanza che impediva truffe ed eventuali furti. Dovevano essere estirpate le erbacce e dalle piante dovevano essere eliminate le foglie vicino al terreno, che potevano marcire; quando arrivava il momento, sempre sotto controllo della Finanza, si poteva procedere alla raccolta, dopo la conta delle piante. Le foglie, raccolte dal basso verso l’alto, molto grandi e vellutate come il camoscio, erano portate all’essiccatoio con i carri; poi si raccoglievano anche le piante, tagliandole alla base. Le donne creavano dei mazzetti di foglie (una trentina per volta), infilzandole con un ago lunghissimo e uno spago, una a diritto e una a rovescio, da mettere poi “a cavalcioni” su delle assi. Naturalmente ci volevano anche prontezza e un occhio esperto perché i mazzi dovevano essere omogenei per lunghezza e qualità; si procedeva poi alla “cura” nelle apposite celle, ovvero le varie fasi dell’essiccazione che potevano durare circa 14 giorni. Di nuovo toccava alle donne fare la “cèrnita”: si doveva controllare l’integrità delle foglie, se c’erano buchi o strappi, se tutte le operazioni erano andate bene, e si creavano 6 o 7 diverse qualità di prodotto.   Si doveva poi umidificare tutto il ricavato e infine le grosse botti piene di tabacco venivano trasportate con i carri trainati da buoi fino alla stazione di Borgo a Buggiano, da dove partivano i treni merci per Lucca, destinati alla manifattura. Il lavoro, prevalentemente femminile, stagionale e poco qualificato, non era regolato da contratto e non era continuativo; si trattava di un accordo temporaneo fra proprietari e contadini e il numero delle lavoranti era mutevole. Costituiva comunque una fonte di reddito preziosa in una situazione economica difficile, prevalentemente agricola e mezzadrile. In certe testimonianze si parla di quaranta donne e tre uomini, in altre di numeri oscillanti fra venti e cinquanta donne, impiegate giornalmente e scelte da un caporale, a sua volta responsabile del lavoro e scelto dal fattore. Ancora oggi abbiamo precise testimonianze con gli elenchi delle ore di lavoro (7/8 giornaliere), delle giornate (da maggio ad agosto), del ricavato e delle occupate: Luisa, Dina, Lina, Zelina, Vittoria, Umbertina, Elena, Giulia… Le donne raccontano che entravano al lavoro alle 8, a mezzogiorno facevano una pausa di circa due ore per mangiare (qualcuna riusciva a rientrare a casa) e riprendevano fino alle 18. Il lavoro sporcava le mani perché le foglie erano nere e appiccicose; l’abbigliamento ovviamente era molto modesto (parlano di “abiti miseri”) e talvolta di foggia maschile, spesso indossavano grembiuli e le maniche erano sempre corte o rimboccate perché la stoffa si impregnava di odore e di colore scuro. Fra di loro c’erano anche delle bambine: qualcuna racconta di aver iniziato a 12 anni, ma il lavoro non era particolarmente faticoso - nonostante il caldo e l’umidità - e l’atmosfera  era piuttosto piacevole, improntata a rapporti amichevoli fra le ragazze ma anche con dirigenti e operai. Potevano nascere momenti di svago e di divertimento con semplici giochi all’aria aperta o mentre in gruppo, in bicicletta, si andava allo stabilimento; un po’ sgradevole risultava invece la presenza dei Finanzieri (che arrivavano a controllare nelle tasche e  nelle borse) e di donne dette “fruatrici” con il compito di frugare i vestiti delle lavoranti per verificare che non ci fossero furti. A metà estate di solito c’era una bella festa con balli e canti organizzata dai padroni a cui partecipavano ospiti di riguardo, rappresentanti del Comune e la banda musicale. Verso il 1964-65 la coltivazione del tabacco in questa zona cessò per vari motivi: chi dice che le piante si ammalarono, qualcuno afferma che non era più una attività redditizia e che era rimasta una organizzazione superata dai tempi, chi spiega che il Comune di Ponte Buggianese fu riconosciuto “area depressa” (22 ottobre 1958) e ciò incentivò altri tipi di attività nell’artigianato e nella piccola industria. Ancora una volta un cambiamento, un mondo perduto per sempre che molte donne tuttavia rimpiangono per le belle amicizie che si creavano sul luogo di lavoro, per il ricordo della loro spensierata gioventù e per la conquista di una pur minima autonomia, non sempre mantenuta negli anni successivi.

Approfondimento: Il fatturato della manifattura tabacchi toscana (MST) nel 2014 è stato di 91 milioni di euro; gode di ottima salute tanto che si appresta  a festeggiare due secoli di vita e a comprare la azienda americana  Parodi Holdings. Produzione prevista nel 2015 : 200 milioni di sigari.
Ernesto Ferrara, Il sigaro dopo Cuba, Album- Viaggio nel territorio, (allegato a)  “ la Repubblica”, 30.9.2015 e.f., Tutto ebbe inizio col  tabacco infradiciato nella fabbrica fiorentina, ibidem    

Fonti
AA.VV., Ponte Buggianese. Un secolo di storia (1883-1983), Firenze, Centro Ed. Toscano, 1995 
AA.VV., La vita nella Valdinievole rurale, Pisa, Pacini editore, 1988 
Borghini-Cecchi-Chiavacci-Zanchi, Le sigaraie del Padule di Fucecchio, Pisa, Pacini editore, 2001                 

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Bruna Talluri

(Siena, 1923 – 2006)


Nel 2016 il Centro culturale “Mara Meoni” ha richiesto all’amministrazione comunale di Siena l’intitolazione di uno spazio pubblico alla memoria di Bruna Talluri. Il 20 gennaio 2017, concluso l’iter necessario, è stata inaugurata a suo nome un’area verde.

 

La passione inquieta della libertà

di Teresa Lucente

 

Bruna Talluri nacque il 12 giugno 1923 a Siena, città in cui è morta il 21 novembre 2006.
Tutta la sua vita si svolse in questa città da lei profondamente amata. Aderì giovanissima agli ideali dell’antifascismo seguendo, prima ancora che le motivazioni ideologiche, una scelta di libertà nata dal suo temperamento ribelle e dal rigore intellettuale.
Lei stessa racconta in un’intervista: “Io mi ricordo che fin da bambina sono stata, come suol dirsi, un po' ribelle. Tant'è vero che ho dovuto la­sciare le scuole ele­men­tari. Ma non perché fossi cat­tiva: non ero af­fatto cattiva. Ero inquieta, ero ribelle insomma. Nelle scuole elemen­tari ci facevano impa­rare una poesia che diceva: "Vuoi sapere cos'è il Duce? / Pensa un poco a un buon papà / che per mano ci conduce / e i bi­sogni nostri sa". E io volevo fare la spiritosa e un bel giorno cambiai le parole di questa po­esia e, mentre la classe, cantava io cantavo "Vuoi sapere chi sia il Duce? / pensa un poco a un buon pascià/ che mangia beve e si fa truce / e i bisogni nostri non sa". Era una cosa infantile, ma la maestra si impensierì insomma, e certo incominciò a desiderare che me ne andassi. E così fui co­stretta a abbandonare le scuole ele­mentari e mi man­darono all'istituto di Santa Caterina (…)”.

La ribellione infantile inizia a farsi coscienza politica negli anni del liceo in cui lo studio della filosofia e della storia la portano a riflettere su “questa sproporzione tra quello che ci offriva, diciamo, il mondo esterno e quello che sentivamo dentro di noi man mano che affi­navamo la nostra cultura”. Annota nel suo diario nel 1940: “Vogliamo la libertà di stampa e la libertà di pensiero. Non am­mettiamo nessun assoluti­smo per­ché la volontà di uno solo non può uni­versalizzare la volontà della massa. Non prevalebunt! La no­stra civiltà è culla della follia più be­stiale. La Germania apre la via a dei principi così assurdi che non solo ne­gano la nostra dignità di uomini, non solo dimenticano la nostra co­scienza, ma sprofondano nella bestialità più temibile le nostre persona­lità tormen­tate”.

Bruna studia con passione e interesse e si avvicina alla vita politica delle associazioni studentesche fino al ’41, anno in cui il padre, impiegato del Monte dei Paschi, fu mandato al confino per aver detto in pubblico - riferendosi al duce – “questo mascalzone rovina 42 milioni di italiani”.  Maggiore di 5 figli, fu costretta a lasciare la scuola e trovarsi un impiego. Andò a lavorare al Monte dei Paschi e, con l’aiuto dei suoi professori, riuscì comunque a superare l’anno.

Nel ’42 è con la famiglia a Napoli dove il padre, rientrato dal confino, era stato trasferito; qui visse, come lei stessa racconta, l’esperienza dei bombardamenti e della fame. Dopo alcuni mesi, però, il padre trasferisce nuovamente la famiglia a Siena ma Bruna ha ormai fatto la sua scelta di campo: parte con l’amica Ida Levi per Torino dove incontra un gruppo di attivisti antifascisti e inizia la sua partecipazione attiva alla Resistenza. “Qui ebbi un appuntamento con l'avvocato Fortini, mi dette un pacco di manifestini, di giornali ecce­tera. Io non sapevo nem­meno di che partito fosse. A me interessavano tre cose: mi interessava la lotta contro i tedeschi, la repubblica, perché condannavo l'atteg­giamento di Sua Maestà Vittorio Emanuele III, e mi interessava la democrazia. E l'avvocato Fortini mi dette que­sto pacco di propaganda e poi mi disse: «quando arrivi a Siena cerca: qualche cosa troverai». «Ma che troverò a Siena?» non riu­scivo a ca­pire. E allora partii in treno, la notte…”

I valori della libertà e della giustizia sociale sui quali si sarebbe dovuta fondare la nuova Italia la portarono a militare nel partito d’Azione. In qualità di sua rappresentante fondò a Siena nell’ottobre 1944, insieme a Tina Meucci, Anna Gradi e Alba Pieri, l'Unione Donne Italiane. Allo scioglimento del Partito d'Azione, aderì al movimento di Unità popolare prima e al Partito Socialista poi. Ma la sua intransigenza, il rifiuto di ogni compromesso, a cui anche la miglior politica deve sottostare, portarono ben presto Bruna “a far parte per se stessa”. Ciò non significò comunque isolamento.

Riprese gli studi e si laureò in Lettere e Filosofia e nel ’69 accettò la candidatura al Consiglio Comunale di Siena come indipendente nella lista del P.C.I., l’unico partito che riteneva ancora fedele agli ideali della Resistenza in lei sempre vivi. Svolse il compito di assessora all’istruzione e ai servizi sociali con generosa sollecitudine: si deve a lei l'intitolazione delle scuole materne comunali a Baldovina Vestri e ad Anna Maria Enriquez Agnoletti. Il movimento per la pace e la non violenza la vide impegnata a fianco di Aldo Capitini di cui ebbe sempre l'amicizia e la stima. Diresse a lungo l’Istituto Storico della Resistenza senese che aveva contribuito a fondare. Questi impegni non tolsero tempo ed energie a quello che per oltre quarant’anni fu il suo lavoro amatissimo, l’insegnamento. Come docente di storia e filosofia ha parlato a generazioni di giovani senesi trasmettendo loro, attraverso le parole e le opere delle grandi figure del passato, un messaggio di amore per la libertà e la democrazia.

Socia ordinaria dell’Accademia senese degli Intronati, è stata autrice di numerosi saggi e volumi, specie d’argomento storico-filosofico e di storia del giornalismo. I suoi lavori sul giornalismo senese in particolare, raccolti in 4 volumi dall’editrice La Pietra nel 1995, offrono una paziente analisi di tutte le testate cittadine dalla metà dell’800 alla prima guerra mondiale. Un’operazione che può sembrare a prima vista frutto di curiosità erudita, ma che in realtà si svolge coerentemente con una concezione della cultura e della storia, anche locale, finalizzata alla costruzione della coscienza critica di una comunità.

Il suo giudizio su uomini e cose rimase per tutta la vita ancorato alla condanna della violenza cialtrona che del fascismo era stata carattere dominante. Bruna Talluri fu una delle più significative figure di donne senesi di una generazione forgiatasi nella durezza della lotta contro il fascismo, in nome di quei valori di libertà e democrazia che ancora oggi hanno bisogno di essere testimoniati.

 

Scritti di Bruna Talluri

 

I riflessi della cultura europea del XVIII secolo nei saggi filosofici di Francesco Algarotti, in “Miscellanea di studi in onore del prof. Eugenio Di Carlo”, Trapani 1959.

Giovanni Nicola Bandiera e il Dictionnaire di Pierre Bayle, «Studi senesi», LXXII (1960), pp. 494-499.

Il conteso territorio di Comacchio e l’intervento del Sant’Uffizio contro Uberto Benvoglienti, erudito senese (1709-1712), «Studi senesi», LXXIII (1961), pp. 147-172.

Pierre Bayle, Milano 1963;
L’anti-Machiavelli e Voltaire politico, «Studi senesi», LXXV (1963), pp. 336-358.

La Civiltà cattolica e il fascismo. 1922-1924, «Studi senesi», LXXVII (1965), pp. 285-330.

La Civiltà cattolica e il fascismo. 1925-1929, «Studi senesi», LXXVIII (1966), pp. 258-298.

Benedetto Croce e la Civiltà cattolica, «Studi senesi», LXXIX (1967), pp. 236-252.

Il giornalismo democratico senese da Aspromonte a Mentana, «Studi senesi», LXXX (1968), pp. 337-371.

Il Nuovo Paese, giornale socialista diretto da Francesco Cellesi, «Studi senesi», LXXXIV (1972), pp. 487-514.

La Martinella e il giornalismo senese radicale e socialista (1880-1894), Montepulciano 1983.

Il giornalismo senese liberale e democratico (1860-1880), Montepulciano 1983.

Il giornalismo senese tra democrazia e socialismo: 1860-1900, in “Studi per Mario Delle Piane”, Napoli 1986, pp. 183-238.

La ‘svolta’ del Novecento e il giornalismo senese, «Bullettino senese di storia patria», XCIV (1987), pp. 176-277, XCV (1988), pp. 225-332 e XCVI (1989), pp. 210-302.

La politica italiana nei giornali senesi (1861-1862), Milano 1993.

La politica italiana nei giornali senesi (1882-1900), Milano 1993.

La ‘svolta’ del Novecento e il giornalismo senese, Milano 1994.

Le origini del fascismo e il giornalismo senese (1919-1922), Milano 1994.

Il Partito d’azione a Siena: la sua origine e la sua conclusione nei ricordi di una partigiana 'azionista', in “La nascita della democrazia nel Senese. Dalla liberazione agli anni ‘50, atti del convegno (Colle Val d’Elsa, 9-10 febbraio 1996)”, a cura di A. Orlandini, Firenze 1997, pp. 179-194.

 

Fonti

S. Folchi, Intervista con Bruna Talluri, 2003 – Archivio Istituto Storico della Resistenza senese.

B. Talluri, Diari dal 1939 al 1954, inediti.

Testimonianze orali della sorella Maria, di amiche e amici e di ex studenti.

 

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Arcangela (ElenaCassandra) Tarabotti

(Venezia, 1604 – 1652)

 

Non risultano intitolazione a suo nome.

Una voce dal chiostro in favore delle donne
di Silvia S.G. Palandri

Nella Venezia del XVII secolo, in cui le lotte con i Turchi erano ormai meri screzi dopo la vittoria di Lepanto, la Serenissima godeva di un periodo di pace e prosperità, fiorenti erano infatti i suoi commerci nel Levante e nel Mar Nero, era padrona dell’ingresso dell’Egeo.
La Repubblica di San Marco rappresentava l’emblema del benessere, della cultura, del divertimento, dello sfarzo, della moda e del costume e le sue istituzioni ne ricavavano a loro volta lustro e prestigio; era il risultato delle sue politiche e del suo governo:  era stimata, riconosciuta e riverita.
C’era a Venezia nel 1600 però anche qualche voce dissonante, le voci delle donne. Così, al fianco di quella colta di Lucrezia Marinelli e di quella letterata di Moderata Fonte, se ne  alzò una anche dal chiuso di un convento, che riuscì tuttavia a far sentire quale fosse la realtà sociale di molte donne veneziane. 
Le numerose guerre da cui usciva Venezia avevano causato alterne crisi economiche, per cui era stato necessario innalzare la dote maritale per salvaguardare la classe nobiliare. Questa strategia politica rese più vantaggiose le meno esose doti dei Conventi e incoraggiò le famiglie veneziane a far monacare a forza le proprie figlie per proteggere il patrimonio familiare o per trovare una sistemazione a quelle meno piacenti o con qualche difetto fisico. Tale fu la sorte di Elena Cassandra Tarabotti che nel 1620 venne fatta monaca, con il nome di Suor Arcangela, nel convento di Sant’Anna da cui non uscirà più.
Il suo destino fu l’emblema delle monacazioni forzate, ma questo aspetto è solo un lato di una questione più complessa. Arcangela Tarabotti, infatti, riflettendo sulla sua condizione di monaca senza vocazione, riesce a trovare le motivazioni sociali della subordinazione femminile che è una condizione socialmente ereditata. Questa sua presa di coscienza diventa la base per ricercare una rivalsa della condizione femminile: da vittima diventa combattente e la sua cultura, vasta ma non accademica, diventa la sua arma. Nelle sue opere Suor Arcangela individua, partendo dalla sua situazione personale, una condizione comune alle altre veneziane, il cui mezzo di riscatto è l’istruzione. Infatti tramite la cultura, che deve diventare appannaggio anche delle donne, sogna una rivincita del genere femminile.
In tutti i suoi scritti denuncia quella che lei stessa definirà la “tirannia paterna”, emblema del più ampio potere dell’uomo sulla donna. Ricorda nelle sue opere quanto la situazione femminile dipenda non da un’inferiorità insita nella natura delle donne, come gli intellettuali dell’epoca sostenevano ma da costruzioni sociali che condizionavano la vita femminile. L’inferiorità femminile era sancita da una condizione giuridica, economica, patrimoniale e sociale che non permetteva, in maniera sostanziale, alle donne di essere libere.
Accusa nei suoi scritti l’istituzione familiare, il padre traditore che, mistificando anche le Sacre Scritture, inganna la propria prole per rinchiuderla in convento; ma critica anche lo Stato veneziano perché antepone la Ragion di Stato alla salvezza delle anime delle sue cittadine, sacrificando la vita di queste donne per meri scopi economici. Infine, però, incolpa anche l’autorità religiosa che vede inerme quando non collusa: “[…] l’interesse di Stato, padre di tutti gli errori, contamina anche questi supremi ministri i quali per tal causa permettono che si facciano monache delle fanciulle che hanno ben altre aspirazioni”.
Suor Arcangela era poi particolarmente risentita dal disprezzo che gli uomini usavano nei riguardi delle donne, riteneva vigliacco da parte loro prendersi gioco delle donne in quanto ignoranti e allo stesso tempo però negare loro un’istruzione.
Individua in questa mancanza la base della fragilità femminile; l’incapacità di interpretare la realtà e di gestirla dipendeva dal fatto che esse non erano ritenute idonee ad avere un’educazione.

Nell’ambito della così detta “querelle des femmes” che nel Seicento riguarda proprio il tema dell’istruzione femminile, concepita solo come mezzo per placare e contenere la natura malvagia e falsa della donna, anche per coloro, pochi, che sostenevano la necessità di un’educazione femminile, era necessario limitarne l’applicazione alla realizzazione personale, necessariamente legata ai lavori domestici e alla cura della prole.
Arcangela Tarabotti invece vede in questa lacuna un problema reale, capace di condizionare l’intera società, poiché senza un’istruzione le donne sarebbero state ancora escluse dalle cariche pubbliche, dalle professioni, dalla società. Suor Arcangela, nel XVII secolo, individua nella mancanza di rappresentatività femminile un perno sociale essenziale senza il quale la società non funziona, perché alle donne non sono garantite le stesse opportunità. Quindi istruzione anche come sinonimo di possibilità, che vanno date realmente al genere femminile altrimenti, come sosteneva, “non resta che perdere, a chi ha perduto la libertà”.
Pretende quindi un’istruzione fino ai massimi livelli finalizzata ad un valore sociale che le donne dovevano acquisire: il lavoro e la possibilità di occupare anche cariche pubbliche per contribuire così attivamente alla società da attrici significanti: “Permettete alla donna di frequentare la scuola, ammettetela nelle vostre università e vedrete s’ella non saprà professare quanto voi la magistratura, la medicina, la giurisprudenza e il resto”.
Sostenitrice della libertà personale  vede nella eterogeneità della natura una chiara manifestazione del libero arbitrio e quindi anche delle inclinazioni personali che alle donne sono negate, perché troppo condizionate da schemi estranei fino al punto di impiegare le loro vite a ricercare la conformità con modelli sociali imposti ma che in realtà non rappresentavano la vasta gamma delle sensibilità femminili che rimanevano inespresse e che esse stesse si convincevano di non avere, ritrovandosi così a sprecare la loro vita nella ricerca di un modello che non apparteneva loro.
Arcangela Tarabotti, che si definiva “sfornita di scienza”, capisce che l’istruzione rende liberi e permette la consapevolezza di se stessi, delle proprie capacità e volontà; un mezzo per capire la realtà, fonte di libertà di scelta ma anche di libertà economica. Il suo pensiero, straordinariamente complesso e moderno, appare un messaggio valido ancora per la nostra società, un messaggio attuale che, attraverso i secoli, raggiunge un traguardo insperato e inimmaginabile per lei che non poteva essere “una stella errante, ma più tosto una stella fissa, condannata nel cielo di un chiostro per sempre”.

Fonti
Zanette E., “Suor Arcangela monaca del Seicento veneziano”, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione Culturale, 1960
Conti Odorisio G., “Donna e società nel Seicento”, Roma, Bulzoni Editore, 1979
Medioli  F. (a cura di), “L'Inferno monacale di Arcangela Tarabotti”, Torino, Rosenberg&Sellier, 1990.
Weaver  E. (a cura di), “Satira e Antisatira, Francesco Buoninsegni, Suor Arcangela Tarabotti”, Roma, Salerno editrice, 1998.
Panizza  L. ( a cura di), “Paternal Tyranny”, Chicago, University of Chicago Press, 2004.
Bortot  S. (a cura di), “La Semplicità ingannata”, Padova, Il Poligrafo, 2008.

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Maria Barbara Tosatti

Una via si trova nel suo comune di nascita e una via a Roma, luogo della sua vita e della sua morte. Anche il Comune di San Benedetto del Tronto ha proceduto a intitolarle una strada.

 

Come una giornata di marzo fredda e ardente   
di Roberta Pinelli

 

Della sua passione per la vita, che lei stessa ha descritto con il verso che dà il titolo a questo ritratto, nulla resta.

Maria Barbara Tosatti nacque a S.Felice sul Panaro, in provincia di Modena, il 4 settembre 1891 da Arturo e Pia Paltrinieri. Così uno dei figli descrisse i genitori: “Lei era una bellissima ragazza, colta, distinta, statuaria; lui un giovane avvocato e notaio di bell’aspetto, dolce, intelligente. Una bella coppia, come si suol dire”. Per le esigenze lavorative del padre notaio, nel 1904 la famiglia si trasferì a Roma. Qui Maria Barbara Tosatti frequentò la scuola con ottimi risultati, acquisendo sia la maturità classica sia l’abilitazione magistrale. Studiò prevalentemente da sola, in particolare sui classici italiani e francesi, e apprese così bene il latino e il greco da poter leggere Virgilio e Saffo nel testo originale. Il fratello Quinto così la tratteggiò: “di indole lieta, anzi giuliva, che spesso si esprimeva cantando”. Già durante gli studi iniziò a collaborare con il padre nella sua attività professionale, ma nel 1915 si manifestarono i primi sintomi di una grave malattia ai polmoni. Fu quindi costretta forzata ad abbandonare il lavoro e a mettere da parte ogni velleità di insegnamento, professione a cui tanto avrebbe desiderato dedicarsi. Furono necessari, per tutta la sua breve esistenza, continui pellegrinaggi da una stazione climatica all’altra, fino al 17 aprile 1934 quando nel sanatorio dell’ospedale Umberto I di Roma, a causa di una pleurite e dell’asma, la malattia ebbe la meglio sulla sua tempra lungamente provata.

Un piccolo numero di sue liriche fu pubblicato nel 1928 sulla rivista Nuova Antologia, ma solo due anni prima della morte uscì il suo libro di poesie Canti e preghiere, che segnalò Maria Barbara Tosatti come una “donna padana di talento”, come scrisse il critico Pietro Pancrazi sul “Corriere della Sera”. Fu lui a indicare anche la “viva coscienza religiosa” della giovane scrittrice e a denotare nel suo linguaggio “quel sentimento che accusa la presenza non confondibile di un poeta”.

Come spesso accade alle donne, il cui talento stenta a essere apprezzato come espressione autentica e autonoma e che molte volte trova maggiore legittimazione se affiancato ad un nome maschile di prestigio, al suo tempo fu considerata una “Leopardi in gonnella”, poiché al Leopardi si rifece come modello di stile. Simile fu ritenuta la sua capacità di sublimare il dolore, come appare scritto nel suo diario: “Contentarci… e di che? di una miserabile vita dove il male e il dolore imperano, dove anche l’amore, anche il bene tralignano, e falliscono, e fuggono! Contentarci non del mistero, ma dell’incomprensibile, dell’assurdo, contentarci della morte, del nulla, dopo aver intuito Dio, il bene assoluto, la giustizia, la verità, la pace, l’amore la bellezza. No, Mai!”. Permeata da una fortissima religiosità, scrisse anche: “La vera preghiera è poesia, e forse ogni vera poesia è preghiera”.
Una sua poesia, intitolata “Vultum tuum Domine requiram” (Il tuo volto, Signore, cercherò), recita:Quando verrà, Signore, quel beato giorno che d’ogni vana cosa su me l’oblio disceso alfine, soli resteremo Signore, Voi ed io?”. Facendo della propria esperienza di sacrificio e di dolore il lievito della propria fede, riuscì a trovare una serena accettazione del suo tragico destino: non tanto serena, tuttavia, da non essere a momenti turbata dal pensiero della giovinezza sfiorente o dal rimpianto della vita non potuta godere, della felicità appena intravista.

Oltre ai diari, furono pubblicate liriche, preghiere, canti e pensieri, i cui temi salienti riguardano la famiglia, lo spettacolo della natura e, soprattutto, la morte quando la malattia le rese chiaro che avrebbe avuto una vita breve.

Abitò sempre con la madre e con il fratello Quinto, con il quale ebbe un rapporto affettuosissimo. Quinto Tosatti, senatore ed erudito, che dopo un tentativo di farsi prete aveva abbandonato il seminario e, per un periodo, anche la fede, confidò a un amico: “Sono convinto che la verginità e l’offerta totale di sé come vittima a Dio siano state il prezzo per il mio ritorno a Dio. Ho fatto quanto ho potuto per lei, ma non pagherò mai il mio debito”.

Fu proprio Quinto Tosatti a curare con passione le edizioni postume degli scritti della sorella Maria Barbara, tutti incentrati sull’acuto desiderio di non rinnegare le grandi domande del cuore.

 

Opere di Maria Barbara Tosatti

Canti e preghiere. Liriche, pensieri, lettere (a cura di Quinto Tosatti), Brescia, Morcelliana, 1939

 

Fonti

Bassoli Vincenzo, La poesia di Maria Barbara Tosatti, Milano, Gastaldi 1950

Colognesi P., M.Barbara Tosatti. Senza rinunciare al desiderio in L’umana avventura, Bari, Edizioni di Pagina, 2008

http://www.treccani.it/biografie/

 

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Elisa Trapani

 

(Marsala, 1906 - Milano, 1989)

 

La sua città natale le ha dedicato una via nell’ambito delle iniziative promosse da Toponomastica Femminile.
In occasione del centenario della nascita, la figlia Anna De Simone ha voluto ricordarla dando alle stampe un delicato volume in edizione privata dal titolo Caro Michele. Fiabe e racconti della tua bisnonna e Davide Torrecchia, giovane studioso della Facoltà di Lettere di Palermo, ha pubblicato sulla rivista Michelangiolo un bellissimo saggio sulla sua opera.

 

La Liala della Sicilia

 

di Corrada Fatale e Cristina Marescalco

 

Parlava spesso di quella stagione, mia madre (…)
Quanto vorrei ascoltarla adesso! Non immagini cosa darei per incontrarla sulla strada di casa, e ripercorrere con lei la storia della sua vita, che ha lasciato filtrare qua e là nei romanzi e nelle novelle, dove si intravedono frammenti della

sua infanzia... Caro Michele, noi siamo fatti in gran parte di memorie del passato…

                                                                                     Anna De Simone, Caro Michele. Fiabe e racconti della tua bisnonna

 

Così Anna De Simone parla al nipotino della madre Elisa Trapani, scrittrice prolifica di romanzi rosa, di cui inspiegabilmente non c’è traccia nei manuali di storia letteraria e neppure nelle antologie, pur avendo pubblicato in vita settantuno romanzi e più di duemila testi brevi, tra novelle, racconti e fiabe.

Come hanno affermato Anna Arslan e Maria Pia Pozzato “Sgombrato il campo da un pregiudizio di ordine antropologico che impedisce l’approccio non solo alle società diverse, all’altro da sé, ma anche a quelle manifestazioni sotterranee, a quei codici minori, che reggono le nostre stesse società, va chiarito che in sostanza il rosa, come fatto letterario è un prodotto tipico dell’organizzazione novecentesca della civiltà letteraria nazionale, collocato all’interno del moderno mercato delle lettere e destinato a definire il perimetro di una scrittura femminile che serva l’universo totale e separato della letteratura femminile”.

Suddiviso in vari filoni “l’infinito pulviscolo delle instancabili romanzatrici”, come ebbe a definirle Benedetto Croce, uno antecedente alla prima guerra mondiale, uno fra le due guerre e uno postbellico, va sottolineato come, a partire dagli anni ’30 del Novecento, la letteratura rosa subisca una svolta in rapporto allo sviluppo, anche in Italia, di una editoria moderna che individua precisi settori di mercato e diverse fasce di lettori  attuando collane specializzate:  i polizieschi con la copertina in giallo  e i romanzi rosa, come hanno scritto Antonia Arslan e Maria Pia Pozzato.

In questo contesto si colloca la scrittrice marsalese trapiantata a Milano.

Elisa nasce a Marsala il 2 maggio 1906, frequenta la scuola elementare e l’istituto tecnico diplomandosi a 14 anni. Pur manifestando attitudine e interesse per la letteratura, le viene negata la possibilità di frequentare il ginnasio poiché all’epoca le donne, soprattutto in Sicilia, non andavano oltre i primi anni dell’istruzione; nonostante ciò riuscirà a conseguire il diploma di maestra. Nel 1915 il padre viene richiamato in guerra e in questo periodo Elisa comincia a tenere un diario, pratica che testimonia la sua consuetudine giornaliera con la scrittura quale esercizio di sopravvivenza. Il suo è un desiderio intenso e autentico che non l’abbandonerà mai: dare forma a idee, pensieri, emozioni, sentimenti.

Vita e scrittura s’intrecciano: “Ha riempito così la sua solitudine, i tempi duri dell’assenza del padre…ma Elisa, giovanissima non si è mai persa d’animo e ha continuato a studiare da sola, a leggere, a scrivere…” come testimonia la figlia Anna.

Nel 1925 la famiglia Trapani si trasferisce al Nord, a Trento prima, dove il padre di Elisa lavora come impiegato di prefettura, poi a Livorno e infine a Milano, dove l’autrice, che intanto si è fidanzata ufficialmente con Giuseppe De Simone, vivrà dal novembre 1927 fino alla morte.

Nel 1927 inizia a scrivere, su giornali per ragazzi, settimanali e riviste femminili, novelle, racconti, fiabe e romanzi a puntate; firma racconti e puntate di romanzi sul “Corriere dei piccoli”, il “Monello”, il “Balilla”, successivamente su “Grazia”, “Annabella”,” Gioia”, “Marie Claire”, “Intimità”, “Grandi firme”. Elisa Trapani diventerà, pian piano, una delle firme “rosa” più note assieme a Liala, Luciana Peverelli, Annamaria Tedeschi, molto apprezzata dal musicologo Eugenio Gara e da Giorgio Scerbanenco, futuro autore di gialli ambientati a Milano, dai direttori di “Novella” e “Annabella” e da una delle figure più importanti del mondo editoriale, la bolognese Emilia Salvioni.

Il tratto della sua scrittura è delicatissimo nelle narrazioni brevi, pertinente il tono, soprattutto nelle pagine umoristiche scritte per ragazze e ragazzi dove l’intento pedagogico non soffoca la narrazione: basti citare le Sette favole di animali, Le Fate hanno messo il telefono e Matematica e poesia.

Numerosi i suoi romanzi: il primo volume vede la luce nel 1936 col titolo, poco ortodosso per i canoni della letteratura rosa, di Denaro batte amore 3 a 0 (casa editrice Abc Torino); a questo seguono, tra gli altri, Come l’acqua (Mondadori, 1945), Delirio (Rizzoli, 1946), Terza liceo (Cappelli, 1952), Un uomo bussa alla porta (Mursia, 1969), Quella notte (1972), Quasi una fiaba (1973), Il segreto di Viola (1974), entrambi editi da Mondadori, e Adorata dagli uomini (Salani, 1976).
L’anno successivo pubblica sempre, con Salani, uno dei romanzi più riusciti La sposa del sud, che “può essere considerato una vera e propria cartina di tornasole, una sorta di fil rose che lega l’autrice al genere in questione e agli archetipi o topoi del suo immaginario…” come scrive Davide Torrecchia.

Nello stesso anno Elisa Trapani riceve da Sandro Pertini la medaglia d’oro per i quarant’anni di giornalismo. La sua vita trascorre tranquilla, circondata dall’affetto del marito e dei due figli, Anna e Giorgio. Fino all’età di ottanta anni continua a scrivere e pubblicare: nel 1982 vede la luce il suo ultimo romanzo, Bionda straniera.

Muore nel 1989 in una clinica di Milano. Scrive ancora la figlia Anna: “Questa tua bisnonna coltivava anche il sogno di scrivere per se stessa e di raccontare un giorno la storia della sua famiglia sullo sfondo della campagna siciliana, dove era stata bambina con i nonni e della quale sono rimaste soltanto alcune vecchie fotografie: due bambine sotto un albero immenso alla Pispisìa; una casa misteriosa…una Sicilia mai dimenticata nella quale erano avvenute le sue prime scoperte della vita, degli altri, dell’amicizia, dell’amore…”.

 
Fonti

Anna De Simone, Caro Michele. Fiabe e racconti della tua bisnonna, 2006

Anna Arslan e Maria Pia Pozzato, Il rosa, in Letteratura italiana. Storia e geografia. L’età contemporanea, diretta da Asor Rosa, Einaudi, Torino, 1989, vol.III

Davide Torrecchia, Una storia rosa antico, in “Caffè Michelangiolo”, a. XIII n. 3

La Repubblica, Archivio 04/07/2009

Corriere della Sera, Cultura 20 agosto 2009        

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- I -


Carolina Invernizio

(Voghera, 1851 – Cuneo, 1916)

La scrittrice che seppe portare al successo il romanzo d'appendice italiano tra XIX e XX secolo è presente nella toponomastica di diverse città come Voghera, che le diede i natali, Milano, Torino e Cuneo dove trascorse gli ultimi anni della sua vita, ma manca incredibilmente a Firenze, a lungo sede della sua attività letteraria. Nel 2014, il gruppo di Toponomastica femminile ha proposto il suo nome per l'intitolazione di una scuola in risposta a un bando del 1° Circolo didattico di Cuneo.

La signora del romanzo popolare
di Saveria Rito


Nacque il 28 marzo 1851 a Voghera, all'epoca città piemontese, da Anna Tettoni e Ferdinando Invernizio, funzionario del Regno di Sardegna, e nel 1865 si trasferì con la famiglia a Firenze dove frequentò l'Istituto Magistrale. Sin da giovanissima dimostrò un notevole interesse per la scrittura, una passione che le fece rischiare l'espulsione da scuola per aver divulgato un racconto audace su un principe senza cuore che aveva sedotto la lavandaia del castello.
Il lavoro d'esordio ufficiale fu Un autore drammatico, pubblicato da Carlo Barbini nel 1876, e l'anno dopo uscì Rina o l'angelo delle Alpi, inizio di una duratura collaborazione con l'editore fiorentino Adriano Salani, che continuò a corrisponderle sempe la modesta cifra di 600 lire a romanzo.
Si può affermare che Invernizio portò a una rapida diffusione e al successo il romanzo popolare italiano, ispirato a modelli francesi già collaudati; lunghissima è la lista delle sue opere, scrisse ininterrottamente fino alla morte e pubblicò anche più volte l'anno per un totale di circa 130 titoli. Molti suoi racconti uscirono a puntate sulla Gazzetta di Torino o l'Opinione Nazionale di Firenze, poi raccolti in volumi, attesi da un pubblico sempre più numeroso, principalmente proletario o della piccola borghesia. Al favore del pubblico, tuttavia, non corrispondeva quello della critica che ne ebbe scarsa considerazione e giudizi spesso poco lusinghieri ("onesta gallina della letteratura popolare" la definì Antonio Gramsci, pur consapevole del fatto che un pubblico insaziabile si gettasse "avidamente nei suoi gialli" e che fosse stata tra i pochissimi romanzieri a far trionfare la letteratura popolare nel nostro paese), ma lei non sembrava curarsene e rispondeva così in un'intervista del 1904:  "Io dei critici ho un'allegra vendetta. Ché le mie appassionate lettrici ed amiche sono appunto le loro mogli, le loro sorelle". Solo recentemente Carolina Invernizio è stata riscoperta e studiata proprio per l'ampio fenomeno di consumo sviluppatosi attorno ai suoi libri caratterizzati da emozionanti colpi di scena: protagoniste erano quasi sempre delle eroine femminili che vestivano i panni di seduttrici fatali, nobildonne o avventuriere, operaie, sigaraie e guantaie (riprendendo alcuni titoli), donne che riuscivano a sciogliere con abilità trame intricate giallo-noir, talvolta ispirate a fatti di cronaca dell'epoca. La suspence era assicurata e Invernizio puntava su aspetti della vita intima e personale, su frustrazioni e desideri; la famiglia, tra intrighi, misteri e tradimenti, delitti e morte, ritrovamenti e rivelazioni sensazionali, era il luogo di ambientazione ideale. Invernizio scrisse anche un romanzo in piemontese, Ij delit d'na bela fia, uscito a puntate in appendice a ‘L Birichin, giornale dialettale torinese, tra il 1889 e il 1890 e alcune storie per l'infanzia (La fata turchina, Cuori di bimbi, I sette capelli d'oro della fata Gusmara); molti suoi lavori furono tradotti in spagnolo e portoghese già ai primi del Novecento e ispirarono registi del cinema muto e sonoro. Sempre nel 1890 fu pubblicato ne La donna italiana un breve testo di una conferenza, Le operaie italiane, in cui denunciava le condizioni di povertà e lo sfruttamento di madri impiegate nelle fabbriche e sottolineava l'importanza del lavoro delle donne per l'economia familiare: "Se entraste, signore mie, in certi quartieri di operaie, nei nostri centri principali, vi sentireste stringere il cuore di ribrezzo, di pietà, vi chiedereste se siamo davvero in un secolo civile e se possiamo veramente chiamarci cittadine di una grande Nazione".
Si trasferì con la famiglia a Torino nel 1896 e infine a Cuneo dove in via Barbaroux 3, come recita una targa commemorativa, aprì un salotto letterario: tra le personalità che lo frequentavano c'era la poetessa Alice Galimberti. Morì a Cuneo di polmonite il 27 novembre 1916 ed è sepolta nel cimitero di Torino. Sulla sua tomba fu deposta dall'editore Salani una corona di bronzo che reca inciso: "Il suo nome non sarà dimenticato".

Fonti:
Giuseppe Zaccaria, Invernizio Carolina in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2004, vol. LII, pp. 535-538.
Eugenia Roccella, Carolina Invernizio in Italiane. Dall'unità d'Italia alla prima guerra mondiale, a cura di Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le Pari opportunità,  2004, vol. 1, pp. 109-110.
Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori Riuniti, 1991.
Riccardo Reim, Introduzione: candide nefandezze e timorate perversioni in Carolina Invernizio, Nero per signora, Roma, Editori Riuniti, 1986, pp. XXI-XXXVIII.
Carolina Invernizio: il romanzo d'appendice. Atti del convegno "Omaggio a Carolina Invernizio", Cuneo 25-26 febbraio 1983,  a cura di Guido Davico Bonino, Torino, Gruppo editoriale Forma, 1983   
http://it.wikipedia.org/wiki/Carolina_Invernizio

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- F -


Rosa Fazio Longo 

(Campobasso, 1913 – Roma, 2004)

Dalla ricerca-azione delle/degli studenti di una scuola di Termoli, fra gli istituti partecipanti al Concorso nazionale di Toponomastica femminile “Sulla vie della parità”, è nata l’idea di intitolare a Rosa Fazio una strada della cittadina molisana. La proposta sarà inoltrata all’amministrazione comunale di Termoli per l’identificazione dell’area e l’approvazione finale.

Una donna che ha lottato per i nostri diritti

di Barbara Bertolini

Rosa Fazio Longo […] nata in un’agiata famiglia molisana non ha mai visto la mamma, donna Evelina de Stefano, ai fornelli o con la ramazza in mano, ma sempre intenta a leggere, a studiare, ad intrattenere gli ospiti con brio, stupendoli con la sua profonda cultura, rinnovando così la tradizione del salotto letterario della sua infanzia. Evelina de Stefano apparteneva ad una famiglia di intellettuali romantici, di garibaldini. […]
Il padre di Rosetta, Giuseppe Fazio proveniva, invece, da un ambiente borbonico di proprietari terrieri che, verso la fine del Settecento, avevano comperato sia il castello di Ferrazzano  che il titolo baronale. L’avvocato Giuseppe Fazio era stato uno dei  primi ufficiali a morire al fronte durante la Grande Guerra. […] La bambina, nata il 6 luglio del 1913, due anni prima del luttuoso evento, non aveva nessun ricordo del genitore. […]
Rimasta vedova all’età di 33 anni, Evelina de Stefano abbandona Campobasso per Foligno dove sua sorella le ha trovato un posto come insegnante elementare. La nobildonna, successivamente, per permettere (alle figlie
N.d.R.)  di laurearsi, si trasferisce, tra mille difficoltà, dalla città umbra a Roma.
Durante gli studi universitari, Rosetta incontra Leonardo Longo, un giovane ingegnere che lavora presso il Comune della capitale. I due si sposano nel 1934. Lei ha solo 21 anni. L’anno dopo nasce il primo figlio, Pietro, destinato a seguire le sue orme: diventerà un uomo importante nel mondo politico italiano. 
La maternità non la distoglie dai suoi prediletti studi. Infatti riesce a laurearsi in lettere e in legge e a entrare nel mondo della scuola. Tra il ‘43 e il ’44, in una Roma affamata, priva di trasporti e di servizi, la ragazza vive da  protagonista poiché entra nell’Associazione degli Insegnanti Medi, un’organizzazione clandestina di lotta contro i nazisti che si è costituita nelle scuole romane durante i nove mesi dell’occupazione di Roma. […] E Rosetta all’impegno umano affianca quello politico iscrivendosi, con la collega Laura Lombardo Radice Ingrao, al nascente Comitato di iniziativa dell’Unione Donne Italiane. Lo scopo di questo Comitato era quello di offrire una sponda al movimento dei “Gruppi di difesa della donna” (GDD) che, sotto l’egida del CNL, operavano nell’Italia occupata dai nazisti e, al tempo stesso, di mobilitare sul terreno democratico e chiamare all’attività politica e all’azione di ricostruzione del Paese le donne dell’Italia liberata. […] la molisana è entrata in un movimento clandestino; ha lottato contro le ingiustizie del fascismo rischiando la prigione;  si è  mossa all’interno della città, tra mille pericoli, con mezzi di fortuna; si  è recata a Bari e Taranto per accogliere i reduci dell’Albania; ha difeso, sostenuto e aiutato tante donne; è diventata una componente attiva di un movimento politico. 
Rosetta […], non insensibile al richiamo di collaborazione delle antifasciste comuniste Adele Bei e Laura Lombardo Radice Ingrao, entra anche nella neonata associazione Unione Donne Italiane (UDI) sbocciata a Roma nel 1944 come atto di volontà di “un piccolo gruppo di donne senza sede, senza mezzi e, ciò che più conta – dice lei 
̶  senza neppure l’esperienza di quel che doveva essere una grande associazione femminile."
La Fazio ha solo 30 anni ma è tra le più attive del suo partito, insieme a Giuliana Nenni.
Va a Parigi come delegata di questa associazione nel novembre del 1945. È tra le relatrici  al Congresso di unificazione tra l’Udi e i Gruppi nazionali di difesa della donna, che avevano operato nell’Italia occupata fino alla Liberazione […].
L’esponente socialista conduce le sue battaglie anche sulle pagine di
Noi donne la rivista dell’Udi nata alla fine del 1944. I temi che affronta e che le stanno particolarmente a cuore sono quelli della scuola da riaprire al più presto. Le scuole a Roma, infatti, sono state requisite dagli sfollati, dagli Alleati o come ospedali. Rosetta chiede alla gente dei quartieri di guardarsi intorno e di indicare i palazzi rimasti vuoti dove si potrebbero trasferire queste attività, per liberare le aule e permettere agli scolari di ritornare a scuola, poiché è quasi un anno che non frequentano più le lezioni.
Ma si interessa anche dei diritti delle donne nel loro insieme. Nel numero del 31 maggio 1945, […] esorta infatti le donne a conoscere e a far applicare le leggi per la tutela dei loro diritti. Con una delegazione, Rosetta si presenta al Ministro della Giustizia, Umberto Tupini, che fa parte del Governo di Liberazione Nazionale, per illustrare una bozza di proposta sui nuovi diritti della famiglia.
Le delegate dell’Udi chiedono, infatti, al ministro che il codice civile dichiari che la società coniugale debba svolgersi liberamente nel suo interno e possa essere rappresentata dall’uno o dall’altro dei coniugi a tutti gli effetti civili e penali; che la potestà sui figli sia attribuita ad entrambi i coniugi sui quali gravano uguali responsabilità e uguali oneri. Chi potrebbe negare che è la madre ad occuparsi dei figli? – afferma Rosetta – ad allevarli ad educarli, a dar loro quei principi morali che tanta influenza hanno sulla loro formazione? Eppure – dice la molisana – legalmente la madre non ha sui figli alcun potere, alcuna autorità.
La Fazio tocca altri due punti fondamentali […]: le disposizioni del codice penale che non può avere due pesi e due misure in caso di adulterio, attribuendo alla donna maggiore responsabilità e l’esclusione delle donne dalla carriera della magistratura. […] Il calendario degli impegni politici per l’esponente politica tra il 1945 e il ’46 è incalzante. Appena vinta una battaglia politica eccola di nuovo sulla breccia per il referendum del 2 giungo 1946 dove votano per la prima volta anche le donne. […]
Viene eletta Segretaria generale dell’Udi, è successivamente eletta Segretaria generale della nascente “Federazione mondiale delle donne” (FMD), che raduna le donne comuniste e socialiste di tutto il mondo, la cui Presidente è la russa Irina Fursteva. […] Nel 1948 le viene offerta dal Partito socialista la candidatura a deputata per le elezioni al primo parlamento della neonata Repubblica italiana. La Fazio ha 35 anni ed è pronta per un impegno politico di alta responsabilità. È eletta nel Collegio unico nazionale. Rimarrà in carica dal 1° giugno 1948 al 24 giugno del 1953, per una sola legislatura. Nella veste di deputata si interesserà soprattutto di problemi legati alla scuola, alla maternità, al diritto al lavoro e farà parte della commissione speciale per la ratifica dei decreti legislativi emanati nel periodo della Costituente. […]
L’esponente politica sarà Segretaria Generale dell’Udi dal 1947 sino al IV Congresso del 1959. […] Muore nella sua casa romana il 17 dicembre 2004 […].  

Fonti:
Il testo è tratto dalla biografia di Rosa Fazio Longo pubblicata nel libro di Rita Frattolillo e Barbara Bertolini, Il tempo sospeso. Donne nella storia del Molise, Campobasso, 2007  e in http://donneprotagoniste.blogspot.it/2016/02/rosa-fazio-longo.html)

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 Le figurinaie di Pontito in Valleriana

di Laura Candiani

 

A Coreglia Antelminelli (Lucca) esiste il Museo della figurina di gesso e dell'emigrazione. A Lucca, nel palazzo della Provincia, il Museo Paolo Cresci per la storia dell'emigrazione ospita la collezione dei gessi della raccolta Nannetti-Vincenti. In Sicilia troviamo varie intitolazioni, tutte al maschile, riferite ai “gessai”, talvolta ai “gessaioli” (o “gessaiuoli”) che si possono intendere sia come operai nelle cave sia come artigiani.

Pontito sorge a 760 m. s.l.m. ed è il paese più a nord della Valleriana, un'area collinare sopra la cittadina di Pescia, in provincia di Pistoia. L'abitato ha una curiosa forma a ventaglio, con le stradine parallele da est a ovest su cui sorgono antiche case in pietra, mentre le vie di collegamento da nord a sud sono molto ripide.
A causa delle scarse risorse e delle dure condizioni di vita, negli anni 1921-36 si ebbe un forte fenomeno di emigrazione, temporanea o definitiva, quando molti uomini o intere famiglie partirono per svolgere altrove altri mestieri che potessero assicurare un futuro dignitoso; fra questi l'antico mestiere di figurinaio (o gessaio, figurista, venditore di gessi e statuine). Questa attività si praticava da secoli in varie zone della Toscana, nella Lucchesia, in Garfagnana, nella valle del Serchio e della Lima; ne descrivono la storia sociologi, storici, scrittori (come Renato Fucini). Una leggenda diffusa racconta addirittura che Cristoforo Colombo, appena sbarcato in America, trovò proprio un figurinaio lucchese pronto a vendergli la sua merce.

Per svolgere questa attività era indispensabile avere nei laboratori una fonte di calore, acqua abbondante, scagliola (o gesso) e gli utensili appositi, compresi pennelli e colori; infatti la statuina-modello si realizzava in scagliola, poi si ungeva e si ricopriva con uno strato di scagliola liquida di circa tre centimetri, prima una metà, poi l'altra, formando una sorta di “camicia”. Una volta seccato, questo involucro era il guscio delle successive statuine, lo stampo veniva svuotato e si legava bene, così da una fessura si versava la scagliola liquida. Tenendolo stretto, si girava e si scuoteva perché non rimanessero spazi vuoti. Si faceva seccare, utilizzando talvolta anche i forni per accelerare il procedimento. Quando era ben secca, la statuina bianca veniva estratta, rifinita al banco e poi dipinta a mano, per essere in seguito venduta in fiere e mercati, oppure nei magazzini o anche a domicilio. La “camicia” veniva usata finché era possibile, per creare sempre lo stesso soggetto. Secondo gli studiosi, i lavori di precisione nelle fasi più delicate e finali erano molto spesso svolti dalle donne che rappresentavano circa un terzo della manodopera e per la loro abilità costituivano un elemento determinante; non è poi da sottovalutare l'apporto economico alle modeste finanze familiari.
Come spesso accade nella storia del lavoro femminile, gli studi e i documenti sono scarsi e i censimenti sono vaghi a proposito di alcune attività a carattere temporaneo o locale (come quella di figurinaia); tuttavia restano ancora alcune preziose testimonianze orali che raccontano anche di grosse spedizioni in Paesi stranieri (Belgio, Gran Bretagna, Francia, Olanda) e di esperienze lavorative vissute all'estero.
Prendiamo il caso di Giuliana Perpoli che aveva imparato il mestiere a Bagni di Lucca dove faceva la decoratrice. Trasferita a Edimburgo si sposò, ma rimase presto vedova; ciò che sapeva fare le tornò utile e cominciò il mestiere di figurinaia in proprio; divenne anche un'abile riparatrice di statue e figure spesso presenti in chiese e conventi. Un altro caso di emigrazione riguarda due coniugi, Erminio e Malfisa, che da Pontito si trasferirono con i figli a Parigi dove un parente già lavorava nel settore. Nel suo laboratorio le donne davano quel tocco di colore, inserivano quel dettaglio che faceva la differenza; uscivano dalle loro abili mani statuine a soggetto sacro e personaggi del presepe, ma anche immagini di celebri musicisti francesi o fermacarte o fermalibri che raffiguravano i tre moschettieri oppure Esmeralda e Quasimodo e altri noti grotteschi della cattedrale di Notre-Dame.
Particolarmente interessante è la vita di Libia Papi, riferita dallo storico Cesare Bocci. Libia infatti lavorò non solo a Pontito, ma anche a Treviso e a Milano, alternando all’artigianato altre attività come la sarta, la ricamatrice, la cameriera. La ditta fondata dallo zio Lino a Milano realizzava almeno 150 diversi soggetti a carattere prevalentemente religioso (Madonne, Sacra Famiglia, angioletti), ma anche ballerini (in coppia o singoli), bambini, animali, persino piatti, cornici per specchi e fotografie. Il lavoro qui era più veloce e di tipo quasi industriale perché si utilizzavano le pistole a spruzzo per dare il colore sulle superfici più ampie, mentre i dettagli si facevano sempre con il pennellino.
Quando Libia e i familiari decisero di ritornare nel paese d'origine, impiantarono l’attività nel centro di Pontito; il trasporto della merce avveniva in modo piuttosto avventuroso, addirittura a spalla per le ripide stradine fino alla fine del paese, poi con un’auto fino alla stazione ferroviaria di Pescia, da dove le casse partivano per raggiungere il Nord Italia (da Genova a Bolzano), oppure Roma e altre località del Lazio, Lecce, Foggia e le province toscane. La ditta Papi ebbe l'esclusiva di un soprammobile pubblicitario per un famoso amaro e realizzava statuine di Pinocchio in molte varianti, da vendersi a Collodi presso il parco. Un accordo con vari mobilifici della zona garantiva, a chi acquistava una camera da letto, una tavola in legno o un medaglione con soggetto sacro, realizzato dalle mani sapienti di Libia, da porre al posto d'onore.
Nel '60 la ditta fu costretta a chiudere perché questo genere di artigianato non aveva più mercato a causa dei nuovi gusti delle famiglie italiane e della plastica, il nuovo materiale che stava sostituendo ceramica, legno, gesso. Così le graziose statuine, fragili, ingenue e imperfette ma pur sempre uniche, finirono dai rigattieri e nei mercatini per la gioia delle persone appassionate.

Fonti

Cesare Bocci, La donna e l'artigianato artistico. Il caso delle figure di Pontito in  Valleriana, in AA.VV., Il lavoro delle donne. Attività femminili in Valdinievole fra Ottocento e Novecento, a cura dell'Istituto Storico Lucchese (sezione Storia e Storie al Femminile), Vannini, Buggiano, 2004
Ave Marchi, Andavano alle figure con Canova e Donatello, quaderno della “fondazione Cresci”, 2016
Paolo Tagliasacchi, Figure e figurinai nel XX secolo, Comune di Coreglia Antelminelli, 2002
iltirreno.gelocal.it (10-12-2015)
www.comune.coreglia.lu.it/
www.regioni.it (9-12-2015)

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Anna Franchi

Livorno, 1867- Milano, 1954

 

Le sono intitolati un largo a Livorno e una via a Olbia.

 

 

Paladina dei diritti femminili

 

di Laura Candiani

 

Anna Franchi è stata una pioniera del femminismo, attenta e sensibile ai diritti delle donne in un'epoca in cui se ne parlava con prudenza e i soprusi venivano taciuti per ipocrisia e perbenismo. Non solo, è stata anche musicista, scrittrice, traduttrice, giornalista, biografa e critica d'arte, una intellettuale completa i cui interessi hanno spaziato in molteplici campi.

È nata nel 1867, quando Firenze è capitale del Regno d'Italia, figlia unica di una famiglia livornese benestante; Cesare, il padre, fa il commerciante, la madre, Iginia Rugani, una casalinga molto riservata.
Anna ha maggiori affinità con il padre e la nonna Ernesta e con loro condivide gli interessi e l'amore per la letteratura e la musica.

Comincia presto ad attingere alla biblioteca paterna e a leggere avidamente Giusti, Dumas, Guerrazzi, romanzi sentimentali, patriottici e storici. Diventa un'ottima pianista e a soli 16 anni, nel 1883, sposa il suo insegnante, il violinista Ettore Martini. La coppia si trasferisce ad Arezzo e poi a Firenze (1889), città nelle quali il marito è direttore teatrale. Fra una tournée e l'altra in cui si esibiscono insieme, nascono quattro figli: Cesare, Gino, Folco (che muore bambino) e Ivo; tuttavia il matrimonio è infelice: Ettore contrae debiti, mantiene a fatica il lavoro solo grazie all'impegno della moglie, la tradisce, non sa fare il padre, sarebbe un bravo violinista ma è incostante e instabile. Nel 1903 parte per l'America con i due figli maggiori. Di fatto il matrimonio è finito da tempo e Anna è stata costretta a vendere la casa di Livorno e a mantenere i figli affidati legalmente al padre. Intanto trova il tempo per migliorarsi studiando con Ettore Janni ed Ernesta Bittanti, allora universitari molto promettenti. Inizia a scrivere e comincia a pubblicare: escono le novelle Dulcia-Tristia (1898) e un libro illustrato per bambini (I viaggi di un soldatino di piombo).

Negli anni di fine secolo si impegna nella Lega Femminile (che aderisce alla Camera del Lavoro) e poi nella Lega Toscana; è attiva a fianco delle “trecciaiole” nelle agitazioni del biennio 1896-97 e, pur non essendo iscritta ad alcun partito, è vicina all'ideologia socialista.

Nel 1900 è ammessa nell'associazione dei Giornalisti milanesi (seconda donna, dopo Anna Kuliscioff) e scrive su quotidiani e periodici, fra cui il “Corriere dei piccoli” (con lo pseudonimo “nonna Anna”). Con brevi articoli di informazione artistica e corrispondenze, da Venezia e Parigi per esempio, collabora a varie testate; risulta essere la prima donna editorialista della “Lombardia” e della “Nazione”. 

Gli anni 1902-3 rappresentano il periodo in cui più si impegna per una causa che le sta a cuore: il divorzio. Il Codice civile (1865) e l’enciclica Arcanum divinae sapientiae (1880) attraverso il potere dello Stato e della Chiesa ribadiscono la subordinazione femminile all'uomo padrone e signore in famiglia, ma anche nella vita sociale e professionale. Le donne non possono conseguire titoli di studio superiori, né decidere sui propri beni né stipulare contratti; la moglie deve condividere la residenza scelta dal marito e deve avere la sua autorizzazione se vuole esercitare il commercio o compiere operazioni bancarie.
Questa «mostruosa catena» (Sibilla Aleramo) si spezza nell'opera di Anna perché la protagonista del suo romanzo Avanti il divorzio rifugge le convenzioni e un matrimonio iniziato con un vero e proprio stupro: «La prese brutalmente, violando quella purezza che gli si abbandonava quasi con incoscienza, la prese spudoratamente, nulla attenuando con gentilezza amorevole, senza risparmiarla (...)». Significativi i nomi della coppia: perché il riferimento autobiografico risulti ben chiaro, cambiano solo i cognomi (Mirello lei e Streno lui). Anna Mirello cresce, matura, rischia e cambia grazie a un nuovo amore, ma soprattutto grazie alla propria realizzazione attraverso il lavoro, la letteratura, l'indipendenza economica. La vera nemica della donna infatti è la rassegnazione (come spiegherà Anna Franchi nel saggio Il divorzio e la donna). Interessante risulta anche il confronto con la posizione assunta dalla contemporanea Grazia Deledda che, nel medesimo anno 1902, pubblica il romanzo Dopo il divorzio, mentre veniva discussa e respinta la proposta di legge del Governo Zanardelli.

Nel 1909 compare il secondo importante romanzo, Un eletto del popolo: in cui la protagonista Mariangela viene abbandonata con un figlio da un deputato avido e arido preoccupato dalla carriera. Una vicenda che non può non ricordare quella personale vissuta dalla scrittrice e che rappresenta comunque una vittoria del coraggio e dell'anticonformismo perché la “sora Lange” rifiuta il cognome dell'uomo per il figlio e lo dispensa dall'obbligo del mantenimento.

Nel 1910 esce un romanzo in forma di diario, Dalle memorie di un sacerdote, in cui Angelo, curato nella campagna toscana, soffre per le maldicenze dopo aver salvato da morte certa un neonato abbandonato sul greto di un fiume dalla madre disperata. Don Angelo prova pietà, sa capire e perdonare, mentre il Codice penale (art. 369) distingue fra omicidio e infanticidio (“omicidio scusato”) e libera l'uomo (padre/seduttore) da qualsiasi responsabilità. Per di più il Codice civile (art. 340) proibisce la ricerca del padre con ipocrite motivazioni.  Oppresso dalla cattiveria dei parrocchiani e dai dubbi sulla propria fede, disgustato dai compromessi e dall'autorità ecclesiastica, don Angelo arriva al suicidio.

Nel periodo fiorentino Anna frequenta assiduamente i Macchiaioli e in particolare lo studio di Telemaco Signorini di cui parla ampiamente nella autobiografia (La mia vita-1940), in biografie specifiche e in saggi (Arte e artisti toscani dal 1850 ad oggi), accompagnati da conferenze molto apprezzate. La sua fama raggiunge la Francia, che frequenta durante le esposizioni internazionali e dove diviene affettuosamente “Franscì” per gli amici intellettuali, fra cui Matisse.

Trasferita a Milano prosegue con fervore la sua attività di intermediaria fra i pittori, i galleristi e i collezionisti e scrive la biografia di Fattori (1910) di cui con sapienza mette in luce le doti nel saper rielaborare l'oggetto in modo tutt'altro che fotografico. Negli stessi anni varie testimonianze ricordano l'impegno di Anna sul fronte anticlericale messo in atto con scritti e conferenze; nel 1913 entra nella loggia massonica torinese “Anita Garibaldi” e nel 1914 fonda a Milano la loggia “Foemina superior”, il cui nome indica sia l'intento di «mettere sulla via della verità le giovani menti nelle quali si sviluppa uno spirito di osservazione critica» sia «l'aspirazione della donna verso il miglioramento spirituale».

Siamo ormai alla vigilia della Grande guerra e Anna prende posizione da interventista con le opere Città sorelle (1915) e Il figlio della guerra (1917). Le tragiche vicende nazionali e internazionali la colpiscono duramente: il figlio Gino muore al fronte e il suo corpo non verrà mai ritrovato. Anna fonda allora la Lega d'Assistenza per le madri dei caduti allo scopo di sollecitare la politica a prendere a cuore la situazione delle madri che non possono avere benefici economici nel caso i figli uccisi siano coniugati. Nel dopoguerra con coerenza Anna non entra nelle file del Partito fascista e invece si avvicina ai Valdesi tanto da diventare “direttore responsabile” del loro periodico “L'Appello”. Intanto continua a pubblicare saggi, romanzi, biografie (Caterina de' Medici del 1932), racconti per bambini (Gingillo, 1946) e a impegnarsi in pubbliche conferenze.

Durante la Seconda guerra mondiale opera nelle file della Resistenza e, con la pace ritrovata, il 1946 è per lei un momento di grande soddisfazione: finalmente le donne italiane hanno accesso al voto attivo e passivo; si realizza dunque il sogno di quelle pioniere come Anna Kuliscioff e Anna Maria Mozzoni che tanto a lungo e con tenacia si erano battute. Per l'occasione scrive Cose d'ieri dette alle donne di oggi. Ormai anziana prosegue tuttavia il lavoro e nei primi anni Cinquanta escono ancora sue opere. Muore a Milano il 4 dicembre 1954, ma il funerale si volge a Livorno dove è sepolta nella cappella di famiglia.

 

 «L'equilibrio dovrebbe nascere da una coscienza morale, da una dignità diversa tanto nel maschio quanto nella femmina (...) uguale al maschio? No. Inferiore? Nemmeno. Diversa ma non meno degna di tutte le considerazioni». (Per le donne, 1913)

 

Fonti

Grazia Deledda, Dopo il divorzio, Studio Garamond, Roma, 2016

Elisabetta De Troja, Anna Franchi: l'indocile scrittura. Passione civile e critica d'arte, University Press, Firenze, 2016

Anna Franchi, Avanti il divorzio, Sandron, Milano,1902 - Sandron, Firenze, 2012 (a cura di Elisabetta De Troja)

Un eletto del popolo, Sandron, Milano, 1909

Dalle memorie di un sacerdote, Sandron, Milano, 1910

Giovanni Fattori, Alinari, Firenze,1910

La mia vita, Garzanti, Milano,1940 (ampliato 1947)
I Macchiaioli toscani, Garzanti, Milano,1945

Cose d'ieri dette alle donne di oggi, Hoepli, Milano, 1946

www.letteraturadimenticata.it

www.comune.livorno.it (6.3.2012)

www.archiviodistato.firenze.it/memoria.donna

 

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Rosina Frulla

(Pesaro, 1926 – 2015)

La scomparsa recente di Rosina Frulla non consente di dedicarle ancora una via, non essendo trascorsi 10 anni dalla morte. Ma il cordoglio unanime dell’amministrazione comunale di Pesaro, espresso con toni commossi dal sindaco, lascia sperare in una futura intitolazione. Intanto il nome di Rosina è stato inserito dall’Osservatorio di Genere nell’iniziativa #leviedelledonnemarchigiane, progetto nato per colmare la mancanza di riconoscimenti pubblici all'impegno e alle capacità femminili delle Marche.

La bandiera rossa in giardino

di Barbara Belotti

Non sono uguali le partigiane e i partigiani che hanno combattuto nella Resistenza. Ognuna/o di loro ha scelto di vivere quel pezzo di storia italiana sull’onda della medesima passione e della stessa voglia di libertà, ma ognuna/o di loro rappresenta una vicenda diversa da raccontare e ricordare.
È più facile tramandare i gesti di coraggio eclatanti e potenti, le morti drammatiche e le onorificenze al merito, più difficile non permettere la dispersione della memoria di chi ha lottato, di chi ha messo a rischio la propria vita per la libertà di una intera nazione ma è sopravvissuta/o senza aver raggiunto i vertici della notorietà. La loro limpidezza di intenti e di pensiero rischia di divenire, quando non saranno più qui a raccontare in prima persona cosa è stata la Resistenza, un ricordo annebbiato destinato a scomparire e a perdersi. Soprattutto se si tratta di donne, perché la loro Resistenza, fatta dello stesso coraggio e degli stessi rischi dei compagni maschi, ha faticato a essere conosciuta, narrata e condivisa. 
Rosina Frulla è stata una staffetta partigiana attiva nel pesarese conosciuta come la “Signora in rosso” perché con quel colore si vestiva e si faceva conoscere. Non era un vezzo, ma una esplicita dichiarazione di fede politica e di intenti, proseguita anche dopo la guerra fino alla morte.
Il colore rosso è la caratteristica di Rosina, partigiana. Lei stessa racconta che per molti anni ogni primo maggio ha continuato “a mettere una bandiera rossa in quell’angolo lì del giardino. Prima la issavo con mio marito Ferruccio che è stato anche lui un partigiano. […] Ora che Ferruccio è morto e io non ci vedo più tanto bene, la bandiera la metto con i miei nipoti”.
In un’epoca come la nostra, fatta di incertezze e di coscienze liquide e fluide, i suoi toni appassionati misurano la forza delle sue idee e della sua coerenza: “Forse dovrei smetterla. Ogni anno mi dico “questo è l’ultimo”. Che senso ha oggi, con questa politica qui, quella bandiera sventolante? Che senso ha vestirsi sempre di rosso? Io so solo che il rosso è il colore della mia passione, della mia lotta. Il colore della mia vita. E che anche quest’anno la mia bandiera rossa sarà lì, nell’angolo sinistro del mio giardino, perché tutta la via sappia che qui vive un’antifascista vera.”
Antifascista lo è sempre stata, la sua è quasi una scelta naturale. Si avvicina al PCI sia per l’influenza di un vicino di casa, Luigi Fabi, sia perché la vita non è stata generosa con lei, che ha conosciuto la miseria e ha dovuto lavorare fin da piccola per aiutare la madre vedova e i fratelli.
Le scelte politiche di Rosina si uniscono all’audacia tipica della sua giovane età e a soli 17 anni comincia diffondendo le pagine clandestine de L’Unità e racimolando cibo da portare ai militari italiani prigionieri dei tedeschi. In breve diventa una vera staffetta partigiana, andando a piedi o in bicicletta ‒ “con le ruote senza copertoni” precisa in un’intervista ‒ a consegnare ordini, messaggi, armi.
La Resistenza italiana è stata, per molte donne, l’inizio di un percorso di emancipazione e di presa di coscienza politica e personale che spesso non si è interrotto al termine della guerra. Anche per Rosina è stato così e il suo impegno prosegue nell’UDI: lavora per aprire asili nido, per organizzare le mense e le colonie estive per bambine e bambini, per trovare cibo e indumenti per le tante famiglie sfollate e che hanno perso tutto; da donna lavoratrice, inoltre, si impegna per formare una coscienza politica fra le compagne più giovani. L’impegno, come spiega in un’intervista, "derivava dalla voglia di libertà, dalla voglia di dare un avvenire migliore ai nostri figli".
Una donna piena di coraggio, di determinazione e di coerenza per la quale il passato non passa, “è una storia che ancora brucia e incide nella carne segni profondi”.
Il suo rigore intellettuale e morale le permette di rileggere con lucidità gli anni trascorsi nella Resistenza: “È stata dura. Tanto. Non lo nego; però se tornassi indietro rifarei tutto, dall’inizio alla fine. Io volevo lottare. Dovevo lottare perché ero e sono un’antifascista. […] Se lotti per la libertà non hai paura. Per nessun motivo.”

Fonti:

Massimo Lodovici, Intervista a Rosina e Laura Frulla (Anpi Pesaro, 18 giugno 1994), su Biblioteca archivio Vittorio Bobbato.
Carla Tonini, Una vita per la politica. L' Unione donne italiane a Pesaro nel secondo dopo guerra 1945-1950 , Bobbato.it.
Rosina Frulla: la staffetta partigiana vestita di rosso, in Il Ducato Testata dell'Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino, aprile 2014.
http://www.tele2000.eu/?p=2789
http://www.pesarourbinonotizie.it/20288/pesaro-ricci-esprime-il-cordoglio-della-citta-per-la-scomparsa-di-rosina-frulla
http://www.osservatoriodigenere.com/in-primo-piano/leviedelledonnemarchigiane.html

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Alessandra Wolff Stomersee Tomasi di Palma

(Nizza, 1894 - Palermo, 1982)

A lei è dedicato un albero nel giardino del Centro Psicanalitico di Palermo

Nel mondo della psicanalisi
di Patrizia Rocchi

Figlia del barone Boris Wolff Stomersee, alto dignitario alla corte di Nicola II, e della cantante lirica di origini italiane Alice Barbi, Alessandra visse la sua infanzia alla corte degli zar a San Pietroburgo nel Palazzo d'Inverno.
Trasferitasi nel castello di famiglia di Stomersee al primo sentore della rivoluzione russa, nel 1918 sposò il barone André Pilar e in quegli anni cominciò ad avvicinarsi alla psicoanalisi, a cui dedicò da allora la sua esistenza.
In seguito divorziò, risposandosi nel 1932 con Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nobile siciliano autore de “Il Gattopardo”, con cui ebbe soprattutto un intenso rapporto intellettuale.
Divenuta ben presto personaggio di spicco nell'ambiente psicoanalitico, coltissima e poliglotta, fu fondatrice della scuola siciliana.
Nei successivi decenni consolidò i rapporti, non sempre facili, con Edoardo Weiss e collaborò con i grandi pionieri della psicoanalisi italiana, Cesare Musatti, Nicola Perrotti ed Emilio Servadio, contribuendo all'organizzazione della nascente Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e alla rifondazione e ristrutturazione della sede nazionale di Roma. Ne rivestì peraltro, dal 1955 al 1959, la carica di presidente, diventando così la prima e unica donna a ricoprire tale incarico.
Alla morte del marito, nel 1956, si dedicò con grande caparbietà e tenacia alla pubblicazione postuma e alla diffusione de “Il Gattopardo”, seguendo personalmente anche le riprese del celebre film di Visconti tratto dal romanzo.
Si spense a 86 anni, a Palermo, nel suo palazzo di via Butera.
Ad Alessandra Wolff va il merito di aver importato Freud in Sicilia, dove peraltro riuscì a costruire una significativa fucina culturale d’impronta europea.
Nota per i suoi modi alteri e alquanto bruschi, fu poco amata dalla società e dalla nobiltà palermitana, soprattutto dalla suocera donna Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò, che “mal si adattò ad accogliere nella propria casa quella donna così diversa dai canoni femminili siciliani, intollerante e coltissima, divorziata e per di più sostenitrice di una ‘nuova scienza’ che sovvertiva l’omertà sul sesso e che osava scrutare e svelare i segreti dell’anima”.
A volte poco considerata o addirittura osteggiata dagli altri medici per i suoi metodi ritenuti ‘strani’ o troppo innovativi, fu invece amatissima dai pazienti e stimata dai suoi allievi.
Nel suo lavoro negli ospedali psichiatrici utilizzava metodi non convenzionali, spesso non facendosi pagare.
Nel necrologio pubblicato nel 1982 da Francesco Corrao si ricorda come la principessa avesse importato Freud in città “e con esso un modello culturale e scientifico di impronta europea” e si desume il provincialismo di Palermo fatto di “ostilità, disprezzo e sarcasmo da parte dei medici, degli psichiatri, dei clinici universitari”.
Francesco Corrao raccolse il lascito di questa grande donna fondando nel 1978 il Centro Psicoanalitico di Palermo, di cui Alessandra fu fino alla morte Presidente Onoraria.
Il 4 luglio 2014 è stato inaugurato nella città, all’interno dell’Università, il Giardino di Freud.
In questa splendida e prestigiosa cornice c’è un albero dedicato a lei, fortemente voluto dalla attuale presidente del Centro Malde Vigneri, grande e appassionata studiosa della vita e delle opere della principessa.

Fonti
Corrao F., Alessandra Tomasi di Lampedusa (1895–1982), in "Rivista Psicoanalitica", 1982, 28, pp.455-459.
Vigneri M., La Principessa di Lampedusa, in "Rivista Sicilia", Flaccovio, 10 (99), 2003-2004
Vigneri M. Alessandra Wolff Tomasi, in Marinella Fiume (a cura di), Siciliane. Dizionario Biografico, ed. Emanuele Romeo, 2006
Vigneri M.,  La principessa di Lampedusa,  in "Rivista Psicoanalitica", 2008, 54, pp.389-425.

Cronologia degli scritti
Tomasi di Palma A. (1936) Il caso S. presentato a Weiss nel 1936 e relazionato a Giuseppe Tomasi nella lettera del 25 settembre 1937.
Tomasi di Palma A. (1946). «Sviluppi della diagnostica e tecnica psicoanalitica». Psicoanalisi, 2.
Tomasi di Palma A. (1950). «L'aggressività nelle perversioni», lavoro letto al II Congresso della S.P.I., Roma 1950.
Tomasi di Palma A. (1956). «Le componenti preedipiche dell'isteria d'angoscia». Riv. Psicoanal., 2, 101-106.
Tomasi di Palma A. (1956). «Necrofilia e istinto di morte (Osservazioni su un caso clinico)». Riv. Psicoanal., 3, 173-186.
Tomasi di Palma A. (1960). «La spersonalizzazione». Presentato al XXI Congresso di Psicoanalisi di lingue Romanze (Roma 7-9 aprile 1960). Riv. Psicoanal., 1961, 1, 5-10.

Inediti
Tomasi di Palma A. (1975-1977). «Il caso del Licantropo». Dattiloscritto in originale, pubblicato (a cura di Malde Vigneri) nella Rivista di Psicoanalisi, 2/2008.
Tomasi di Palma A. (1980). «Uno spostamento e due meccanismi di difesa per il sorgere della nevrosi ossessiva», Presentato al Centro di Psicoanalisi di Palermo nel 1984, pubblicato (a cura di Malde Vigneri) con il titolo "Il patto con il diavolo" nella Rivista di Psicoanalisi, 2/2008.

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Livia Vernazza

(Genova, 1590 - 1655)

 

Non risultano intitolazioni di strade in suo onore

 

La figlia di un materassaio alla corte dei Medici


di Tanja Vittori

 

Una donna forte, passionale e acuta. Questo è il ritratto di Livia Vernazza, la bellissima figlia di un materassaio genovese di cui Don Giovanni de’ Medici si innamorò follemente, divenendo insieme a lei protagonista di una complicata storia d’amore.

Livia nacque nel 1590 a Genova; suo padre, Bernardo Vernazza, la obbligò quando era ancora una bambina di 13 anni (secondo alcune fonti ne aveva 15) a sposare un socio in affari, un uomo di circa quarant’anni di nome Battista Granara. Il matrimonio fu celebrato intorno al 1604.

Il temperamento di Livia si manifestò presto: secondo alcune testimonianze dell’epoca minacciò di suicidarsi gettandosi dal balcone piuttosto che accettare di convolare a nozze con un uomo vecchio e rozzo; dai familiari non ottenne però che altre violenze, tanto che persino durante la celebrazione del matrimonio dovette soccombere allo sguardo minaccioso dei fratelli, i quali pronunciarono in sua vece i voti nuziali temendo che la giovane rifiutasse di sposare l’uomo scelto per lei.

Sono ambigue le notizie riguardanti quanto avvenne successivamente al matrimonio: il fatto che la famiglia Medici non vedesse assolutamente di buon occhio la relazione tra Livia e Giovanni, contribuì decisamente a produrre una storiografia tutta incentrata sulla pessima reputazione di lei.

Non sappiamo con certezza se la fuga sia stata la soluzione a un marito violento o se si sia trattato di una fuga d’amore con un amante, quel che è certo è che Livia, forse dopo aver dato alla luce un figlio (ma di questo non si hanno notizie certe) lasciò la casa del marito e scappò a Firenze nel 1607. Qui probabilmente si mantenne prostituendosi e venne iscritta nel libro dell’honestà, ovvero venne schedata come donna di malaffare.

Nel 1609 avvenne l’incontro che le cambiò la vita: conobbe Giovanni, all’epoca cinquantenne, e se ne innamorò, ricambiata.

L’amore di Giovanni per lei fu sincero; in una lettera datata 12 febbraio 1612 l’uomo si rivolge a Livia definendola «Illustre signora mia et unica Patrona».

Dalla corrispondenza tra loro, avvenuta soprattutto nel periodo in cui l’uomo era lontano in una campagna militare, emergono un sentimento profondo e una passione ardente che Livia esprime così: «non è possibile che io viva in questa maniera, perché non dormo né mangio e ho una passione continova che non mi lasia vivere» [15 ott. 1617]. Un episodio significativo si ebbe quando le giunse voce di una possibile rivale: la notizia la fece reagire con queste parole «fatemi aver costei nelle mani, non puosso più scrivere perché sono stracha» [10 ott. 1671]. Pare che Giovanni l’abbia tradita, ferendo profondamente la giovane donna ma che, una volta smascherato, si sia reso conto della sciocchezza compiuta e abbia chiesto sinceramente perdono all’amata. Livia non era donna che lasciasse correre e, dopo averlo tenuto a lungo sulle spine, decise di perdonarlo ma lo coinvolse in una vendetta nei confronti della rivale di cui purtroppo non conosciamo i risvolti né l’esito.

L’amore tra i due ebbe però ostacoli ben maggiori. La famiglia Medici, infatti, sin dal principio non approvò la relazione. Giovanni era figlio naturale di Cosimo I ed Eleonora degli Albizzi, era un uomo molto intelligente, aveva talento militare, non era previsto che sposasse una donna di rango inferiore e addirittura prostituta. Le vere motivazioni di questa avversione erano di tipo patrimoniale ed economico: se avessero avuto un figlio, quest’ultimo sarebbe divenuto un possibile erede al trono e avrebbe potuto avanzare pretese nella successione dei beni. La coppia si trasferì a Venezia dove trascorse giorni sereni finché non vennero avviate le pratiche per l’annullamento del primo matrimonio di Livia. La curia di Genova accettò la tesi avanzata da Giovanni e il matrimonio venne dichiarato nullo in quanto contratto sotto forzatura.

Il primo tentativo di troncare la liaison si ebbe proprio in questa occasione: la famiglia Medici fece in modo che il primo marito di Livia inoltrasse ricorso in tribunale e presentarono una petizione al Papa per chiedere che la donna venisse rinchiusa in un monastero mentre il suo caso veniva discusso. La richiesta non venne accolta e Giovanni e Livia si sposarono a Venezia nel 1619, dopo la morte del primo marito.

La famiglia Medici aveva perso una battaglia ma la guerra era soltanto all’inizio.

Sempre nel 1619 la coppia ebbe un figlio, Giovanni Francesco, per il quale il padre nutrì un tenero affetto e di cui si occupò finché non morì nel 1621. Con la morte di Giovanni iniziò il calvario di Livia, incinta di una seconda figlia, morta soltanto venti giorni dopo la nascita. Sembra che, una volta vedova, avesse attirato le attenzioni di un ricco patrizio della famiglia Grimani, cosa che le garantiva una certa protezione dalla vendetta medicea. Ma il casato fiorentino seppe intervenire prontamente: Maria Maddalena d’Austria, granduchessa di Toscana, la attrasse con l’inganno a Firenze, dove venne rapita e dove le fu tolto il figlio.  Dichiarato nullo il suo matrimonio con Giovanni, le proprietà dell’uomo vennero ridistribuite tra gli altri membri della famiglia e Giovanni Francesco fu affidato a Baroncelli, ex segretario di Giovanni.

Livia rimase imprigionata a lungo. Prima fu costretta agli arresti domiciliari nella villa di Montughi poi, forse perché si mostrò irriverente nei confronti delle granduchesse Cristina di Lorena e Maria Maddalena d’Austria, fu rinchiusa nelle fortezze di Belvedere e di San Miniato. Solo con la morte di Cristina, avvenuta nel 1637, fu trasferita nel convento delle monache di Foligno. Le granduchesse Cristina e Maria Maddalena, cattolicissime, combatterono senza esclusioni di colpi l’intrusa-prostituta trasformandosi, loro che non erano delle Medici di nascita, in convinte e solide difenditrici del casato, dimostrando di aver bene appreso i metodi dei figli di Cosimo I, Francesco e Ferdinando, che mai riconobbero i ruoli di moglie sia di Camilla Martelli che di Bianca Cappello.

Livia spese quel che le restò in avvocati sleali e per pagare i suoi carcerieri. Intanto si faceva di tutto per cancellare la sua memoria; venne persino cambiato il titolo di un dipinto che portava il suo nome e che la ritraeva in tutta la sua bellezza: da quel momento in poi, nei cataloghi medicei, venne rinominato semplicemente Ritratto di donna.

A peggiorare ulteriormente la condizione di Livia furono i pessimi rapporti con il figlio, cresciuto lontano da lei e influenzato dalla propaganda medicea, il quale la maltrattò, la minacciò di morte e cercò persino di farla incriminare per stregoneria.

Livia riuscì in qualche modo a non darla del tutto vinta ai suoi rivali. Prima di essere imprigionata, avendo intuito quel che stava per accadere ma non potendo fare nulla contro tanto potere, riuscì a far trasferire i gioielli donati dal marito, tutti di gran valore, in un convento di Murano. Le granduchesse Cristina e Maria Maddalena fecero di tutto per riaverli senza riuscirci mai.

L’ultimo atto di sfida fu contro il figlio: Livia lasciò i suoi averi ai padri della chiesa di S. Michele Visdomini di Firenze, gli unici ad averle dato un po’ di conforto nei momenti difficili e che le offrirono sepoltura nella loro chiesa quando morì nel 1655. Il lascito venne in seguito utilizzato per il restauro della chiesa.

Si concluse in questo modo la vita di una donna che non accettò il suo destino, lottò per il suo amore e per la sua dignità, per aver voluto una vita diversa

 

Fonti

Emma Micheletti, Le donne dei Medici, Firenze, 1983

Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Roma, 1999

Brendan Dooley, Amore e guerra nel tardo Rinascimento. Le lettere di Livia Vernazza e Don Giovanni de’ Medici, 2009

http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-de-medici_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/cartedidonne/cdd_02_arrivo.pdf

http://bia.medici.org/DocSources/Home.do

 

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Giuseppina Vittone Li Causi

(Torino, 1923 - 2013)

A Giuseppina Vittone Li causi non risulta intitolata alcuna via.

Una piemontese in Sicilia
di Ester Rizzo

Correva l’anno 1953 e all’ARS (Assemblea Regionale Siciliana) venne eletta come deputata Giuseppina Vittone Li Causi.
Era nata a Torino il 30 marzo 1923 e nel 1943 aveva conosciuto Girolamo Li Causi, detto Mommo, un nome prestigioso fra i comunisti di quei tempi, più grande di lei di ventisette anni. Con rito civile, i due si sposarono nel 1946.
Sin da giovanissima Giuseppina era stata una partigiana. Proveniva da una famiglia operaia ed il PCI le aveva pagato un corso di stenografia che le permise di trascrivere i comunicati di Radio Londra e di Radio Mosca. Si occupava inoltre di diffondere clandestinamente il giornale L’Unità.
Nel 1945 arrivò in Sicilia ed iniziò ad “organizzare” le donne dei quartieri popolari di Palermo, battendosi per la loro emancipazione e per l’acquisizione dei diritti loro spettanti. Si recava nei vicoli dell’Albelgheria per parlare alle donne dei diritti all'alloggio, all'erogazione dell’acqua, al lavoro… e le donne l’ascoltavano, si commuovevano, le offrivano i propri balconi per poter fare i comizi.
Un po’ frastornata e disorientata nella Sicilia di allora, in cui erano rari i casi di emancipazione femminile, seppe comunque imporre la sua personalità e, anche se non comprendeva il dialetto siciliano, pian piano iniziò a capirlo e addirittura a parlarlo.
Venne mandata a tenere un comizio a Bisacquino, piccolo paese in provincia di Palermo, e lei stessa dichiarò che era molto inquieta quando arrivò nella piazza principale e non vide alcuna donna: erano tutti uomini. Mentre parlava, il prete della chiesa indispettito iniziò a far suonare le campane.
Quando venne eletta all’ARS rifiutò lo stipendio da deputata affermando che già c’era quello del marito e che quindi potevano vivere dignitosamente. Non fu un gesto pubblico per ottenere consensi ma un gesto dettato dall’idea profonda che la politica è un servizio da dare alla città e ai cittadini senza ricevere benefici. Una figura di donna e di politica eticamente ineccepibile, onesta, idealista, attiva, generosa e poco o per nulla conosciuta.
E’ morta il 2 settembre 2013 a novant’anni.

 

 



 

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 Alma Sabatini

(Roma 1922 - 1988)

Incredibilmente assente nella toponomastica romana, Alma Sabatini è stata una figura di rilievo del femminismo italiano, insegnante, anglista e saggista. A lei dobbiamo la pubblicazione nel 1986 delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, linee guida per superare gli stereotipi di genere attraverso scelte linguistiche critiche e consapevoli. Nel 2012, il gruppo di Toponomastica femminile ha proposto al Comune di Roma una sua intitolazione nell'ex XVII municipio, attuale I municipio, con delle motivazioni consultabili all'indirizzo http://67.23.224.138/~toponoma/index.php?option=com_content&view=article&id=109&Itemid=155

Alma Sabatini e il linguaggio come strumento di percezione della realtà
di Saveria Rito

Nacque a Roma il 6 settembre 1922 e si laureò in Lettere moderne presso l'Università La Sapienza nel 1945. Le borse di studio in Inghilterra e negli Stati Uniti le permisero di perfezionare la lingua inglese che insegnò nelle scuole medie e superiori della capitale per diversi anni, prima di ritirarsi nel 1979 e dedicarsi completamente alla causa femminista. Dal 1960 militò nel Partito Radicale e nel 1971 fu tra le fondatrici, e prima presidente, del Movimento di Liberazione della Donna (MLD), che si batteva per la legalizzazione dell'aborto, contro il sessismo e il patriarcato. A metà dello stesso anno, alcune divergenze spinsero Alma e altre attiviste a staccarsi dal movimento per praticare una politica femminista separatista e organizzare un gruppo di autocoscienza, che si incontrava per discutere di sessualità, esperienze personali e rapporto tra i sessi (secondo il principio il personale è politico). Fu in una di quelle riunioni che Gabriella Parca propose di fondare una rivista, la futura Effe pubblicata dal 1973, alla quale Alma collaborò fino agli inizi del 1975. Nello stesso periodo si avvicinò al Collettivo di via Pompeo Magno, poi diventato Movimento Femminista Romano, contribuendo alla stesura di un bollettino informativo mensile e partecipando a iniziative e manifestazioni contro la prostituzione e per la legalizzazione dell'aborto: a sostegno di quest'ultima causa, nel 1973, adottò con alcune attiviste la pratica dell'autodenuncia durante il processo di Gigliola Pierobon (accusata di aver abortito ai sensi dell'art. 546 del Codice Penale del 1930, poi abrogato dalla L.194/78).  "L'oppressione, la repressione e lo sfruttamento della donna passano attraverso l'equivoco della maternità" - sosteneva Alma - "Il femminismo è anzitutto la coscienza che non esiste una possibilità di liberazione individuale al di fuori di quella di tutte le altre donne".
La fitta corrispondenza con femministe americane come Diana Russell, Marcia Keller,  Karen DeCrow e Betty Friedan, le diede occasione di ritornare negli Stati Uniti come ospite di convegni,  seminari e interviste in diverse città dal 1971 al 1972.
Numerosi furono i suoi articoli, pubblicati su Effe e Quotidiano donna, riguardanti  tematiche come aborto, maternità, pari opportunità, prostituzione, violenza, matrimonio e linguistica.
Oggi il suo nome rimane legato principalmente ad uno studio sul "sessismo insito nella lingua italiana" che, nel 1986, portò alla pubblicazione per conto della Commissione Nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana. Nell'opera, che seguiva analoghe esperienze estere ed era rivolta alle scuole e all'editoria scolastica, Sabatini elencava forme di linguaggio stereotipato che mal celavano pregiudizi di genere e proponeva delle alternative. Si partiva da un'indagine sui libri di testo e sui mass media per mettere in risalto la prevalenza del genere maschile, usato in italiano anche con doppia valenza, il cosiddetto maschile neutro, che cancella dal discorso la presenza del soggetto femminile (ad esempio, i diritti dell'umanità è da preferire all'espressione i diritti dell'uomo; le popolazioni primitive sostituisce gli uomini primitivi). Sottolineava, inoltre, la mancanza o il mancato uso di termini istituzionali e di potere declinati al femminile (ministra, sindaca, assessora), l'accezione positiva e il prestigio di un termine maschile rispetto alla sua forma femminile (il sostantivo segretario, di Stato o di un partito, è percepito diversamente dalla forma segretaria, stereotipo del lavoro femminile subordinato).
La premessa teorica alla base di questo lavoro è che la lingua non solo riflette la società che la parla, ma ne condiziona e ne limita il pensiero, l'immaginazione e lo sviluppo sociale e culturale. La lingua infatti non è un semplice strumento di comunicazione e di trasmissione di informazioni e di idee, ma è soprattutto strumento di percezione e di classificazione della realtà [...]: tendiamo a vedere soltanto ciò che ha nome e lo vediamo come quel nome stesso ci suggerisce" dichiarava Alma Sabatini nell'introduzione alle Raccomandazioni.

Il lavoro suscitò apprezzamenti e polemiche a colpi di articoli di giornale, tuttavia rimane una tappa fondamentale che ha aperto un dibattito sulla necessità di un rinnovamento linguistico nel nostro Paese, sostenuta recentemente anche dall'Accademia della Crusca.
Alma Sabatini morì a Roma in un incidente d'auto il 12 aprile 1988 assieme al marito Robert Braun. I funerali laici di entrambi vennero celebrati nel giardino del Buon Pastore, sede della Casa Internazionale delle Donne.

Fonti
Documenti d'archivio dal Fondo Alma Sabatini conservato a Roma presso Archivia - Biblioteca Archivi Centri Documentazione delle Donne. Sito internet www.archiviaabcd.it
Donnità : cronache del Movimento Femminista Romano, Roma, Centro di documentazione del Movimento Femminista Romano,  1976
Marina Ceratto, Il "Chi è?" delle donne italiane: 1945-1982, Milano, Mondadori, 1982, p. 280
Alma Sabatini, Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1986
 

Maria Assunta Sabatini

(Massa Cozzile (PT), 1860 - Firenze, 1940)

Non risulta alcuna intitolazione a suo nome.

La "Marietta" e l'Artusi.
di Bruna Rossi

Maria Assunta Sabatini, meglio nota come “la Marietta”, fu la fedele domestica e collaboratrice di Pellegrino Artusi nel suo ultimo periodo di vita, proprio quello in cui scrisse e pubblicò La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, il manuale che lo incoronò come il padre indiscusso della gastronomia italiana.
Era nata  il 4 ottobre 1860 a Massa e Cozzile, un piccolo comune della Valdinievole, come possiamo ricavare dal documento di battesimo esistente nell’Archivio delle Parrocchie della Diocesi di Pescia; era figlia di Luigi e Palmira Guidi, montecatinese. Alla bambina venne imposto il nome di entrambe le nonne,  Assunta, ma nei suoi scritti (visto che lei, come il fratello, sapeva leggere e scrivere) si firmava Maria o, piuttosto, Marietta.
Forse fu proprio durante una delle sue periodiche permanenze a Montecatini (che lui stesso ci  testimonia nella Autobiografia) che Artusi conobbe quella che sarebbe divenuta la sua cameriera tuttofare, una donna giovane, ma energica e capace che, oltre a occuparsi della casa, gli avrebbe fornito sostegno e assistenza fino alla morte.  
Marietta alla fine del 1881 risultava ancora residente con la famiglia a Massa, tuttavia aveva preso servizio da Pellegrino Artusi già dal 1878. Nel 1888, ancora nubile, la si saprà ufficialmente trasferita a Firenze.  
Chi avrebbe mai potuto immaginare che proprio Maria Assunta, nata in un piccolo paese ignoto ai più, avrebbe dato un fondamentale contributo alla diffusione della cucina e della lingua italiana non solo nella nazione italiana nascente, ma addirittura nel mondo intero?  Il trattato conosciuto come L’Artusi, infatti, distaccandosi nettamente da una cucina considerata “alta” ma espressione di un gusto francese che non ci era proprio, ha restituito piena dignità nazionale e gastronomica alla cucina regionale e popolare della tradizione italiana. In esso Pellegrino ha abilmente trasferito ed esaltato le ricette locali (spesso tramandate oralmente), portandole fuori dai loro ristretti confini e campanilismi, trasformandole in piatti nazionali e proponendole al lettore con l’uso di un lessico  appropriato ma facilmente comprensibile. Ha così favorito il processo di unificazione e di  italianizzazione della classe medio-borghese, utilizzando un vocabolario volutamente privo di termini stranieri. È lo stesso Artusi ad affermare: «Dopo l’unità della patria mi sembrava logica conseguenza il pensare all’unità della lingua parlata». E quale modo migliore di farlo, se non  parlando agli Italiani (anzi, soprattutto alle Italiane!) di qualcosa con cui dovevano confrontarsi ogni  giorno, la preparazione del cibo, elevata finalmente al rango di Arte del mangiar bene!?
Va detto, a questo punto, che forse quel manuale non sarebbe mai nato se nella abitazione di Artusi non fosse capitata Marietta, una ragazzina di paese che a soli diciassette anni, lasciando la propria casa a Massa ed un sicuro ma poco ambito destino di “cucitrice”, andò come servetta presso quello scapolo quasi sessantenne, dal carattere burbero e molto diffidente verso i  domestici che, a detta sua, avevano sempre cercato di truffarlo e derubarlo...
Conosciuta da tutti come “la Marietta”, essa prese subito in mano le redini della casa con  competenza e una determinazione suggerita anche dal suo aspetto statuario e dalle forme  giunoniche. Nell’intervista pubblicata sulla rivista “La Cucina Italiana” quando era ormai settantaduenne, Rina Simonetta la descriveva ancora così: «una donna dalla figura alta, slanciata; figura giovanile nonostante i capelli bianchi; figura distinta e signorile». Nella stessa intervista Marietta parlava con affetto del padrone, ormai scomparso da molti anni, ricordando le sue passioni: «A parte la cucina gli piaceva leggere. Invecchiato però, gli si era indebolita la vista e per non farlo stancare ero io che leggevo per lui (...) leggere mi piaceva. Ma mi ci sono logorata gli occhi». La donna ricordava di essergli stata accanto fino agli ultimi momenti della sua vita: «Quando morì stavamo leggendo l’Eneide...».
Chissà se proprio a lei andrebbe attribuito il merito di aver suggerito al padrone di riunire la  passione per le lettere e quella per la buona tavola in un volume che sarebbe ben presto diventato la Bibbia per chiunque avesse osato avvicinarsi ai fornelli, dalla semplice casalinga al più famoso  gastronomo?
La prima edizione di La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene uscì soltanto nel 1891, dopo meno di tre anni dal trasferimento definitivo di Marietta in casa Artusi: Pellegrino aveva già 71 anni e da 30 l’Italia era stata unificata.
Ai fornelli, accanto a Marietta e al suo padrone, c’era il cuoco Francesco Ruffilli, il quale però mantenne sempre un tono dimesso e deferente, sottomesso anche a Marietta, la quale non fu solo la “serva” di casa, ma una presenza forte, attenta e costante, che svolgeva anche il ruolo di governante e assistente, non solo in cucina, ma in ogni incombenza, accompagnando spesso il padrone, ormai anziano, anche nei suoi viaggi di lavoro e nei soggiorni estivi. Lo faceva ancor più volentieri quando Pellegrino si recava ai Bagni di Montecatini, che rappresentavano per lei un ritorno a casa.
Ben presto “la Marietta” divenne un autentico “personaggio”: le signore, ma anche molti  uomini, pur considerando Artusi un vero maestro dell’economia domestica, si rivolgevano a lei chiedendole un aiuto competente per risolvere i più svariati problemi legati alla cucina e alla gestione della casa in generale. Essa rappresentava la migliore consulente degli amici di Pellegrino, sempre pronta a dare preziosi consigli e a suggerire non solo ricette e menù, ma anche a offrire un sostegno psicologico nei momenti di difficoltà:«Ci ricordi con affetto alla buona Marietta, la quale non cesso di ricordarmi le sue sgridate, in qualche noioso momento della mia nevrastenia».
La “bella Marietta dalle forme scultorie”, addirittura “giunonica”, come la descriveva Goffredo Corelli, era anche molto abile nello scegliere e fornire utili nominativi di virtuosi cuochi e domestiche di sua fiducia, che spesso accompagnava e presentava personalmente, guadagnandosi ulteriore simpatia e gratitudine. Ogni tanto Assunta rientrava a Massa per sistemare le faccende di famiglia, non disdegnando tuttavia una salutare e mondana sosta ai Bagni di Montecatini. In quelle occasioni la sua casa era letteralmente presa d’assalto: molte giovani speravano in lei per ottenere un impiego presso qualche casa signorile. È logico pensare che gran parte del personale che Marietta raccomandava provenisse dalla sua Valdinievole, che facesse parte della sua cerchia di familiari e amici: persone che conosceva dall’infanzia e sulla cui correttezza sapeva di poter contare anche se talvolta, purtroppo, anche la sua fiducia riceveva qualche colpo basso.
Marietta Sabatini si  potrebbe definire una vera benefattrice per la sua terra d’origine, per aver offerto a molte ragazze la possibilità di lavorare presso prestigiose residenze di Firenze e non solo, sfuggendo in tal modo ad un inesorabile futuro di lavoro nei campi, in cartiera o in una filanda...
Artusi dimostrò di apprezzare appieno le qualità della collaboratrice: non solo le dedicò la ricetta n.604 (uno speciale  panettone, «migliore assai del panettone di Milano»), ma alla morte lasciò i diritti d'autore del suo manuale a lei e al cuoco Ruffilli. Marietta del resto, rispettando il  giuramento fatto al padrone, si batté in modo risoluto perché venissero rispettate tutte le volontà testamentarie di Pellegrino che, con disappunto di alcuni parenti, vedevano la maggior parte dell'eredità destinata al Comune di Forlimpopoli e a opere benefiche. Marietta continuò a vivere a Firenze anche dopo la morte di Artusi; morì a 80 anni, di broncopolmonite, il 22 dicembre 1940, e venne sepolta nel cimitero di Trespiano.

Fonti:

Archivio Storico Comunale di Massa e Cozzile, XXXII.5, Terzo Censimento generale della popolazione del Regno da farsi alla mezzanotte del 31 dicembre 1881
Pellegrino Artusi, Autobiografia, a cura di Alberto Capatti, Bra (Cuneo), Arcigola Slow Food Editore, 2003
Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Modena, ed. La Vela, 1980
Luciana Cacciaguerra, Piero Camporesi, Laila Tentoni, Pellegrino Artusi e la sua Romagna - note d’archivio, Forlimpopoli, Casa Artusi, 2012
Bruna Rossi, Pellegrino Artusi e le Mariette di Valdinievole, in Fare le Italiane, Buggiano (PT), Vannini, 2015 (a cura dell'Istituto Storico Lucchese-Sezione Storia e Storie al Femminile)
Rina Simonetta (a cura di), Parliamo di Pellegrino Artusi, intervista a Maria Sabatini, in “La Cucina italiana. Giornale di gastronomia per le famiglie e per i buongustai”, 15 febbraio 1932

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Elena Salvestrini

Uliveto Terme (PI), 1904 - Viareggio, 1985 )

Di Elena Salvestrini non si ha traccia nella toponomastica toscana, nonostante la preziosa attività didattica (unica per l’epoca) e l’interesse suscitato dalla pubblicazione del bel libro curato da Gabriella Nocentini (nipote di quella famiglia Tonarelli che accolse la maestra in casa), presentato ripetutamente (Firenze, Pistoia, Pescia, Cutigliano,Viareggio, ecc.); insieme all'edizione del testo anche una mostra di fotografie  inedite e del quaderno  del ’29, con interventi della nipote (Isabella Pera) e dei soci della sezione “Storia e Storie al femminile” dell’Istituto Storico Lucchese.

Ritratto di una maestra
di Isabella Pera e Laura Candiani

Elena Salvestrini nasce a Uliveto Terme (Pisa) il 9 gennaio del 1904. Il padre, Arturo Salvestrini, è direttore di una fabbrica nel paese, la madre, Amelia Lavoratti, è casalinga, cura la casa e i quattro figli, due maschi e due femmine.
Nel 1918 si iscrive alle Scuole normali di Pisa, dove si diploma nel luglio 1922. Subito dopo inizia ad insegnare nelle scuole elementari, facendo supplenze nella zona di Pisa: a San Giovanni alla Vena, dove rimane fino all’aprile 1925, poi a Cucigliana, tra il 1925 e il 1926.
Dopo aver sostenuto e superato brillantemente gli esami di abilitazione ottiene la sede provvisoria a La Romola (FI), ma solo per qualche mese, dall’aprile al luglio 1926. La sua sede definitiva sarà invece la scuola “rurale” di Ponte Sestaione (PT), una piccola frazione di poche case sull’Appen-nino pistoiese, presso Cutigliano, lungo la Statale 12 che porta all’Abetone, dove arriva nel set-tembre 1926 .
Nel paese trova alloggio presso la famiglia Tonarelli e inizia il suo lavoro di insegnante in una pluriclasse dei primi tre anni della scuola elementare, ospitata in una grande e fredda stanza (ex stalla) di una colonia situata poco lontano, la colonia elioterapica “Franchetti”. Le bambine e i  bambini  erano 9 in Prima,18 in Seconda e 10 in Terza, ma non tutti e non sempre frequentavano, essendo spesso impegnati ad aiutare le famiglie (la semina, gli animali, la raccolta delle castagne, dei funghi, delle fragole) o -in inverno- bloccati in casa dalla neve. Malgrado l’ambiente poco accogliente e il variegato gruppo classe, la maestra, con un metodo originale e attento alla crescita dei suoi alunni , riesce a costruire con loro un rapporto diretto, che non si limita alla didattica consueta, ma li coinvolge in molte altre attività: escursioni, spettacoli e recite (di cui lei stessa scrive spesso i copioni e le canzoni accompagnandosi con il violino), feste in maschera durante il periodo di carnevale per le quali confeziona i costumi con pochi mezzi e molta fantasia. La scuola diventa il centro della vita della piccola frazione, proprio grazie alle molte e originali iniziative che accom-pagnano la realtà quotidiana della gente del Ponte.
Elena Salvestrini documenta questi avvenimenti, come anche i luoghi e le persone, con la sua macchina fotografica Eastman Kodak Folding Autographic Brownie n. 2, acquistata nel 1926, poco prima di partire per Ponte Sestaione, uno strumento non così consueto all’epoca, soprattutto nelle mani di una donna. Certo era una donna moderna ed emancipata, di famiglia borghese, bella, giovane e sportiva; non disdegnava l’eleganza e la moda, ma oltre a bei capi rifiniti in pelliccia indossava spesso i pantaloni (nascosti sotto una gonna); portava i capelli corti e “sembrava un’attrice”- come sottolineano i ricordi dei suoi alunni ormai anziani; riuscì in soli quattro anni a lasciare una traccia profonda nella realtà locale e a integrarsi in una comunità chiusa e tradizionale, divenendo una sorta di “mediatrice culturale” (come afferma Teresa Bertilotti ). Sapeva dipingere e disegnare benissimo, ma anche cucire, fare la calza  e ricamare, insieme alle ragazze del luogo; a sue spese fece curare alunni malati e acquistava talvolta i grembiulini per i più bisognosi o faceva “recuperi” pomeridiani a chi affrontava l’esame da privatista.
Nel 1929 gli alunni delle scuole elementari della provincia di Pistoia furono invitati a scrivere del luogo dove vivevano sotto molteplici aspetti ˗ storico, geografico, economico, artistico ˗ per celebrare l’istituzione della nuova provincia in piena epoca fascista. I numerosi quaderni, che furono esposti in mostra alla Casa del Balilla di Pistoia, vennero poi donati alla Biblioteca Forteguerriana, dove sono ancora conservati e digitalizzati. Tra le tante scuole della montagna pistoiese che parteciparono ci fu anche quella di Ponte Sestaione. Molti dei lavori sono scritti in bella grafia dalle maestre e contengono informazioni generiche, mentre quello redatto dalla scuola del Ponte (il n.141) appare ben più originale, perché sono gli stessi bambini che, sotto la guida dell’insegnante, descrivono il luogo dove vivono in maniera piuttosto spontanea e sincera, non nascondendo i problemi (l’emigrazione, la durezza delle condizioni di vita) e i desideri (la realizzazione di una nuova scuola), ma anche il legame con il territorio e con le sue tradizioni. Il quaderno è inoltre arricchito di fotografie scattate da Elena Salvestrini e costituisce un documento molto interessante, come del resto tutta la raccolta, per comprendere la vita, la condizione socio-economica e culturale di quelle zone.
La maestra Salvestrini lascia la scuola del Ponte Sestaione nel 1930,  nello stesso anno si sposa con Raffaello Sabatini e si trasferisce in Versilia, a Viareggio, insegnando per un anno a Bargecchia, poi a Corsanico (1931-1934) e Stiava (1934-1941). Nel periodo dello sfollamento si rifugia con la figlia Annamaria proprio a Stiava e, dopo la guerra, riprende la sua attività nelle scuole viareggine di Levante, del Varignano, della Darsena e infine, dal 1963, alle “R. Lambruschini”. Nel 1967 è collocata a riposo e  muore a Viareggio nel 1985.

Annotazioni e approfondimenti: La legge Gentile del ’23 allargò l’obbligo scolastico ai 14 anni, oltre quindi la scuola elementare i cui programmi furono curati da Giuseppe Lombardo Radice. Fu creato l’Istituto Magistrale per i futuri insegnanti elementari, in sostituzione delle Scuole normali.
Le maestre -che rappresentavano all’epoca circa l’80 % del corpo insegnante- in mancanza di stanze idonee nell’edificio scolastico, dovevano trovare un alloggio decoroso nelle sedi spesso disagiate e  sperdute dove erano costrette  a  trasferirsi in modo stabile. Quasi esclusivamente alle donne erano riservate le prime tre classi delle elementari, mentre gli uomini per legge dovevano insegnare nel successivo biennio e nelle classi totalmente maschili. La “moralità” delle maestre (per lo più giovani e forestiere) era tenuta sotto stretto controllo dai Direttori Didattici e dalla comunità locale; non pochi furono purtroppo i casi - con esiti drammatici - di pettegolezzi e maldicenze (vedi la vicenda della “povera, infelice Italia Donati, maestra sventurata” 1863-1886).

Il materiale realizzato dalle scuole nel ’29 e raccolto presso la Biblioteca Forteguerriana di Pistoia rimase sessant’anni in deposito e fu studiato da Teresa Dolfi e Stefania Lucarelli nel 1990; consiste in 363 pezzi. Nel 1999 tutte le pagine sono state scansionate per un totale di oltre 13.000 immagini a  cui si aggiungono gli indici e le esecuzioni di 27 canti popolari riportati nei testi.

Fonti:
Gabriella Nocentini (a cura di), Con l’aiuto della Signorina maestra. Elena Salvestrini e la scuola di Ponte Sestaione, Cutigliano (1926-1930), Firenze, Edizioni dell’Assemblea, 2014.
Biblioteca Forteguerriana, CD ROM La scuola in mostra. Pistoia, 1929, Fondazione Cassa di Risparmio Pistoia e Pescia, 1999.
Marcello Dei, Colletto bianco,grembiule nero, Bologna, Il Mulino,1994
Elena Gianini Belotti, Prima della quiete. Storia di Italia Donati, Milano, Rizzoli, 2005
 

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(Firenze, 1499 – 1543)


Non risultano intitolazioni in suo onore

 

Donna nelle dispute sagacissima
di Alessandra Rossi

 

Nella divulgazione storica la figura di Maria Salviati risulta sempre un po’ oscurata dalla fama degli uomini che hanno fatto parte della sua vita, a partire dal marito, il famigerato e intraprendente Giovanni de’ Medici conosciuto come Giovanni dalle Bande Nere, fino ad arrivare al figlio, il primo Granduca di Toscana Cosimo I. Traspare dai testi e dalle rappresentazioni pittoriche l’immagine di una Maria devota al marito sempre lontano, costantemente  immerso nelle numerose imprese di guerra e, dopo la morte di quest’ultimo, di una vedova austera e priva di qualsiasi ricerca di eleganza e di ogni forma di vanità; emerge soprattutto l’immagine di una madre, consapevole del ruolo fondamentale che il figlio viene a ricoprire nella storia della famiglia Medici.
In realtà approfondendo la conoscenza di questa donna, si comprende quanto le sue azioni e la sua tempra abbiano influito sulla fama successiva di Giovanni, di Cosimo e, in generale, della stirpe medicea.
Maria nasce a Firenze il 17 luglio del 1499 da Jacopo Salviati e Lucrezia de’ Medici, primogenita di Lorenzo il Magnifico e appartiene, quindi, al ramo principale della casata Medici: quello di Cafaggiolo.
La vicenda individuale di Maria Salviati si inserisce in un periodo denso di importanti avvenimenti per la famiglia, dall’esilio da Firenze al ritorno al potere dopo la parentesi repubblicana, dal trionfo con l’elezione di papa Leone X alla crisi politica fra Clemente VII e Carlo V: la sua vita è condizionata irreversibilmente dal repentino susseguirsi di questi eventi. 
Maria entra molto presto in contatto con quello che sarà il suo futuro sposo: nel 1509, infatti, il piccolo Giovanni de’ Medici è affidato a Jacopo Salviati quando sua madre, Caterina Sforza, è prigioniera di Cesare Borgia a Roma. Giovanni appartiene al ramo mediceo dei popolani e un futuro matrimonio tra i due ragazzi sancirebbe il ricongiungimento dei due rami della casata: Maria e Giovanni effettivamente si sposano nel 1516.
Il cospicuo epistolario di Giovanni dalle Bande Nere ci restituisce l’immagine di un uomo audace ma anche piuttosto intemperante, tanto presente e indubbiamente fondamentale per il mantenimento dello spirito di corpo sui campi di battaglia, quanto assente nella gestione dei delicati rapporti diplomatici e nelle questioni finanziarie che coinvolgono la famiglia.
Maria scrive al marito e lo informa, ma raramente riceve risposta: “io non havevo a chi commettere una faccenda et qui non capita più persona: et dalla V.S. non ho mai hauto risposta alcuna […]”, gli scrive in una lettera datata al 10 gennaio del 1521. Fin da giovane Giovanni si distingue per il suo carattere impulsivo e focoso: una delle sue tante amanti, una tale Donna Paola evidentemente da lui abbandonata, gli scrive in una lettera dell’agosto del 1526, “Hor si conoscerà quanto V.S. duri in un’affittione!”.
Maria ha in mano la situazione della sua famiglia e ci appare una donna ferma, capace di assumere ruoli decisivi in più di una occasione. Probabilmente è grazie anche a una sua minuta di supplica, del 5 dicembre 1523, se l’anno successivo il nuovo papa Clemente VII estingue i debiti di Giovanni a patto che egli, momentaneamente ingaggiato dagli imperiali, passi con i Francesi. Anche quando nel 1527 è costretta ad allontanarsi da Firenze e a vivere esule, con il piccolo Cosimo a Venezia, riesce ad amministrare il patrimonio a disposizione sua e del figlio e “a portare avanti – come spiega Bruce Edelstein – la produzione agricola e tessile della tenuta [della villa medicea di Castello N.d.R.] unico vero bene di cui avrebbe potuto disporre Cosimo”.
Maria gestisce tutto e nel frattempo impiega ogni sua energia in quello che comprende essere il compito fondamentale: l’educazione del figlio Cosimo. Non si tratta solo di istinto materno ma, più probabilmente, Maria coglie l’importanza storica del ruolo che dovrà ricoprire suo figlio.
Uno degli esempi più eclatanti della sua consapevolezza politica e della sua lungimiranza si trova nelle lettere che scambia con Pietro l’Aretino dopo la morte del marito Giovanni avvenuta nel 1526 combattendo contro i Lanzichenecchi. In una di queste missive Maria, infatti, afferma: “Sono certa che la morte sua, sì immatura ed inopinata vi duole; et se la duole a voi, che a me ella passa l’anima et il core; et fammi tanto male, che io non credo vi sia al mondo bene che lo pareggi. […] Non vi sia dunque grave per amor mio entrare in questa impresa […] et a me basta che descriviate solo ciò che havete tocco con mano de sua invitta eccellentia. Però, se mai pensate farmi cosa grata, descrivete in qualunque modo vi pare li quattordici anni che Sua Signoria ha sì francamente combattuto et li altri quattordici farò notare io, cominciando dalle fasce, da chi lo ha allevato, et visto segni in lui che pronosticavano lo invitto et magno animo suo.”

Maria è consapevole di quanto sia importate tramandare le gesta e le imprese perché queste siano conosciute e ne sia riconosciuto il valore. È ancora giovane quando rimane vedova, ha solo 27 anni, preferisce non risposarsi, anche se le sue famiglie di origine, Medici e Salviati, avrebbero preferito lo facesse. Non vuole perdere suo figlio Cosimo, che in caso di nuovo matrimonio avrebbe dovuto lasciare, e in questa sua scelta consapevole è determinata e irremovibile.

Ora è una vedova e le uniche immagini che ci rimangono di lei, in due quadri di Pontormo, ci trasmettono la dimensione di austerità in cui si chiude dopo la morte del marito. Mai come ora tutti i suoi sforzi sono proiettati verso la legittimazione del ruolo che il figlio Cosimo deve ricoprire: quello di vero erede della stirpe medicea. Cosimo riceve un’educazione non solo militare ma anche letteraria; la madre provvede a farlo viaggiare (lo invia, per esempio all’incoronazione di Carlo V a Bologna nel 1530) e lascia che soggiorni presso le corti straniere, anche per sottolineare agli occhi dei Signori e dei Principi come nel figlio sia racchiusa la risoluzione dei problemi dinastici della famiglia Medici.
Effettivamente nel 1537, quando il duca di Firenze Alessandro de’ Medici, la cui carica è piuttosto controversa per la sua ambigua condizione di erede illegittimo della famiglia, viene assassinato, è il diciassettenne Cosimo a essere nominato ufficialmente secondo Duca di Firenze e, tempo dopo, primo Granduca di Toscana. È lui a dare vita a un dominio che si estinguerà solo con l’estinguersi della dinastia.
Maria vede così compiersi il suo destino e il destino della sua famiglia, per le cui sorti tanto ha lottato. Ora può allontanarsi dalla vita pubblica di Firenze, nella villa di Castello dove era cresciuto suo marito Giovanni, e, nonostante le cattive condizioni di salute, dedicarsi alla cura e all’educazione delle/dei nipoti: Bia, che definisce “il sollazzo della corte”, la figlia naturale di Cosimo, poi Maria, la prima nata dal matrimonio di Cosimo con Eleonora di Toledo, Francesco, l’erede del potere mediceo, Isabella, la figlia prediletta del Duca, infine Giovanni, nato poco tempo prima della morte della nonna. 
Si spegne il 29 dicembre 1543 annientata dalla sifilide, la malattia che le era stata trasmessa dal marito e che l’aveva accompagnata per molto tempo della vita fino a intensificarsi terribilmente negli ultimi tre anni della sua esistenza. Il figlio Cosimo, avvertito all’ultimo momento dell’aggravarsi della madre, non fa in tempo a recarsi al suo capezzale per l’ultimo saluto. La salma viene trasportata a Firenze e sepolta nella tomba di famiglia nella chiesa di San Lorenzo a Firenze.

Quattro giorni dopo la morte, il ricordo di Maria fu rinnovato da un’orazione funebre pubblica declamata da Benedetto Varchi nell’Accademia fiorentina. Era questo un onore raramente attribuito alle donne e infatti Maria fu la prima donna fiorentina, e la prima appartenente alla casa Medici, a ottenere un simile omaggio. Le fu dedicato anche un testo biografico, composto dal Francesci e pubblicato a Roma nel 1545. La figura di Maria trovò spazio anche nella Storia fiorentina scritta da Benedetto Varchi e voluta da Cosimo I.

 

Fonti:

Benedetto Varchi, Storia fiorentina, Volume V, Milano, 1804
Dizionario biografico cronologico diviso per classi degli uomini illustri di tutti i tempi e di tutte le nazioni compilato dal professore Ambrogio Levati
, vol. III, pp. 118-119, Milano, 1822
Filippo Moisè, Lettere inedite e testamento di Giovanni de’ Medici detto delle bande nere con altre di Maria e di Jacopo Salviati, di principi, cardinali, capitani familiari e soldati, Archivio storico italiano, Firenze, 1858-1859, Documenti consultabili su 
http://www.cortedeirossi.it/letteregbn/

Cesare Marchi, Giovanni dalle Bande Nere, Rizzoli editore, 1981.

Carlo Capra, Storia moderna (1492-1848), Mondadori Education, 2004.
Bruce L. Edelstein, Eleonora di Toledo e la gestione dei beni familiari: una strategia economica? in
https://www.academia.edu/3728321/_Eleonora_di_Toledo_e_la_gestione_dei_beni_familiari_una_strategia_economica_
Maria Pia Paoli, Di madre in figlio: per una storia dell’educazione alla corte dei Medici , in https://www.academia.edu/4838459/Educazione_Medici_2008_testo_in_Annali_di_Storia_di_Firenze
Caroline P. Murphy, Isabella de’ Medici, Il Saggiatore, 2011.

Marcello Vannucci, Le donne di Casa Medici, Newton Compton editori, 2016.
https://www.jstor.org/stable/24308114?seq=1#page_scan_tab_contents

http://www.danielacavini.eu/maria-una-vita-per-cosimo/

http://www.treccani.it/enciclopedia/maria-salviati/

http://bia.medici.org/DocSources/Home.do
www.polomuseale.firenze.it/areastampa/files/.../Relazione%20FornaciariOK.pdf  

 
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Grazia Sanna Serra

(Iglesias (CI), 1915- 2000)

 

In occasione della mostra del 2016, il comune di Iglesias le ha intitolato la piazza del castello Salvaterra.

 

Una scrittrice sarda da riscoprire

 

di Laura Candiani

 

In Sardegna un'altra scrittrice di nome “Grassiedda”, oltre alla ben più nota Deledda, meriterebbe di essere ricordata: si tratta di Grazia Sanna, i cui libri tuttavia non sono usciti dall'ambito locale e attendono da molto tempo di essere ristampati e diffusi.

In vita sono comparsi tre romanzi, mentre di un quarto ci rimangono la trama e gli appunti indirizzati a uno sconosciuto “Giovanni” a cui confida le sue perplessità sui luoghi, le vicende e le tematiche trattate. Anche alcune poesie sono state ritrovate dalla figlia Maria Carmen, insieme ad un carteggio, il cui studio è stato affrontato da un'altra donna importante in questa vicenda: Laura Aru Pintus, curatrice di una bella mostra a Iglesias, in occasione della prima Fiera del Libro (22-25 aprile 2016). Dieci anni prima Iglesias l'aveva celebrata con un convegno nell'Archivio storico comunale dal titolo “La città raccontata da una donna: Iglesias nelle pagine di Grazia Sanna Serra” ; durante l'evento era nata l'idea di un concorso letterario in suo nome, che sembra però non abbia avuto seguito.

Ma veniamo a Grazietta; era figlia di una famiglia di commercianti di idee aperte; a Iglesias vivevano in una dimora storica, Casa Rodriguez, ancora oggi visibile nel centro della cittadina; poi si trasferirono a ridosso delle antiche mura in una villa circondata da piante di agrumi, dove attualmente risiede la figlia. In piena epoca fascista, la sua famiglia non si faceva troppo condizionare dal regime e la lasciava crescere libera di studiare, leggere, ascoltare musica, libera di uscire e persino di indossare il due pezzi in spiaggia, quando ancora era un indumento assai raro, per non dire proibito. Era una ragazza graziosa, dai bei capelli neri, dai lineamenti fini, come mostrano alcune fotografie in età giovanile. Aveva un carattere inquieto tanto che prima studiò presso il liceo musicale a Cagliari, che aveva deciso lei stessa di frequentare per la grande passione verso la musica e il pianoforte, poi lasciò questi studi per iniziare con altrettanta passione quelli di infermiera. Si diplomò e cominciò a lavorare presso la clinica pediatrica del prof. Giuseppe Macciotta a Cagliari. Riguardo alla vita sentimentale, si sa che aveva avuto un amore che però non si concretizzò con il matrimonio; a più di 30 anni conobbe un ufficiale dei carabinieri, Luigi Serra, che sposò nel 1950. Grazia allora smise di lavorare per dedicarsi alla famiglia e due anni dopo nacque la loro unica figlia, Maria Carmen.

Intanto cominciava saltuariamente a mostrarsi qualche sintomo del “male oscuro” che la accompagnò tutta la vita, un “male di vivere”, lo definisce la figlia, che emerse vistosamente una decina di anni dopo e tuttavia fu linfa vitale per le sue opere. Grazia infatti scrive, scrive, con entusiasmo e impegno, “febbrilmente”, come afferma lei stessa. «Togliermi di mano la penna è come togliere di mano il rosario a un santo», confessa nei suoi appunti inediti. Così prende vita il suo primo romanzo Il regno dei Pintadu, ambientato fra Nuoro e la fascia marina presso il golfo di Orosei, dove da bambina soggiornava in estate, ospite della zia; un paradiso perduto davvero perché la finzione ricalca dei fatti realmente accaduti, cioè la triste fine di alcuni terreni di proprietà della sua famiglia sommersi dalle acque della diga del fiume Cedrino. Evento da lei particolarmente sofferto e ricordato sempre con immenso dolore. La pubblicazione del romanzo non fu semplice: aveva contattato l'unico, allora, editore cagliaritano per posta e per telefono, ma era stata ignorata; non si perse d'animo e decise di andare personalmente a incontrarlo. Grazie alla cortesia della moglie, si fece ricevere e gli fece leggere qualche pagina dell'opera; l'editore si convinse immediatamente e lo stampò. Nello stesso anno della pubblicazione (1966) partecipò al Premio Deledda con un secondo romanzo inedito (I sudditi del Dio Rosso) che fu segnalato dalla giuria, ma rimase senza riconoscimento perché il premio non ricevette finanziamenti e fu sospeso. La seconda opera (pubblicata nel 1973) è ambientata nell'Iglesiente, nell'Ottocento, e descrive la comunità locale nelle sue contraddizioni sociali ed economiche. Grazia non disdegna i toni forti e qualche parola e situazione scabrosa, di cui non si scusa affatto con i lettori, anzi, nell'introduzione, afferma di non essere bigotta e di non scrivere né per i bambini né per gli imbecilli. Continuava intanto a dedicarsi anche alla poesia, tanto che alcuni suoi componimenti ricevettero il premio città di Firenze. Partecipò ad un altro concorso con una nuova stesura del secondo romanzo e lei stessa ricordava un aneddoto curioso: il concorso (dedicato alla poetessa Mercede Mundula) in realtà era per racconti e poesie, lei quindi si era sbagliata nel leggere il bando, tuttavia il suo romanzo piacque a tal punto che la giuria “inventò” un nuovo premio, assegnandole la medaglia d'argento.

Nel 1974 due eventi la segnarono profondamente: prima il matrimonio della amata figlia, poi la morte del marito; l'età avanzava e la salute non sempre la sosteneva ma Grazia, avvertendo il senso di vuoto e la solitudine, continuò a dedicarsi alle sue passioni: la lettura, la scrittura, la musica. Nel 1987 uscì la sua terza fatica, un'opera autobiografica (Tutto un mondo all'obiettivo) in cui racconta della sua famiglia, di sé e del suo ambiente; in seguito amava rivedere e rielaborare quanto già realizzato e che a lei, evidentemente, sembrava sempre non concluso.

La quarta opera era rimasta nel cassetto, forse perché non ne era convinta fino in fondo; la vicenda

era ambientata a Cagliari, nella clinica pediatrica in cui aveva lavorato in gioventù; tuttavia, essendo passato parecchio tempo, non era più sicura delle cure e della condizione di malati e medici, ma non voleva commettere errori nel testo. Ci teneva a sottolineare, nella lettera al signor “Giovanni”, che le protagoniste Benedetta e Maria Passione non erano riferibili a lei stessa e la situazione narrata non era autobiografica, anche se incentrata su un mondo che aveva ben conosciuto e amato.

Pur essendo stata apprezzata e stimata, pur avendo ottenuto lusinghieri giudizi e premi di varia natura, Grazia Sanna è rimasta una scrittrice sconosciuta ai più, anche agli stessi Sardi; nel 2016 il secondo romanzo ha avuto una piccola riedizione a uso locale, ed è un vero peccato. Anche le biblioteche pubbliche sono per lo più sfornite delle sue opere, come abbiamo potuto verificare. Probabilmente quando era il momento giusto, Grazia non trovò chi le desse fiducia e la “lanciasse” come meritava nel mercato della carta stampata. Speriamo che qualche editore sensibile e attento decida di riscoprirla.

 

Fonti:

 

Grazia Serra Sanna, Il regno dei Pintadu, Editrice sarda Fossataro, Cagliari, 1966 (con prefazione di Marcello Serra)
Grazia Serra Sanna, I sudditi del Dio Rosso, Edizioni 3t di Gianni Trois e figlio editori, Cagliari,1973

Grazia Sanna Serra, Tutto un mondo all'obiettivo, Ramagrafic editrice, Iglesias,1987

Gianmichele Lisai, Forse non tutti sanno che in Sardegna..., Newton Compton Editori, Roma, 2016

Grazia Sanna Serra, La scrittrice della città dell'argento, www.ladonnasarda.it (15-9-2016)

Una mostra ricorda Grazia Sanna Serra, www.tentazionidellapenna.com (30-4-2016)

La città sulle strade dell'arte, ricordo della scrittrice Grazia Sanna Serra, in “La nuova Sardegna” (22-4-2006)

Fiera del libro: scopriamo Grazia Sanna Serra, enricaena.blogspot.com (24-4-2016)

 

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Filiberta di Savoia

(1498 – Virieu, 1524)

Non risultano intitolazioni di strade e aree pubbliche in sua memoria

È lei la Gioconda?

di Barbara Belotti

I legami parentali intrecciati dai Medici con la famiglia Orsini, attraverso il matrimonio di Lorenzo il Magnifico con Clarice, avevano avuto lo scopo di aprire alla famiglia fiorentina le porte dello Stato della Chiesa per cominciare a tessere trame politiche anche in Vaticano. Si era trattato, inoltre, di un’unione che prometteva appoggi militari da parte degli Orsini, uomini d’arme da avere alleati al proprio fianco nei giochi dello scacchiere politico italiano. Su queste basi si era celebrato un secondo matrimonio, quello fra Piero, figlio di Lorenzo e Clarice, e Alfonsina Orsini.
Logico che a queste strategie, tutte interne alla politica italiana, si cercasse di affiancare un progetto dinastico di più ampio respiro che introducesse la famiglia Medici nelle grandi corti d’Europa.
Il primo passo fu quello delle nozze fra Filiberta di Savoia e Giuliano de’ Medici, ultimogenito di Lorenzo il Magnifico e Clarice Orsini.
Filiberta (1498 – 1524) è figlia di Filippo II di Savoia e di Claudina di Brosse. Alla nascita riceve il titolo di Marchesa del Gex, un possedimento del ducato di Savoia, al quale aggiunge in seguito quello di Signora di Fossano, Malaval, Bridiers, Thors, Fletz, Chasey, Poncin e Cerdon.
Quando sposa Giuliano, nel 1515, Filiberta ha 17 anni, lui 36, più del doppio della sua età.
Giuliano ha anche un figlio illegittimo, Ippolito, avuto da una relazione con Pacifica Brandano, una donna conosciuta alla corte di Urbino. La famiglia Medici sta risalendo la china, dopo il periodo di esilio seguito alla cacciata di Piero il Fatuo nel 1494, e l’elezione del fratello Giovanni al soglio pontificio, col nome di Leone X, rinforza le speranze di riaffermare l’antico prestigio.
Filiberta e Giuliano si incontrano in Francia il 1° gennaio 1515 per l’incoronazione di Francesco I: Filiberta è la zia del re, sorella di sua madre Luisa; Giuliano rappresenta il pontefice e sfoggia il titolo di duca di Nemours, concesso proprio da Francesco probabilmente su intercessione papale. Si sposano poco tempo dopo, prima a Parigi e poi, una seconda volta, al rientro a Firenze. La loro vita coniugale è di breve durata: Giuliano, che ha una salute cagionevole, muore nel marzo 1516 lasciando la moglie ancora molto giovane e senza un erede legittimo. Ludovico Ariosto dedica a Filiberta di Savoia la Canzone III: “Anima eletta che nel mondo folle,/ e pien d’orror, sì saggiamente quelle/ candide membra belle/ reggi, che ben l’alto disegno adempi/ del re degli elementi e delle stelle,/ che sì leggiadramente ornar ti volle/ perché ogni donna molle/ e facile a piegar nelli vizi empi,/ potesse aver da te lucidi esempi,/ che fra regal delizie in verde etade/ a questo d’ogni mal secolo infetto/ giunta esser può d’un nodo saldo e stretto/ con somma castità somma beltade:/ delle sante contrade,/ ove si vien per grazia e per virtute,/ il tuo fedel salute/ ti manda, il tuo fedel caro consorte,/ che ti levò di braccio iniqua morte.” Di Filiberta Ariosto celebra l’antico lignaggio e la grandezza del casato dei Savoia, ne canta le virtù morali e la fede religiosa. I versi si concludono con un saluto del marito Giuliano: “A queste fide parole/ a Filiberta mia scriva e rapporti:/ e prieghi per mio amor che si conforti”. Nelle annotazioni conclusive dei testi poetici viene riportato anche che la nobildonna “si diede nondimeno a vita ritirata e religiosa in un monastero da lei edificato”.
Filiberta resta ancora un po’ di tempo a Firenze, poi nel mese di luglio parte verso nord e si ferma nel castello di Carignano, ospite di Bianca Paleologa duchessa di Monferrato, che la accoglie con tutti gli onori. Ci dicono i documenti del tempo che la duchessa volle festeggiare l’arrivo della giovane vedova chiedendo ai suoi castellani di inviarle selvaggina e pescato in gran quantità per preparare raffinate portate per i banchetti. Filiberta ha intenzione di fermarsi per pochi giorni in Piemonte, ma una malattia la colpisce improvvisamente ed è costretta a fermarsi per più tempo.
In seguito i rapporti con la famiglia Medici e i contatti con la corte di Francia, sempre più intensi dopo il trasferimento nel palazzo parigino in cui vive la sorella Luisa di Savoia, permettono a Filiberta di seguire e assecondare le trattative per un altro matrimonio importante, quello fra Lorenzo, figlio di Alfonsina e Piero, e Maddalena de la Tour d'Auvergne.
Anche la vita di Filiberta di Savoia, come quella del marito Giulianbreve: muore a 26 anni in uno dei possedimenti francesi della famiglia Savoia, il castello di Virieu. È il 1524.
Nel libro Le donne di casa Medici Marcello Vannucci scrive: «Bella e saggia, ma su quelle sue qualità estetiche non tutti sono d’accordo. Troppo alta e curva nella persona; un volto dai lineamenti assai poco aggraziati: così ce la descrive qualcuno; altri però affermano il contrario: Filiberta di Savoia è una bella fanciulla». Di lei non rimangono molte immagini eppure recentemente è stata fatta un’ipotesi suggestiva. Nel 1515 Filiberta e Giuliano si trovano a Bologna, ospiti entrambi della famiglia Felicini, nota e potente casata di banchieri. A Bologna c’è anche Francesco I di Francia che ha condotto con sé un personaggio illustre, Leonardo da Vinci. Secondo alcuni storici il pittore, durante il soggiorno bolognese, avrebbe dipinto la “Gioconda” che, ma l’ipotesi è alquanto ardita, andrebbe interpretata come il ritratto di Filiberta duchessa di Nemours. 

Fonti:
Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Roma, 1999
Angelo Fraboni (a cura di), Rime e Satire di Ludovico Ariosto, tomo VIII, Firenze, 1824
https://it.wikipedia.org/wiki/Filiberta_di_Savoia
http://www.palazzo-medici.it/mediateca/it/Scheda_Giuliano_duca_di_Nemours
http://www.treccani.it/enciclopedia/giuliano-de-medici_(Dizionario-Biografico)
https://www.yumpu.com/it/document/view/42670775/filiberta-di-savoia-bresse-carignanoturismoit
http://cronologia.leonardo.it/savoia/sabdonne/donne3.htm
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/05/02/via-galliera-e-le-tracce-di-leonardo/108419/


Caterina Scarpellini

(Foligno, 1808 - 1873)

Nello spazio celeste esiste un cratere del pianeta Venere intitolato a Caterina Scarpellini, una delle maggiori astronome italiane, e c'è una stella cometa da lei segnalata nel 1854 che è rimasta legata al suo nome. Sulla Terra, invece, sia Foligno, che le diede i natali, quanto Roma, sede della sua attività scientifica, sono ancora in forte ritardo nel rendere omaggio al suo intelletto. Il gruppo di Toponomastica femminile ha proposto al Comune di Roma un'intitolazione nell'ex XX municipio, attuale XV.

Omaggiata in cielo, dimenticata in terra
di Saveria Rito
 
"Nelle sere del 2, 3 e 6 [aprile] corrente la Cometa presentava una forte luce al centro del nucleo, il quale era circondato da larga nebulosità che ripiegandosi indietro formava la coda": così si apriva su Corrispondenza scientifica del 1854, l'articolo sull'avvistamento di una nuova stella già osservata da altri a Senftenberg, Londra e Parigi pochi giorni prima e "ravvisata il primo di aprile dalla sig. Caterina Scarpellini all'Osservatorio Astronomico della Romana Università sul Campidoglio". Quella stella, classificata come C/1854 F1, fu uno dei più importanti fenomeni astronomici documentati da Caterina Scarpellini.
Nata a Foligno il 29 ottobre 1808, si trasferì a Roma diciottenne per completare la formazione e fare da assistente allo zio Feliciano Scarpellini, nominato nel 1826 responsabile dell'Osservatorio astronomico sul Campidoglio. In quell'ambiente conobbe Erasmo Fabri, anche lui astronomo, che divenne suo marito e, caso eccezionale, aggiunse al suo cognome quello della moglie. La coppia continuò a lavorare nella sede capitolina anche sotto la guida di Ignazio Calandrelli e fondò nel 1847 la rivista "La Corrispondenza scientifica di Roma. Bullettino universale", che aveva come fine  "la propaganda della contemporaneità scientifica" e il coordinamento di istituti di ricerca degli stati italiani pre-unitari ed esteri (in modo particolare riceveva aggiornamenti dalle accademie francesi e inglesi). È su questa rivista che Caterina Scarpellini pubblicò la maggior parte dei suoi articoli: potremmo citare a mo' di esempio quelli sull'osservazione di un'altra grande cometa nel giugno 1861 e sul passaggio di Mercurio davanti al Sole nel novembre dello stesso anno, sull'eclissi totale di luna del giugno 1863, sugli sciami di stelle cadenti, ma anche su terremoti e piogge di sabbia verificatisi a Roma negli anni sessanta dell'Ottocento, che sono sicuramente tra i suoi scritti più celebri. La rivista destò anche qualche sospetto politico, che va inquadrato nel clima di un'Italia risorgimentale ancora divisa, e sul tormentato rapporto tra scienza e potere, qualche tempo dopo, Caterina Scarpellini avrebbe scritto nell'incipit della biografia di Ignazio Calandrelli:
"Una lotta perfidiosa e indomabile tra la scienza e la ignoranza, fra la sapienza e l’astuzia fu e sarà sempre perpetua in questa valle di lagrime. - Ma la sapienza, forte di luce della ragione interminabile e della coscienza del ben fare, non soccomberà giammai alle insidie della insipienza e del dispotismo, che puntellandosi a vicenda altro non sono che l’origine maledetta dei mali degli uomini”.
Nel 1856, inoltre, ebbe l'idea di istituire una stazione ozonometrica e meteorologica privata presso l'osservatorio del Campidoglio, cui seguì la pubblicazione di un "Bullettino delle osservazioni ozonometriche-meteorologiche" per divulgare i dati da lei raccolti quotidianamente, e si occupò anche di rilevazioni idrometriche e idrotermiche del fiume Tevere. Le misurazioni del livello di ozono a Roma la portarono a teorizzare, col chimico Paolo Peretti, una relazione tra l’aumento di tale gas nell'aria e la diminuzione della diffusione del colera in città nel 1867.
Per il suo alto contributo scientifico, l'astronoma Scarpellini ricevette la medaglia d'oro del Regno d'Italia nel 1872, venne accolta nell'Accademia dei Georgofili di Firenze e in quella dei Quiriti di Roma e ottenne numerosi riconoscimenti anche all'estero.
Morì a Foligno il 28 novembre 1873.

Fonti:
Caterina Scarpellini  in Dizionario biografico delle scienziate italiane (secoli 18. -20.). Volume 2: Matematiche, astronome, naturaliste, a cura di Sandra Linguerri, Bologna, Pendragon, 2012, pp. 184-187.
Elisabetta Mattei, Caterina Scarpellini, una cometa sul Tevere, in Roma. Percorsi di genere femminile, Volume 1, a cura di Maria Pia Ercolini, Pavona di Albano, Iacobelli, 2011, pp. 134-135.
Simonetta Schirru, Scarpellini Caterina in Donne del giornalismo italiano, a cura di Laura Pisano, Milano, Franco Angeli,  2009, p. 338.
La Corrispondenza scientifica di Roma. Bullettino universale, a. 1854, numeri 10-11, pp. 84-85.

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Teresa Schemmari

(Noto (SR), 1952 - 1997)

Dopo la morte le è stato intitolato il Centro Giovanile con Servizio Informagiovani da lei ideato per il Comune di Noto. Il 21 febbraio 2016 è stata intitolata a Teresa Schemmari una pianta di jacaranda del “Giardino delle Giuste e dei Giusti” dell’Istituto “Matteo Raeli”; nel maggio dello stesso anno le è stato intitolato l’asilo-nido comunale.

Una vita tra amore, antropos e agorà

di Elinpaola Murè

Teresa Schemmari è nata a Noto il 15 aprile 1952. Bambina bella, intelligente e molto vivace è la terzogenita di Carlo, medico odontoiatra, e di Lucia Basile. All’età di 5 anni una caduta evidenzia una malattia congenita (ilmorbo di Albright), una forma di osteoporosi pseudocistica che determina la frattura delle ossa, anche senza una caduta vera e propria. La fanciullezza trascorre tra gessi, interventi ortopedici e carrozzelle.

A 7 anni frequenta con la sorella minore Maria la scuola elementare ma, a seguito delle continue fratture, Teresa è costretta a rimanere in casa, continuando gli studi da autodidatta. La sua disabilità fisica non l’ha mai ostacolata nell’affrontare intrepidamente la vita.

Anni dopo, nell’anno accademico 1982-1983 consegue la Laurea in Filosofia presso l’Università di Catania con 110 e lode discutendo una tesi incentrata sulla Logique di Alphonse Gratry (1805-1872), un epistemologo francese convertitosi al cattolicesimo e studioso di scienze matematiche e logiche. Il prof. Antonio Brancaforte, suo relatore, le chiede di fargli da assistente nelle lezioni di Antropologia culturale presso la Scuola di Servizio Sociale “Santa Caterina da Siena” di Noto.

Questa esperienza le permette di appassionarsi all’Antropologia culturale e di approfondire lo studio della realtà sociale di Noto, con il misterioso mondo dei Caminanti, stabilmente presenti dal 1952.

Proprio con una ricerca su “Caminanti nomadi di Sicilia” Teresa consegue la seconda laurea in Sociologia presso l’Università di Urbino con 110 e lode e la proposta di pubblicazione della tesi.

Gli studi universitari, unitamente al cammino di fede intrapreso con i Neocatecumenali, fanno evolvere la sua nascente religiosità in fede. Da antropologa sostenuta dalla fede riesce ad andare oltre, fino a vivere l’incontro con realtà diverse come quella dei Caminanti di Noto.

Indagando a fondo sulla loro organizzazione sociale e lavorativa, sui matrimoni, sul significato della morte, sull’origine e sulla denominazione della loro lingua, la ricerca non si è limitata alla semplice osservazione, ma è stata un vero e proprio ingresso nel tessuto culturale di questa etnia. Il lavoro antropologico di Teresa lancia la sfida di rispettare la radicale alterità dell’altro cogliendone le ricchezze.

Nel 1995 entra a far parte del Centro UNESCO di Catania e forma a Noto una sezione e nello stesso anno riceve dal Sindaco di Noto l’incarico di Dirigente del settore della Solidarietà Sociale e del Servizio Scuola. Si apre per lei la possibilità di vivere, con le parole della filosofa Hannah Arendt, “accanto alla sua vita privata una sorta di seconda vita, il suo biòs politikòs”.

Teresa innova radicalmente il settore dei Servizi Sociali impostando il futuro Centro Giovanile con il Servizio Informagiovani, volto ad assicurare assistenza e guida alle giovani generazioni desiderose di avviare nuove attività lavorative con gestione imprenditoriale. Nel marzo del 1996 ha pubblicato Puisìa, una silloge di versi in dialetto netino e in italiano.

Teresa ha vissuto intensamente il reale facendo le cose ordinarie, le più ordinarie, in modo straordinario.

Durante l’anno scolastico 2013-2014, l’Istituto d’Istruzione Superiore “Matteo Raeli” di Noto ha partecipato al Concorso nazionale “Sulle vie della parità” indetto da Toponomastica Femminile presentando un lavoro dal titolo Teresa Schemmari tra Amore, Antropos e Agorà e vincendo il primo premio per la sezione digitale. L’anno scolastico successivo il progetto è stato completato attraverso l’allestimento di una mostra Per raccontare Teresa: corpi, luoghi, immagini, (articolata in tre sezioni: fotografia- installazione e pittura- video, realizzate dai ragazzi degli indirizzi Artistico, LES e Scientifico) e l’organizzazione di un Convegno, dopo il quale è stata apposta, presso l’abitazione di Teresa, una targa commemorativa in ricordo del suo impegno culturale, politico e sociale nella storia di Noto.

 

 

Pubblicazioni di Teresa Schemmari

 

Ceramica popolare, in La ceramica moderna, Faenza dicembre 1983.

Il ruolo delle donne per una società più giusta, in La vita diocesana, Noto 26/4/1987.

Essere donna oggi, in Corriere Elorino, Rosolini 1>15/4/1987.

Corrado Curcio, Netum, Noto dicembre 1981.

Noto accanto ai piccoli e agli anziani, in La vita diocesana, Noto 19/1/1986.

Natale con gli anziani, inLa vita diocesana, Noto 27/1/1985.

Artigianato femminile da riscoprire, in La vita diocesana, Noto 11/10/1987.

Pierantonio Tasca: il piccolo Bellini, in La vita diocesana, Noto 20/5/1984.

Anna Marziano, in La vita diocesana, Noto 25/11/1984.

Religione e Società, in La vita diocesana, Noto 26/7/1985.

Ho trovato il senso della croce, in La vita diocesana, Noto 31/7/1988.

Ma tu sei per l’handicap? in La vita diocesana, Noto 10/9/1989.

Chi sono e da dove vengo, in La vita diocesana, Noto 8/1/1989.

Il cambiamento dei servizi e dei valori per assicurare il diritto alla diversità, in Asteroid, Augusta marzo 1992.

Il soggetto con Handicap supera i disagi solo se la società comprende i suoi valori, Diari doc, Siracusa 21/3/1992.

La politica è anche "donna", Diario doc, Siracusa 29/2/1992.

Il mondo dei Caminanti, Zingari oggi, Torino aprile 1993.

Esperienza Estiva per i Caminanti, Zingari oggi, Torino dicembre 1992.

I Caminanti di Noto, Zingari oggi, Torino febbraio 1993.

Quando la storia diventa eternità, in La vita diocesana, Noto 3/3/1991.

Per meglio sapere come vivono i Caminanti bisogna partecipare attivamente alle loro usanze, Diario doc, Siracusa 7/2/1992.

Chi sono e da dove vengono i Caminanti che rifiutano l'appellativo di zanni, Diario doc, Siracusa 22/2/1992.

I Caminanti: realtà ed immagine, in Alveria, Noto 25/12/1989.

Dei seminomadi a Noto: problema sociale ma soprattutto etico ed antropologico, in Elorino n. 3, Rosolini 1>15/2/1990.

I Caminanti: aspetti di una cultura, Conferenza del 17/11/1990, Noto, in Lacio Drom n. 2 Roma 1991.

I Caminanti che si fermano a Noto, in La città, Noto gennaio 1991.

I Caminanti: aspetti di una cultura, in Corriere Elorino, Rosolini 1>15/2/1991.

Caminanti Siciliani, in Setteppì, Noto 19/5/1991.

Il popolo fantasma, in Cronache parlamentari siciliane, Palermo luglio 1991.

Analfabeti d'antica cultura, in La Sicilia, Catania 23/7/1991.

Caminanti Siciliani, in Zingari Oggi n. 4, Torino agosto>ottobre 1991.

Sicilia senza tempo, in Espresso Sera, Catania 12-13/12/1991.

Il popolo nomade nella nostra Noto, in La vita diocesana, Noto 3/1/1991.

Esseri, in AA.VV., Caleidoscopio, Gugnali, Rosolini 1992.

Vindicari, di G.L. Danzuso e G. Gambino, Sanfilippo, Catania 1991(collaborazione).

I Caminanti. Nomadi di Sicilia, Firenze Atheneum, Fi 1992 (saggio), Premio Medaglia d'oro  "I migliori dell'anno 1992", "Scena Illustrata" e 2° premio “Calabria '79", 1993.

Puisìa, Pungitopo, 1996.

 
Fonti

Antonio Brancaforte, Teresa Schemmari. Fides et Ratio: una sintesi felice, in Testimoni di vita cristiana del XX secolo nella chiesa di Noto, La Vita diocesana, Diocesi di Noto, gennaio 2001.

Francesca Gringieri Pantano, Teresa Schemmari in Le Siciliane, Emanuele Romeo Editore, marzo 2006.

Atti della Mostra-Convegno-Intitolazione Teresa Schemmari tra Amore, Antropos e Agorà, Istituto di Istruzione superiore “Matteo Raeli”- Noto, 2015.

 

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Maria Antonia Serra Sanna

(Nuoro, 1866 - Luogo e data di morte sconosciuti)

Non risulta alcuna intitolazione

"Sa Reina" nuorese

di Laura Candiani

A fine Ottocento il Nuorese era percorso da briganti i cui nomi evocavano puro terrore: Antonio Mulas, Giuseppe Pau, Tomaso Virdis,Vincenzo Fancello, Paolo Solinas e i temibili Serra Sanna: Giacomo, Elias e la sorella Mariantonia, detta “sa Reina”(la regina). Questi banditi, a capo di centinaia di uomini, spesso emanavano veri e propri “bandi” a cui la popolazione doveva sottostare se non voleva incorrere in punizioni tremende ed esemplari.
Nel 1899 il capitano Giuseppe Petella e il tenente Giulio Bechi si misero accanitamente sulle loro tracce, in una “caccia grossa” come quelle che si facevano ai cinghiali; il presidente del Consiglio dell'epoca Luigi Pelloux inviò in Sardegna truppe allo scopo di annientare definitivamente la piaga del brigantaggio e nei primi mesi della “caccia alcuni risultati cominciano a vedersi” con l'arresto di numerosi latitanti.

Si sa che dietro le azioni di Elias e Giacomo, fratelli amatissimi, c'era Mariantonia, la mente organizzatrice di furti, omicidi, vendette. Nella fama popolare, tramandata anche da Grazia Deledda, viene descritta molto bella, alta e robusta, dai lineamenti fini, pallida, con due grandi occhi neri e due sopracciglia folte, spietata e diabolica. Quando incedeva per le vie con il ricchissimo costume tradizionale, accompagnata dalle serve, incuteva rispetto e timore e qualcuno si inchinava come fosse una vera regina.
La famiglia aveva fatto fortuna: il padre Giuseppe detto Peppeddu, noto con il soprannome “Carta”, era stato un pastore poi diventato possidente con case, vasti terreni, animali. Il patrimonio era gestito da Mariantonia che usava metodi infallibili per incrementarlo: visitando amici e conoscenti chiedeva gentilmente a nome dei fratelli piccoli favori e doni concreti (armi, munizioni, soldi, bovini e ovini) che naturalmente non potevano essere rifiutati; lei poi rilasciava regolare ricevuta. Fra il 1897 e il '99 le visite di cortesia furono particolarmente frequenti e spesso “sa Reina” si faceva accompagnare da una amica bella, istruita e ambiziosa: Giuseppa (Peppa) Lunesu. Si racconta che si fosse innamorata di un bandito piuttosto insignificante ma che per lei avesse perso la testa un carabiniere, trasferito in breve tempo nel continente per non portare disonore all'esercito regio.

Ufficialmente Mariantonia conduceva una vita regolare, non si era data alla macchia come i fratelli proprio per avere libertà di azione e poterli supportare nella latitanza; si racconta che indossasse talvolta abiti maschili per raggiungerli a cavallo nei luoghi impervi del Supramonte dove si nascondevano. Una sola volta era stata arrestata ed era rimasta in carcere alcuni mesi, nel 1895; poi l'accusatore, terrorizzato dalle possibili conseguenze, aveva ritrattato e lei era stata rilasciata.

Nel 1899 la lotta al banditismo venne animata da vero furore: il prefetto di Sassari, il conte Giovanni Battista Nepomuceno Cassis, voleva arrestare tutti i latitanti (ma solo a Nuoro se ne contavano circa 200) e procedeva con metodi ritenuti anche all'epoca discutibili e soprattutto inefficaci. Per ritorsione e come minaccia arrestava i parenti dei ricercati, ritenuti sempre dei fiancheggiatori; le fonti informano che addirittura sul quotidiano “La nuova Sardegna” fu inserita una apposita rubrica dal titolo significativo:” Testa di Cassis”.
Si arriva ad un momento chiave: la notte fra il 14 e il 15 maggio 1899 passò alla storia come la “notte di san Bartolomeo” sarda perché portò a circa 600 arresti, proseguiti anche nei giorni successivi; tuttavia almeno la metà degli imputati furono subito messi in libertà, gran parte dei rimanenti furono prosciolti per mancanza di prove. Mariantonia, che allora aveva 33 anni, e il padre vennero catturati nella loro abitazione e portati via fra lo stupore generale.
Poco tempo dopo l'azione si spostò nelle campagne e sui monti. A Morgogliai, a circa 30 km. da Orgosolo, fra il 9 e il 10 luglio avvenne uno scontro epico in cui persero la vita sia Giacomo, di 34 anni, sia Elias che di anni ne aveva 27. Per loro si mobilitarono forze ingenti, più di 200 fra carabinieri e soldati guidati dal capitano Petella e dal brigadiere Cau.

Mariantonia seppe in carcere della morte dei fratelli e si chiuse nel suo immenso dolore. Fu condannata a 20 anni, la pena più dura fra tutte quelle comminate agli arrestati di maggio (rimasti circa 150), e ne scontò 18 nella cupa prigione la “Rotonda” di Nuoro (oggi abbattuta).
Si sa che al suo rilascio, ormai cinquantenne, si sposò con un uomo di Orgosolo, fratello di una compagna di cella, e vissero insieme per un certo periodo a Nuoro. Poi anche i familiari ne persero le tracce e non ne seppero più nulla.

 

Fonti

 

Giulio Bechi, Caccia grossa: scene e figure del banditismo sardo, Ilisso, Nuoro, 1997

Brigaglia, Mastino, Ortu, Storia della Sardegna, Laterza, Bari, 2006

Grazia Deledda, Cosima, Mondadori, Milano,1998

Franco Fresi, Le banditesse. Storie di donne fuorilegge in Sardegna, Il Maestrale, Nuoro, 2015

Giovanni Ricci, Sardegna criminale, Newton Compton editore, Roma, 2007

www.ladonnasarda.it

www.sandalyon.eu
www.rivistadonna.com

www.webalice.it

 

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Caterina Sforza

(Milano, 1463 – Firenze, 1509)

L’odonomastica italiana ricorda Caterina Sforza con una piazza a Roma e con vie nei centri di Forlì, Forlimpopoli, Imola e San Mauro Pascoli.

La virtù meravigliosa di trovare tempo per tutto e tutti
di Barbara Belotti

Ci sono molte figure femminile nei primi anni della vita di Caterina Sforza.
Prima di tutto Lucrezia Landriani, sua madre, che l’ha avuta da una relazione con Galeazzo Maria Sforza; poi la nonna Bianca Maria Visconti che si prende cura di lei, la segue amorevolmente e la educa ai doveri e agli onori del suo ruolo. Infine Bona di Savoia, la moglie del padre, che la accoglie all’età di cinque anni mostrandosi gentile e amorevole. Con lei resterà un rapporto affettuoso per tutta la vita.
Nonostante sia una figlia illegittima, riceve un’educazione accurata e Caterina si rivela un’allieva interessata, desiderosa di conoscere e comprendere e dotata di grande memoria; studia la lingua latina e conosce i classici, si appassiona alle scienze, soprattutto la botanica e la chimica. Al contrario delle altre ragazze, Caterina subisce il fascino dei combattimenti e delle armi che impara a usare forse ereditando il gusto dal padre e dalla nonna Bianca Maria.
Malgrado Galeazzo sia un uomo dispotico e prepotente, con lei sembra premuroso e attento, alla sua morte Caterina proverà un profondo dolore. Certo, lui la considera una pedina da manovrare per creare alleanze dinastiche favorevoli ai suoi progetti politici, ma questo accade in tutte le famiglie del tempo. Caterina è conscia del suo ruolo e si dimostra, a tempo debito, ubbidiente e decisa nell’accettare il proprio destino; non si dimostrerà, però, passivo strumento nelle mani altrui, anzi saprà essere protagonista di tante vicende storiche e politiche.
Uno dei primi avvenimenti pubblici a cui partecipa è il viaggio a Firenze compiuto nel 1471 insieme al padre Galeazzo e a Bona di Savoia per visitare la famiglia Medici. La corte milanese si muove con gran pompa: carri rivestiti con tessuti d’oro e d’argento, moltissimi cavalli riccamente bardati, 100 uomini armati, 500 fanti, 50 staffieri vestiti di seta e argento, 500 coppie di cani e moltissimi falconi e sparvieri per la caccia; con la famiglia ducale, inoltre, un lungo seguito di aristocratici e cortigiani. Nonostante lo sfarzo mostrato dalla corte milanese, la famiglia Medici sa dare il meglio di sé. Accoglie gli ospiti con il suo tesoro di opere e oggetti preziosi e raffinati, dimostrando uno stile e una cultura che non ha pari; anche la città è coinvolta e sono allestiti tre spettacoli di carattere religioso, ciascuno in una importante chiesa: l'Annunciazione a San Felice in Piazza, l'Ascensione in Santa Maria del Carmine, la Pentecoste in Santo Spirito; per le rappresentazioni delle prime due vengono utilizzate delle macchine (ingegni) il cui progetti sono attribuiti da Vasari a Filippo Brunelleschi. Se ospiti e invitati restano colpiti dall’eleganza di quelle giornate, è probabile che ugualmente la piccola Caterina sia affascinata da quanto visto a Firenze e nella corte medicea; d’altra parte anche lei vive in una corte immersa nel clima umanista, conosce artisti e letterati che frequentano e animano il ducato di Milano. La città e la famiglia toscana, che conosce in questa occasione, torneranno nella sua vita di donna anche se lei, ancora bambina, questo non può ancora saperlo.
Alcuni anni dopo Caterina viene data in sposa a Girolamo Riario, nipote di papa Sisto IV; il contratto di fidanzamento è firmato nel 1473, il matrimonio celebrato per procura a Milano ma solo nel 1477, quando Caterina raggiunge “un’età conveniente”, si unisce al marito.
È giovane e bella. Le vengono attribuiti molti ritratti, ma la critica è più concorde nel rintracciare le sue sembianze nel quadro La dama dei gelsomini di Lorenzo di Credi, dipinto presumibilmente tra il 1485 e il 1490. L’opera raffigura una giovane donna dai capelli biondi con alle spalle un doppio scenario: sulla destra colline e rocce dietro a uno specchio d’acqua, sulla sinistra una costruzione turrita che si specchia in un fiume. La fanciulla ha tra le dita affusolate delle mani alcuni gelsomini, forse da associare agli interessi di Caterina per la botanica, la chimica e i rimedi naturali sia nella cosmesi che in medicina. In un suo recente studio la storica dell’arte Magdalena Soest ha proposto una suggestiva ipotesi sulla base di una certa somiglianza fra questo quadro e i ritratti di Leonardo: La dama dei gelsomini di Lorenzo di Credi raffigurerebbe la contessa Sforza da giovane, mentre la Gioconda leonardesca sarebbe un successivo suo ritratto in età più matura.
In una delle prime biografie su Caterina, Pier Desiderio Pasolini racconta: “Era in lei (scrivono i contemporanei) una virtù meravigliosa per trovare tempo per tutto e per tutti. Nonostante le cure della famiglia, dei figlioli, della corte, della politica, trovava modo di leggere molto, e pare che più che altro leggesse libri storici e divoti”. E ancora: “Caterina è l’ideale della virago cantata dal Boiardo, dall’Ariosto e dai poeti romanzeschi. Caterina è l’ultimo, ma forse il perfetto tipo dell’eroina cavalleresca del medioevo. Essa è grande nella storia non già per aver iniziato tempi nuovi, ma per avervi spiccato come figura antica”.
Una figura degna di vivere tra le pagine dei grandi poemi cavallereschi: come scrive Joyce de Vries nel Caterina Sforza and the art of appearances il termine virago mette in evidenza i tratti duplici del personaggio, quelli femminili e quelli maschili che si alternano nel corso della vita.
Come moglie si mostra figura rispettabile, elegante e colta: commissiona opere, fa realizzare architetture, colleziona oggetti preziosi; a Roma, pur ancora molto giovane, è un personaggio di spicco nella corte di Sisto IV. Raffinata come è, frequenta artisti, letterati, musicisti e si trova al centro della considerazione anche del pontefice; partecipa a cerimonie pubbliche, ricevimenti, visite diplomatiche, nei territori romagnoli contribuisce a trasformare il volto dei centri urbani rafforzando la rocca di Imola, costruendo edifici difensivi, palazzi e ville secondo il gusto elegante del Rinascimento. A Milano, quando torna per mantenere vivi i legami familiari e politici con la famiglia d’origine, ha modo, presumibilmente, di conoscere e seguire i lavori e le ricerche, anche scientifiche, di Leonardo. La passione per le scienze la accompagna lungo tutta la vita e, nonostante i grandi impegni politici e militari che deve affrontare, non abbandona i suoi studi e i suoi interessi riuscendo negli anni a raggiungere un’esperienza e una conoscenza tali da potersi confrontare con medici e scienziati del tempo.
Ben diversa è, invece, l’immagine che ci tramanda la storia al momento della morte di Sisto IV, nell’estate del 1484, quando tumulti popolari e disordini terrorizzano Roma. Le biografie ricordano una Caterina audace e determinata nel raggiungere Castel Sant’Angelo e rivendicare il ruolo di governatore del marito Girolamo; la sua è la difesa estrema del potere che sembra vacillare e, a capo di un contingente di soldati, si dimostra capace di resistere dodici giorni prima di arrendersi.
Gli stessi tratti ardimentosi li mostra alla morte di Girolamo Riario, ucciso in una congiura il 14 aprile 1488: in pochi giorni riesce a passare dalla condizione di prigioniera a signora dei territori di Forlì e Imola. Il 30 dello stesso mese diventa reggente di quest’area della Romagna per conto del figlio Ottaviano, ancora troppo piccolo per poter esercitare il potere, e si trasforma ancora una volta proponendo di sé una doppia immagine, quella di vedova fedele e di reggente determinata. Vendica la morte del marito mettendo in prigione chiunque abbia appoggiato la congiura contro di lui, distrugge le abitazioni delle famiglie contrarie al suo potere e distribuisce i loro beni fra la popolazione povera. Dopo la vendetta Caterina, che ha le terre di Imola e Forlì sotto il suo diretto controllo, può dedicarsi alla politica e al governo non solo stabilendo alleanze strategiche, ma prendendo decisioni per il suo Stato: rivede il sistema fiscale, riduce o elimina alcuni dazi, controlla le spese, si dedica all’approvvigionamento delle truppe militari e al loro addestramento. Per la sicurezza dei suoi territori, situati in una posizione di passaggio obbligato fra il Nord e il Sud Italia, sa che gli apparati militari hanno una funzione strategica, anche se Caterina sceglie di rimanere neutrale in questo periodo di forti tensioni fra il regno di Napoli e il Ducato di Milano.
Terribile e indomabile si dimostra in un’altra occasione, quando nel 1495 viene ucciso in un agguato il secondo marito, Giacomo Feo, sposato con nozze segrete per non perdere la tutela del figlio e il controllo del governo. Le punizioni per chi ha tradito sono feroci, secondo le testimonianze storiche addirittura superiori per durezza alle repressioni per la morte di Riario. Caterina Sforza compie scelte e si attribuisce compiti e impegni più di quanto non sia necessario per un uomo e, scrive ancora Joyce de Vries, il suo volto pubblico sembra gestito da lei in modo tale da contrastare la disapprovazione sociale che accompagna le posizioni di comando di una donna.
La vita di Caterina Sforza ha molte fasi, tutte ugualmente importanti e dense di avvenimenti.
La “terza vita” comincia quando incontra l’ambasciatore della Repubblica di Firenze, Giovanni de’ Medici detto il Popolano, membro di un ramo collaterale della famiglia. Questo terzo matrimonio viene celebrato nel 1497, Caterina ha 34 anni, Giovanni 30, dalla loro unione nasce Ludovico. La loro storia è destinata a durare poco, Giovanni si ammala improvvisamente e a nulla servono le cure e il trasferimento a Santa Maria in Bagno, dove si spera che le acque termali possano avere un effetto benefico. Caterina è al suo capezzale e lo assiste fino alla fine, avvenuta il 14 settembre 1498; dopo la scomparsa decide di mutare in Giovanni il nome del figlio, in memoria del padre.
Sono momenti difficili per la storia d’Italia e Caterina non può far prevalere il suo dolore sul ruolo politico e militare. Prima si scontra con l’esercito di Venezia che attacca Forlì poi, nel 1499, si prepara ad affrontare le truppe di Luigi XII re di Francia: rinforza le rocche, fa scorte di viveri per sopportare l’assedio, addestra i soldati e fa nuove reclute. La minaccia è davvero fortissima, guida l’esercito francese Cesare Borgia che vuole la Romagna tutta per sé.
La più bella, la più audace e fiera, la più gloriosa donna d'Italia, pari se non superiore ai grandi condottieri del suo tempo la definisce Cecilia Brogi nel suo libro su Caterina Sforza; e così la descrivono le cronache del tempo che raccontano come, per molti giorni, riesca a contrastare con successo l’assedio dell’esercito francese, cercando di contrattaccare in ogni modo. Cesare Borgia ha la meglio solo il 12 gennaio 1500, dopo aver bombardato per sei giorni consecutivi la Rocca di Ravaldino. “Magnanima impresa” fu definita da Machiavelli la strenua difesa di Caterina Sforza; e ben le calza l’appellativo di Tygre che le cronache del tempo le assegnano.
Caterina, una volta catturata, fa l’abile mossa di dichiararsi prigioniera delle truppe francesi sapendo che una legge in vigore in Francia non consente alle donne di essere trattate come detenute di guerra. Se Cesare Borgia abbia fatto buon viso a cattivo gioco a questo guizzo di furbizia non è del tutto accertato, di fatto la donna viene presa in consegna dai suoi uomini, trattata come un’ospite ma trasferita a Roma. In un primo momento è condotta in Vaticano e alloggiata nel Palazzo del Belvedere; successivamente, incolpata di aver attentato alla vita di papa Borgia, è rinchiusa nelle prigioni di Castel Sant’Angelo. Anche in questo caso non ci sono fonti storiche unanimi, anche se mi piace pensare che l’irriducibile donna sarebbe stata realmente capace di avvelenare il pontefice pur di riconquistare la libertà e i suoi territori.
Sta di fatto che nella fortezza di Castel Sant’Angelo Caterina rimane per circa un anno, fino all’estate del 1501, liberata grazie all’intervento dell’esercito francese. Riacquistata la libertà è costretta però a firmare un documento di rinuncia a ogni pretesa di governo sui territori di Imola e Forlì.
Non le rimane che la possibilità di lasciare Roma alla volta di Firenze, dove si trovano i suoi figli e l’unica figlia Bianca. Caterina, che ai tempi in cui Giovanni de’ Medici era ambasciatore, aveva ottenuto la cittadinanza fiorentina, va a vivere nei possedimenti del suo ultimo marito, soprattutto nella Villa di Castello.
Comincia un’altra fase della sua esistenza, ancora una volta una fase di lotte. In primo luogo contro il cognato per l’affidamento del figlio più piccolo, Giovanni. Al momento dell’arresto il bambino le era stato sottratto ma, una volta riacquistata la libertà, Caterina sfodera tutta la determinazione di madre e dà battaglia legale, vedendo riconosciuti i suoi diritti. Infatti la sua detenzione non è paragonata a quella di un delitto comune e il giudice, nel 1504, le restituisce il piccolo Giovanni, destinato ad azioni “d’arme e audaci imprese” e a
dare origine alla dinastia granducale della famiglia Medici.
Mentre difende i suoi legami familiari, Caterina lotta anche per riconquistare i territori sottratti da papa Alessandro VI Borgia, scomparso nel 1503. La sua morte significa la perdita del potere per il figlio Cesare e Caterina comincia a immaginare di poter tornare a governare Imola e Forlì; anche il nuovo papa Giulio II non si oppone. È però il popolo a non volere più il governo della contessa Caterina: ora non le rimane altra possibilità che chiudere definitivamente questa fase della sua esistenza.
Si dedica unicamente alla sua famiglia, alle relazioni sociali e alle sue passioni scientifiche, alle ricerche chimiche, a quelle cosmetiche e mediche, alla scoperta di rimedi naturali. Di questi suoi interessi ci resta un libro, Experimenti della excellentissima signora Caterina da Forlì, in cui sono racchiuse 471 ricette. Ecco alcuni di quei rimedi: Aqua a fare la faccia bianchissima et bella et lucente et colorita: piglia chiara de ove et falla distillar in alambicco et con quella aqua lava la faccia che è perfectissiina a far bella et leva tutti li segni et cicatrici; […]
A guarir le mano crepate: piglia succo de ortiga et un poco de sale et nzestica insieme bene et ognete le mano dove sonno crepate; […] A fare aqua de oclmi perfectissimna: piglia aqua vida (acquavite) aqua rosada aqua de imuta aqua de finochi zucaro fino et mestica omnni cosa insieme etpoi mmzetti una goccia ne lo occhio; […]  A far li denti bianchi: piglio un maruio bianco, corallo bianco, osso di seppia, salgetnnma, incenso et mastice. Polverizza bene et metti detta polvere in un sacchetto di tela piccolo, frega i denti poi lava con buon vino et poi frega coli una pezza di panno scarlatto; A fare odorare la bocca et el fiato: piglio scorsa de cedro, noce moscata, garofoni et salvia. Fa polvere, incorpora con vino et fanne pallottole et pigliane prima ti el cibo et de poi del cibo […] A far venir capelli de color castagnaccio se prima fossero bianchi: piglio mela cruda et fanne aqua con alambicco de vetro a fuoco lento et bagna 4 o5 volte la settimana et veniranno eccellenti.
Nonostante gli interessi per il mondo medico-scientifico, nulla può la sua esperienza contro una forte polmonite che la uccide nella primavera del 1509.

Fonti
Pier Desiderio Pasolini, Caterina Sforza, Roma, 1893
Cecilia Brogi, Caterina Sforza, Arezzo, Alberti & C.Editori, 1996
Natale Graziani, Gabriella Venturelli, Caterina Sforza, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001
Joyce de Vries, Caterina Sforza and the art of appearances, New York, 2010
Marcello Vannucci, I Medici, una famiglia al potere, Newton Compton editori, 2015
Marcello Vannucci, Le donne di Casa Medici, Newton Compton editori, 2016
http://bia.medici.org/DocSources/Home.do
http://francescasandri.altervista.org/universita/arte/progetto.html
https://it.wikipedia.org/wiki/Caterina_Sforza
http://www.palazzomedici.it/mediateca/it/Scheda_1471__Visita_di_Galeazzo_Maria_Sforza_e_di_Bona_di_Savoia&id_cronologia_contenuto=2

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Nerina Maria Simi

(Firenze, 1890 - Firenze, 1987)

Nel  luglio del 2014 il comune di Stazzema ha intitolato a Nera Simi una piazza – belvedere, omaggio ad una pittrice che ha contribuito, con la sua arte e la sua presenza, ad arricchire il valore artistico del paese dell’Alta Versilia.

La migliore allieva
di Barbara Belotti
 
Chissà quante volte Nera Simi avrà contemplato lo scenario montano che oggi è possibile guardare dal belvedere che le è stato dedicato. Stazzema era per lei, e per tutta la sua famiglia, un luogo del cuore, un buen retiro dove trascorrere i giorni d’estate; ma anche un mondo dove lavorare e accogliere le allieve e gli allievi giunti da tutto il mondo per seguire i suoi corsi di pittura e di disegno.
La vita di Nera Simi è l’arte e l’arte è la sua vita.
Nata a Firenze nel 1890, si dedica allo studio della pittura seguendo le orme del padre, l’artista Filadelfo Simi, che l’accompagna e la segue fin dall’inizio. È una sua allieva, la sua “migliore”allieva.
Dopo gli studi nell’Accademia di Belle Arti di Firenze e il diploma conseguito nel 1914, ottiene anche l’abilitazione alla docenza e comincia ad insegnare  nell'Istituto delle Montalve "Alla Quiete" di Firenze, dove resterà fino al momento di andare in pensione.
Partecipa alle prime mostre insieme al padre e al fratello Renzo, esponendo nel 1917 a Firenze e l’anno seguente a Forte dei Marmi, accanto ad artisti di fama.
La sua esperienza artistica prosegue nel solco della tradizione che eredita da Filadelfo, lontana dalle sperimentazioni delle Avanguardie, ma anche dai trionfalismi dell’arte di regime; la sua ricerca pittorica conserva la pastosità delle pennellate, i morbidi accordi cromatici e la sensibilità luministica della pittura tardo ottocentesca. Privilegia i paesaggi e i ritratti, temi che mettono in risalto le caratteristiche del suo naturalismo e la freschezza della sua pittura.
Nei disegni e negli studi preparatori, realizzati con pastelli, matite colorate o carboncini, i tratti, necessariamente veloci e sommari, nulla tolgono alla resa comunicativa, segno inequivocabile di una tecnica artistica consapevole e salda.
Su questi presupposti si basa, dopo la morte del padre avvenuta nel 1923, la sua attività di insegnante di disegno e di pittura nella Scuola Internazionale di Via dei Tintori (oggi via Tripoli) a Firenze. L’istituto, fondato e diretto fino al momento della morte da Filadelfo, ha accolto giovani pittori e pittrici da tutto il mondo: ora è Nera ad occuparsene e a seguire anche i corsi nell’Istituto di Stazzema che diventa, in quegli anni, un vero e proprio cenacolo artistico internazionale.
La carriera espositiva di Nerina prosegue negli anni: nel 1927 partecipa alla 80° Esposizione Internazionale di Palazzo Pitti  e nel 1933 alla Mostra Interregionale Sindacale. Purtroppo, destino comune a molte artiste, le sue opere non sono identificate e la ricostruzione del suo percorso risulta, per questo motivo, meno lineare.
Il legame affettivo e professionale con il padre è un altro dei tratti caratteristici dell’esistenza di Nera. Anche a distanza di tanti anni, lei sente che deve rimanere fedele all’eredità culturale e professionale lasciatele. Collabora quindi, nel 1958, all'allestimento della mostra retrospettiva in onore di Filadelfo organizzata a Palazzo Strozzi dal Comune di Firenze; diversi anni dopo, nel 1985, un’altra grande mostra retrospettiva nella Villa Medicea di Seravezza la vede impegnata nel mantenere vivo il ricordo del padre.
Muore due anni dopo, nel 1987. Riposa nel cimitero di San Miniato accanto alle spoglie dei genitori.

Fonti:
Alba Tiberto Beluffi, Filadelfo Simi, un uomo, un artista, Pisa, Pacini ed., 1996
Alba Tiberto Beluffi, Nera Simi, Catalogo della mostra, Pietrasanta, Tipografia Dini, 2009
http://www.dols.it/2014/07/13/stazzema-belvedere-sulla-versilia/
http://www.lagazzettadiviareggio.it/alta-versilia/2014/07/dal-12-luglio-due-mostre-per-ricordare-nerina-simi-e-la-sua-scuola/
http://www.filadelfosimi.it/biografia/nera_simi.htm
http://www.filadelfosimi.it/opere/archivio_beluffi/nera_simi/anni_trenta.htm
http://www.prolocoseravezza.it/?p=3777
http://www.anneshingleton.com/ita/mostre-attuali.htm

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Sara Sismondi Forti

(Ginevra 1776 - Pescia 1835)

Né di Sara né di sua madre Henriette - appartenenti a un’illustre famiglia di origine pisana, legate in vario modo a uomini celebri, autrici di diari e di un’infinità di lettere - si hanno tracce nella toponomastica di Pescia e dintorni (prov. di Pistoia). Il loro prezioso patrimonio cartaceo è custodito presso l’Archivio di Stato di Pescia, all’interno del vasto fondo della famiglia Sismondi. A Francesco Forti (1806/1838- giornalista, giurista, magistrato, figlio di Sara) è dedicato l’Istituto Tecnico Commerciale di Monsummano Terme.

Henriette e Sérine, da Ginevra a Pescia, nell'Europa di fine Settecento
di Laura Candiani
 
Sara (detta Sérine) Simonde de Sismondi1  è un personaggio assai interessante per svariati motivi: parte di una famiglia così antica e illustre da essere ricordata nella “Commedia” di Dante, autrice di un diario assolutamente originale, sorella e madre di due uomini di spicco nel panorama culturale dell’epoca (difficile) in cui visse, protagonista di un’emigrazione inversa e di un atipico matrimonio d’amore.
Nel 1795 la situazione europea è critica e una coalizione internazionale ha mosso guerra alla Francia per arginare gli effetti della rivoluzione. A Ginevra – dove vivono i Simonde - si è concluso il periodo detto del Terrore, ad alcuni nuclei cittadini preferiscono espatriare.
La famiglia Sismonde, benestante, di religione protestante, dalla cultura vasta, abituata a viaggi e soggiorni all’estero, è composta dalla madre (Henriette Girodz), dal padre (Gédéon François Simonde) e da due figli: Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi (1773-1842) - celebre storico, economista, critico letterario - e Sara (nata nel 1776).
Parte della famiglia si mette in viaggio per luoghi più sicuri e tranquilli. Il padre resta in Svizzera a curare gli affari, madre, figlia e Charles lasciano Ginevra senza sapere se vi faranno mai ritorno e se metteranno radici altrove.
Henriette scrive per circa trent’anni, Sara per otto unendo lo stile del diario a quello epistolare (si rivolge spesso alla cara amica Mary rimasta in patria).  Emerge, dalle sue parole, la vivace personalità della ragazza: curiosa, brillante, osservatrice critica e accurata nel cogliere i dettagli, tanto delle persone quanto degli ambienti e della natura.
Il primo motivo di interesse verso Sara è proprio nel suo “Journal”, sopravvissuto, insieme a quello della madre, per oltre due secoli: si tratta di una raccolta di semplici quaderni, di piccole dimensioni, legati fra loro con ago e filo. Inizialmente in francese, dal 1793 vengono scritti in inglese, praticamente senza punteggiatura né maiuscole, con numerose abbreviazioni e narrano in modo avvincente il loro avventuroso viaggio: tre “fuggiaschi”, anomali per l’epoca, che non affrontano un “grand tour” né una piacevole vacanza, ma si dirigono verso luoghi sconosciuti, cercando una nuova patria e un nuovo destino. La partenza avviene l’8 ottobre, con una carrozza appositamente affittata. Henriette ha 47 anni, Jean Charles 222  e Sara 19.
Tappa dopo tappa, si ritrovano nelle pagine del Journal luoghi, fatti e sentimenti: l’attraversamento delle Alpi, il timore per il maltempo, le locande, la sosta a Milano, il trasporto su chiatta, il sequestro di libri da parte dei rigorosi doganieri asburgici. A Sara piace la rigogliosa campagna emiliana e rimane colpita dalla città di Parma, mentre è delusa dal paesaggio appenninico e talvolta tormentata dalle pulci… Con grandi speranze i tre approdano a Firenze, nel Granducato di Toscana, che dovrebbe garantire una buona accoglienza agli esuli (alcuni dati indicano 400.000 forestieri residenti in Toscana, fra il 1793 e il ’95) e da poco vanta, come ambasciatore, un lord inglese di loro conoscenza. Per oltre un mese, visitano chiese, frequentano teatri, incontrano persone del loro rango. Quasi per caso Charles, durante una sua perlustrazione del circondario, si ferma a Pescia, allora cittadina di circa 5.000 abitanti estranea ai circuiti turistici, e affitta per alcuni mesi una villa su una salita ripida e quasi impraticabile. E’ il 15 dicembre quando Sara, triste e delusa, dopo una sosta per la notte a Pistoia e un passaggio rapido da Montecatini annota: ”Qui io sono entrata nella mia prigione fino al 10 giugno prossimo.” Ma non sarà un viaggio fallimentare: la famigliola rimarrà in Toscana per sempre; dopo aver acquistato la splendida villa della “Valchiusa”, la madre vi morirà, nel 1821, e Sérine vi metterà le sue radici.
Corteggiata già dal 1796 da un nobile pesciatino (Anton Cosimo Dante Forti) amico del fratello, Sara non ne resta indifferente e inizia una fitta frequentazione, ben più moderna e libera rispetto agli usi italiani. Sembra di trovarsi in un romanzo di Jane Austen o delle Bronte: i due giovani vanno a teatro, passeggiano, osservano la natura, leggono, suonano il pianoforte, studiano l’inglese, frequentano biblioteche e salotti; soltanto dopo due anni di travagliato fidanzamento, si possono sposare. A ostacolarli è la differente fede religiosa, problema solo recentemente risolto.. Sara infatti è calvinista, Antonio cattolico e la loro visione del matrimonio è necessariamente diversa: per l’uno è un sacramento, per l’altra un impegno civile. Ci vorranno tenacia e pazienza, tentativi, incontri, fogli, pratiche, dichiarazioni, giuramenti, dispense; si penserà addirittura a un matrimonio clandestino, a un trasferimento momentaneo a Livorno o a Trieste, dove vigeva il più liberale codice asburgico di Giuseppe II. Dopo tanto penare e una nuova dispensa, Antonio dovette giurare che si sarebbe impegnato a far diventare cattolica Sara, mentre Sara avrebbe dovuto educare alla fede cattolica i figli, ma avrebbe mantenuto la propria libertà di culto e possibilità di visitare senza restrizioni i propri parenti svizzeri. Il contratto di nozze riporta la meraviglia del notaio nel constatare che le leggi di Ginevra erano più favorevoli alle donne rispetto a quelle italiane. Il 22 gennaio 1798 si celebra il matrimonio in chiesa, in forma privata e rapida, con due soli testimoni e i genitori della sposa, senza la tradizionale benedizione.
Nel diario Sara scrive: “I am Mrs. Forti. I have the best husband that can be wished for. Pray God may be a good wife.” La sua vita di sposa e madre non sarà però senza dolori, primo fra tutti la morte precoce di quattro dei suoi otto figli, mentre la fede le sarà di conforto, insieme alla lettura, alla musica, all’attenta educazione rivolta ai piccoli e al legame continuo e affettuoso con la madre e il fratello.
Muore a Pescia, a 59 anni, nel 1835, e per sua esplicita volontà viene sepolta a Livorno, nel cimitero protestante, accanto alla tomba di Henriette.

1.Il cognome italianizzato Sismondi viene adottato dopo il 1800 circa.
2.All'epoca la maggiore età si raggiungeva a 25 anni, perciò il padre firma un atto di emancipazione per il figlio

Fonti:
Vincenza Papini, From Geneva to Tuscany. Un viaggio del Settecento nel diario di Sara Sismondi, 2004, Istituto Storico Lucchese. Sezione “Storia e Storie al femminile”-Buggiano Castello
Liana Elda Funaro, Orgoglio e pregiudizio. Il matrimonio di Sara Sismondi (1798), in Andare sposa, 2012, Istituto Storico Lucchese. Sezione “Storia e Storie al femminile”, Buggiano Castello

Maria Soderini

(Firenze, 1490 circa - ?)

Non si conoscono intitolazioni di aree pubbliche in suo onore

Il dolore di una madre
di Barbara Belotti

Nel suo libro sulle figure femminili di casa Medici, Marcello Vannucci dedica un capitolo a Maria Soderini e, intitolandolo “Mater dolorosa”, ne sottolinea la capacità di sacrificarsi: dà molto di se stessa al marito, alla famiglia, a uno dei figli in particolare, quel Lorenzino di Pierfrancesco de’ Medici che la storia ci consegna con l’appellativo di Lorenzaccio.
Maria nasce a Firenze forse intorno al 1490 e, figlia di Tommaso Soderini e Fiammetta Strozzi, appartiene per linea diretta a due importanti famiglie del tempo. È considerata una donna molto bella ed è lodata per l’onestà dei costumi e le virtù muliebri; è anche molto accorta, però, capace di gestire l’economia traballante della famiglia e di mantenerla entro i binari di una vita decorosa
Di lei si conosce poco: c’è incertezza su quando sia nata, sono sconosciuti sia il luogo che la data di morte, la ricostruzione della sua vita si basa sull’esistenza degli altri: il marito, i figli e le figlie.
Nel 1511 sposa Pierfrancesco de’ Medici, membro di un ramo collaterale che si fa chiamare “i popolani”. Sono entrambi giovani: lui, che ha 24 anni, fino al matrimonio ha avuto un’esistenza disordinata e ha fortemente intaccato il patrimonio; lei, che ha una ventina d’anni, si occupa di rimettere in sesto le risorse familiari. Donna oculata e di buon senso, decide che è meglio andare a vivere nella tenuta in Mugello, piuttosto che in città, per far fruttare quello che possiedono.
Dal loro matrimonio nascono due femmine, Laudomia e Maddalena, e due maschi, Lorenzino e Giuliano.
Maria è attenta agli sprechi, segue ogni attività agricola e casalinga, amministra al meglio ciò che possiede cercando anche che la servitù non sottragga i prodotti coltivati e i raccolti.
Non lontana da lei, nel castello del Trebbio, vive un’altra Donna Maria, Maria Salviati che, sposata a Giovanni dalle Bande Nere, sta tirando su suo figlio Cosimo destinato a diventare l’uomo più importante di Firenze e della Toscana. Le loro vicende si intrecciano perché i piccoli Cosimo e Lorenzino giocano insieme, si inerpicano per i sentieri di campagna, osservano gli animali selvatici e saldano un legame che probabilmente si allarga anche alle due madri; lo stato vedovile è un altro aspetto comune alle due donne, quando muoiono prima Pierfrancesco, nel 1525, e poi Giovanni nel 1526.
Sono anni difficili quelli della metà degli anni Venti del XVI secolo: le bande di lanzichenecchi che minacciosamente si spingono verso lo Stato pontificio sono un pericolo concreto e molto serio anche per Maria Soderini e la tenuta di Cafaggiolo, posta lungo la strada che da Firenze va verso Bologna, potrebbe rivelarsi una trappola per lei, le sue figlie e i suoi figli. Decide così di mettere in salvo se stessa e tutta la sua famiglia: accompagna in convento Laudomia e Maddalena, sperando che le mura del monastero possano proteggerle, e manda i figli Lorenzino e Giuliano a Venezia, insieme a Cosimo. I ragazzi sono accompagnati dai precettori, che badano alla loro educazione, le madri li raggiungeranno nel 1527.
L’anno successivo Maria Soderini si rende conto che, con la crisi politica fra Carlo V imperatore e papa Clemente VII, neppure Venezia è molto sicura per chi si chiama Medici; si sposta perciò in Romagna e poi a Bologna, dove giunge nel 1529. Sente anche la responsabilità del futuro dei suoi figli e, puntando tutto sul prestigioso cognome del marito, si reca a Roma per trovare un impiego per Lorenzino: anche se di un ramo cadetto, il giovane si chiama pur sempre Medici come il papa. Questo figlio ribelle e un po’ violento, appena adolescente, la preoccupa, cerca per lui e ottiene un incarico, anche se non di grande prestigio. Non avrà grandi soddisfazioni: dopo poco il ragazzo fa rientro a casa, a Roma non può più stare, Clemente VII è furioso contro di lui dopo le scorribande nei Fori e i danni provocati ad alcune statue e ai rilievi antichi dell’Arco di Costantino. Bisogna che le acque si calmino di nuovo prima di riavvicinarsi al resto della famiglia, ma nel frattempo il nome Lorenzino è stato trasformato in Lorenzaccio, appellativo con cui è tragicamente passato alla storia.
È un grosso pensiero per Maria Soderini questo figlio, arrogante e violento, ma anche fine scrittore e drammaturgo. Ora che è tornato a Firenze si lega a Alessandro, il figlio naturale del papa, che ambisce a diventare padrone di Firenze, ma che la popolazione non ama a causa delle sue prepotenze e dei suoi eccessi in tutto. Sono molto legati i due giovani Medici tanto che Lorenzino, che si diletta nello scrivere, compone la commedia Aridosia, appositamente ideata per celebrare le nozze di Alessandro con Margherita d’Austria e allestita durante i festeggiamenti per il matrimonio, nel giugno 1536.
Ma l’epilogo dell’amicizia fra i due Medici è cupo e drammatico: Lorenzino uccide con un inganno Alessandro de’ Medici, e da poco elevato al rango di Duca di Firenze. È il 6 gennaio 1537. Lorenzino è costretto a scappare verso Venezia, ma fa tappa a Cafaggiolo dove si trova la madre. È considerato un pericoloso ribelle e un traditore, su di lui viene posta una taglia di quattromila fiorini; il delitto commesso ha ripercussioni anche su Maria, sul figlio Giuliano e sulle figlie Laudomia e Maddalena. Costretti a fuggire in esilio, spogliati degli averi, riparano prima a Bologna e poi a Venezia, aiutati dalla famiglia Strozzi.
Lorenzino si sposta in continuazione, dalla corte francese di Caterina de’Medici a Costantinopoli: Maria rivedrà il figlio sono alcuni anni dopo, nel Natale del 1544. A Venezia la sua vita e quella del figlio sono in continuo pericolo: sulla sua testa pende ancora una taglia e il vecchio compagno di giochi Cosimo, ora primo granduca di Toscana, gli sguinzaglia contro alcuni sicari con l’appoggio dell’imperatore Carlo V; recenti studi rivelano, invece, che i soldati sono inviati da Carlo V per vendicare l’uccisione del genero Alessandro de’ Medici. Comunque sia andata, anche questa vicenda ha un epilogo tragico: Lorenzino viene ucciso il 26 febbraio del 1548 insieme allo zio Alessandro Soderini. La madre, accorsa immediatamente, può solo abbracciarlo e chiudergli gli occhi. 

Fonti
Giuseppe Maria Mecatti, Storia cronologica della città di Firenze, parte seconda, p.661, Napoli 1755.
J.C.L. Simondo Sismondi, Storia delle Repubbliche italiane dei secoli di mezzo, vol. II, Lugano, 1838.
Marcello Vannucci, Le donne di Casa Medici, Newton Compton editori, 2016.


Letizia Spagnoli

(Viareggio, 1910 -  2010)

Non risulta un ricordo nella toponomastica né di Viareggio né di Lido di Camaiore né di altre località versiliesi.

Una pittrice naïf:  il fascino della semplicità
di Laura Candiani
 
Letizia Caterina Manfredi Spagnoli  è stata una affermata pittrice naïf che ha mostrato tutta la sua gentilezza d’animo e la sua sensibilità attraverso l’uso delle immagini e del colore. Nata a Viareggio il 12 marzo 1910, era la dodicesima figlia di una coppia di emigranti rientrati dal Brasile e perciò detti “gli americani”. Frequentò gli studi fino alla sesta classe per iscriversi poi ad una scuola di ricamo; dopo un anno di fidanzamento si sposò nel 1928 con Spagnolo Spagnoli. Dal felice matrimonio nacquero cinque figli: Lia, Lincoln, Onorato, Gemma e Maria Grazia. Letizia rimase presto vedova, a soli 42 anni, ma era sostenuta da una grande fede e da una forte determinazione. Iniziò quindi a mettere a frutto le sue doti naturali cucendo originali cuscini e oggetti di arredamento; dopo seri problemi di salute che la costrinsero ad una vita piuttosto sedentaria, dette il via alla sua nuova proficua carriera: quella di pittrice naïf. Letizia componeva con ingenuità e freschezza, senza aver frequentato scuole e senza maestri, con totale spontaneità. I suoi lavori erano improntati alla descrizione del quotidiano (come “La pesca delle cee”), al garbato richiamo fiabesco (“Primo ballo”), alla fede ingenua e sentita(“Notte di Natale”), ai  paesaggi, ai sogni, ai ricordi; quello che colpisce è l’uso sapiente e brillante del colore con una netta prevalenza del blu e dell’azzurro , ma anche con molto giallo, bianco, rosso (il bellissimo “Fiori per te”). Il mondo di Letizia è fatto di piccoli uomini e piccole donne, di palloncini che volano, di fiori, tanti fiori, di una natura pacifica e serena, di cieli senza nubi, di prati cosparsi di infinite macchioline, in una atmosfera rarefatta e rasserenante, di stupore e meraviglia,  che spesso  viene replicata anche in ingenue brevi poesie .
La svolta avvenne grazie ai consigli di un pittore viareggino, Giorgio Michetti,  che introdusse le opere di Letizia nel mondo culturale e artistico milanese, quando era più che sessantenne ; nel ’72  si realizzò la sua prima mostra personale a Lucca, alla Galleria dell’Associazione Commercianti di Palazzo Sani. A questo punto è il successo: Letizia (che ha scelto di firmare le sue opere con il cognome da sposata) espone in Italia (Bari, Firenze, Milano, Prato, Bologna, Padova, Roma), ma anche all’estero (Parigi e Cracovia). Ottiene rico-noscimenti e premi prestigiosi : Naifs Italia-Francia (’76),  Arte Sacra di Cracovia (’79), Accademia H.E.D.E. di Ferrara (’80  e ’81) e Romagna (’80), Guercino (’82), bozzetto della cartolina di Natale dell’Antoniano di Bologna.  Le sue opere partecipano costantemente a concorsi toscani, soprattutto in Garfagnana  e Ver-silia, e sono esposte nelle più importanti gallerie di Viareggio e Lido di Camaiore. Letizia diviene  membro  di accademie (come la San Marco di Napoli, la Tiberina e la Legion d’oro di Roma, la Homo Electus Ducati Extensis di Ferrara, l’Associazione Italiana Pittori della Versilia). Figura anche nel catalogo Bolaffi e nell’Archivio per l’arte italiana del Novecento di Firenze e proprio la città di Firenze le ha tributato il grande onore del Premio Giotto per l’arte (’80).
Il figlio Lincoln ha lasciato un bellissimo ricordo della madre in cui racconta come fosse una bambina allegra e vivace, con un vero talento per la recitazione; con i fratelli, le sorelle e i genitori  c’era un clima sereno e affettuoso, tanto che anche il precocissimo fidanzamento con un ventenne venne tollerato e accettato. Quando i due ragazzi si sposarono - ricorda  sempre il figlio -chi li vide passare in carrozza li prese per due  comunicandi, non certo per due sposi. I primi due figli nacquero in Darsena, a Viareggio, dove viveva la famigliola; Letizia, per aiutare il marito nella sua attività, partiva prestissimo la mattina in bicicletta e af-frontava un percorso lungo e disagiato. In seguito andarono a vivere in via Mazzini, nel centro cittadino,  ma il marito aveva acquistato anche  una piccola proprietà in campagna, nel paese di origine del nonno Onorato, a Montigiano di Massarosa,  dove i bambini si divertivano molto e avevano i genitori tutti per sé. Nacquero  poi gli altri figli, durante la Seconda Guerra Mondiale, e furono molto coccolati proprio perché la guerra aveva rallentato le attività economiche e la famiglia stava sempre insieme, lontana dai pericoli dei bombardamenti e dei rastrellamenti. Si erano allora trasferiti in un luogo ancora più isolato, a Monteggiori sopra Capezzano, in una antica casa medievale e, nonostante le privazioni , la presenza dei Tedeschi, la carenza di cibo, i timori di possibili deportazioni, vivevano uniti e sereni, legati dall’amore reciproco che Letizia poi riversò nelle sue opere, illuminate dalla grazia e dall’armonia.
Letizia  Manfredi Spagnoli è morta a Viareggio il 30 marzo 2010, poco dopo aver compiuto 100 anni.


Fonti:
Fabio Flego (a cura di), Letizia Spagnoli. Naïveté. Antologia pittorica e poetica, Pezzini Editore, Viareggio, 2011
M.T., Addio Letizia,pittrice naïf solare come la sua Viareggio, in "Il Tirreno", 31.3.2010


 
 
 

  

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 Regina Dal Cin Marchesini

(San Vendemiano (TV), 1816 – Cappella Maggiore (TV), 1897)

Il comune di Cappella Maggiore, dove riposano le sue spoglie, le ha dedicato un vicolo e una scuola primaria.

L'acconcia-ossi

di Nadia Cario

Regina nasce a San Vendemiano nella primavera del 1816, da Adriana Zandonella e da Lorenzo Marchesini.
La madre proviene da una famiglia di acconcia-ossi, attività che esercita con successo nel suo paese di origine del Cadore e che continua a esercitare anche dopo il trasferimento nel villaggio del marito e la nascita di Regina.
La bimba fin da piccola è presente durante le pratiche della madre che, accortasi della predisposizione della bimba, la istruisce nell’acconciare le slogature delle ossa e dei muscoli.
A 10 anni Regina va a vivere dal fratello nel paese di Anzano, frazione di Capella Maggiore sempre in provincia di Treviso, e qui approfondisce lo studio della muscolatura e delle ossa, con particolare attenzione al posizionamento del femore, osservando e studiando i cadaveri nell’ospedale di Ceneda.
Si sposa a 18 anni e lei stessa racconta che il mattino del suo matrimonio operò felicemente quattro lussazioni, guadagnando in questo modo i soldi per le spese delle sue nozze.
Rimasta presto vedova con una figlia, continua la sua attività specializzandosi sempre più.
Dopo aver guarito con grande successo un carrettiere di Alpago al quale i chirurghi avevano diagnosticato inevitabile l’amputazione di una gamba, viene denunciata dai medici per l’esercizio di una professione in cui non era legalmente e professionalmente autorizzata.
Nel processo viene difesa calorosamente dal carrettiere guarito e viene prosciolta dall’accusa, ma con l’ingiunzione a non operare più.
Nel 1843 Regina ha già raggiunto un’esperienza e un’abilità tali da riuscire ad anticipare con precisione, per ciascun caso, l’esito favorevole del trattamento, fornendo ogni volta precise istruzioni sul successivo decorso: da sua madre ha appreso la sistemazione di lussazioni e fratture, con il suo studio e l’applicazione costante è diventata esperta nella riposizione del femore.
Continua a esercitare di nascosto nonostante le ingiunzioni. I pazienti guariscono in pochi minuti e in modo indolore. Le cronache di allora raccontano come fosse difficile trovare ospitalità negli alberghi della zona, sempre occupati da persone bisognose delle sue cure.
Nel 1867 subisce un nuovo processo durante il quale si difende da sola riuscendo a essere assolta in appello. Superata anche questa burrasca, alla presenza del giudice, dichiara che avrebbe “operato fino alla morte”.
Nelle frequenti contrapposizioni medico-scientifiche sui suoi successi di abile acconcia-ossi, parecchi dottori negano i buoni risultati, nonostante le tante testimonianze dirette di persone beneficiate; alcuni al contrario esprimono attestati di stima, come il dott. Trombini di Venezia, il quale ebbe a dire che l’arte di Regina dal Cin “merita di essere tranquillamente studiata dai professori di chirurgia per coronare l’edifizio da essa piantato”, poiché secondo gli “operatori scientifici le lussazioni congenite e antiquate del femore, difficilmente si possono ridurre e rade volte si operano le più recenti che si datano da più di quaranta giorni. Ora è appunto su questi IRREDUCUBILI, tenuti tali dalla presente chirurgia, che la Dal Cin da un gran pezzo operava, e l’arte sua sarebbe forse per sempre ignorata, se la fortuna non l’avesse presa per mano e condotta a Venezia dove principiò la sua fama.”
Nonostante il divieto di operare, la sua fama si estende anche a Venezia, dove viene chiamata più volte, anche per parecchi giorni, a ricomporre lussazioni del femore e trattare casi ancora più gravi considerati “irreducibili” dalla chirurgia. I risultati sono numerosi e importanti tanto che sulla “Gazzetta di Venezia” vengono pubblicate le dichiarazioni autentiche di chi, dopo il suo intervento, è riuscito a ritornare a una vita normale, nonostante le diagnosi pessimiste dei rappresentanti della medicina ufficiale.
Viene chiamata anche a Trieste per curare, ancora una volta con risultati egregi, una lussazione congenita. Dopo tre giorni di interventi positivi, il Municipio la invita a operare nell’Ospedale civico alla presenza di illustri chirurghi; riceve pubblici riconoscimenti e l’offerta, da parte del Comune, di una casa a disposizione e di una rendita annua per continuare a praticare all’interno dell’ospedale.
I successi ottenuti nella ricomposizione delle lussazioni del femore congenite e antiquate, ampiamente documentati, insieme alle attestazioni dei medici e chirurghi di Venezia, Trieste, Vittorio Veneto, Mira, Dolo e Mirano contribuiscono a far emanare, nel 1871, un decreto del Ministero dell’Interno in cui, in accordo con il Consiglio Superiore di Sanità, si riconosce l’abilità di Regina e la si autorizza alla pratica nella specialità delle lussazioni femorali con l’obbligo, però, di operare alla presenza di un medico, accorgimento già da tempo adottato dalla donna.
Benedetto Zenner che nel 1871 pubblica il testo Cenni biografici di Regina Dal Cin (l’Operatrice di Anzano), così la descrive “[…] E’ donna di ordinaria grandezza, sana e robusta à fisonomia aperta e lieta; vivissimi gli occhi, che rivelano sagacia ed accortezza. Parla un po’ rozzamente, ma non senza urbanità e piacevolezza, saettando alle volte mòtti arguti e spiritosi. È modesta, disinteressata ed affettuosa con tutti, specialmente co’ poveri: veste ora pulitamente, ma sotto l’abito nòvo si vede la buona popolana di Anzano, che, come la triste, così la lieta fortuna non arriverà a guastare e corrompere. […] Opera senza alcun apparato da spaventare i pazienti: riduce le lussazioni del fèmore dichiarate irreducibili, senza che gli ammalati se ne accorgano.- Sotto la sua mano le ossa e i muscoli le obbediscono rapidamente, e nel vederla operare sembra che Ella li palpi e li carezzi-“.
Regina Marchesini Dal Cin muore il 15 agosto del 1897 a ottantuno anni, alle ore 6 e minuti 10.

Fonti:
Zenner Benedetto, Cenni biografici di Regina Dal Cin (l’Operatrice di Anzano), luglio 1871,Tipografia Nazionale di Gaetano Longo
Comune di Cappella Maggiore (TV), Estratto per riassunto del registro degli atti di morte consultato il 12-4-2016

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Deiva De Angelis Terradura

(Farneto (PG), 1885 – Roma, 1925)

Alla pittrice eugubina è stata intitolata una via a San Mariano, comune in provincia di Perugia.
Roma, la città della sua vita professionale e artistica, fino ad ora non le ha dedicato alcuna strada. Nel maggio del 2014 Toponomastica femminile ha inoltrato all’Ufficio Toponomastico della capitale la richiesta di una intitolazione in ricordo di Deiva, rifiutata dall’ufficio perché definita artista di rilevanza minore.

Dipingeva come un uomo

di Barbara Belotti

Una vita piena di misteri quella di Deiva Terradura. Di lei non ci sono notizie anagrafiche certe. Nulla nei registri delle nascite né in quelli dei battesimi; nulla di certo neanche sul giorno della morte, né una tomba che ricordi il suo nome.  
Il cognome Terradura, ereditato dalla madre, sembra riassumere tutte le difficoltà di una vita fatta di fatica e sacrifici. Il suo luogo di nascita è probabilmente Farneto , un borgo non lontano da Perugia; nacque nel 1885 e la mancanza di un atto di registrazione fa presumere che la sua nascita sia stata taciuta. Le sue furono povere origini contadine e Deiva parve subito destinata ad una vita con poche prospettive, quelle del  lavoro duro accompagnato dall’arte di arrangiarsi per sopravvivere; fu, al contrario, una ragazza desiderosa di riscrivere il proprio destino.
Non sappiamo quando la giovane lasciò la casa in cui era nata per recarsi a Roma e vendere le violette a Piazza di Spagna, come facevano molte ragazze di bella presenza sperando di farsi notare da un artista e diventare modelle. Riuscì, non si sa quando, ad essere ingaggiata dal pittore William Walcot che la fece posare per i suoi lavori.
Anton Giulio Bragaglia ricorda, in un articolo del 1925, che la scoperta delle doti artistiche di Deiva fu assolutamente casuale: «Walcot, che viveva a Roma, si attardava un giorno in pose su pose, non riuscendo a finire un suo quadro, il cui soggetto era proprio Deiva con una sua compagna modella. Difficile da ritrarre era quell’amica! Ma il pittore uscì per un momento e Deiva preso il carbone terminò la figura della compagna. Quando Walcot, tornando, vide, restò come trasognato. Da quel giorno Deiva fu pittrice.»
Secondo quanto scrive Franco Cremonese in un articolo del 1960, nel 1903 William Walcot e Deiva partirono insieme per un viaggio in Europa durante il quale la giovane ebbe modo di visitare importanti musei, osservare da vicino le opere di grandi maestri europei e impossessarsi della forza del colore.
Al rientro a Roma, la sua vita cambiò ancora. Sposò l’avvocato De Angelis, ma anche in questo caso dei documenti non resta traccia; una sola cosa è certa: con il nome di Deiva De Angelis e non più Terradura nel 1913 fece il suo esordio nel mondo artistico romano.
Tra il marzo e il giugno di quell’anno, infatti, si tenne la prima Esposizione Internazionale d’arte della “Secessione” al Palazzo delle Esposizioni. Alla mostra furono esposte opere di avanguardia, come quelle di Matisse e Van Dongen, e composizioni come quelle di Manet, Monet, Renoir, meno recenti ma comunque significative per lo scenario italiano e per tutti coloro che intendevano opporsi al linguaggio accademico. La vetrina era importante e Deiva espose il dipinto Studio d’uomo. Partecipò anche alle altre manifestazioni della Secessione, fino all’ultima edizione, quella del 1916.
Conobbe nel ’14 Cipriano Efisio Oppo, giovane pittore legato a Villa Strohl-Fern, luogo di elezione per molti artisti dell’ambiente secessionista romano. Il clima umano e lavorativo era vivace e intenso, Deiva continuò a consolidare la sua ricerca cromatica non lontana dalle ricerche dello Spirituale nell’Arte di Kandinskij, come scrisse Oppo:
“Si è sempre tentato di stabilire tra i colori e la musica un certo secreto di corrispondenze espressive. […] Fra la natura (non l’astrazione) vista pittoricamente nelle sue essenziali necessità e lo stato d’animo creato dalla tavolozza come dalla tastiera di un piano, con tutti i suoi toni alti e bassi, vivi e cupi, si stabiliscono dei rapporti, delle armonie che spogliate da ogni altra ricerca di solidità costruttiva e di presa di possesso del soggetto, possono essere occasioni di raffinatissime gioie pittoriche. Un tentativo del genere è quello di Deiva De Angelis.”
Con Oppo visse un’intensa relazione, affettiva e professionale, fino al 1918 quando la coppia, dopo un periodo di convivenza nello studio nel parco di Villa Strohl-Fern, si separò. Deiva era rimasta incinta e probabilmente decise di abortire dopo che il suo compagno, già proiettato verso una importante carriera di artista e di critico, non volle proseguire il legame.
Anton Giulio Bragaglia, che di Deiva fu amico sincero ed estimatore, arrivò a definirla «un ottimo cervello maschio» che «dipingeva come un uomo», una “modernissima colorista” che seppe dichiarare al mondo artistico romano “la sua vigorosa schiettezza di artista indelebilmente”.
Il suo ruolo di protagonista era difficile da far accettare al mondo artistico della capitale, dominato soprattutto da uomini; eppure, come ricorda sempre Bragaglia, “ci fu un tempo che non pochi pittori maschi (e reputati) la imitavano”.
Alla fine degli anni Dieci il talento della pittrice era al culmine. Partecipò alla Mostra d’arte giovanile negli ambienti della Casina Valadier al Pincio, una collettiva organizzata in modo autonomo da chi si era formato all’interno del movimento secessionista romano. Altre donne esposero insieme a lei, Pasquarosa, Leonetta Cecchi Pieraccini, Matilde Festa Piacentini; le sue opere riuscivano a trasmettere «quel favorevole gioco di colori, di quel disegno armonioso, pieno di energia e di sicura evidenza»  che ormai i critici avevano imparato a riconoscere.
Sempre più saldo divenne il rapporto professionale e umano con Anton Giulio Bragaglia, che ricorda ancora: “Confesso che a me stesso la guida di Deiva ha giovato enormemente: le osservazioni di mestiere ch’ella mi indicava, m’hanno scoperto il sistema di critica vero; che è il più moderno oggi ed è anche il più antico”. La prima personale della pittrice si tenne nel 1920 proprio nella Casa d’Arte Bragaglia e vide riuniti oltre quaranta lavori. Nello stesso anno cominciò la collaborazione con la prestigiosa rivista Cronache d’Attualità, legata alla Casa d’Arte, e Deiva pubblicò alcuni disegni che illustravano le liriche e le poesie di Arturo Onofri; questo impegno si protrasse in seguito con altre illustrazioni della pittrice in cui si evidenziava un tratto veloce e incisivo.
La carriera di Deiva De Angelis proseguì con successive mostre significative: le Biennali romane del ’21, del ‘23  e del ’25, altre collettive nella Casa d’Arte di Bragaglia, l’Exposition Internationale d’Art Moderne a Ginevra, fra il dicembre 1920 e il gennaio 1921, in occasione del convegno della Società delle Nazioni.
La solitudine la accompagnò per molti tratti della vita, nonostante lo scambio artistico e culturale con numerose persone e gli amori vissuti. Essere pittrice comportava rinunce, prevedeva ostacoli, determinava una celebrità effimera raggiunta attraveso percorsi tortuosi. Il suo destino, difficile fin dalla nascita, continuò ad accompagnarla e la aggredì con una malattia che non lasciò scampo: un tumore, forse all’intestino, che la fece soffrire molto e che la divorò in breve tempo. Deiva fu costretta a vendere o meglio svendere  i suoi quadri per comprare le medicine che, se non riuscirono a combattere il cancro, le diedero un po’ di tregua dal dolore. Morì nel 1925, poco tempo dopo aver esposto alla Terza Biennale Romana Mostra Internazionale di Belle Arti.
Anche per la morte non esistono documenti, venne tumulata in un loculo pagato dallo Stato del quale non si ebbero presto più notizie. Deiva era passata nella storia e nell’arte della capitale come una meteora, un lampo folgorante del quale rimangono poche tracce. La dispersione dei suoi lavori ha creato – e tuttora crea - ostacoli nel lavoro di ricerca.

Mostre:
Prima Esposizione Internazionale d’Arte della “Secessione” – 22 marzo – 30 giugno 1913, Palazzo delle Esposizioni Roma;
Quarta mostra d’Arte Italiana, Rimini, estate 1914;
Fiera della Stampa per i danneggiati del terremoto, Associazione Artistica internazionale, dal 21 gennaio 1915;
Terza  Esposizione Internazionale d’Arte della “Secessione” – 4 aprile  – 13  giugno 1915, Palazzo delle Esposizioni Roma;
Arte e beneficenza, 19 – 26 dicembre 1915, Palazzo degli studi, Faenza;
Mostra d’arte pro Croce Rossa, 24 febbraio – 1 aprile 1916, Roma;
Quarta  Esposizione Internazionale d’Arte della “Secessione” – 9 dicembre 1916  – 25  gennaio 1917, Palazzo delle Esposizioni Roma;
Esposizione di guerra, Associazione Artistica internazionale, ottobre – novembre 1917;
Mostra delle opere di Deiva De Angelis e di Pasquarosa, maggio 1918, Circolo artistico Internazionale, Roma;
Mostra d’arte giovanile, 5 giugno – luglio 1918, Casina Valadier, Roma;
Mostra del gruppo romano, primavera 1920, Famiglia artistica, Milano;
42° Esposizione Casa d’arte Bragaglia, dal 1 ottobre 1920, Roma;
Exposition Internationale d’Art Moderne, 26 dicembre 1920 – 25 gennaio 1921, Ginevra;
Prima Biennale Romana, 30 marzo – 30 giugno 1921, Palazzo delle Esposizioni, Roma;
La Fiorentina primaverile, 8 aprile – 31 luglio 1922, Palazzo del Parco di San Gallo, Firenze;
79° Esposizione Casa d’arte Bragaglia, maggio – giugno 1922, Roma;
Collettiva romana, 17 maggio – giugno 1923, Casa d’arte Bragaglia, Roma;
Seconda Biennale Romana, 4 novembre 1923 – 30 aprile 1924, Palazzo delle Esposizioni, Roma;
Collettiva di paesaggi e nature morte, dal 4 dicembre 1923, 106° Esposizione Casa d’arte Bragaglia, Roma;
Collettiva romana, giugno 1924, 116° Esposizione Casa d’arte Bragaglia, Roma;
Terza Biennale Romana, marzo – giugno 1925, Palazzo delle Esposizioni, Roma;
Collettiva romana, dicembre 1925 – gennaio 1926, Casa d’arte Bragaglia, Roma [mostra postuma].

Fonti:
Aldo Di Lea, Deiva De Angelis, in “Cronache d’Attualità”, n.V, gennaio 1921.
Anton Giulio Bragaglia, L’arte di Deiva De Angelis, in “La Stirpe”, a. III, n.4-5, Roma, aprile-maggio 1925.
Franco Cremonese, Deiva De Angelis, la pittrice di Via Brunetti cominciò col fare la modella, in “Il Giornale d’Italia”, 15-16 marzo 1960.
Simona Weller, Il complesso di Michelangelo, Pollenza-Macerata, La Nuovo Foglio editrice, 1976, pp.188-189.
Lea Vergine, L’altra metà dell’Avanguardia, Roma, Mazzotta editore, 1980, p. 53
Mario Quesada, Deiva De Angelis, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1987, vol. 33, pp.270-272
Martina Corgnati, Artiste. Dall’impressionismo al nuovo millennio, Milano, Bruno Mondadori, 2004
Duccio Trombadori, Francesca Romana Morelli, Lucia Fusco, Deiva De Angelis, 1985-1925. Una “fauve” a Roma, Roma, 2005
Pier Paolo Pancotto, Artiste a Roma nella prima metà del ‘900, Roma, Palombi Editori, 2006

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Lucia Delitala Tedde

(Nulvi (SS), 1705 – luogo e data di morte incerti)

A Nulvi una via è dedicata alla nobile famiglia Delitala e - sull'antico palazzo di famiglia- è visibile una targa in ricordo del padre Francesco.

Quando le donne sarde cominciarono a "banditare"

di Laura Candiani

I documenti di battesimo presentano Lucia come figlia legittima del nobile don Francesco Delitala Tedde e di donna Jana (Giovanna) Maria Tedde, ma non esistono testimonianze certe sulla sua morte né sulla sua tomba. Secondo alcune fonti sarebbe morta fra il 1755 e il 1767, secondo altre nel 1760; non ci sono lapidi né ricordi nel cimitero di Nulvi e nella chiesa di sant'Antonio Abate, divenuta nel tempo una sorta di tomba di famiglia. Qualcuno avanza l'ipotesi di un assassinio avvenuto a Chiaramonti dove si sarebbe nascosta e sarebbe stata sorpresa da un incendio nel sonno, mentre era abbracciata nel letto ad un uomo.

La famiglia aveva ottenuto il cavalierato nel 1636 e la nobiltà nel 1641; si sa che erano ricchissimi grazie ad attività non sempre lecite, come il contrabbando e il brigantaggio; alcuni membri parteciparono ai moti del 1720 contro i Savoia, mentre altri si trasferirono stabilmente in Corsica. La casata si estinse nel corso del XX secolo. 
Lucia ebbe un'infanzia protetta, in un ambiente affettuoso e sereno, mentre il paese natale era insanguinato dalla rivalità fra i Tedde e i Delitala, divenuta una vera e propria faida.
Si racconta che fin da bambina avesse un carattere ribelle e usasse spesso come arma le sue piccole forbici da ricamo contro le ragazze della parte avversa, ma soprattutto contro le donne che parteggiavano per i Savoia. Con le forbicine, usate in chiesa, a un ballo, durante una cerimonia pubblica, si potevano tagliare gli abiti, i nastri, i pizzi delle avversarie causando pochi danni ma grande imbarazzo per le malcapitate cui magari cadeva la gonna per strada.

Molti la ricordano assai bella e somigliante come una gemella alla cugina Marietta, immortalata in un quadro nella parrocchiale di Nulvi. Il marchese Carlo Amedeo Battista di San Martino d'Agliè e di Rivarolo, Viceré di Sardegna, la descrive invece, senza averla mai vista, dotata di «due mustacchi da granatiere e usa le armi e il cavallo come un gendarme». Pare che fosse solita indossare una maschera quando voleva nascondere la sua identità e quando, ormai adulta, utilizzava lo schioppo ad arcione, con innesco a pietra focaia, oppure lo stocco, più leggero della spada, mentre percorreva la Gallura con il suo amato cavallo Tronu.

Per contrastare il banditismo il Vicerè aveva inventato metodi violenti e fantasiosi, anche se poco efficaci: aveva infatti creato un corpo militare itinerante, a cui si univano giudici e una forca sempre pronta per mettere in atto spietate condanne; aveva poi utilizzato l'”importazione” di continentali per popolare vaste aree totalmente disabitate, in modo da renderle meglio controllabili e meno selvagge. Ebbe l'idea di sopprimere l'Università di Sassari e cercò in ogni modo di cancellare, negli abiti, nelle usanze e persino nell'architettura, le tradizioni spagnole radicate in quattro secoli di dominazione. Certo è che in Sardegna, nel Settecento, il governo piemontese appariva altrettanto straniero e ancora più avido e i banditi molto spesso si ammantavano di un'aura da liberatori e difensori dei diritti. Lucia, incoraggiata dal padre, fece propria questa battaglia e cominciò a servirsi di uomini armati al suo servizio per assalire le truppe sabaude, specie quando si trovavano isolate e in zone a loro poco familiari.
Lucia ebbe un valido amico e alleato nel bandito Giovanni Fais che si era dato alla macchia con la moglie Chiara Unali e la figlioletta Mattea.
Un fatto di particolare rilievo fu l'assalto ai soldati del distaccamento di Ozieri che finì in una vera e propria strage. Il Vicerè, che inventò un altro provvedimento curioso, ovvero l'obbligo per gli uomini di non portare la barba, arrestò Francesco Delitala e, prima di procedere contro Lucia, la invitò a Cagliari, nel suo palazzo. Dopo un breve e provvisorio arresto, la donna fu libera a condizione che non proseguisse le sue imprese contro il governo. Per Lucia questa fu quasi una provocazione: cominciò davvero a fare la vita della “bandita”, con un certo agio però, perché veniva ospitata, grazie alla sua casata nobilissima, in palazzi signorili ben protetti.

Un altro episodio che si tramanda è l'assalto (a Montesanto) a una compagnia di dragoni che portavano con sé prigionieri e denaro. Questo massacro fece tanto scalpore che addirittura il gesuita padre Vassallo riunì a Nulvi i capi delle due fazioni, Giovanni Tedde e Antonio Delitala, per stipulare una pace duratura almeno fra di loro. Da allora Lucia maturò sempre più la convinzione di combattere per una giusta causa, da patriota contro gli invasori, ma il commissario governativo fece arrestare molti suoi seguaci che finirono impiccati o torturati con la lingua strappata. Anche l'amico Fais rischiò di essere catturato in un epico scontro che vide cadere al suolo duecento uomini fra soldati e banditi; Lucia, in modo avventuroso e romanzesco, riuscì ad arrivare in tempo con un manipolo di fedelissimi e a portare al sicuro Fais, con Chiara e Mattea. Fais però non rimase a lungo nascosto e si gettò di nuovo nelle imprese pensando di essere sempre protetto dai pastori, su montagne impenetrabili. Fu invece intercettato e sarebbe stato di nuovo arrestato se non fosse stato ancora una volta per l’aiuto di Lucia che ‒ si racconta ‒ arrivò sul suo cavallo Tronu indossando un mantello rosso, la maschera sul volto e l'elmo di cuoio. Fais con la famiglia fu fatto fuggire in Corsica, dove rimase quindici anni. Al ritorno era convinto che il suo passato fosse stato dimenticato e riprese con i sequestri, ma fu catturato e impiccato a Sassari nel 1774; il suo corpo fu smembrato e disperso perché non ne rimanesse alcuna memoria.

Lucia nel frattempo non si sa se fosse ancora in vita, vista la mancanza di un atto di morte; certo è che non finì di stupire con il suo testamento lasciando diecimila lire in favore del collegio dei Gesuiti di Ozieri. Quando l'ordine fu soppresso, il parroco di Chiaramonti fece buon uso del denaro tanto che molti anni dopo poté essere costruita una nuova parrocchiale. Altri fondi furono generosamente lasciati alla Chiesa, a testimonianza di una devozione certo molto particolare in una donna spietata e senza paura, il cui nome è divenuto leggendario in Sardegna.

 

Fonti:

Franco Fresi, Banditi di Sardegna, Newton Compton editori, Roma,1998

Franco Fresi, Le banditesse. Storie di donne fuorilegge in Sardegna, Il Maestrale, Nuoro, 2015

Valeria Gentile, La Sardegna dei banditi, Perrone, Roma, 2013

Enzo Giacobbe, La notte delle fiaccole, Castello, Cagliari, 1985

Giuseppe Manno, Storia di Sardegna, Ilisso, Nuoro, 1996

Giuseppe Manno, Note Sarde e Ricordi, CUEC, Cagliari, 2003

www.ladonnasarda.it

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www.regionesardegna.it

lanuovasardegna.gelocal.it  (23.11.15 )

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Eleonora de' Nobili

(Pesaro, 1902 – Modena, 1968)

Nel comune di Ripe, in provincia di Ancona, il “Museo Nori de’ Nobili: centro studi sulla donna nell’arte” ricorda una pittrice del Novecento ancora poco conosciuta. Qui sono state radunate le sue opere e, nell’annesso archivio, è raccolto tutto il materiale che la riguarda con l’obiettivo di non disperderne il lavoro e la memoria, come spesso è accaduto alle donne.
L’Amministrazione comunale le ha, inoltre, dedicato una via a ricordo dei periodi estivi trascorsi dalla giovane “Nori” insieme alla famiglia.
Al contrario altre due città, legate alla sua esistenza, ne ignorano il nome: sono Pesaro, che le ha dato i natali, e Modena, in cui visse segregata per oltre trent’anni fino alla morte.

Donna che non fu mai doma

di Barbara Belotti

L’arte di Nori de’ Nobili è emersa dal buio dell’oblio in tempi recenti.
Nel 2005 una mostra al Parlamento Europeo, la sistemazione del Museo-archivio di Ripe, la realizzazione di video, recital, spettacoli teatrali ci hanno riconsegnato una affascinante figura di donna e di artista.
La vita di Eleonora - per tutti Nori - è drammatica e tormentata.
Nata nel 1902 a Pesaro, è la prima di quattro figli in una famiglia tradizionale: il padre, ufficiale di cavalleria, è spesso lontano dalla famiglia; la madre, di origini aristocratiche, segue l’educazione dei figli. D’estate Nori trascorre giornate serene e indimenticabili a Brugnetto, una frazione di Ripe, in una elegante dimora chiamata la villa delle “Cento finestre”. È una bambina serena, legata alla mamma e ai fratelli; segue gli studi classici ma dimostra interesse per il disegno e la musica. Crescendo comincia a desiderare di frequentare l’università, ma il padre si oppone: considera una stravaganza inconcepibile che una giovane donna di buona famiglia possa proseguire gli studi, appannaggio esclusivo della formazione maschile.
Prima a Roma e poi a Firenze, dove con la famiglia si trasferisce nel 1924, Nori comincia a studiare pittura frequentando lo studio di Ludovico Tommasi, tra gli ultimi seguaci dei Macchiaioli. Per lei è un’occasione importante, la prima vera opportunità di dedicarsi all’arte, di confrontarsi con il clima culturale del tempo. Comincia ad entrare in contatto con i circoli artistici legati al gruppo del Novecento, che stimolano il suo linguaggio espressivo. La sua è una ricerca intensa, totale, a cui si dedica con passione e frenesia lavorativa.
Scorrendo le note biografiche della sua esistenza, comincia ad emergere la fisionomia di una giovane donna acuta e intensa, sensibile e fragile.
Nori si apre alla vita, ma alcune delusioni d’amore la feriscono e la sua giovinezza comincia a coprirsi di ombre scure. La famiglia la ostacola, ma nonostante ciò i suoi legami affettivi rimangono saldi e vivi. Le sue fragilità emergono anche in un rapporto contrastato (definito “delirio passionale”) con un critico d’arte fiorentino, Aniceto Del Massa, che pure l’aiuta a partecipare alla IV Mostra Regionale Toscana nel 1930.
Tre anni dopo, la morte prematura del fratello Alberto, al quale è particolarmente legata, determina il suo crollo psichico. La famiglia decide che Nori deve essere allontanata e la fa rinchiudere nella clinica Villa Igea a Modena. È il 1935, Nori ha 33 anni e per altri trentatre anni vivrà segregata dal mondo. La libererà solo la morte.
Nella casa di cura Nori riceve le visite della famiglia, ma dopo poco decide di eliminare anche quell’ultimo legame con l’esterno. Da tempo sente che quella non è più la sua famiglia: le hanno impedito di studiare, hanno ostacolato la sua vita, l’hanno rinchiusa e cancellata dal mondo.
Nel corso dei suoi anni da segregata, Nori si affida alla poesia e alla pittura.
I versi, scritti anche in inglese e in francese, sono un diario interiore continuo (un’autobiografia in versi), un filo per la sopravvivenza. Non sono datati, non hanno alcuna indicazione cronologica: l’isolamento e la solitudine della reclusione in manicomio rendono il tempo un elemento estraneo alla sua vita, immutabile ogni giorno. La pittura accompagna i testi poetici ed è una produzione immensa: più di mille opere realizzate in ogni modo e su ogni superficie disponibile: tela, carta, il coperchio di una scatola, la copertina di un taccuino. Molti sono gli autoritratti: il viso ovale, lo sguardo fisso, la carnagione chiara contrastano con l’abbigliamento curato e caratterizzato da eleganti e vivaci contrasti cromatici; intorno alla sua figura sono distribuiti elementi che ricorrono più volte come ventagli, maschere che nascondono volti, gatti.
Anche la sua pittura si ripete. Nelle ricerche artistiche giovanili si era avvicinata alla pittura silenziosa, ferma e sognante del gruppo del Novecento; ora il suo linguaggio acquista toni espressionistici, nei volti e negli occhi dipinti si intuiscono domande angosciose, toni sgomenti. L’immobilità delle scene richiama l’immobilità del tempo e dello spazio della sua segregazione; quelle figure sono l’unica possibilità di evadere dagli spazi della clinica. La pittura l’unico modo per sentire la vita.
Dopo la morte di Nori, avvenuta nel giugno del 1968, la sorella Bice cercherà in ogni modo di ricostruire il suo percorso artistico, cercando con le mostre, gli incontri con critici, la divulgazione della produzione lirica il modo di non spegnere il ricordo.

Fonti:

Nori De' Nobili: opere 1920-1935, catalogo della mostra a cura di Gabriele Barucca, Ancona, 1997
Nori de’ Nobili: memorie e presagi, testo introduttivo di F. Miele, Falconara
http://librisenzacarta.it/2012/10/12/se-questa-e-follia-omaggio-a-nori-de-nobili-regia-di-maurizio-liverani-voce-recitante-giuseppe-di-mauro/
http://www.dols.it/2013/06/04/nori-de-nobili-donna-che-non-fu-mai-doma/
http://www.ilmegafonodelledonne.it/2013/05/la-storia-umana-di-nori-de-nobili-video-ideato-realizzato-da-giuliano-de-minicis/

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Properzia de' Rossi

(Bologna, 1490 circa – 1530)


 Vie a lei intitolate a Castenaso (BO) e a Granarolo dell'Emilia (BO)

http://toponomasticafemminile.com/index.php?option=com_content&view=article&id=9210&Itemid=9330

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Livia De Stefani

 (Palermo, 1913 – Roma, 1991)

A lei non risulta intitolata alcuna via.

La mafia alle sue spalle
di Ester Rizzo

 

Livia De Stefani scrittrice, era nata a Palermo nel 1913 in una famiglia di ricchi proprietari terrieri.  Trascorse la sua infanzia e la sua adolescenza nel feudo del nonno paterno situato tra Alcamo e Partinico. A soli 17 anni, invitata a Roma dagli zii, conobbe lo scultore Renato Signorini e con lui convolò subito a nozze lasciando la Sicilia per la capitale. Intrattenne rapporti con Elsa Morante, Maria Bellonci, Vitaliano Brancati e altri scrittori e intellettuali di quei tempi. Quell’ambiente colto la faceva “respirare”, le faceva dimenticare la sua terra natia dove si era sentita prigioniera di regole e consuetudini ataviche che la soffocavano. Ma in quella terra ritornava, spesso per amministrare le proprietà che aveva ereditato, ed è la vita di quel lembo della Sicilia occidentale che viene descritta nelle sue opere.

Nel 1953 è pubblicato il suo primo romanzo La vigna dalle uve nere e Livia diventa così la prima donna a scrivere di mafia in un libro. La storia narrata è ambientata in una retriva cittadina siciliana dove si consuma la tragedia di vite già segnate dal destino, dove case, cibi, letti, affari e amori descrivono gli usi e i costumi della Sicilia arcaica, immobile e patriarcale dei primi decenni del Novecento. Dove l’uomo padrone decide il destino delle donne della sua casa, un uomo duro, rozzo, privo di sensibilità. Così scrisse Carlo Levi nella prefazione, “chiusi sono tutti i luoghi del racconto serrati nei recinti e nei pensieri: prigioni, tombe gelose […] da questi regni murati, da questi luoghi isolati […] ogni partenza è fuga, ogni fuga è sacrilegio, tradimento, delitto mortale”. Il romanzo ebbe un notevole successo e fu tradotto in vari Paesi tra cui Francia, Germania, Portogallo, Inghilterra, Stati Uniti e Argentina. Fu definito una delle opere più mature della narrativa italiana del dopoguerra. Nel 1984 da questo libro trasse l’ispirazione uno sceneggiato televisivo con la regia di Sandro Bolchi.
Livia scrisse anche una raccolta di racconti Gli affatturati e altri romanzi tra cui Passione di Rosa del 1938, Viaggio di una sconosciuta del 1963 e La signora di Cariddi del 1971.
Nel 1991, un mese prima della sua morte, viene pubblicato La mafia alle mie spalle dove è descritta la mafia di quel periodo, con i suoi codici d’onore, con l’omertà e con la bramosia di impossessarsi delle proprietà terriere a qualunque costo. Livia De Stefani racconta la Sicilia assolata senza mare, il suo appezzamento di terra con il suo casamento borbonico; racconta come, per lei, fu difficile iniziare a piantare vigneti al posto delle distese di grano e come i contadini la guardavano diffidenti quando decise di piantare un bel po’ di alberi ornamentali, alberi che non producevano frutti. In quel pezzo di terra, l’ex feudo Virzì, non poteva esserci spazio per il nuovo e per il bello, Livia con la sua irruenza e le sue idee voleva stravolgere l’ordine atavico che regnava in quel pezzo di mondo.
Forse per questo suo coraggioso racconto, tanti siciliani la isolarono dichiarandosi offesi per le descrizioni della loro terra offerta alla luce impietosa del degrado e dell’ignoranza, con il ritratto di un mondo maschile patriarcale, autoritario e feroce.
Il libro si chiude con la descrizione del terremoto del Belice del 14 gennaio 1968. Livia da Roma si precipita in Sicilia ed è testimone della rovina, del disastro. Di fronte a questo suo mondo sgretolato decise di vendere l’ex Feudo Virzì. Ai parenti che osteggiarono questa sua decisione così rispose: “Ciò che conta è di averle possedute, le cose smarrite, conosciute e amate […] perse, o sottratte, o andate in polvere, niente e nessuno ce le potrà togliere mai […] mai strapparle dall’anima, dalla mente, dal sangue. Nessun ladro, nessun prepotente […] nessun terremoto”.
Così raccontava i primi anni passati ad amministrare le sue terre:” Ero una donna tutta sola piantata in mezzo a problemi virili, senza l’aiuto di un incoraggiamento, sia pure d’un sorriso […] mi dibattevo come un farfallone attirato a notte da un lume traditore, acciecata da cose che dovevo ancora imparare a temere. Era una brutta, bieca società maschilista […] e che fosse anche mafiosa me ne resi conto non per vie deduttive ma per quelle dell’osservazione diretta”
E coraggiosamente mise nero su bianco i nomi dei mafiosi con cui era stata costretta a dialogare per salvare la sua attività imprenditoriale.
Livia è morta a Roma il 28 marzo del 1991 e su di lei è calato il silenzio.

Fonti:

Livia De Stefani, La vigna di uve nere, Ed. BUR, 1975
Livia De Stefani, La mafia alle mie spalle, Arnoldo Mondadori Editore, 1991
Marinella Fiume (a cura di), Siciliane dizionario biografico, Emanuele Romeo Editore, 2006 
Ester Rizzo (a cura di), Le Mille. I primati delle donne, Navarra Editore 2016

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Paska Devaddis

(Orgosolo (NU), 1888? - 1913)

Non risulta alcuna intitolazione

"Sa bandida" nella faida di Orgosolo

di Laura Candiani

Paska, malata da sempre e ormai consapevole della fine, fra il 5 e il 6 novembre 1913 si fa portare dal fidanzato Michele Manca e da altri quattro compagni nella grotta “de sa funtana de Ananìa”, nel Supramonte, dove si racconta venissero a bere i due santi Egidio e Ananìa. Dopo la morte viene trasportata a casa coperta dal lenzuolo ricamato che teneva sempre con sé, su una lettiga improvvisata; ritorna così nel luogo da cui era partita. Vestita a festa, viene deposta sul tappeto funebre; il giorno seguente il medico può solo constatare che la giovane ricercata è morta di tisi, a soli 25 anni, nella propria abitazione. Il maresciallo dei carabinieri provvede a far effettuare l'autopsia nel cimitero di Orgosolo da due medici di fiducia i quali annotano la sua altezza (m.1,60), il precoce invecchiamento del suo corpo a causa della malattia, ma verificano anche l’intatta verginità.

Ma chi è Paska (Pasqua) e perché è una latitante? Cosa è accaduto nell'Oristanese perché una ragazza si sia data alla macchia nonostante le precarie condizioni di salute?

Tutto risale alla faida (la più grande della storia sarda come afferma Franco Fresi) iniziata ufficialmente il 3 aprile 1905 (oppure il 4 giugno 1907, le fonti sono discordanti), quando nel Campidano un certo Egidio Podda uccide Carmine Corraine; la faida poi avrà fine il 25 giugno 1917 con un processo che vide assolti tutti proprio nel momento culminante della Prima guerra mondiale. In realtà le origini furono precedenti e dovute a questioni di denaro: un vero tesoro sarebbe infatti scomparso alla morte di Diego Moro, un ricco proprietario, e ciò aveva scatenato odi e vendette fra gli eredi. Alla morte del Corraine i familiari riuscirono a rintracciare il colpevole e a consegnarlo alla giustizia, ma il tribunale lo assolse per “legittima difesa” (anche se tutti sapevano che la vittima era disarmata). Visto il fallimento della legalità si passò dunque alla vendetta e alla “disamistade” fra le famiglie in campo: i Cossu, i Corraine, i Succu, i Moro, i Devaddis. 
Nel 1912 i Corraine, pur essendo possidenti e benestanti, dovettero darsi alla latitanza diventando di fatto banditi sanguinari. Il 6 giugno 1913 furono arrestati i loro parenti rimasti a casa e in pochi giorni si registrarono sei omicidi, tre per parte.
Paska sembra fosse del tutto estranea a queste vicende, ma ebbe la sventura di venire di essere stata vista nei pressi dell'abitazione di un ucciso e di essere accusata da una testimone; così preferì la fuga e lasciò per sempre la sua vita tranquilla di ragazza onorata. D'altra parte la sua famiglia aveva già pagato con il sangue ed era coinvolta nella faida: un fratello (Battista) era stato accusato di omicidio e condannato a 18 anni, un altro (Francesco), incensurato e non ricercato, era stato ucciso in un conflitto a fuoco in cui si sospettò fortemente una messa in scena della famiglia Cossu. Il padre Giuseppe aveva tentato di far valere le sue ragioni, ma gli imputati erano stati assolti; in compenso lui stesso, anziano e malato, era stato a sua volta arrestato. Così Paska si trovava a vivere una situazione di sofferenza e di rancore verso la giustizia, che la sua salute malferma non placava.

Vivere nel Supramonte significava affrontare disagi immensi, freddo, fatiche, soffrire fame e sete, correre continui rischi e condividere l'esistenza con uomini duri e spietati. Poteva capitare di imbattersi in qualche pattuglia di militari, ma si racconta che Paska, pur non essendo di indole violenta, sapesse difendersi con lo schioppo. Sembra anche che non avesse mai condotto una azione illecita e che nel suo ricordo si confonda il reale con l'immaginario.

Se sia stata una povera vittima di eventi più grandi di lei o una coraggiosa combattente non è dato sapere. Certo è che il suo nome ancora ispira leggende e persino l'alta moda, grazie allo stilista Antonio Marras, le ha dedicato una collezione autunno-inverno 2010-11 con tessuti rustici e preziosi, con pellicce di montone, con colori e richiami agli abiti tradizionali sardi.

 

Fonti:

Silvia de Franceschi, tesi di laurea, 2009

Franco Fresi, Le banditesse. Storie di donne fuorilegge in Sardegna, Il Maestrale, Nuoro, 2015

Michelangelo Pira, Paska Devaddis, per un teatro dei sardi, Edizioni della Torre, Cagliari,1981

Giovanni Ricci, Sardegna criminale, Newton Compton editori, Roma, 2007
www.ladonnasarda.it

www.sandalyon.eu

www.webalice.it

lanuovasardegna.gelocal.it (27.3.2009)

Marras stile Barbagia, lanuovasardegna.gelocal.it (1.3.2010)

Sfilata Antonio Marras Milano, www.vogue.it

 

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Eleonora Di Mora

(?, 1642 ca. – Madrid, 1707)

A Palermo non risulta alcuna via intitolata a Donna Eleonora Di Mora.

La Vicerè di Sicilia
di Ester Rizzo

Non si trova traccia di lei nelle Cronologie dei Viceré di Spagna, dove c'è un vuoto di 28 giorni, ma nel Dizionario delle figure delle istituzioni e dei costumi della Sicilia storica e nel terzo volume della Storia cronologica dei Viceré troviamo il suo nome e i suoi provvedimenti.
Fu la prima e unica donna Viceré di Spagna in Sicilia nel 1677. Fu destituita dopo solo 28 giorni in quanto non poteva assumere l'autorità di Legato Papale (titolo indivisibile da quello di Viceré), a causa del suo sesso femminile.
Per disposizione testamentaria succedette, nella carica, al marito Angel de Guzmàn, marchese di Castel Rodrigo, diventando così Viceré di Sicilia. Come si racconta, tutti pensavano che Eleonora, essendo donna, avesse un carattere debole e quindi facilmente manovrabile dai potenti di turno che aspiravano ad arricchirsi a spese del popolo. Ma così non fu.
Eleonora fu una donna dalle doti politiche e umanitarie estremamente eccellenti. "Fece cose più e meglio degli altri Viceré", pur avendo contro funzionari e cortigiani corrotti.
Una femminista ante litteram: ripristinò il “conservatorio per le Vergini pericolanti", che era stato prima chiuso per mancanza di fondi. Le “Vergini pericolanti” erano ragazze, appartenenti ai ceti più poveri, che erano rimaste orfane e, quindi, correvano  più delle altre il pericolo di cadere nel baratro della prostituzione. Per evitare ciò veniva loro dato un sussidio di sostentamento tramite questo Conservatorio.
Successivamente Eleonora ricostituì il “conservatorio delle Ripentite” con l’intento di salvaguardare le ex-prostitute che venivano così aiutate a cambiare vita ed istituì una Dote Regia per le ragazze povere che desideravano sposarsi.
A lei si devono, inoltre, la riduzione delle tasse per chi aveva una famiglia numerosa, la legge per abbassare il prezzo del pane, la creazione del Magistrato del Commercio che riuniva le 72 maestranze palermitane. Praticamente in un tempo brevissimo questa donna Viceré apportò migliorie notevoli a beneficio della popolazione.
Lasciata Palermo, si risposò nel 1679 e da questo secondo matrimonio nacque un figlio che, però, morì prematuramente. Di conseguenza, Donna Eleonora non lasciò alcun erede.
Lo scrittore Andrea Camilleri ha scritto un romanzo, La rivoluzione della luna, unendo la storia documentata all'invenzione narrativa, su questa donna Viceré che governò l'isola per 28 giorni "come il ciclo della luna, pianeta femminile per eccellenza".

Fonti:
Andrea Camilleri, La rivoluzione della luna, Sellerio editore, Palermo, 2013
Stefano Malatesta, Questa Eleonora ha il carattere di Montalbano, in La Repubblica, 17/3/2013
http://it.wikipedia.org/wiki/Eleonora_de_Moura http://it.wikipedia.org/wiki/Vicer%C3%A9_di_Sicilia

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