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Ersilia Caetani Lovatelli

(Roma, 1840 – 1925)

A lei non risulta dedicata alcuna via. E' stata suggerita all'Ufficio Toponomastica del Comune di Roma un'intitolazione in sua memoria per iniziativa del gruppo Toponomastica Femminile. 

L'ultima antiquaria italiana

di Ester Rizzo

Fu la prima donna in Italia ad essere ammessa all'Accademia dei Lincei nel 1879.
Archeologa ed accademica, nacque a Roma il 12 ottobre 1840 da una famiglia di nobili origini ma di idee moderatamente progressiste. La madre, Callista Rzewuska, apparteneva all’aristocrazia polacca e il padre Michelangelo fu principe di Teano e Duca di Sermoneta. 
La memoria della madre polacca, morta prematuramente quando Ersilia aveva solo due anni, è stata da lei onorata con la sua passione per la cultura cosmopolita.
Il padre, appassionato di archeologia, invece, le trasmise ed alimentò il suo interesse per la storia antica.
Ersilia conosceva il latino, il greco antico ed il sanscrito.
Nel 1859, giovanissima, si sposò con Giacomo Lovatelli, anch’egli di nobili origini. Iniziò così ad interessarsi a studi di carattere archeologico, entrando in contatto con le figure più eminenti della ricerca archeologica romana.
Nella sua casa, il suo salotto era frequentato da illustri studiosi ed ella spiccava per essere oltre che intelligente ed elegante, anche abile conversatrice. Tra gli ospiti: Carducci, Zola, Liszt e D’Annunzio. La biblioteca della sua casa vantava oltre 6.000 libri e lei la donò con testamento all’Accademia dei Lincei.
Notevole fu la sua produzione letteraria, ben 9 volumi, ed inoltre collaborò con le riviste "Nuova Antologia" e la "Fanfulla della domenica" dove scriveva di usi e costumi del mondo antico romano.
L'ultima sua pubblicazione risale al 1915; dopo passarono dieci anni di riserbo e silenzio a causa di una malattia che l'aveva colpita.
Morì a Roma il 22 dicembre 1925.
Ersilia Caetani era timida, riservata ed esitava ad esporre in pubblico le sue idee sui monumenti che a quei tempi ritornavano alla luce dal sottosuolo di Roma. Era un'esperta nelle ricerche filologiche ed antiquarie e si era guadagnata la stima di molti studiosi, sia italiani che stranieri.
La sua opera più nota è "Tanathos" pubblicato nel 1887. In queste pagine ci si accorge come l'archeologa non si limitava ad illustrare il monumento, ma trattava in maniera approfondita il concetto della morte del popolo greco e di quello romano. La critica definì quest'opera "un mirabile complesso tanto di comparazione di monumenti che di pensieri sulla caducità della vita umana", aleggia in queste pagine "un profondo senso di amarezza e di malinconia per la consapevolezza della vanità delle cose, a metà tra rassegnazione cristiana e fatalismo pagano".
Curò personalmente l'edizione dei suoi libri pubblicandoli a sue spese e rilegandoli in maniera particolare e raffinata.
E' stata definita "l'ultima antiquaria italiana", dopo di lei il passaggio da questa scienza all'archeologia moderna.
Un'altra definizione che ci piace ricordare è quella che la indica come "la più dotta fra le donne di Roma e fors'anco d'Italia".
I suoi studi contribuirono ad illustrare la città di Roma in maniera non solo chiara ma piacevole da leggere.
Le sue dissertazioni archeologiche non restarono confinate agli addetti ai lavori, come succedeva a quei tempi, Ersilia riuscì a dare "sentimento alla rievocazione archeologica". Ai soggetti che colpivano la sua sensibilità femminile infondeva un alito di vita.
Possiamo concludere affermando che questa donna contribuì al nascere dell'archeologia moderna sia attraverso i suoi scritti, sia attraverso la sua opera divulgatrice.

Fonti
Elisabetta Strickland, La musa pensosa, in “Leggendaria 103” gennaio 2014
http://www.treccani.it/enciclopedia/ersilia-caetani
http://www.brown.edu/Research/Breaking_Ground/bios/Lovatelli_Ersilia.pdf
http://www.lincei-celebrazioni.it/iersilia_caetani.html
http://www.romasegreta.it/s-angelo/palazzo-lovatelli.html
http://www.mommsenlettere.org/person/Details/36
https://scienzaa2voci.unibo.it/biografie/71-caetani-lovatelli-ersilia
http://www.correnterosa.org/1403-ersilia-caetani-lovatelli/

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Bianca Cappello

(Venezia, 1548 – Poggio a Caiano (Po), 1587)

Non esistono vie dedicate al suo nome

I misteri di un cuore impavido

di Alessandra Rossi

Bianca Cappello, la nobildonna veneziana amata e temuta dalla famiglia Medici, nasce nel 1548 segnata dal dono ricevuto da sua madre, Pellegrina Morosini, la prima moglie di Bartolomeo Cappello: una bellezza “imperiosa”, per usare l’aggettivo attribuito da Michele de Montaigne al suo viso, che passava per i suoi occhi azzurri e brillanti e attraversava il suo corpo perfetto, quasi fosse modellato dalle mani sapienti di un artista. Bianca, però, non cresce con la madre ma con la seconda moglie di Bartolomeo, Lucrezia Grimaldi, una donna aspra e severa, interprete perfetta del ruolo di matrigna crudele che ci viene proposto dalle fiabe più note. E, proprio come nelle fiabe, alla giovane Bianca sembra offrirsi la possibilità di un riscatto dall’infanzia poco rosea quando riceve le attenzioni di un giovane fiorentino, il ventiquattrenne Pietro Bonaventuri. Alla quindicenne Bianca basta affacciarsi alle finestre della sua casa, che già iniziava a starle stretta, per far invaghire il giovane impiegato del banco della famiglia Salviati, dall’altra parte del canale. Per lei deve esser stato amore a prima vista, o forse l’illusione di un amore: il giovane rappresenta la possibilità di emanciparsi, di fuggire dalla famiglia; per Pietro il matrimonio con Bianca significa la possibilità di scalare repentinamente la piramide sociale, passando dalle innumerevoli scappatelle, per le quali è noto, al legame con una nobildonna veneziana per di più incredibilmente graziosa. Bianca, in realtà, non è solo una fanciulla bella, in lei c’è qualcosa di più profondo: un intimo bisogno di vivere intensamente, di non fermarsi, di non accontentarsi e accettare il destino che il padre e la matrigna vogliono scegliere per lei. Non si risparmia i rischi e per questo viene ripagata con momenti altissimi, durante i quali deve esserle sembrato di poter toccare la volta celeste, seguiti da altri in cui, come quasi sempre accade, sembra di sprofondare nel dolore più forte. 
Pietro e Bianca, che scopre di essere incinta ed è accusata dal padre di aver rubato soldi e gioielli, scappano — sulle loro teste pende anche una taglia — nell’unica città in cui il ragazzo si sente al sicuro dalle leggi della Serenissima e dall’ira impetuosa del padre della sua giovane sposa: Firenze. Qui Bianca pensa forse di avere un’opportunità di salvezza, immagina l’inizio di una nuova vita; invece la città medicea si rivela una realtà non facile, meno fiabesca di quella che forse aveva sognato. Si sposano ma la casa dei genitori del marito è umile rispetto agli standard ai quali era abituata; a Firenze giunge la richiesta da Venezia di consegnarla insieme al marito Piero: ora la decisione spetta a Cosimo I, o meglio al figlio Francesco al quale ormai lo stanco Granduca delega tutte le rogne.
Il primo incontro tra queste due anime, che saranno legate tra loro a doppio filo, forse avviene per questo motivo ma, come in tutte le storie avvincenti, molti elementi leggendari si sono aggiunti successivamente. S
i dice che l’occasione ha come protagoniste Bianca e la sua esplicita bellezza: ancora una volta a lei basta lasciarsi intravedere tra le tende di una finestra, forse lancia una rosa come omaggio al giovane principe. Un amore per una rosa: Francesco la guarda sorridere e in un attimo la sua devozione è tutta per lei.
Ma la bella dama veneziana oltre al legame col Bonaventuri, ora suggellato anche dalla nascita della figlia Pellegrina, ha una rivale ingombrante, la moglie Giovanna d’Austria, poco affascinante stando alle cronache fiorentine del tempo, ma pur sempre sorella dell’imperatore. Il cuore di Francesco non accoglie sentimenti per la consorte, occupato com’è dall’amore per Bianca. L’erede mediceo omaggia la sua amante con doni, ville e palazzi, il primo e più famoso dei quali è il palazzo di via Maggio (ribattezzato in suo onore palazzo Bianca Cappello), vicinissimo a Palazzo Pitti per permettergli di raggiungere comodamente la donna in qualsiasi momento lo desideri; allo stesso tempo Francesco non può esplicitamente permettere che Bianca entri nella vita della sua famiglia “dall’entrata principale”. Sono, infatti, entrambi ancora sposati e questo fa sì che la figura della nobildonna veneziana sia fonte di timore per una parte della corte fiorentina; il più preoccupato sembra il cardinale Ferdinando, fratello di Francesco, che non riuscirà ad accettare sinceramente Bianca neppure quando diventerà ufficialmente Granduchessa. La giovane veneziana ha però un’alleata all’interno della famiglia: è la “Stella di casa Medici”, Isabella, la più abile amministratrice delle fortune medicee, la guida del casato, molto più talentuosa del fratello Francesco nell’amministrazione delle questioni di Stato. Egli, che nel 1574 è diventato Granduca, si rivela un politico rigido e inesorabile, eredita uno stato dall’apparato burocratico e amministrativo funzionante, ma appare refrattario alla routine e al suo ruolo nell’amministrazione; spesso, infatti, si rifugia nello studiolo di Palazzo Vecchio, dove può dedicarsi ai suoi interessi culturali e scientifici: l’amore e gli studi costituiscono per Francesco il modo migliore per elevarsi dalla condizione strettamente terrena di Granduca.
Il destino lavora in favore di Bianca: suo marito viene misteriosamente assassinato in strada mentre è di ritorno dalla casa della sua amante. Si vocifera che oltre al destino ci sia lo zampino di casa Medici, ma il risultato non cambia: l’amore veneziano di Francesco ora non è più sposata e lo scandalo diviene meno “scandaloso”. La Granduchessa Giovanna, poco amata sia dal marito che da Firenze e sempre un po’ in disparte, continua ad arricchire l’albero genealogico della famiglia, ma solo di figlie femmine e questo preoccupa la corte. Si prospetta un’arma vincente per Bianca che si sente pronta ad agire: deve essere assolutamente lei a dare a Francesco il primo figlio maschio. Anche in questo caso le dicerie si arrampicano intorno ai fatti storici: forse non è lei la madre biologica del bambino che nasce nell’agosto del 1576, forse è una giovane ragazza incinta la vera madre dell’erede maschio, affidato a due camerieri personali di Bianca che lo accudiscono. Il neonato, al quale viene dato il nome di Antonio de’ Medici, potrebbe avere un futuro grandioso ed essere destinato a ben altro ruolo che quello di figlio di due camerieri, ma la sorte è beffarda e il 20 maggio 1577 Giovanna d’Austria mette al mondo il primo figlio maschio legittimo del Granduca, il piccolo Filippo: nessuno può immaginare che vivrà appena 5 anni.
Un anno dopo Giovanna d’Asburgo, che aveva avuto la sfortuna di trovarsi in mezzo a una storia d’amore tanto intricata quanto salda, esce di scena a causa di una rovinosa caduta dalle scale: Bianca e Francesco non perdono tempo e si sposano due mesi dopo l’incidente luttuoso, anche se con una cerimonia celebrata in gran segreto. Nessuno ostacolo ormai si frappone fra loro, possono coronare il loro sogno ma con un occhio attento agli umori della città e della nobiltà fiorentina, non ancora pronta ad accogliere quella nuova Granduchessa. Il segreto non rimane a lungo tale, le nuove nozze possono essere un vantaggio e non solo per Bianca. Anche Venezia accoglie con letizia e clamore l’evento: ora Bianca, la stessa donna d’animo irrequieto che era scappata quindicenne dalla casa paterna con una taglia sulla testa, sposata a un borghese qualsiasi e presunta ladra, torna a essere “Figliuola di Venezia”, grande vanto della Repubblica Serenissima e non perché il suo spirito sia mutato, ma solo perché sono cambiati il sangue e il rango dell’uomo al quale è legata. Francesco non vuole per lei un matrimonio morganatico, vuole che la famiglia e la città tutta si inchinino di fronte alla nuova Granduchessa: una seconda cerimonia, solenne e pubblica, viene celebrata nel 1579. La partita, infine, l’ha vinta Bianca.
La coppia ora può muoversi alla luce del sole, i possedimenti medicei possono accoglierli come marito e moglie legittimi: tra le tante ville una in particolare è amata dalla veneziana, quella di Pratolino. Si tratta di una proprietà sulla strada tra Bologna e Firenze, riadattata da Francesco per omaggiare Bianca, un luogo del cuore insomma, intimo e lontano dalle pressioni della famiglia e dalle maldicenze del popolo fiorentino.
Adornata da giardini meravigliosi, curati da straordinari artisti, è costellata di fontane automatiche che stupivano chiunque trascorresse del tempo in questo Eden artificiale. È emblematico il resoconto di Michele de Montaigne che, di ritorno da una Firenze “deludente”, si consola nella splendida dimora affermando nel suo Journal du voyage en Italie par la Suisse et l'Allemagne:La bellezza e la ricchezza di questo luogo non si possono rappresentare con la scrittura”. La villa, in realtà, è arricchita dalla figura di Bianca, dalle sue doti filantropiche e dalla sua intelligenza. I suoi salotti dettano legge in fatto di moda e costume, il suo gusto raffinato influenza quelle nobildonne che inizialmente le erano state ostili, ma ora la imitano nell’uso dei merletti veneziani e di quei particolari colletti che lei sfoggia sempre.
L’idillio d’amore fra Bianca e Francesco dura poco, appena otto anni, e la sorte, o chiunque l’abbia aiutata, piombano inesorabili sui due innamorati. La morte sopraggiunge misteriosa, nel 1587, in un’altra villa medicea, quella di Poggio a Caiano. In principio si pensa a una febbre terzana che nell’arco di 11 giorni si porta via marito e moglie, entrambi affetti dagli stessi sintomi; si parla anche di smodatezza nel bere e nel mangiare, si immagina persino un devastante tumore al seno che avrebbe ucciso Bianca. In seguito comincia a montare la storia del doppio omicidio con arsenico, forse perpetrato dal fratello e cognato Ferdinando de’ Medici. Effettivamente la morte repentina e pressoché identica di Bianca e Francesco lascia spazio a ipotesi diverse, non ultima quella della congiura di palazzo. Il maggiore indiziato appare Ferdinando che in quei tragici giorni si trova proprio ospite nella villa di Poggio a Caiano, teatro dei macabri eventi. Si sa che Ferdinando ha solo apparentemente perdonato a Bianca il suo essere stata la determinata e sempre presente guida del Granduca; inoltre è lui il maggior beneficiario della morte dei coniugi ereditando subito il titolo di Francesco. Gli intrighi di corte sono all’ordine del giorno nell’Italia del XVI secolo e la famiglia medicea, anche in passato, non è stata esente da simili accuse. Forse invece, come era accaduto alla madre di Francesco, Eleonora di Toledo, e ai suoi fratelli minori Giovanni e Garcia, il Granduca e sua moglie Bianca sono vittime delle pericolosissime febbri malariche.
La storia di Bianca rimane ancora una volta costellata di misteri, di luci e ombre; senza dubbio è stata una donna brillante e volitiva, bella, di una bellezza impenetrabile e altezzosa, capace in modo quasi naturale di attirare su di sé invidia e maldicenze, una “straniera” arrivata con una fama terribile e andata via da Granduchessa. Queste cose alle donne si fanno pagare e anche caramente: dopo la sua morte viene infamata nei più modi diversi, a partire dalle battute crudeli del popolo (Qui giace un Cavatel pien di malìe/e pien di vizi. La Bianca Cappella/ puttana, strega, maliarda e fella/che sempre favorì furfanti e spie) fino ad arrivare alla scomparsa del suo corpo, probabilmente sepolto in una fossa comune, ultimo “regalo” del cognato Ferdinando che non le concede le esequie solenni come il suo titolo di Granduchessa prevede.

Fonti:

Michele de Montaigne, Giornale di viaggio in Italia, a cura di E. Camesasca, Milano 1956.

Marcello Vannucci, 1989, I Medici. Una famiglia al potere, Newton Compton editori, 1989.

Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Newton Compton editori.

Patrizia Vezzosi, È lui il più bello. Ritratti medicei nella villa di Cerreto Guidi, Alinea editrice, 2007, p.21

Caroline P. Murphy, Isabella de’ Medici, Milano, Il Saggiatore, 2011.
http://www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/cartedidonne/arrivo.html

http://www.firenzetoday.it/cronaca/oltrarno-misteri-bianca-cappello.html

http://www.treccani.it/enciclopedia/bianca-capello-granduchessa-di-toscana_(Dizionario-Biografico)/


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Virginia Carini Dainotti

(Torino, 1911 – Roma, 2003)

Fu una delle principali figure del dibattito biblioteconomico in Italia nel secondo dopoguerra, per dirla col titolo di un convegno a lei dedicato nel 1999, e una delle massime sostenitrici del modello angloamericano di biblioteca pubblica (public library) inteso come strumento fondamentale di crescita democratica. Nel 2013, a dieci anni dalla scomparsa, le è stata dedicata la Sala conferenze della Biblioteca Statale di Cremona e, nello stesso anno, è stata suggerita alla Commissione Consultiva Toponomastica di Roma un'intitolazione in sua memoria per iniziativa congiunta del gruppo Toponomastica Femminile e dell'Editrice Bibliosofica.

La battaglia per la nascita di una public library italiana

di Saveria Rito

Virginia Dainotti nacque a Torino da Paolo Dainotti e Luisa Garbelli l'1 luglio 1911 e, dopo la laurea in lettere e il diploma in paleografia-archivistica-diplomatica e biblioteconomia, ebbe il primo incarico presso la Biblioteca Braidense di Milano. Già nel 1936, ad appena 25 anni, fu nominata responsabile della Biblioteca Governativa di Cremona, dove rimase fino al 1942 e contribuì a risollevare le sorti di un istituto ormai decadente, trasformandolo in un centro culturale per la comunità e seguendone il trasferimento nell’attuale sede cinquecentesca di Palazzo Affaitati. Mi piace ricordare che la Biblioteca Statale di Cremona, oggi appartenente al Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo, istituita dai Gesuiti, era stata aperta al pubblico nel XVIII secolo per volere di una donna, l'imperatrice Maria Teresa d'Austria, che l'aveva dotata di fondi preziosi. Un secolo e mezzo piu tardi, la riorganizzazione scientifica di quella stessa biblioteca fu accolta da un'altra donna, Virginia Dainotti appunto, che la vide come un’opportunità per sperimentare alcuni servizi innovativi, ad esempio l'apertura della Sala studenti, la prima in Italia, rifacendosi alle teorie biblioteconomiche di Luigi de Gregori e a modelli statunitensi di public library da lui divulgati. Dainotti coinvolse stimati intellettuali cittadini a proporre nuovi testi da acquistare, richiamò l'attenzione delle autorità locali ottenendo consistenti finanziamenti e provò ad avvicinare alla biblioteca un'utenza eterogenea e non abituale, come i "semplici lettori". L'intera vicenda dell’ammodernamento fu seguita con particolare attenzione anche dalla stampa locale, sia per merito del suo grande impegno sia perché nel 1939 Virginia Dainotti aveva sposato il prefetto di Cremona, Pietro Carini, acquisendo una certa popolarità.
Nel 1942 lasciò Cremona ed entrò nella commissione ministeriale per la revisione delle Regole per la compilazione del catalogo alfabetico per autori, sospesa dopo l'armistizio del 1943 e ripristinata nel 1945. Sempre nel 1943, assunse la direzione della biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea a Roma, ex Biblioteca del Risorgimento, che mantenne fino al 1951 per essere nominata l'anno successivo ispettrice ministeriale delle province di Modena e Cremona. Dai primi anni Cinquanta in poi, il suo progetto principale fu l'organizzazione del Servizio Nazionale di lettura e partecipò costantemente a commissioni di studio, congressi nazionali e internazionali di biblioteconomia, fu invitata a tenere lezioni e seminari su temi quali i servizi nelle biblioteche, la diffusione della lettura e la sua funzione educativa, l'organizzazione delle biblioteche di enti locali e la formazione del personale. Dal 1967 fu nella commissione per i rapporti col Parlamento per il servizio di pubblica lettura e, alla fine degli anni 70, partecipò agli incontri per l'attuazione di un sistema bibliotecario nazionale, affermatosi un ventennio più tardi.
Tutti gli scritti di una vita, le azioni e gli interventi all'interno dell'AIB (Associazione Italiana Biblioteche) furono mirati alla modernizzazione del concetto di biblioteca pubblica nel nostro Paese per passare da un'istituzione di conservazione, di nicchia e contrapposta a quella "popolare" nata da idee socialiste di inizio Novecento, ad una aperta a ogni tipologia di utenza.  "Diamo la biblioteca al mondo, diamola al suo mondo, che è largo, che è vivo", ricordava in una delle ultime interviste rilasciata nel 2000 a Mauro Flati, tre anni prima di morire, e riportata in appendice agli atti di un convegno tenutosi all'Università di Udine in suo onore nel 1999. Virginia Carini Dainotti  provò a conciliare la realtà italiana con modelli anglosassoni e statunitensi, aveva una visione totalmente innovativa per la sua epoca che contrastava con l'immagine tradizionale del bibliotecario (un tempo quasi tutti maschi) chiuso tra i libri, poiché riteneva la biblioteca un'istituzione viva con un ruolo sociale, alleata nei processi di democratizzazione e sviluppo dei popoli, baluardo del diritto all'informazione. La biblioteca pubblica istituto della democrazia è il titolo di una sua opera del 1964 e sono gli stessi concetti che nel 1995 sarebbero stati universalmente fissati nel Manifesto UNESCO per le biblioteche pubbliche che così la definisce: "[...] via di accesso locale alla conoscenza, costituisce una condizione essenziale per l'apprendimento permanente, l'indipendenza nelle decisioni, lo sviluppo culturale dell'individuo e dei gruppi sociali".

Fonti
Angela Nuovo, Ricordo di Virginia Carini Dainotti, in AIB Notizie 15 (2003), n. 6, p. 8
Virginia Carini Dainotti e la politica bibliotecaria del secondo dopoguerra: atti del convegno, Udine, 8-9 novembre 1999, a cura di Angela Nuovo. Roma, AIB, 2002.
Virginia Carini Dainotti, La biblioteca pubblica istituto della democrazia. L'elaborazione internazionale del concetto di biblioteca pubblica, Milano, Fabbri, 1964
Virginia Carini Dainotti, La Biblioteca Governativa nella storia della cultura cremonese, Cremona, Deputazione di storia patria, 194

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Rosa e Cecilia Caselli Moretti

Rosa (Perugia, 1896 –  1989)   Cecilia (Perugia, 1905 - 1996)

Quando si pensava che il Cenacolo di Leonardo potesse perdersi irrimediabilmente a causa dell’opera di deterioramento, iniziata subito dopo la conclusione dell’affresco, due sorelle “artiste-artigiane” perugine furono capaci di riprodurre mirabilmente in una grande vetrata l’Ultima Cena. Oggi lo studio Caselli Moretti è diventato un laboratorio museo, dove ancora donne della famiglia si tramandano quell’antica arte. Poco lontano dal laboratorio c’è un giardinetto pubblico che non ha un nome, viene indicato come “giardino  di viale Indipendenza”, ci sembra perciò opportuno intitolarlo a Rosa e Cecilia Caselli Moretti.
Questo auspicio si è trasformato, nel giugno 2016, in realtà e i giardini sono stati intitolati alle due pittrici perugine.

Rosa e Cecilia: due donne, due artiste perugine del Novecento

di Giorgio Panduri

Rosa e Cecilia nacquero da Lodovico Caselli Moretti e Paolina Taticchi. È impossibile tracciare la biografia di Rosa senza parlare di Cecilia e viceversa, poiché la loro vita privata e artistica fu strettamente e intimamente legata.
Nate in una famiglia di artisti, fin da bambine respirarono l’aria dello Studio di vetrate artistiche dipinte a fuoco fondato nel 1859 da Francesco Moretti, zio del padre Lodovico; condussero una vita più ritirata rispetto a quelle dei loro predecessori, ma non per questo meno laboriosa.
All’età rispettivamente di 26 e 17 anni, Rosa e Cecilia si ritrovarono senza la preziosa guida del padre, morto prematuramente nel 1922, dopo che anche lo zio Francesco era morto nel 1917.
Scrive Angelo Lupattelli nel 1923: “Dopo sì grave sventura, un solo pensiero, un solo augurio […]; quello cioè che la tradizione artistica dello Studio Moretti Caselli venga gloriosamente continuata dalla valentissima e gentile signorina Rosa, la quale […] saprà far rivivere il nome e l’arte dello zio e del padre, toccando ad essa il merito di compiere le tre vetrate, nello stile del Trecento, per la Chiesa Inferiore di S. Francesco in Assisi, lasciate dal Caselli incompiute”. E Rosa, sempre insieme a Cecilia, non disattese le speranze. Enorme fu il lavoro a cui  si sottoposero le due sorelle in un periodo così doloroso della loro vita familiare, acuito dalla perdita di un fratello, morto di tifo all’età di 15 anni nel 1916, e di una sorella di 23 anni, morta solo poche settimane dopo il padre.
Oltre al completamento delle opere iniziate dal padre in Assisi, Sinalunga e Bastia Umbra, tra il 1922 e il 1930, realizzarono numerose vetrate in Assisi, Todi, Camerino, Terni, Arezzo e Perugia.
Inoltre, tra il 1925 e il 1930, eseguirono l’opera più impegnativa della loro vita: la vetrata che interpreta L’Ultima Cena di Leonardo da Vinci a grandezza naturale (40 mq) per il cimitero Forest Lawn a Glendale, presso Los Angeles. Non va dimenticato che ogni singolo pezzo di vetro è dipinto e cotto almeno tre volte. Lavoravano anche di notte con lampade azzurre particolari chiamate “lampade solari”. Rosa eseguì tutte le teste, mentre Cecilia fu nominata la “sarta” perché dipinse tutti i vestiti degli apostoli. Erano ossessionate dalle rotture del vetro che a volte si verificavano. Nemmeno la curiosità di vedere installata questa grande opera, che era loro costata tanto impegno e lavoro, le indusse a lasciare Perugia per recarsi negli Stati Uniti. Si segnala che a Glendale, accanto alla vetrata, sono collocati i busti di Rosa e di Leonardo.
Rosa, diplomata alle scuole magistrali, frequentò l’Accademia di Belle Arti di Perugia e fu insignita del titolo di Accademica di merito nel 1925. Cecilia, dalla salute molto instabile, frequentò dei corsi liberi presso l’Accademia e nel 1994 fu iscritta nell’Albo d’oro del Comune di Perugia come riconoscimento di una vita dedicata all’arte. Nel 1988 entrambe ricevettero un premio speciale della Camera di Commercio di Perugia, per l’attività e la continuità nella tradizione.
Entrambe erano molto riservate, ma Cecilia fu restia a qualsiasi tipo di attività e relazione pubblica, preferendo dedicarsi interamente ai pennelli, realizzando quadri e delicate miniature quando non era impegnata nell’esecuzione di vetrate; dalla documentazione conservata nell’Archivio Moretti Caselli emergono infatti quasi esclusivamente il nome e la figura di Rosa, la quale curò le relazioni esterne dello Studio.
Rosa, pur non avendo una vita sociale particolarmente intensa, prese parte ad alcune associazioni cittadine, tra cui si ricorda l’Azione Cattolica, della cui sezione femminile fu anche presidente, e l’associazione “Donne artiste e laureate-circolo Vittoria Aganoor”. Fu inoltre terziaria francescana.
La vita delle due sorelle trascorse in gran parte all’interno dell’edificio quattrocentesco di via Fatebenefratelli, fra vetri, carta e colori.

OPERE REALIZZATE:
1922 Sinalunga, Convento di S. Bernardino
1922 Bastia, Chiesa di S. Croce
1923 Todi, Chiesa di S. Fortunato
1924 Assisi, Basilica di S. Francesco (chiesa inferiore, S. Chiara e S. Elisabetta)
1924-27 Assisi, Chiesa Nuova
1924-30 Assisi, Basilica di Santa Chiara
1925-30 Glendale (USA), Ultima Cena
1926 Camerino, Cattedrale
1928 Terni, Chiesa di S. Francesco
1928 Arezzo, Cattedrale, Cappella Madonna del Conforto
1928 Assisi, Basilica di S. Francesco (chiesa superiore, finestrone abside)
1929-31 Perugia, Cappella del Seminario
1932 Montecastello di Vibio, Madonna SS. dei Portenti
1932-39 Perugia, Cattedrale di S. Lorenzo (vetrate abside)
1937 Torgiano, Chiesa di S. Bartolomeo
1937-44 Sansepolcro, Ultima Cena
1947-61 Los Angeles, serie di vetrate per W. L. Frazier
1948 Montegabbione, Chiesa parrocchiale
1952 Matelica, Cattedrale
1953 Deruta, Chiesa di S. Francesco
1955 Perugia, vetrate Villa Fani
1959 S. Enea (PG), Chiesa parrocchiale
1962 Perugia, Rifugio Francescano Frate Indovino
Vetrate per cappelle cimiteriali e dimore private in diverse città d’Italia
Restauri di vetrate per chiese e per privati

Fonti
Archivio Caselli Moretti
http://www.studiomoretticaselli.it
Angelo Lupattelli, Una famiglia di artisti fiorita in Perugia nella seconda metà del XIX secolo. Francesco Moretti, Tito Moretti, Irene Moretti in Caselli, Lodovico Caselli Moretti, Perugia, Tip. G. Guerra, 1923
G. Giubbini, R. Santolamazza (a cura di), La carta, il fuoco, il vetro. Lo studio-laboratorio Moretti Caselli di Perugia attraverso i documenti, i disegni e le vetrate artistiche, Perugia, Edimond, 2001

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Enrichetta Castiglioni

(Modena, 1803 – Venezia, 1832)

Via Enrichetta Castiglioni, la cui intitolazione avvenne nel febbraio 1911, sorge ai margini del centro storico di Modena. E’ lunga appena 168 metri, attraversa due vie dedicate ai patrioti modenesi Vincenzo Borelli e Anacarsi Nardi e finisce in viale Ciro Menotti, il patriota a capo dei moti del 1831 a Modena. Eppure, i cittadini modenesi non sanno né dove sia la strada né chi sia stata Enrichetta Castiglioni, anche se la sua vicenda meriterebbe di essere conosciuta, se non altro perché fu vittima delle decisioni di altri. L’unica decisione presa da lei la portò alla morte e forse per questo ad Enrichetta non sarà dispiaciuto vedere che la targa stradale la ricorda con il cognome del marito e non con quello della sua famiglia di origine.

Una donna modenese nel Risorgimento

di Roberta Pinelli

Enrichetta nacque a Modena il 27 gennaio 1803 da Giuseppe Bassoli, un nobile modenese senza troppe sostanze, che le diede un’istruzione semplice e rudimentale.
A soli 16 anni, per consolidare le fortune familiari, ovviamente senza il suo consenso, le fu combinato il matrimonio con Francesco Manini, gentiluomo di Parma molto ricco, ma anche molto più anziano di lei. Come era logico aspettarsi, Enrichetta rimase vedova con una bambina prima dei vent’anni e fu costretta a far ritorno nella casa paterna.
Poco tempo dopo, l’unica decisione che Enrichetta prese autonomamente: si innamorò perdutamente di Silvestro Castiglioni, giovane figlio del Presidente del Supremo Consiglio di Giustizia del Duca di Modena. Non era certamente il marito ideale, Castiglioni, a causa di precedenti vicende poco edificanti con alcune donne, tanto che il padre lo aveva costretto ad allontanarsi da Modena e ad iscriversi in un reggimento di cavalleria austriaca a Vienna. Enrichetta non si curò di tutto questo e accettò di vivere con lui more uxorio, poiché Castiglioni non poteva sposarla e, pur amandosi teneramente, non poterono unirsi in matrimonio nemmeno quando, nel 1831, dal loro legame nacque un bambino, che Enrichetta volle chiamare Enrico. Nello stesso 1831, Castiglioni, insieme ad altri patrioti, fra cui Ciro Menotti, organizzò i moti carbonari di Modena del 3 febbraio. Non si sa se Enrichetta condividesse o meno gli ideali patriottici dei carbonari; si sa però che al momento dell’insurrezione, nonostante il timore delle conseguenze, spinse Castiglioni a raggiungere Ciro Menotti e gli altri patrioti. Fuggito il Duca Francesco IV d’Austria-Este, Silvestro Castiglioni si ritrovò così a far parte dei 72 cittadini che ressero il nuovo Governo, diventando capitano del 1° reggimento italiano cacciatori a cavallo. Quando si comprese che la rivolta era fallita, Enrichetta insistette affinché Castiglioni lasciasse la città prima del ritorno del Duca (accompagnato dalle armi austriache). Egli però decise di rimanere fino all’ultimo a Modena, ma poi dovette fuggire in tutta fretta per evitare di essere giustiziato con gli altri patrioti rimasti in città. Enrichetta, con il figlio di pochi mesi, decise di seguire il Castiglioni nella fuga, pur consapevole che, se gli Austriaci li avessero catturati, sarebbero stati giustiziati, poiché al suo rientro a Modena il Duca aveva condannato a morte in contumacia tutti i patrioti che erano riusciti a fuggire. Giunti dapprima a Bologna e poi ad Ancona, i patrioti modenesi tentarono la fuga via mare, ma furono catturati da una flotta austriaca appena usciti dal porto ed incarcerati nel carcere veneziano di San Severo. Insieme a loro fu imprigionata anche Enrichetta, che volontariamente aveva deciso di condividere il carcere con il suo uomo. Debilitata dalle pessime condizioni di vita del carcere veneziano, e forse minata da un cancro, Enrichetta riuscì a sposare Silvestro Castiglioni il 23 marzo 1832 e poco dopo, ancora incarcerata nonostante il declinare della salute, morì. Era il 23 aprile 1832; Enrichetta aveva solo 29 anni.
Giunta l’amnistia per i patrioti mazziniani, Silvestro Castiglioni si rifugiò in Francia e, arrivato a Marsiglia, volle onorare la memoria di Enrichetta con solenni onoranze, durante le quali fu lo stesso Giuseppe Mazzini a pronunciarne l’elogio funebre.
Logorato dal carcere e dalla vita grama degli esuli, Silvestro Castiglioni raggiunse Enrichetta l’anno successivo (1833).
Mossa forse più dalla passione amorosa che da aneliti di libertà e patriottismo, vittima delle circostanze e della cultura del suo tempo, fu però capace di decisioni culturalmente e socialmente controcorrente. Questo è stata Enrichetta Castiglioni: una donna che, pur avendo vissuto nell’Ottocento, può a buon diritto essere ricordata come una donna moderna.

Fonti
Bruna Bertolo, Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell’Unità d’Italia, Torino, 2011
Taddeo Guidi, Ciro Menotti e i suoi compagni o le vicende politiche del 1821 e 1831 in Modena. Cenni storico-biografici, Milano, 1880
Alessandro Luzio, Giuseppe Mazzini, Milano, 1905
Giuseppe Mazzini, Scritti editi ed inediti, Imola, 1909
Tommaso Sandonnini, Enrichetta Bassoli Castiglioni in Archivio Emiliano del Risorgimento Nazionale, a. II (1908) fasc. 7-8
http://www.dizionariorosi.it/
http://www.auris.it/files/File/Il%20Risorgimento%20a%20Modena.pdf

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Giovanna Cecioni

(Vaglia (FI), 1841 – Firenze, 1937)

Non risulta alcuna intitolazione a suo nome.

Una pittrice all'ombra dei Macchiaioli

di Laura Candiani

Giovanna Cecioni rappresenta bene la condizione - condivisa con molte come Egle Marini, ad esempio - di artista dimenticata e finita nell'ombra di fratello, colleghi e amici, appartenenti nel suo caso alla cerchia dei Macchiaioli. Dopo 175 anni dalla sua nascita finalmente le preziose ricerche di uno studioso livornese l'hanno fatta riemergere dall'oblio e un recente convegno a Lucca l'ha giustamente ricordata.
Figlia di Giuseppe e di Umiliana Cecchini, fu battezzata Maria Anna, ma dal '42 risulta nei registri parrocchiali come Giovanna. I genitori erano benestanti e per lungo tempo gestirono una locanda, ma il padre aveva anche attitudini artistiche che trasmise ai figli: infatti oltre allo scultore Adriano e alla pittrice Giovanna, si dedicarono all'arte Enrico ed Egisto, bravi stipettai ed eccellenti mosaicisti. Dei sette figli si sposarono soltanto la maggiore, Ersilia, e Adriano; gli altri (Erminia, Giovanna, Ismene, Enrico ed Egisto) non ebbero una famiglia propria, ma sappiamo che furono legati affettuosamente fra di loro e vissero molto vicini l'uno all'altro.
Giovanna non frequentò alcuna accademia e per circa cinque anni (dal '62 al '67) non risulta stabilmente a Firenze; potrebbe essere stata a Napoli con il fratello Adriano che vi soggiornò, ritornando sposato e con il figlioletto Giorgio. Dal '68 Giovanna è a Firenze e vive con i genitori in viuzzi delle Lane al n.394; dall'anno successivo si trasferiscono in via Antonio Giacomini al n.16: lì Giovanna abiterà sempre. La prima testimonianza della sua produzione artistica è del 1868 quando partecipa alla mostra organizzata dalla Società Promotrice di Incoraggiamento di Firenze con il dipinto “I balocchi” che sperava di vendere a 200 lire. Il quadro oggi è sconosciuto, ma il fratello ne fece gli elogi per la naturalezza, la semplicità, la libertà espressiva, in polemica con gli insegnamenti ufficiali e codificati che avversava. Nel '69 Giovanna viene ritratta, mentre dipinge al cavalletto, da Odoardo Borrani e questa bella tela è un duplice documento, perché ce ne mostra l'aspetto grazioso e giovanile, con i capelli castani raccolti, il volto attento e il vezzoso nastrino al collo, ma anche perché testimonia la sua attività artistica. Nel '72 Giovanna fa parte di un gruppo di 16 artiste presenti con le loro opere a Milano e il critico Francesco dall'Ongaro all'epoca nota acutamente che il lavoro per le donne rappresenta “il miglior mezzo di emancipazione e di indipendenza”, in particolare quello artistico che può conservare “quel vanto di gentilezza e di leggiadria”, doti senz'altro appartenenti a Giovanna e alla sua produzione.          Nel '73 Giovanna partecipa all'Esposizione Universale di Vienna con due dipinti; uno dovrebbe essere “Una cucina”, l'altro - ben descritto e assai lodato da Telemaco Signorini - è “Un artista in erba”. Questa tavola (che raffigura un interno in cui un bambino cerca di riprodurre una piccola modella con il cappello da bersagliere, mentre una bambina assiste un po' distratta) per lungo tempo è stata attribuita al fratello Adriano e qui si pone il problema centrale: gli equivoci e le errate attribuzioni si ripetono. Giovanna e Adriano, infatti, lavoravano e presentavano le loro opere insieme, magari firmate con il solo cognome, utilizzavano soggetti simili, interni e familiari; ad esempio: ”La stalla”, ”I balocchi”, ”La cuoca domestica”, ”La colta delle zucche”- lei; “La stalla dei bovi”, ”I soldatini di carta”, ”Le faccende di casa”- lui.
Dai documenti sembra che Cristiano Banti l'abbia inserita nella sua celebre collezione privata (forse proprio con l'olio “Un artista in erba”); nel 1884 Adriano scrive di questa importante raccolta evidenziando la qualità delle opere presenti nella “Galleria Banti”, definita “unica nel suo genere”. Giovanna continua a dipingere e a partecipare alle esposizioni, almeno fino al 1903, ma alla fine degli anni Ottanta decide di dedicarsi all'insegnamento per avere quella tranquillità economica che era sempre mancata ad Adriano, tormentato dalla difficoltà di mantenere la famiglia, cessata solo quando divenne insegnante al Magistero l'anno prima di morire precocemente, nel 1886. Il 30 aprile 1889 Giovanna diviene insegnante aggiunta reggente di disegno nelle scuole normali e prende servizio a Lecce; dal 1° ottobre 1889 è trasferita a Livorno, alla scuola “Angelica Palli” dove rimarrà tre anni; poi avrà sede a Firenze e dal '93 è promossa insegnante aggiunta effettiva di seconda classe. Dal '98 al 1900 insegna al Conservatorio di Santa Maria degli Angioli e alla scuola  normale femminile “Massimina Rosellini”, in seguito presso l'istituto delle Mantellate. Dai giudizi espressi dal direttore, quando era a Livorno, appare una insegnante capace e appassionata, diligente e dedita al lavoro; molto interessante scoprire il suo moderno metodo didattico che lei stessa spiega in una relazione: cercare di lavorare con pazienza e amore, di dare sempre l'esempio, di lodare le allieve per i progressi e di rendere l'insegnamento piacevole. Il suo interesse per la professione è testimoniato anche dalla partecipazione ai congressi annuali degli insegnanti (dal 1902 al 1905), con un ruolo attivo; fa interventi, esprime le proprie idee sulla necessità di rinnovare l'insegnamento ed è l'unica donna a pronunciare un brindisi al banchetto conclusivo del 1902; tuttavia, dopo tre anni, appare delusa per le “ingiustizie e disuguaglianze” che permangono nel mondo della scuola e nel riordino delle carriere dei docenti.
In questi stessi anni lavora assiduamente, con il fratello Enrico e la nipote Giulia, per realizzare il libro Scritti e Ricordi, curato da Gustavo Uzielli, dedicato all'amato fratello Adriano, pittore, caricaturista, critico e teorico dell'arte, portavoce e unico scultore dei Macchiaioli. L'opera uscirà nel 1905. Passano gli anni e della numerosa famiglia sopravvivono solo Giovanna e le sorelle Erminia e Ismene; dai documenti rintracciati da Bernardini scopriamo qualche altro dettaglio interessante. Le idee dei genitori e dei figli erano sempre state improntate al libero pensiero e al patriottismo, erano stati vicini alla causa garibaldina (Egisto combatté con i Mille, Adriano fu volontario nella Seconda guerra di indipendenza) e le tre anziane signore, durante il periodo fascista, sfidavano il potere costituito tenendo comizi anarchici presso la casa di villeggiatura a Fontebuona.
Giovanna concluse a Firenze la sua lunga esistenza a causa di una polmonite il 28 dicembre 1937.
Per moltissimo tempo la fama di Giovanna è stata oscurata dalla notorietà del fratello, eppure sappiamo dal fitto carteggio che la stima era reciproca e Adriano teneva in grande considerazione i pareri della sorella, mentre lei seguiva con la massima attenzione la produzione del fratello, sempre insicuro e tormentato.
Oltre a Signorini e a Banti, hanno apprezzato i dipinti di Giovanna anche Anna Franchi (citandola in un libro sui Macchiaioli) e poi Mario Giardelli che la definì “fine e buona pittrice”. Colui che meglio ne comprese le qualità fu Raffaele Monti, che notò sì la vicinanza con la produzione pittorica del fratello, ma anche la libertà espressiva e la padronanza nella complessa struttura del già citato olio “Un artista in erba”. Ettore Spalletti addirittura ha avanzato l'ipotesi che alcune opere, ancora attribuite ad Adriano, possano in realtà essere della sorella. I dipinti accertati di Giovanna oggi non sono molti (tre con foto), mentre altri venti sono citati in documenti ed esposizioni; di alcuni abbiamo anche il prezzo di vendita, ma non sono rintracciati. Fra i soggetti preferiti si evidenziano gli interni domestici, come “La lezione” con i tre nipotini intenti, secondo l'età, a varie occupazioni e il delizioso “Una cucina”, ricco di dettagli quasi fotografici, in un ambiente raccolto e luminoso; altri sono paesaggi e scorci di esterni.
Certamente una bella sfida per i critici dell'arte e una ricerca da proseguire con tenacia per far riemergere una vera artista dall'oblio.

Fonti
Luciano Bernardini, Giovanna Cecioni pittrice - contributo alla risoluzione di un problema attributivo, Livorno, Books & Company, 2013  
Anna Franchi, Arte e Artisti Toscani dal 1850 ad oggi, Firenze, Alinari,1902
Mario Giardelli, I Macchiaioli e l'epoca loro, Milano, Ceschina,1958
Raffaele Monti, Interni con figure femminili, in  Gli anni di Piagentina. Natura e forma nell'arte dei Macchiaioli (catalogo mostra), Firenze, Artificio,1991
Ettore Spalletti, Le aporie di Adriano Cecioni, in “Amici di Palazzo Pitti - Bollettino 2010”, Firenze, Polistampa, 2011

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Giulia Centurelli

(Ascoli Piceno, 1832 – Roma, 1872)

Tra le letterate e umaniste del passato, la toponomastica di Ascoli Piceno ha scelto di ricordare solo il nome Elisabetta Trebbiani (donna di lettere e poeta della seconda metà del XIV secolo) e quello di Giovanna Garzoni (celebre pittrice del Seicento). L’odonomastica, che definisce la cultura di una città, ha fino ad ora dimenticato Giulia Centurelli, figlia nobile della storia risorgimentale locale, poeta e pittrice del XIX secolo.

Giulia Centurelli, artista felice, donna infelice

di Maria Gabriella Mazzocchi

In anni recenti e in particolare nel 2011, con le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, si sono moltiplicati i contributi di studiose e studiosi che hanno restituito verità all’impegno delle donne nel movimento risorgimentale. La presenza femminile durante il Risorgimento è stata intensa e si è manifestata ad ampio raggio, coinvolgendo donne di diversi ambienti sociali e di tutte le regioni italiane.
Tra le donne marchigiane che, a vario titolo, hanno contribuito all’unificazione del Paese, va ricordata l’ascolana Giulia Centurelli, donna di rare doti intellettuali, poeta, insegnante e pittrice. Oggi è considerata tra le grandi donne italiane del Risorgimento, pur mancando ancora un’approfondita analisi monografica che ne ricostruisca pienamente la vicenda biografica e artistica.
Sensibile, coraggiosa e appassionata, Giulia è stata, sin dalla sua prima giovinezza, una protagonista dell’Ottocento ascolano. Rileggendo le poche notizie sulla sua vita, ci si accorge che qualche biografo ha posto l’accento più sulla presunta melanconia e infelicità di Giulia, che sulle sue doti di coraggio e talento che dovevano essere certamente fuori dall’ordinario. Questa interpretazione storiografica “di genere” non è insolita e testimonia un pregiudizio comune secondo il quale una donna, impegnata sia politicamente che in campo artistico, non poteva realizzarsi nel suo naturale ruolo di moglie, madre o vestale del focolare domestico. Consideriamo ad esempio che un ex garibaldino come Francesco Crispi, una volta divenuto primo ministro dell’Italia Unita, così scriveva: “Quando voi distaccate la donna dalla famiglia, e la gittate nella pubblica piazza, voi fate, o signori, della donna non più l’angelo consolatore della famiglia, ma il demone tentatore…” (cfr. I. Fabbri, P. Zani, Anita e le altre, Bologna 2011, p.10).
Tra le poche notizie su Giulia Centurelli appare particolarmente significativa la testimonianza della studiosa Teresa Paoletti che, nel 1907, nel corso di una conferenza sulle donne ascolane del passato, si sofferma lungamente su di lei. Nel testo della relazione, pubblicato nel 1911, si legge: “La vita di Giulia Centurelli è una mesta istoria; ella buona e gentile passò per una serie lunghissima di atroci sofferenze. La perdita dei genitori e la morte del fidanzato che adorava avevano resa triste l’anima nata a sentire vivamente ogni bellezza, a entusiasmarsi per ogni idea nobile e santa”. Dunque, anche questa testimonianza femminile concorda con la visione di una Giulia tenera, fragile e sfortunata, infervorata di ideali patriottici e dedita all’arte e agli studi. Come se l’impegno politico e la passione per la poesia e per la pittura siano state per lei non una scelta consapevole, ma una reazione alle sue tristi vicende biografiche. La figura di Giulia (tutta sofferenza, rinunce, ispirazioni e ideali) è tratteggiata dai biografi come una versione “laica” di tante sante ed eroine cristiane.
Le fonti concordano sulla sua educazione giovanile. Il suo precoce talento si forma ad Ascoli, presso la scuola del conte Orazio Centini Piccolomini, per dedicarsi in seguito alla poesia e alla politica. Un capitolo coraggioso della sua vita, scelta certo non comune fra le donne del tempo, è stata l’adesione all’associazione patriottica ascolana Apostolato Dantesco, fondata nel 1855 che, nel nome di Dante, promulgava segretamente le idee liberali e nazionaliste di stampo mazziniano e la diffusione delle opere di autori come Foscolo, Leopardi e Byron, amati da Giulia e censurati dallo Stato Pontificio.
Diversi anni fa sono state pubblicate alcune delle sue poesie e parte dell’intenso carteggio tra Giulia e l’amico Nicola Gaetani Tamburini, fondatore dell’Apostolato Dantesco, materiale che contribuì a farla incriminare e processare. Nel dicembre 1857 la polizia pontificia scoprì l’associazione segreta e Tamburini, insieme ad altri patrioti, fu arrestato e condotto in carcere. Nel 1859 anche Giulia fu arrestata e, poiché donna, consegnata alle suore dell’Ospedale civile di Santa Margherita di Ascoli, per essere carcerata in convento. Dopo aver scontato un anno di reclusione, con l’Unità d’Italia Giulia fu liberata e il 19 settembre 1860 scrisse dei versi appassionati intitolati Rendimento di grazie nel giorno della riscossa.
Il commissario straordinario sabaudo Lorenzo Valerio indisse il 4 e il 5 novembre un plebiscito per sancire l’annessione delle Marche al Regno d’Italia. Nonostante le donne fossero escluse dal voto plebiscitario (solo poche votarono per particolari meriti patriottici e fra esse, unica marchigiana, la giovane poetessa di Recanati Maria Alinda Bonacci Brunamonti) la partecipazione e la mobilitazione femminile furono notevoli. Tra le attiviste ascolane che organizzarono il plebiscito si distinse proprio Giulia Centurelli. Dopo essere stata chiamata a insegnare disegno nella “Scuola Normale Femminile” di Ascoli, nel 1870 passò a Roma alla “Scuola Superiore Femminile” diretta da Erminia Fuà Fusinato, patriota, poeta ed educatrice con la quale strinse un bel rapporto di amicizia. Giulia morì a Roma nel luglio del 1872, stroncata a soli quarant’anni da un’epidemia di vaiolo.
Giulia Centurelli riuscì ad esprimere il suo talento oltre che come insegnante, anche come poeta e pittrice, affermando così un ruolo intellettuale attivo e paritario, cosa non scontata nella società ascolana di allora, improntata all’assoluta predominanza maschile. La sua produzione artistica, tra cui diversi disegni e miniature, è andata purtroppo in gran parte dispersa. Di una delle sue opere perdute parla lo scultore e studioso ascolano Riccardo Gabrielli che ricorda una sua copia dell’Annunciazione, tratta dall’originale di Guido Reni della civica Pinacoteca di Ascoli, opera con la quale Giulia partecipò ad un’esposizione a Firenze nel 1861. Nella stessa Pinacoteca Civica si conservano altre quattro opere: un "Amorino", una "Sacra Famiglia" (copia della celebre Madonna della Cesta di Rubens del 1615), un "Autoritratto" e il "Ritratto di Italo Selva". Nell’intenso "Autoritratto" l’artista si ritrae in atteggiamento semplice e severo, il volto giovanile incorniciato dai capelli neri raccolti, la camicetta bianca chiusa da un piccolo colletto, priva di ogni ornamento. Tutta la forza del ritratto sta nell’intensità dello sguardo, che rivela l’animo nobile e appassionato della giovane donna.

Fonti
Gabriele Rosa, Disegno della storia di Ascoli Piceno, Brescia, 1869;

Teresa Paoletti, Donne ascolane nella storia e nell’arte, Ascoli Piceno, 1911;
Riccardo Gabrielli, All’ombra del Colle di S. Marco, Ascoli Piceno, 1948;
Bruno Ficcadenti , Lettere e poesie per una rivoluzione, s.l. 1988;
Luana Montesi, Per amore della patria. Giulia Centurelli nel Risorgimento marchigiano, in "Marche", 2002, nn.7-8-9;
Gian Luca Fruci, Cittadine senza cittadinanza. La mobilitazione femminile nei plebisciti del Risorgimento (1847-1870), in Genesis, 2006, n. 2;
M. Gabriella Mazzocchi, Giulia Centurelli: una donna ascolana del Risorgimento, in "Flash, la Rivista del Piceno", 2013, n. 400.

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Maria Anna Ciccone

Noto (SR), 1892 (o 1891) –  1965

L’Amministrazione comunale e la Fidapa di Noto il 14 novembre 2015, nel corso di un Convegno su Maria Anna Ciccone, hanno posto una targa a perenne ricordo nella casa in cui la professoressa nacque e morì. L’Istituto di Istruzione Superiore “Matteo Raeli” ha partecipato, nell’anno scolastico 2015/16, al concorso nazionale indetto dall’Associazione di Toponomastica Femminile presentando un disegno animato, “Anna Maria Ciccone – Straordinarietà di una vita normale”. È stato chiesto all’Amministrazione comunale di intitolare a Mariannina Ciccone una strada, una scuola, una rotatoria, una sala conferenze.

 

Una tigre netina, partigiana dei libri

di Ada Dimauro e Vera Parisi

Maria Anna o Mariannina Corradina Ciccone nasce il 29 agosto 1892 (o 1891 secondo i documenti) a Noto da Corrado, ricco commerciante, e Caterina Mirmina. Si diploma presso la Regia Scuola Normale (che diventerà in seguito Istituto Magistrale) di Noto nel 1910. Visto che il diploma non le consentiva di accedere alle facoltà scientifiche, Mariannina si iscrive al terzo anno dell’Istituto Tecnico “Archimede” di Modica, nella sezione Fisico-Matematica, ed è l’unica alunna della classe. Dopo il primo anno nella facoltà di Matematica dell’Ateneo di Roma, si trasferisce a Pisa, dove si laurea brillantemente e dove consegue la seconda laurea in Fisica nel 1924. L’anno seguente è Assistente incaricata presso l'Istituto di Fisica dell'Università di Pisa, poi diventa Assistente Ordinaria e dal 1931 Aiuto, su proposta del direttore dell’Istituto di Fisica Puccianti; la Libera Docenza in Fisica Sperimentale arriva nel 1936. Nello stesso anno comincia un periodo di ricerca nell'Istituto di Fisica della Scuola di Ingegneria di Darmstadt in Germania, collaborando in ricerche di spettroscopia con il Prof Gerhard Herzberg, scienziato antinazista, futuro Premio Nobel per la Chimica nel 1971.
La carriera di docente evidenzia la dedizione completa al lavoro di Mariannina Ciccone. La sua attività è interamente concentrata nell’Istituto di Fisica e ai suoi studi scientifici, tanto che trasferisce la sua residenza all’interno dello stesso edificio. Comincia a pubblicare i suoi primi scritti su Il Nuovo Cimento e su Memorie della società toscana di Scienze Naturali: si tratta di articoli che daranno vita in seguito a testi più complessi.
Dal 1939 ottiene l'incarico di Spettroscopia che mantiene poi in modo continuato fino alla pensione; tra il 1943 e il 1944 tiene tutti gli insegnamenti attivi di Fisica e di Istituzioni di Matematica perché unica tra i docenti a rimanere in servizio. Mariannina Ciccone, una delle prime donne laureate in matematica e in fisica a Pisa, vice-direttrice dell'Istituto, osa affrontare i tedeschi riuscendo ad evitare la distruzione totale dell'edificio e anche la totale asportazione degli strumenti e della biblioteca.
Tra la fine di giugno e l'inizio di luglio del '44 un'ala dell'edificio dell'Istituto di Fisica, situato in Piazza Torricelli, edificio già depredato e minato, viene fatta saltare in aria. La professoressa Ciccone, che è rimasta in Istituto per tutto il periodo della guerra e ha continuato a far lezione (l'unica dopo l'8 settembre del '43), affronta gli ufficiali — conosceva bene il tedesco per aver lavorato a Darmstad — affermando con estremo coraggio che non avrebbe abbandonato per nessun motivo il suo posto di lavoro, anche a costo di saltare in aria con l'edificio. Davanti all’atteggiamento risoluto della donna, gli ufficiali tedeschi desistono dal loro proposito e questo consente la salvezza di una parte dell'edificio e di un cospicuo numero di strumenti scientifici. Sia per la sua coraggiosa permanenza nell’Istituto sia per il coraggio mostrato contro i tedeschi, Mariannina Ciccone è stata elogiata sia dall’allora Consiglio di Facoltà che dal Rettore Remo De Fazi e da Luigi Russo, celebre italianista, divenuto Rettore subito dopo la liberazione; anche al momento di andare in pensione venne ricordata la sua determinazione contro i nazisti. Nella minuta di una lettera indirizzata al Ministro della Pubblica Istruzione dal rettore Luigi Russo il 7 giugno 1946 si legge: "Non posso fare a meno di segnalare la benemerenza acquisita dalla Prof. Ciccone, durante il periodo dell'assedio tedesco, per ciò che concerne la tutela del materiale scientifico, in quanto essa fu sempre presente e vigile nel suo Istituto, anche quando allontanandosene, avrebbe significato porsi in salvo dal pericolo".
Dal primo novembre del 1953 viene trasferita presso la cattedra di Chimica-Fisica per continuare le sue ricerche nel campo della spettroscopia dell’infrarosso. È plausibile pensare che il suo trasferimento sia il risultato di precise scelte amministrative volte ad assumere altri docenti nell’Istituto di Fisica e ciò è confermato dal fatto che nella nuova sede di servizio deve affrontare problemi di carattere organizzativo: l’Istituto infatti non possiede gli strumenti richiesti da Mariannina Ciccone per cui viene chiesto che lasci la sua attività. Anche la docente manifesta l’intenzione di non ricoprire il posto di assistente e così il 12 ottobre 1954 si ha la sua cessazione dal servizio. Anche se le viene assegnato un trattamento di pensione, Mariannina continua ad insegnare come docente incaricata esterna, in particolare è docente di fisica presso la Facoltà di Scienze e di Spettroscopia, di Fisica Sperimentale, di Fisica Terrestre e di Fisica Atomica.
Al termine dell’anno accademico 1961-62 è dichiarata decaduta dall’incarico, così ritorna a Noto dove muore il 29 marzo del 1965.La vicenda di Mariannina Ciccone è segnata da una straordinaria normalità. Pur essendo nata alla fine dell’Ottocento in una città del Sud, Noto, sceglie di studiare e insegnare Fisica in un ambiente universitario e scientifico internazionale di grande rilievo, quello di Pisa. Il suo campo di indagine scientifica, nel quale testa nuovi metodi di ricerca modificando gli apparati sperimentali ed elaborando nuove tecniche di osservazione, è quello della spettroscopia e dell’elettromagnetismo. L’aver vissuto in un periodo, la prima metà del Novecento, nell’università di Pisa dove si svolgono le più rilevanti scoperte della fisica moderna capaci di scardinare le conoscenze della materia e le concezioni filosofiche di spazio e tempo, le dà modo di incontrare figure come Polvani, Racaah, Wick, Fermi, Ronchi, Salvini, scienziati che aprivano nuovi orizzonti del pensiero.
La scoperta e la valorizzazione della fisica netina è molto recente e si deve alle ricerche condotte in Toscana sullo stragismo nazista del ’44 dal prof. Marco Piccolino che si è imbattuto nell’episodio di resistenza ai nazisti di Mariannina Ciccone. Lo studio del prof. Corrado Spataro ha permesso di scoprire il volto della scienziata, che lascia Noto per la Normale di Pisa e si dedica corpo e anima allo studio della luce e della Spettroscopia. Scrive Corrado Spataro: “È stato importante, opportuno e gratificante […]avere conosciuta e studiata Mariannina Ciccone, nell’anno 2015 che è stato il cinquantesimo della sua morte e dedicato dall’ONU alla luce che lei, con il suo spettroscopio, cercò di conoscere fin nelle componenti più segrete".


Pubblicazioni di Maria Anna Ciccone

 

Sulla rivista Nuovo Cimento:
L'effetto di Hall nel berillio
Spettri prodotti da scariche elettriche in ossido di carbonio
Lo spettro del berillio I e del berillio II
Spettri ultrarossi e Raman delle molecole
Gli spettri di bande
Recensione a “Spettri e struttura delle molecole” di GerhardHerzberg


Sulla rivista Memorie della società Toscana di scienze naturali
Una reazione nucleare di nuova specie: lo spezzamento dei nuclei dell'Uranio e del Torio sotto l'azione dei neutroni (Vol. 49, 1941)

 

Corso di spettroscopia, Vallerini, Pisa, 1941

Lezioni di spettroscopia, Vallerini, Pisa, 1947

Introduzione allo studio della fisica atomica e molecolare, Vallerini, Pisa, 1953

Nozioni di spettroscopia delle microonde, Vallerini, Pisa, 1954

 

Fonti:

Le fonti principali della biografia di Maria Anna Ciccone sono gli studi, ancora in gran parte inediti, del prof. Corrado Spataro e del prof. Marco Piccolino.

Corrado Spataro, Mariannina Ciccone: la “tigre” che salvò il laboratorio di fisica dell’Università di Pisa, “Il Nuovo Saggiatore” Bollettino della Società Italiana di Fisica, vol.32, 2016, numero 1-2

Marco Piccolino, Mariannina, la “tigre” che fermò i nazisti, in La Nazione, 25 aprile 2015

Edoardo Semmola, “Andate via o uccidete anche me”. La prof che salvò Fisica dai nazisti, in “Corriere Fiorentino”, 25 aprile 2015

Vincenzo Greco, Il gesto coraggioso della netina Ciccone davanti ai tedeschi, in “La Sicilia”, 25 aprile 2015

 

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Angela Maria Cingolani Guidi

(Roma, 1896 – 1991)

Solo a Porto Fuori, frazione del comune di Ravenna, c’è una via intitolata ad Angela Maria Cingolani Guidi.

Contro i pregiudizi sulle donne

di Annarita Alescio

Nacque a Roma il 31 ottobre 1896 da Eugenio Guidi e Anna Casini, entrambi appartenenti a famiglie della borghesia cattolica romana.
Decisivo nella sua formazione fu l'incontro con don Luigi Sturzo, che le diede l’incarico di organizzare il lavoro femminile nell'ambito dell'Opera per l'assistenza civile e religiosa per gli orfani di guerra, da lui fondata.
Nel 1919 fu la prima tesserata femminile del Partito Popolare Italiano e questo costituisce un altro suo primato. Inoltre fu tra le prime giovani cattoliche a partecipare al "Movimento Nazionale Pro Suffragio Femminile".
Fu una convinta sostenitrice del cooperativismo e nell'immediato dopoguerra ricevette il diploma di benemerenza del Ministero delle Terre liberate per aver contribuito alla fondazione di cooperative di lavoratrici, in particolare nel Veneto.
Nel 1921 fondò il Comitato Nazionale  per il lavoro e la cooperazione femminile, legato all'Azione cattolica.
In questa veste raccolse le adesioni di più di cinquecento scuole di avviamento al lavoro, laboratori e cooperative. In particolar modo si occupò delle scuole di lavoro femminile per le orfane di guerra, della Federazione delle lavoratrici dell'ago e della cooperazione femminile di lavoro a Caserta e nel Veneto ed ebbe l'incarico di fondare cooperative di produzione e di lavoro nel Friuli-Venezia Giulia. Del Comitato Nazionale rimase segretaria generale fino alla liquidazione, avvenuta nel 1926, e in questo ruolo intraprese numerosi viaggi di studio.
Svolse anche un'intensa attività giornalistica e collaborò con il Corriere d'Italia, Il Popolo, Avvenire d'Italia, con il settimanale L'Ago, la rivista Il Solco e vari altri periodici.
Dal 1924 al 1925 assunse la direzione del settimanale Il Lavoro femminile.
Intensa in questo periodo fu anche la sua azione in ambito sindacale: si interessò di evidenziare la necessità di regolamentazione dell’artigianato e del lavoro a domicilio.
Quando vinse il concorso all'Ispettorato del lavoro di Roma riprese l'opera di assistenza alle mondine; si occupò della lavorazione dei tabacchi e di lavori stagionali, cercando di tener viva un'attività sindacale di orientamento cristiano.
Nel 1929 Angela Maria contribuì alla nascita dell’Associazione Nazionale Donne Professioniste e Artiste, che fu poi assorbita dalle organizzazioni fasciste, con conseguente obbligo di tesseramento. Così nel 1931 si trasferì a Ginevra.
A trentanove anni sposò Mario Cingolani, parlamentare popolare, autorevole esponente dell'Azione cattolica e figura di spicco della futura Democrazia Cristiana. Da lui ebbe un unico figlio, Mario. Insieme al marito Angela Maria fu punto di riferimento per gli antifascisti cattolici romani. I due coniugi parteciparono all'attività di direzione clandestina della DC, ospitando nella loro casa il Comitato di liberazione nazionale e, nella fase di ricostruzione del partito, lei fu incaricata di seguire la sezione femminile. In questo periodo riprese anche gli studi, iscrivendosi all'Istituto orientale di Napoli e laureandosi in Lingue e letterature slave.
Non cessò comunque di interessarsi al lavoro femminile. Nel 1944 fu eletta consigliera nazionale della DC e delegata nazionale del movimento femminile; l’anno dopo, in qualità di membro della Consulta nazionale, partecipò ai lavori della Commissione lavoro e previdenza e alle assemblee plenarie. Nel 1946 fu una delle 21 donne elette alla Costituente. Sostenne fermamente la necessità che l'associazione femminile rimanesse autonoma nell'ambito del partito.
Fu eletta deputata per la DC nel 1948; dal luglio 1951 al luglio 1953 fu Sottosegretaria per l'Artigianato nel Ministero dell'Industria e del Commercio, divenendo così la prima donna in Italia  a ricoprire tale carica. Era stata anche la prima donna a parlare nell'aula di Montecitorio, con queste parole: "Vi invitiamo a considerarci non come rappresentanti del solito sesso debole e gentile, oggetto di formali galanterie e di cavalleria di altri tempi ma pregandovi di valutarci come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che... con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale ed elevazione morale".
Nel ruolo di Sottosegretaria si dedicò particolarmente al piccolo artigianato e alla cooperazione, convinta che la ricchezza italiana stesse nella piccola impresa e si impegnò per far ottenere alla categoria una migliore legislazione e sostegni creditizi e promozionali.
Nel 1952 Angela Maria, eletta sindaca di Palestrina, abbandonò l'impegno politico nazionale per dedicarsi all'amministrazione del comune laziale. Ne avviò il rinnovamento, valorizzando i beni archeologici e attirando l'attenzione nazionale sulla vita culturale della città.
A partire dagli anni Settanta un forte abbassamento della vista condizionò la sua attività.
Ricordiamo che nel 1986 ricevette una medaglia d'oro al merito per la sua attività politica.
Angela Maria Cingolani Guidi morì a Roma l'11 luglio 1991.

Fonti
http://www.cittadinanze.it/angela_maria_guidi_cingolani
http://www.treccani.it/enciclopedia/angela-maria-guidi_
http://www.allapari.regione.emilia-romagna.it/vie-en-rose/vie_donne_ra/guidi-cingolani-angela-maria
http://www.romagnaoggi.it/cronaca/ravenna-vie-e-piazze-nuovi-nomi-nel-segno-delle-pari-opportunita.html

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Adelasia Cocco

(Sassari, 1885 – Nuoro, 1983)

A Nuoro, vicinissimo alla Cattedrale di Santa Maria della Neve, c’è una piccola strada in salita, è difficile individuarla e in molte mappe non è neppure segnata, ma resta l’unica in tutta la Sardegna a ricordare Adelasia Cocco. È una scalinata percorribile soltanto a piedi e da chi è in buona salute e sarebbe piacevole trovare, dopo l’ultimo gradino sommitale, una targa esplicativa, per conoscere questa donna straordinaria e, con l’occasione, riprendere fiato.

Una vita per la medicina

di Teresa Spano

Adelasia Cocco Floris, nata a Sassari nel 1885, è figlia del poeta e narratore Salvatore Cocco Solinas, collaboratore del giornale “Sassari” e della “Rivista delle tradizioni popolari italiane”.
Una donna fuori dal comune fin dal nome, Adelasia, che tradisce echi storici importanti, da giudicessa di Torres, forse non a caso, ma per un presagio paterno.
Fu una delle prime donne sarde a  laurearsi in medicina e la prima in Italia a ricoprire l’incarico di medica condotta.
In molte fonti viene indicata come la prima medica della Sardegna, ma in realtà  la prima laurea femminile in medicina fu di Paola Satta, nel 1902, rilasciata dall’Università di Cagliari. Adelasia fu però la prima medica sarda ad esercitare la professione, superando l’ostracismo della corporazione maschile, la diffidenza di una parte dell’opinione pubblica e la resistenza delle autorità locali.
Iscritta in medicina a Pisa nel 1907, si laureò nel 1913 a Sassari con Luigi Zoja (1866-1959), direttore dell'Istituto di patologia e clinica medica, discutendo una tesi sul potere autolitico del siero di sangue come contributo alle reazioni immunitarie.
Appena titolata, chiese la condotta medica e la ottenne nel 1914, vinte le resistenze del prefetto di Nuoro che esitò a lungo ma, non trovando alcun cavillo legale che ne impedisse l’assegnazione, dovette firmare il decreto di nomina. Esercitò nel popolare rione di Seuna e, quando nel 1915 il medico Andrea Romagna fu ucciso in un agguato, accettò anche di prendersi cura dei malati di Lollove, il luogo in cui Grazia Deledda ambientò il romanzo La Madre.
Alle pochissime mediche, allora, erano minimi gli ambiti concessi nei quali potevano esprimersi, ginecologia o tutt’al più pediatria, seguendo il filo rosso del pudore e della morale che vedeva con meno difficoltà una donna a visitare le donne. Ma lei era medica di tutti, e facilmente si guadagnò la stima dei suoi assistiti.
Oggi Lollove è una frazione di Nuoro che dista 15 km dalla città e ospita una trentina di abitanti, per lo più anziani, ma nei primi anni del secolo scorso contava poco meno di 400 cittadini, prevalentemente contadini e pastori. A Lollove Adelasia  in quei primi anni venne “accompagnata” nell’esercizio della sua professione da un assessore a cavallo ma, prima fra le donne sarde, nel 1919, ottenne la patente automobilistica e con essa l’autonomia e la libertà di movimento.
Adelasia fu medica curante di Attilio Deffenu e di altre figure di spicco della Nuoro del primo Novecento. Fu amica personale di Grazia Deledda, del poeta Sebastiano Satta, del pittore Antonio Ballero.
Dal 1928 Adelasia fu ufficiale sanitaria a Nuoro: c’è una vecchia fotografia risalente a quel periodo, che la ritrae davanti al suo tavolo di lavoro tra microscopio, carte, penne e un vaso colmo di fiori (è diventata la locandina di apertura dell’anno sanitario 2006, a essa dedicato). In questo ruolo si occupò di prevenzione e svolse un’incessante opera di educazione sanitaria. Vinse tante battaglie, ma subì la più dolorosa delle sconfitte: la scarlattina la privò del suo unico figlio maschio di tre anni.
  Nel 1935 divenne direttrice dell’ Istituto  provinciale di Igiene e Profilassi e negli anni successivi il suo lavoro la vide protagonista di studi microbiologici: rabbia, malaria, enteriti causate da batteri patogeni.
Fu collocata a riposo nel 1955.
 Tra i suoi impegni professionali, fu anche attiva nell’Associazione Nazionale Italiana delle Dottoresse in Medicina e Chirurgia, fondata nel 1921 e ora chiamata più brevemente Associazione Donne Medico.
Ci ha lasciato nel 1983, a 98 anni, e la sua terra l’ha quasi dimenticata.

Fonti:
Francesco Floris, Enciclopedia della Sardegna, volume 3 pag 44
Eugenia Tognotti,  Era sarda la prima donna che nel novecento divenne medico condotto,“ Il messaggero sardo”,luglio 2001 p. 30
M. Giovanna Vicarelli, Donne di Medicina. Il percorso professionale delle donne medico in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008 pag 54
Teresa Spano http://www.sardegnademocratica.it/culture/adelasia-un-vuoto-di-memoria-1.28693
http://pacs.unica.it/biblio/storia8.htm

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Mariannina Coffa

(Noto, 1841 – 1878)

Alla poetessa sono intitolate strade in alcune città siciliane. Una via si trova nella sua città natale, Noto (Sr), e una a Ragusa, città del marito Giorgio Morana, dove lei visse da sposata; strade le sono state dedicate anche a  Palermo, a Catania e a Giarre (Ct), località cui è legata  per le relazioni epistolari col giarrese Giuseppe Macherione.

Una poetessa siciliana "nel prestigio del Magnetismo"

di Marinella Fiume

La poetessa siciliana, definita “la capinera di Noto” per alcune somiglianze con le vicende biografiche dell’eroina dell’omonimo romanzo verghiano, fu una bambina sensitiva e precocemente ispirata. Il padre, noto avvocato e patriota frammassone impegnato in ruoli di primo piano nelle rivoluzioni del 1848 e del 1860, si compiaceva di farla esibire nei salotti e nelle accademie con le sue poesie improvvisate su temi dettati in modo estemporaneo.
Dopo qualche anno in un collegio laico per signorine, nel quale imparò versificazione e un po’ di francese mentre – com’ebbe a lagnarsi in seguito - solo ai suoi fratelli fu insegnato seriamente anche il Latino, le fu messo accanto come precettore un canonico dotto e zelante, Corrado Sbano, allo scopo di istruirla e insieme disciplinarne gli slanci del carattere malinconico e dell’estro focoso. A quattordici anni cominciò a prendere lezioni di piano dal venticinquenne Ascenso Mauceri, diplomato al Conservatorio di Napoli, vicino all’ambiente del Ministro Matteo Raeli - l’estensore della Legge sulle Guarentigie - e autore di drammi storici che saranno rappresentati alla Fenice di Venezia. Fu subito innamoramento tra queste due giovani promesse del Campanile già Capovalle della Sicilia borbonica, questi due figli del secolo ammalato di byronismo. Malgrado la differenza di età e anche di status il bell’Ascenso, alto, biondo, dai modi aristocratici, l’aria sofferta da bohémien, era un intellettuale di sicuro avvenire, pupillo del Ministro e cicisbeo delle donne di casa Raeli, salotto esclusivo della città. Se in un primo momento la famiglia Coffa acconsentì al fidanzamento, sottoscrivendo la promessa di matrimonio, successivamente impose alla figlia di troncare la relazione e sposare, a diciotto anni, un partito più vantaggioso, Giorgio Morana, ricco proprietario terriero di Ragusa. Sarà lui a recluderla nella casa del padre, un vecchio, rozzo e avaro despota il quale le impedirà persino di scrivere, ritenendo che “lo scrivere rende le donne disoneste1. Sarà costretta a scrivere le sue poesie di notte, nella sua camera da letto, alla flebile luce di una candela, mentre il suocero aprirà e distruggerà gran parte della corrispondenza a lei indirizzata. Intanto, tra le continue gravidanze che tormentano il suo gracile corpo, il dolore per la morte di due figlie in tenerissima età, la cura dei figli e i pesanti lavori di casa, la malmariée intreccerà una relazione epistolare con l’orgoglioso fidanzato di un tempo che non le perdonerà mai la supina resa al volere dei genitori e il rifiuto della “fuitina” (la fuga a scopo di matrimonio) da lui proposta a suo tempo; non si presenterà nemmeno all’appuntamento che lei, già donna sposata e più volte madre, gli darà, disposta a tutto.
Mariannina sarà così costretta a vivere una vita sdoppiata, iscrivendosi di nascosto ad associazioni e accademie italiane e straniere e pubblicando, a volte con uno pseudonimo, per riviste nazionali come La donna e la famiglia di Genova. L’amicizia con un dotto e geniale medico siciliano, Giuseppe Migneco, detto dai seguaci “Sapiente Maestro”, dai nemici “Cagliostro il piccolo”, originario di Augusta e poi residente a Catania, omeopata e magnetista, famoso per le efficaci cure prestate in occasione delle epidemie di colera, più volte esiliato per “esercizio di arte diabolica” e “spiritismo”, la introdurrà agli arcani del sonnambulismo e del magnetismo animale o messmerismo, anatemizzati dal Papa e coltivati all’interno di élites massoniche democratiche. Saranno questi i sistemi, prodromi della successiva psicanalisi, ai quali la poetessa ricorrerà per cercare di curare le malattie e i disagi del suo corpo e della sua psiche. Mariannina si iscriverà a diverse Società occultiste e teosofiche italiane e straniere e, attraverso lo stesso Migneco e un suo discepolo netino, il dott. Lucio Bonfanti, medico omeopata e democratico del 1860, sarà introdotta, con ruoli probabilmente di primo piano, in logge massoniche swedenborghiane, mistico-teosofiche e magnetiste. Ne nascerà l’ultima straordinaria, purtroppo breve, stagione poetica, fitta di riferimenti simbolici al “gran concetto” e improntata alla “protesta metafisica”, dopo la prima giovanile poesia patriottica di maniera e l’intermedia fase intimista tardo-romantica. Prostrata dalle emorragie, probabile conseguenza di fibromi all’utero, abbandonerà la casa ragusana del suocero rifugiandosi a Noto, nella casa dei genitori, che non esiteranno a cacciarla via perché non ricada su di loro il disonore della separazione dal marito e dai figli. Finirà i suoi giorni tra la fame e gli stenti, assistita solo dall’anziano medico: nessun familiare vorrà pagare le prestazioni di un chirurgo catanese il cui intervento avrebbe potuto probabilmente salvarle la vita. Pochi mesi prima di morire, quando la famiglia ragusana le porta via il figlio che alleviava la sua solitudine e confortava i suoi ultimi giorni di vita, grida in alcune lettere la sua ferma volontà di divorziare, mentre quello del divorzio è un istituto ancora molto di là da venire. La sua rassegnazione si trasforma in odio verso i genitori, i cui voleri ha supinamente eseguito, la sua obbedienza filiale si tramuta in desiderio di vendetta; giunge a invocare Dio perché le conceda ancora qualche giorno di vita per rendere pubbliche le violenze, le manomissioni, le subornazioni, le umiliazioni subite che la conducono alla morte. Tra le sue ultime volontà, affidate al medico curante, c’è che si ordinino le sue poesie secondo “l’immortal concetto”, tenuto avvolto in una serie di allegorie e di simboli, non oscuri solo agli iniziati e fraintesi da una critica per lo più locale, incapace di scorgere al di là della facile chiave di lettura di stampo tardo-romantico. Malgrado la fama di “pazza”, spiritista e sonnambula diffusasi negli ultimi tempi della sua vita, la sua città, memore di quanto da lei fatto quando fu tolto a Noto il capovallato in favore di Siracusa, dichiarò il lutto cittadino. Il Comune si assunse le spese dei solenni funerali e le fece erigere la statua in marmo di Carrara ancora oggi in Piazzetta d’Ercole, mentre i “fratelli” dell’Elorina, che parteciparono al funerale della poetessa portando le insegne solenni, si  prendevano cura di farne imbalsamare il corpo. Nessuno della famiglia seguì il feretro, ma una folla di autorità e gente comune, accorsa a rendere l’estremo commosso omaggio alla “Saffo netina”, che sfilava per l’ultima volta tra le strade e i monumenti del “giardino di pietra”, la sua città barocca.
1 Lettera di Mariannina a Ascenso, Ragusa 17-I-1870

Fonti:
In memoria della poetessa M. C. C. in Morana, Prose e poesie, pubblicate a cura e spese del Municipio di Ragusa, Ragusa, Piccitto e Antoci, 1878
Filippo Pennavaria, Sopra un caso d’isterismo acuto con estasi e sognazione spontanea accaduto in persona della insigne poetessa M. C. C. in Morana – Considerazioni medico filosofiche, Ragusa, Tip. Piccitto e Antoci, 1878
Vincenzo Coffa, Lamento dell’anima a mia sorella M. C., versi, Noto, Zammit, 1879
Corrado Sbano, Memorie e giudizi intorno alla poetessa M. C. in Morana di Noto, Noto, Tip. Zammit, 1879
Vincenzo Coffa Caruso, Rimembranze (Iuvenilia), Noto, Tip. Zammit, 1890
F. Genovesi Caruso, Storia d’una martire (M. C. C.), con prefazione di Giuseppe Sergi, Napoli, Chiurazzi, 1900
Giuseppe Leanti, Una poetessa della patria e del dolore – M. C. C., Noto, Zammit, 1923
Carmelo Sgroi, Lettere di M. C. C. a Mario Rapisardi, estratto dall’ “Archivio storico per la Sicilia orientale”, Catania, Tip. Zuccarello e Izzi, 1931
Carmelo Sgroi, M. C. C. e Giuseppe Macherione (con documenti inediti), Siracusa, Tip. Littoriale, 1934
Benedetto Croce, Pagine sparse, Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1943, vol. III
Gino Raya, M. C., Lettere ad Ascenso, Siracusa, Ciranna, 1957
Francesco Lombardo, M. C. e C. Sammartino in Fileti, ed altri riflessi di vita d’arte e d’ambiente della poetessa netina, Noto, Tip. dell’Autore, 1959
Gioacchino Santocono Russo, Ottocento netino: nel primo centenario della morte di Mariannina Coffa, “Netum”, febbraio-marzo 1977
Teresa Carpinteri, L’eringio (Romanzo), Palermo, Flaccovio, 1978
Biagio Iacono (a cura di), M. C., Poesie scelte, con Introduzione di G. Raya, Noto, Sicula Editrice – Netum, 1987
Rita Verdirame, Finzione rassegnazione e rivolta. L’immagine femminile nella letteratura dell’Ottocento, Papiro, Enna, 1990
Miriam Di Stefano (a cura di), Scritti inediti e rari di M. C., Noto, Arti Grafiche San Corrado, 1996
Marinella Fiume, Sibilla arcana. Mariannina Coffa (1841 – 1878), Edizioni Lussografica, Caltanissetta, 2000

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Laura Conti

(Udine, 1921 – Milano, 1983)

Chissà se a Laura Conti sarebbero piaciute le vie che le sono state intitolate. A Bolzano la strada corre parallelamente a campi con alberi da frutta e vigneti, mentre a Corsico, nell’interland milanese, la striscia di asfalto della strada si allunga fra radure verdi affiancata dalla pista ciclabile. Infine Sorso, in provincia di Sassari, le ha dedicato una via sulla quale si affacciano abitazioni private che lasciano poco spazio alla natura. A Udine, sua città natale, non esistono intitolazioni.

"Guardate! Aiutatemi a vedere."

di Laura Biffi

 “Non risiedo nella cittadella della scienza, sono soltanto un mendicante straccione che si aggira all’ esterno, e si sforza di guardar dentro dalle finestre, e non vede bene, e strizza gli occhi, e con le mani si fa visiera per eliminare i riflessi e discernere qualcosa. Perciò, mentre vi dico “guardate!” vi dico anche “aiutatemi a vedere!”

Partigiana, medica, scrittrice e divulgatrice, politica, ambientalista. E forse non basta per raccontare appieno questa donna del Novecento.

Laura Conti nasce a Udine il 31 marzo 1921. Ragazza, si trasferisce a Milano dove, studentessa di medicina, prende parte alla Resistenza. Nell’agosto del ‘44 viene catturata dai tedeschi e finisce nel carcere di San Vittore, quindi internata nel campo nazista di transito di Bolzano in attesa di venire deportata in Germania. Tornata libera, si laurea in Medicina nel 1949; in Austria si specializza in ortopedia e a Milano svolge la sua attività di medica.

Dal campo scientifico a quello pedagogico, da quello storico a quello ambientalista, è presenza e voce autorevole nelle battaglie civili e culturali del secolo scorso. Dal 1960 al 1970 è Consigliera alla Provincia di Milano; dal 1970 al 1980 è Consigliera alla Regione Lombardia.

Nel 1976 il suo nome sale alla ribalta nazionale: dall’Icmesa di Meda si sprigiona una nube di diossina che contamina decine di chilometri quadrati di hinterland milanese e semina il panico. E’ l’incidente di Seveso. Laura Conti con coraggio e profonda umanità conduce una durissima campagna contro quanti intendono minimizzare il disastro ed eludere le responsabilità politiche e civili, assiste la popolazione spaventata e disinformata sulle conseguenze della nube tossica. Da questa esperienza nascono i libri Visto da Seveso e Una lepre con la faccia di bambina.

A Milano fa parte del direttivo della Casa della Cultura, fonda e dirige l'Associazione Gramsci.

Nella convinzione che la cultura ambientalista debba tradursi in pratica politica, lavora alla fondazione della Lega per l'Ambiente di cui è anche presidente del Comitato scientifico.

Il suo libro Che cos'è l'ecologia è una pietra miliare per il nascente ambientalismo italiano. Ci ha lasciato oltre venti libri e migliaia di articoli pubblicati su riviste scientifiche e quotidiani.

Dal 1987 al 1992 è deputato nazionale nelle liste del Partito comunista italiano.

Scompare a Milano il 25 maggio del 1993.

Nel 2006 il Comune di Milano la riconosce “cittadina benemerita” e il suo nome viene iscritto sulle lapidi del Famedio al Cimitero Monumentale, dove oggi è sepolta.
Fonti:
Laura Conti, Visto da Seveso, Feltrinelli, Milano, 1977
Laura Conti, Che cosa è l’ecologia, Mazzotta, 1977
Laura Conti, Una lepre con la faccia di bambina, Editori Riuniti, 1978
Chiara Certomà, Laura Conti, La Biblioteca del cigno, 2012
http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=8&tipo_articolo=d_documenti&id=30
http://www.xxdonne.net/wordpress/wp-content/uploads/2011/06/conti.pdf
http://scienzaa2voci.unibo.it/biografie/914-conti-laura
http://www.enciclopediadelledonne.it/index.php?azione=pagina&id=1311
http://www.deportati.it/bolzano_canale/default.html
http://www.anpi.it/donne-e-uomini/laura-conti/

 

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 Eleonora Álvarez de Toledo y Osorio

(Alba de Tormes, Spagna, 1522 – Pisa, 1562)

 

Non esistono intitolazioni in suo onore, nonostante la città di Firenze le debba molto sul piano storico e artistico.

 

L’ago della bilancia di Cosimo I


di Barbara Belotti e Alessandra Rossi

Era intelligente e bella Eleonora. Queste doti avevano fatto sì che Giovanni Bandini, il delegato di Cosimo I de’ Medici incaricato di scegliere la sua futura moglie tra le quattro figlie di Don Pedro di Toledo, Viceré di Napoli, ripiegasse sulla giovane Eleonora piuttosto che su sua sorella Isabella, come Don Pedro avrebbe preferito.
In uno dei dipinti più famosi che la ritraggono, quello realizzato dal Bronzino nel 1545, la giovane duchessa di Firenze ci appare racchiusa in tutta l’altezzosità della sua bellezza: lo sguardo sereno diretto verso lo spettatore e il sorriso appena accennato sono quelli di una donna giovane abituata al potere; l’impassibilità e il distacco ne fanno una figura degna del suo ruolo di comando.
Eleonora fu una donna innamorata: nonostante questo termine possa sembrare anacronistico per l’epoca, il matrimonio tra lei e Cosimo de’ Medici si presenta ai nostri occhi come un matrimonio illuminato dall’amore. Alcune testimonianze dell’epoca sono preziose per comprendere quanto fosse solido il loro legame: per Cosimo non si trattava di dire “io” ma “noi” (“Siamo entrati in possesso del palagio maggiore” scriveva nel raccontare il momento del trasferimento della coppia da Palazzo Medici in Palazzo Vecchio); il viaggiatore inglese William Thomas racconta che il duca “la ama così tanto che non va in nessun luogo senza di lei “, mentre per la duchessa di Camerino Caterina Cybo “El Sr. Duca e Duchessa innamoratissimi insieme, mai stà l’uno senza l’altro”.
Eleonora era nata in Spagna nel 1522; il 4 settembre di dieci anni dopo il padre aveva ricevuto l’incarico di Viceré di Napoli e così tutta la famiglia si era trasferita in Italia; nella città partenopea Eleonora trascorse gli anni dell’adolescenza ricevendo un’istruzione coerente con il suo rango, imparando a muoversi con stile tra le feste sontuose e abituandosi a seguire le rigide regole di una rigorosa etichetta di corte. 
Cosimo I vide in questo matrimonio un mezzo per legarsi indissolubilmente alla figura dell’imperatore Carlo V dopo che era stata rifiutata la sua richiesta di sposare Margherita d’Austria, figlia naturale del sovrano e vedova del suo predecessore Alessandro de’ Medici. Ripiegare sulla giovane Eleonora aveva determinato un contratto di nozze basato su una dote inferiore rispetto a quella proposta da Don Pedro per la figlia Isabella, ma questo “ripiegamento” costituì in realtà una fortuna per il giovane Cosimo.
Era il 30 giugno del 1539 quando la chiesa di San Lorenzo e, successivamente, il palazzo di via Larga ospitarono la fastosa cerimonia di nozze; nei giardini dove la famiglia Medici era solita rifugiarsi per fuggire il caldo sole estivo, i numerosi invitati assistettero a una commedia che doveva celebrare le fortune di Firenze e di questa giovane coppia che si accingeva a governare lo Stato. Nello stesso palazzo di via Larga che aveva ospitato il banchetto nuziale, la coppia trascorse i primi tempi della vita coniugale lasciandolo in seguito per trasferirsi in Palazzo Vecchio. A questo spostamento si deve un incredibile rinnovamento dell’edificio in Piazza della Signoria: gli appartamenti destinati alla duchessa, chiamati il Quartiere di Eleonora, vennero sistemati in un primo tempo da Giovanni Battista Del Tasso e terminati da Giorgio Vasari, che scelse come soggetti dei dipinti murali figure femminili importanti, storiche o leggendarie, allo scopo di richiamare il ruolo centrale di Eleonora di Toledo all’interno della famiglia Medici.
La duchessa, che fu determinante per le molte iniziative prese in ambito artistico, dimostrò una grande sintonia con la visione politica del marito tanto da condividendo con lui la necessità di valorizzare, anche attraverso l’arte, il nuovo volto e lo straordinario peso raggiunto dalla famiglia Medici a Firenze. Eleonora acquistò, per il casato fiorentino, Palazzo Pitti che da questo momento divenne il simbolo della felice unione tra i due sposi. Insieme Cosimo ed Eleonora arricchirono le stanze del nuovo palazzo con opere sottratte alla famiglia durante i periodi dell’esilio e Eleonora curò, da attenta e raffinata committente quale era, la riqualificazione del giardino di Boboli. Palazzo Pitti fu trasformato così in una reggia degna di una casa regnante. L’idea di Eleonora era di lasciare l’aria malsana della città per i profumi e la freschezza della natura e della campagna, in cui non solo i duchi ma soprattutto i loro figli e le loro figlie potessero vivere in salute. Sembra che fosse suo anche il progetto di realizzare in un angolo del giardino un orto per avere sempre a disposizione frutta e verdure da consumare fresche. Era una versione più ampia e organizzata degli “orticini che sempre lei volle realizzare nei ballatoi di Palazzo Vecchio. Amante della natura, Eleonora condivideva con il marito anche l’amore per le battute di caccia e le corse di cavalli.
Fu una donna sapientemente orientata verso gli investimenti finanziari. Oltre a dare lustro al casato Medici, Palazzo Pitti rappresentava un ottimo incremento economico per le casse della famiglia, così come lo furono le tenute nella Maremma pisana e livornese e i feudi di Castiglion della Pescaia e isola del Giglio. Eleonora si occupava del lato finanziario in modo diretto, senza ricorrere alle magre risorse della famiglia, ma attingendo dal proprio ingente patrimonio.
Scrive Bruce Edelstein che “gli interessi economici di Eleonora si dispiegano secondo una vasta gamma di obiettivi: dall’apicultura alle miniere, dalla sericultura alla coltivazione, non tralasciando il commercio dei principali prodotti di prima necessità dell’epoca (legname, bestiame, formaggi, carni, vino, zucchero …). Soprattutto Eleonora fece coltivare e vendere grano e biade in larga scala […] Nelle speculazioni condotte […] diede mostra di saper mettere a rischio il proprio capitale e, approfittando della posizione privilegiata […] offriva un consistente sostegno alle misure politiche adottate dal marito. L’insieme delle attività di Eleonora permise di costruire un patrimonio veramente considerevole”. La duchessa era quindi autonoma dal punto di vista economico e, in nome della sua forza patrimoniale e delle indubbie capacità dimostrate, gestiva le risorse sue e quelle del marito Cosimo. Chiedeva in prestito a banchieri cospicue somme che poi investiva nell’acquisizione di immobili e latifondi; dallo sfruttamento delle terre otteneva la produzione di grandi quantità di grano che in parte dirottava per l’uso della famiglia e della corte, in parte distribuiva ai conventi o, in caso di carestie, alla popolazione bisognosa, ma che soprattutto vendeva. Sempre in base agli studi di Bruce Edelstein, nel 1554 la duchessa poté realizzare un bel profitto dalla compravendita del grano proveniente dalle terre di Levante: “se confrontiamo il prezzo di acquisto per ogni sacco levantino con quello di rivendita, troviamo fino al 35% di aumento”. Un volto da vera manager moderna.
Le cronache del tempo ci dicono che questo pallino per gli affari fosse accompagnato dal gusto particolare per il gioco d’azzardo. Scommetteva molto e di frequente Eleonora, arrivando anche a puntare sul sesso dell’erede che stava per nascere. Per la sua terza gravidanza, però, né il fiuto di scommettitrice né l’amore di mamma la aiutarono a leggere nel futuro e, prevedendo l’arrivo di un maschio, perse la scommessa con la nascita della figlia Isabella.
Eleonora era molto religiosa, generosa nel compiere opere di carità per le persone bisognose e nell’aiutare con la dote le ragazze povere e senza famiglia che, prive di qualsiasi sostegno economico, non avrebbero avuto modo di sposarsi e sarebbero cadute nella trappola della prostituzione.
Era cattolica ma tollerante. Educata a Napoli dalla gentildonna ebrea Benvenida Abrabanel, fu rispettosa delle comunità ebraiche, soprattutto quella fiorentina, e della loro cultura tanto da essere ricordata molto tempo dopo nell’Elogio di Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I, protettrice degli Ebrei Toscani di Menashshèsh ben Israel, stampato nel 1650 ad Amsterdam.
Il matrimonio fra Cosimo ed Eleonora fu particolarmente prolifico. Fecundissima fu definita la duchessa che diede alla luce undici creature, quattro femmine e sette maschi, in quattordici anni di matrimonio; aveva accettato e accolto tra le sue braccia materne anche Bia de’ Medici, la figlia naturale di Cosimo avuta da un amore di gioventù; la famiglia era stata così, per alcuni anni, animata da un’atmosfera gioiosa e da sentimenti positivi rispetto al futuro della casata che presentava orizzonti radiosi e stabili.
Purtroppo tutto si rivelò effimero: dopo la morte della piccola Bia, la stessa infausta sorte toccò alla primogenita diciassettenne Maria (1557) e alla più giovane Lucrezia (1661). Ma l’anno più devastante per la famiglia fu il 1562. Cosimo era stato abituato a recarsi personalmente nelle città del suo Stato per ribadire con la presenza il suo potere e il suo ruolo e Eleonora lo seguiva quasi sempre.
Proprio durante il mese di novembre i due coniugi, insieme ai figli Giovanni, Garzia e Ferdinando, si recarono a controllare i lavori di bonifica in Maremma. Qui si consumò la grande tragedia: Garzia, quindicenne, Giovanni, diciannovenne e Ferdinando, tredicenne, si ammalarono di malaria e solo l’ultimo riuscì a sopravvivere; pochi giorni dopo, a dicembre, Eleonora, già cagionevole di salute a causa della tubercolosi e duramente provata dalla perdita dei figli, contrasse lo stesso morbo e si spense all’età di quarant’anni. Cosimo aveva perso così il suo “ago della bilancia”.

Fonti:

Marcello Fagiolo, Effimero e giardino: il teatro della città e il teatro della natura, in Il potere e lo spazio. La scena del Principe, Firenze, 1980, p.46.

Marcello Vannucci, I Medici. Una famiglia al potere, Newton Compton editori, 1989.

Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Newton Compton editori, 1999.
Maria Pia Paoli, Di madre in figlio: per una storia dell’educazione alla corte dei Medici , in https://www.academia.edu/4838459/Educazione_Medici_2008_testo_in_Annali_di_Storia_di_Firenze
Bruce L. Edelstein, Eleonora di Toledo e la gestione dei beni familiari: una strategia economica? in https://www.academia.edu/3728321/_Eleonora_di_Toledo_e_la_gestione_dei_beni_familiari_una_strategia_economica_
Caroline P. Murphy, Isabella de’ Medici, Il Saggiatore, 2011.
Daniela Stiaffini, Cosimo I ed Eleonora de Toledo. Vita coniugale a Pisa, Pisa, 2016
http://www.treccani.it/enciclopedia/eleonora-de-toledo-duchessa-di-firenze_(Dizionario-Biografico)/

http://museicivicifiorentini.comune.fi.it/palazzovecchio/visitamuseo/quartiere_eleonora.htm

https://izi.travel/it/540c-agnolo-di-cosimo-bronzino-ritratto-di-eleonora-di-toledo-e-del-figlio-giovanni/it
http://bia.medici.org/DocSources/Home.do
www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/cartedidonne/cdd_02_arrivo.pdf

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Leonora Álvarez de Toledo y Colonna

 

(Firenze, 1553 - 1576)

 

Non esistono intitolazioni di strade in suo onore

 

L’ardente vita di Leonora

di Annalisa Cassarino

 

Leonora Álvarez de Toledo y Colonna, confidenzialmente chiamata anche Dianora,nasce a Firenze nel 1553 ed è la terzogenita di Don García e di Vittoria di Ascanio Colonna.

La vita di Leonora è travagliata, paragonabile quasi alla triste pellicola di un film. Fatta di inganni, interessi economici e politici, intrighi e sofferenza, la sua esistenza ha infatti dato spunto a diverse opere di carattere letterario e lirico soprattutto nel XIX secolo.

Leonora trascorre i primi anni di vita, dopo la morte della madre, alla corte della zia Eleonora di Toledo, sorella del padre, e di Cosimo de’ Medici, allevata insieme ai figli e alle figlie della coppia, in particolare con la piccola Lucrezia, futura signora di Ferrara.

Il triste destino della fanciulla inizia a prendere forma quando il padre e lo zio Cosimo, che ha per lei un sincero affetto, decidono di avviare le trattative matrimoniali per farla sposare con Pietro, ultimogenito della prolifica coppia medicea nonché suo cugino carnale. Il giovane rampollo fiorentino non ha un’indole facile: è irascibile, violento, sgradevole nei modi, poco incline alla cultura, definito emotivamente disturbato; Leonora invece è bella, dai modi gentili e amabili, dotata di fascino ed eleganza innati.

Il contratto matrimoniale viene stipulato nel 1568: la famiglia Medici rafforza la propria presenza a livello internazionale confermando gli stretti legami con la potente dinastia spagnola degli Álvarez, i quali, a loro volta, consolidano la loro forza in Italia. Inoltre con Leonora arriva anche una cospicua dote: 40.000 ducati e altri 5000 in gioielli preziosi.

I due giovani non potranno consumare il matrimonio fino a quando la loro giovane età non lo consenta, per questo Pietro viene mandato in Spagna; è necessaria inoltre la dispensa papale per poter celebrare le nozze fra cugini. Si tratta, ancora una volta, di un’unione politico-economica, in cui i sentimenti non hanno, né possono avere, alcun ruolo rilevante. Sarà, per la giovane donna, un’unione infelice e tragica.

Che il legame fra Pietro e Leonora presenti più di un problema si evince da un fatto particolare: fino al 1572 il matrimonio non viene consumato e, considerando l’età non più adolescenziale dei due giovani, una sicura discendenza garantiva solidità al contratto matrimoniale stipulato, il fatto appare perlomeno anomalo.  Leonora non è felice, ma può contare su due potenti alleati: Cosimo I, che nutre per lei una profonda stima, e sua figlia Isabella che nei confronti della più giovane cugina comincia a manifestare attenzioni e interesse.

Da donna sposata, Leonora segue il marito e il granduca a Pisa, a Firenze e nelle numerose residenze medicee; nelle epistole che Cosimo invia al cognato Don Garcia, la nuora viene descritta come una brava moglie, capace di adempiere ai propri doveri, già pronta a dare al marito un figlio, che infatti nascerà nel 1573 e al quale viene dato il nome di Cosimo.

Leonora continua a essere infelice, costretta a vivere accanto a un marito che la trascura e tra persone che spesso le sono ostili, soprattutto l’altro cugino e cognato, il primogenito di casa Medici, Francesco, destinato a ereditare il potere. La donna trascorre questi anni aggrappandosi ai suoi interessi, molti dei quali culturali; le è accanto la vera protagonista di Firenze in quegli anni, l’affascinante Isabella che la introduce nella sua cerchia di amicizie intellettuali, colte e raffinate. Queste danno vita a un cenacolo, la cosiddetta Accademia degli Alterati, che due volte alla settimana si riunisce per dissertare di poesia, opere teatrali, problemi di tipo linguistico. Se Isabella è la vera stella di questo gruppo intellettuale, Leonora le è accanto assecondando con passione la sua natura curiosa, il suo spirito intelligente. La vicinanza con Isabella si dimostra un rifugio sicuro in cui dimenticare l’infelice vita alla corte medicea: Pietro continua a trascurarla e, insieme a lei, trascura anche gli affari di famiglia, impiegando le giornate a sperperare il proprio patrimonio e ad abbandonarsi a passioni amorose mai riservate alla moglie; Francesco non perde occasione di mettere in cattiva luce la cognata informando anche Don Garcia sulla condotta riprovevole della figlia, colpevole a suo dire di spese eccessive e superflue; pure Camilla Martelli, la moglie morganatica di Cosimo, la biasima denunciando una condotta morale riprovevole a causa delle sue amicizie maschili che la corteggiano a dalle quali si fa corteggiare. Ormai Leonora non condivide più col marito neppure il letto nunziale e la sua situazione si aggrava quando, alla morte di Cosimo de’ Medici nel 1574, viene meno la protezione sicura e benevola del capofamiglia. L’ambasciatore ferrarese Sottile la descrive come “la più sfortunata Principessa e la più malcontenta che viva”. Ora il suo isolamento all’interno della corte fiorentina si acuisce in un climax ascendente da vera tragedia.

La sera del 9 luglio 1576, nella villa medicea di Cafaggiolo in Mugello, Leonora de Toledo muore per mano del marito Pietro, che utilizza “una lazza da cane” o forse uno “sciucatoio” per strangolarla. Alcune fonti sostengono che la donna abbia tentato di difendersi urlando, dimenandosi sul letto in cui viene strozzata, mordendo due dita del suo assassino che chiede l’aiuto di due uomini per porre fine alla vita della consorte. Alle sei del mattino del giorno successivo il suo corpo viene trasportato a Firenze all’interno di una bara che era già pronta per lei. Laconico il testo della missiva che Pietro de’ Medici invia al fratello Francesco I: “Serenissimo Signore, stanotte a set'hore è venuto huno acidente a mia mogle et la morte, però V.A. se lo pigli in pace et mi scriva quello che io ho f[ar'] et se io ho venire costà et quello che facia no altro. Humile ser.re et fratello, don Pietro de Medici.”

Per molto tempo la morte di Leonora è stata ritenuta un delitto d’onore, la punizione estrema per una donna colpevole di aver vissuto una relazione extraconiugale, quella con Bernardo Antinori. I documenti del tempo, però, permettono di ricostruire altre verità. A volere la morte di Leonora potrebbe essere stato soprattutto il cognato Francesco I, forse il vero mandante dell’omicidio. Si tratterebbe quindi di una tela ordita alle spalle di Leonora che più che essere uccisa per gelosia, viene uccisa per essersi legata ad amicizie pericolose, come quella con Pierino Ridolfi, uno dei protagonisti della congiura dei Pucci contro la famiglia Medici. Ritenuta una traditrice dal nuovo Granduca, Leonora muore anche per non aver nascosto la sua insoddisfazione verso il marito Pietro, per non essere stata capace di sopportare la sua infelice vita matrimoniale, per aver sfidato l’isolamento della corte cercando una sua strada libera. Neanche il suo cognome, quello della famiglia Toledo, riesce a proteggerla: i continui cambiamenti nelle alleanze internazionali e le mutate strategie politiche del granducato non rendono inviolabile il legame fra i due casati.

 

Fonti:

Bastiano Arditi, Diario di Firenze, Firenze, 1970

Banni Bramanti, Breve vita di Leonora di Toledo (1555-1576), Firenze, 2007

Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Roma, 2011

Caroline P. Murphy, Isabella de’ Medici, Milano, Il Saggiatore, 2011.

http://www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/cartedidonne/cdd_02_arrivo.pdf

http://bia.medici.org/DocSources/Home.do

 

 

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 Giovanna d'Asburgo

(Praga, 1547 – Firenze, 1578)

Non esistono intitolazioni in suo onore

 

La prima granduchessa di Toscana

di Livia Cruciani

 

Moglie di Francesco I de’Medici e figlia di Ferdinando d’Asburgo.
Sono queste le prime cose che ci vengono in mente quando si pensa a Giovanna d’Austria. Ma chi è stata veramente questa donna? Che cosa ha significato la sua vita, che l’ha vista passare dalla corte nordica degli Asburgo al caldo sole della Toscana?

La piccola Giovanna nasce a Praga in un rigido gennaio del 1547. La sua venuta al mondo è semplicemente una delle tante della coppia reale: è l’ultima dei quindici fra figlie e figli del futuro imperatore del Sacro Romano impero, Ferdinando d’Asburgo, e della sua consorte, Anna Jagellona. Una famiglia non solo numerosa, ma anche molto influente in tutta Europa. Attraverso la sua prole l’imperatore stringe legami con le casate più potenti del secolo: Jagellone, Wittelsbach, Gonzaga, Este, Asburgo. Così anche alla piccola Giovanna si deve trovare un buon partito. Non le mancano i pretendenti, anche se non si può dire che sia bella. Bassa, curva per una deformazione della colonna vertebrale, con il viso lungo e appuntito, gli occhi sporgenti. Ma l’apparenza, si sa, inganna: lei porta un titolo nobiliare come dote! Per l’ambiziosa famiglia Medici, che desidera raggiungere per nome le grandi casate, è un’occasione da non perdere: il matrimonio con una principessa asburgica può essere considerato un grande successo diplomatico. Cosimo I inizia le trattative per darla in sposa a suo figlio Francesco, riuscendo ad avere la meglio sui rivali, con non poca fatica. E non solo. Cosimo ha dovuto lottare anche con lo stesso Francesco che non aveva alcun desiderio particolare di sposare questa giovane ragazza straniera, lui che era legato alla bella, intraprendente e intrigante Bianca Cappello. Ma lei è già sposata e la famiglia Medici desidera senza scrupoli il riconoscimento imperiale del titolo di Granducato della Toscana: dopotutto, il matrimonio non vieta al fiorentino e alla veneziana di continuare la loro liaison d’amore.
Le trattative per avere la mano di Giovanna durano oltre due anni: finalmente però arriva il 1565 con l’assenso di Massimiliano II a dare in sposa sua sorella minore. Una Asburgo sta per fare il suo trionfale ingresso a Firenze! Lei che ha vissuto a fianco dell’Imperatore del Sacro Romano Impero! Lei che è cresciuta per diciassette anni nella severa e religiosa corte di Vienna! Cosimo I deve mostrarsi degno di stringere una simile parentela. Come fare se non attraverso l’arte, nel cui campo Firenze può contare ben pochi rivali? Si convocano immediatamente gli artisti Vasari, Borghini e Caccini: tutta la città deve essere parata a festa, si deve celebrare il matrimonio come l’evento del secolo.
Il 18 dicembre Giovanna fa il suo ingresso trionfale attraverso la Porta al Prato, ad accoglierla trova uno sfarzo incredibile: archi di trionfo, statue, fontane ad adornare la città. La giovane coppia viene unita nel sacro vincolo del matrimonio nella Basilica di Santa Maria Novella e i festeggiamenti che seguono durano mesi: giostre, spettacoli, tornei, mascherate. L’aspetto urbano, che viene modificato con addobbi e scenografie, vede anche la costruzione permanente di nuove strutture. È per questa straordinaria occasione che viene realizzato il Corridoio Vasariano, un percorso sopraelevato che collega la residenza del Granduca al palazzo del governo, oggi Galleria degli Uffizi e Palazzo Pitti. Questa decisione comporta anche lo spostamento del mercato delle carni, che abitualmente si teneva su Ponte Vecchio: per evitare l’odore nauseante, la compravendita viene traslocata in un altro luogo e sostituita con botteghe di orafi e gioiellieri, caratteristici ancora oggi di questa parte della città.
Il cortile di Palazzo Vecchio è decorato con stucchi e pitture a secco che riproducono centri urbani dell’Impero austriaco in onore della sposa: Praga, Vienna, Innsbruck, Costanza. Per concludere l’omaggio un’iscrizione in latino sulla parete est dà il benvenuto alla sposa e a tutto ciò che il suo ingresso in città rappresentava: “Caesaris invicti augusti pulcherrima proles”.
L’evento del matrimonio inaugura una nuova stagione nello spettacolo di corte e sarà un modello di riferimento per le celebrazioni future. È questa l’occasione in cui viene portata in scena la commedia La Cafonaria di Francesco D’Ambra, il cui cuore sono i ricchi intermezzi con la storia di Amore e Psiche affidati alle scenografie di Bernardo Buontalenti. Un vero trionfo.

Giovanna è pronta così per iniziare la sua nuova vita.
Che aspettative abbia non lo sapremo mai. Forse spera di trovare quella considerazione che nella corte di suo padre, con i suoi quattordici fra fratelli e sorelle, non aveva ricevuto; oppure no. Qualunque siano i suoi desideri non ci sono dubbi che la sua vita, una volta entrata in Firenze, non è particolarmente felice. Il marito Francesco sopporta poco la sua presenza, sebbene non si sia mai sottratto ai suoi doveri coniugali! Giovanna rimane spesso incinta e il suo ventre sembra generoso. Eppure non riesce a dare alla luce il tanto desiderato erede maschio, colui che può portare avanti la casata medicea. E solo due delle prime sei bambine riescono a giungere all’età adulta e a sposarsi. In questo modo la sua posizione a corte appare sempre più debole e sempre più in ombra rispetto alla grande rivale, l’onnipresente Bianca Cappello, che ormai passeggia spudoratamente al braccio di Francesco il quale non fa mistero della sua passione amorosa. Suo unico protettore può essere considerato Cosimo I, anche se non mancano pure con lui motivi di attrito, in particolare quando questi si risposa con la giovane Camilla Martelli nelle cui vene non è possibile trovare traccia di sangue nobile.
Come moglie di un Medici e come arciduchessa d’Austria ottiene qualche piccolo successo diplomatico, aiutando a dissipare l’attrito tra la corte medicea e quella asburgica che in quegli anni va maturando.
Il favore del Granduca e la sua influenza politica non durano molto perché, a causa di una rapida decadenza fisica, Cosimo muore, lasciando il figlio libero di gestire a suo piacimento la vita privata. Forse l’anno più infausto della triste e infelice vita di Giovanna può essere considerato il 1576, quando si pensa che la sua rivale abbia dato alla luce un bambino, Antonio, figlio illegittimo, ma pur sempre un maschio. Sembra, perché la storia di questo fanciullo è avvolta dal mistero: si dice che sia una gravidanza simulata e che il bambino sia di una serva.
Che si tratti di un intrigo o meno, Giovanna deve aver vissuto non poca angoscia nell’animo. Lei, nonostante il ruolo di potere, resta una donna straniera, che non ama e non ha mai amato Firenze che, a sua volta, non l’ha mai accettata né apprezzata. Invano ha anche richiesto al fratello di tornare a Vienna, perché trascurata dal marito; naturalmente prevale la ragion di Stato e la sua richiesta non è nemmeno presa in considerazione. L’anno successivo Giovanna partorisce per la settima volta: questa volta è un maschio, il tanto desiderato erede legittimo. Filippo è il suo nome, purtroppo con lui la vita non è particolarmente generosa perché muore ancora infante all’età di soli quattro anni. Un ennesimo dispiacere, a cui la madre, però, non assiste: Giovanna, nuovamente gravida, muore infatti in seguito a una caduta dalle scale del palazzo Ducale nel 1578, dando alla luce un bambino morto.
Le sue esequie si tengono con grande fasto e viene seppellita nella chiesa di San Lorenzo in Firenze. Il suo corpo è ancora caldo quando il marito si risposa, a solo un mese di distanza, con la sua amante.

 

Fonti

Giorgia Arrivo, Una dinastia al femminile. Per uno sguardo diverso sulla storia politico-istituzionale, in A. Contini, A. Scattigno (a cura di), Carte di donne. Per un censimento regionale della scrittura delle donne dal XVI al XX secolo, vol. II, Atti della giornata di studio, Firenze, Archivio di Stato, 3 febbraio 2005, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2007

Maria Fubini Leuzzi, Straniere a corte. Dagli epistolari di Giovanna D’Austria e di Bianca Cappello, in Per Lettera. La scrittura epistolare tra archivio e tipografia secoli XV – XVII a cura di Gabriella Zarri, Viella, 1999
Nicoletta Lepri, Spettacolo della memoria e memoria dello spettacolo. Arte e mito mediceo nelle feste Fiorentine del 1565, in La question du sens, a cura di H. Casanova-Robin, C. Lévy, in collaborazione con D. Coppini, M. Regoliosi, Actes du Colloque (Paris 2012), “Camenulae”, 7 (2014), 11
Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Newton Compton editori, 2016
http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanna-d-austria-granduchessa-di-toscana_(Dizionario-Biografico)/
http://www.nove.firenze.it/firenze-1565-della-magnificenza-civile-gli-apparati-per-le-nozze-di-francesco-de-medici-e-giovanna-daustria.htm
www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/cartedidonne/cdd_02_arrivo.pdf 
 
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(Oudenaarde, 1522 – Ortona, PE, 1586)

A Margherita d’Austria sono state dedicate strade a Ortona e Leonessa; la ricordano anche piazza Madama, Palazzo Madama e Villa Madama a Roma. Anche Castel Madama, comune laziale, il Lago della Duchessa e i Monti della Duchessa sono toponimi in suo onore.

Madama d’Austria

di Barbara Belotti

È una erede bastarda Margherita d’Austria, frutto della relazione fra l’uomo più potente del mondo di allora, l’imperatore Carlo V, e una giovane ragazza, figlia di un arazziere. Illegittima sì, ma pur sempre una figlia che, nella logica della ragion di stato, può trasformarsi in un vantaggioso strumento di azione politica.
È il 28 dicembre 1522 quando nasce a Oudenaarde, in Belgio. Il padre non la accoglie a corte ma si impegna per il suo mantenimento e sceglie per lei guide sicure che possano affiancarla nella fase della crescita.
A pochi anni di vita viene trasferita a Bruxelles, affidata alla famiglia di Andries Douvrin, signore di Drogenbos e Sint-Martens-Bodegem, e posta sotto la tutela della Governatrice dei Paesi Bassi Margherita d’Asburgo, zia di Carlo V; quando quest’ultima muore, nel 1530, la tutela passa alla zia Maria d’Austria, sorella dell’imperatore. Carlo V riconosce la bambina solo nel 1529 e con la legittimazione arrivano una serie di vantaggi, una vita agiata, una buona educazione, ma anche tanti doveri che Margherita impara a conoscere molto presto.
Ha sette anni quando si cominciano a progettare le sue nozze con un giovane rampollo di casa Medici, Alessandro, ritenuto erede naturale del duca di Urbino Lorenzo de’ Medici, ma che più di una voce indica come figlio di papa Clemente VII. Dopo la grave crisi fra papato e impero, culminata con il sacco di Roma del 1527, si moltiplicano gli sforzi diplomatici per ritrovare l’equilibrio politico in Italia e il matrimonio di una rampolla asburgica con un discendente del Magnifico, benché entrambi figli illegittimi, appare un passaggio fondamentale.
Nel 1533 viene deciso il trasferimento di Margherita dal Belgio in Italia, un lungo viaggio che la porta, con molte tappe in cui riceve gli onori degni di una principessa imperiale, prima a Firenze, poi a Roma e infine a Napoli, meta conclusiva. Margherita fa sosta nella villa medicea di Poggio a Caiano, dove venivano accolte, prima di giungere a Firenze, le fidanzate e le spose straniere dei membri della famiglia. La principessa asburgica riceve l'omaggio della giovane Caterina de’ Medici e di altre aristocratiche; solo successivamente si reca a Firenze dove incontra il fidanzato Alessandro e dove in suo onore si svolgono dieci giorni di grandi festeggiamenti e spettacoli, dalla caccia al toro al gioco del calcio, dagli spettacoli teatrali ai balli.
Dopo Firenze è la volta di Roma: qui è papa Clemente VII ad accoglierla con una sontuosa festa e con il prezioso dono di una parure di diamanti. Dopo quasi sei mesi di viaggio, Margherita giunge a Napoli dove è previsto che le venga impartita una educazione raffinata degna di una nobildonna rinascimentale. Studia il latino, l’italiano, lo spagnolo; impara i modi di corte e cura le relazioni importanti scrivendo, su indicazione del padre, al papa, alla sua tutrice Maria d’Austria, al fidanzato. Tutte le sue lettere sono firmate con l’appellativo “Margarita d’Austria” come è giusto che sia e come l’imperatore le ricorda in continuazione.
Il 27 febbraio 1536, tre anni dopo il suo arrivo a Napoli, alla presenza dell’imperatore Carlo V gli sposi si scambiano gli anelli; due giorni dopo la partenza per Firenze dove il corteo che accompagna la sposa giunge a fine maggio. Di nuovo Margherita viene accolta nella villa di Poggio a Caiano, in attesa della celebrazione delle nozze che avvengono il 13 giugno nella basilica di san Lorenzo. A Madama, come veniva chiamata la principessa d’Asburgo, la corte fiorentina piace, come piace il giovane sposo, che invece è inviso dal popolo. Il matrimonio ha breve durata: il duca Alessandro, signore autoritario di Firenze, viene ucciso il 6 gennaio 1537 da Lorenzino de’ Medici. Dopo poco più di sei mesi, Margherita è vedova prematuramente e senza eredi. Torna a essere una pedina nelle mani del padre: vista la sua giovane età è possibile farne di nuovo un utile strumento di alleanza con la corte papale e rendere più decisa l’influenza imperiale sul territorio italiano. Carlo V non dà quindi seguito alla proposta matrimoniale di Cosimo I de’ Medici, nuovo signore di Firenze succeduto ad Alessandro, ma guarda alla famiglia Farnese che ora ha sul trono di Pietro un suo membro, papa Paolo III. Seguono lunghe trattative, vengono stipulati complessi accordi economici e si fissa la data delle nozze fra Margherita e Ottavio Farnese, nipote del papa, per il mese di novembre 1538. Il papa favorisce Madama d’Asburgo nella causa intentata contro di lei sull’eredità di Alessandro, vuole compiacere la futura sposa ma soprattutto l’imperatore. Tutti vedono con favore queste nozze, tranne lei, la sposa.
Margherita giunge a Roma, ma vi arriva ancora con il nero vedovile che non abbandona nonostante sia ora promessa sposa; disdegna lo sposo che ha tre anni meno di lei e che ritiene un bambino. Ubbidiente fino ad allora, Margherita si ribella come può. Il 4 novembre cede alla volontà di chi ha pianificato la sua vita: le nozze avvengono nella Cappella Sistina alla presenza del papa, che è anche il nonno dello sposo; riferiscono le cronache che la giovane non abbia risposto alla formula di rito e con il silenzio abbia voluto manifestare il suo dissenso. Dopo queste piccole scaramucce, che di fatto non interferiscono con quanto deciso ai più alti livelli, Margherita ha una sola arma e la usa: rimanendo a vivere nel palazzo un tempo dimora romana della famiglia Medici, divenuta sua con l’eredità dal marito Alessandro, rifiuta di consumare il matrimonio lasciando Ottavio fuori dal talamo nuziale, accusandolo di lavarsi poco e di vivere secondo usi poco consoni al suo rango. Scandalo, preoccupazione, sconcerto, perfino le frecciate delle pasquinate romane si intrecciano nel primo periodo di vita romana dell’erede asburgica. Voci del tempo, raccolte da un rappresentante della corte granducale toscana, parlano, per esempio, di una malattia del giovane Ottavio che altro non sarebbe stato che un “mostaccione”, un gran colpo al viso sferrato da Margherita al giovane sposo probabilmente per sottrarsi alle avances. Madama d’Austria teme per il suo rango e il suo potere, vede nel suo matrimonio con un Farnese un possibile salto indietro rispetto ai titoli del precedente marito, al suo personale patrimonio e ai suoi cospicui beni. In fondo chi è questo Ottavio, cosa offrono la famiglia e lo stesso papa, che Margherita ritiene molto vecchio e ormai prossimo alla fine? È lei che, in virtù delle sue ricchezze, dell’ascendenza imperiale, dei possedimenti, porta prestigio alla famiglia Farnese e non viceversa, è lei che offre loro l’ingresso fra le dinastie familiari più potenti in Italia e in Europa. Lucida, determinata, consapevole Margherita esprime al padre i suoi timori e gli chiede di essere tutelata. Per diversi mesi, fino al 1540, a nulla valgono le esortazioni del papa, le imposizioni paterne: Margherita, rifiutando ogni contatto con il marito, cerca la sua via per l’annullamento, almeno fino a quando Carlo V, in una lettera, riesce a convincerla a rivedere le sue posizioni.
Consumato finalmente il matrimonio, l’unione di Margherita con Ottavio non sarà mai un’unione felice. Si legge in una lettera al Cardinale Gonzaga del 1541, a proposito dei “nuovi garbugli” tra loro, che
«piuttosto in Madama non si conosce molta contentezza et verso il suo consorte non par che faccia quelli segni d’amore che si converrebbono». La loro sarà principalmente un’alleanza politica, caratterizzata spesso da lontananza, in cui entrambi giocano le mosse opportune per raggiungere e confermare il potere.
L’erede asburgica ha un ruolo importante nella trattativa con l’imperatore per l’attribuzione al marito di un ducato e, in seguito, si impegna per il mantenimento dei possedimenti di Parma e Piacenza e per l’affermazione del figlio Alessandro, nato nel 1545 da un parto gemellare, sopravvissuto al fratello Carlo morto in tenera età, e destinato a un radioso futuro militare e politico. Di Ottavio non si fiderà mai ciecamente, come non riuscirà mai a eliminare la ruggine con la famiglia Farnese; rimane invece fedele al volere del padre e al compito che le è stato assegnato.
Nel 1559 parte per Bruxelles dopo che il re di Spagna Filippo II, suo fratellastro, l’ha nominata governatrice dei Paesi Bassi, un’area con forti tensioni autonomiste e grande instabilità. Non è un compito agevole controllare la situazione, soprattutto per Margherita non è semplice arginare le richieste di pugno di ferro che provengono dalla corte spagnola. Lei, che propone una politica di conciliazione, non ha vita facile eppure riesce nel compito, fino a quando il re non invia nei Paesi Bassi il duca d’Alba con il compito di intervenire con durezza sulla situazione locale. L’amarezza spinge Margherita alle dimissioni e al ritorno in Italia. Dopo un iniziale soggiorno a Parma con la sua famiglia, preferisce ripartire, questa volta per l’Abruzzo dove ha molti possedimenti e dove si era già recata nel 1540; viene nominata Governatrice generale di quelle zone nel 1569, comincia la sua azione di governo nei suoi feudi trascorrendo tempo a Leonessa, Cittaducale, Montereale e stabilendo infine la sua corte a L’Aquila. L’Ordinamento giudiziario dello Stato d’Abruzzo e i successivi Ordinamenti di Margherita, del 1571, costituiscono un corpus legislativo che dimostra la volontà politica della duchessa di creare uniformità amministrativa, politica e di governo in quei territori, ponendo così fine alla consuetudine di lasciare spazio alle decisioni arbitrarie dei suoi rappresentanti, che creavano profondo malcontento fra la popolazione.
Torna un’ultima volta nei territori dei Paesi Bassi, fra il 1579 e il 1581, su richiesta di Filippo II: per lei si tratta di una rivincita, perché il fratello è costretto a riconoscere che il pugno di ferro attuato dal duca d’Alba non ha risolto le controversie, anzi le ha aggravate. Questa seconda nomina a Governatrice la rinfranca anche perché le viene affiancato, per le sole questioni militari, il figlio Alessandro; purtroppo l’ambizione del figlio si trasforma in ostilità nei suoi confronti e la crisi nei Paesi Bassi, suo malgrado, invece di diminuire si acuisce. Maddalena, che da tempo ha chiesto al re di Spagna di revocare la sua nomina e permetterle il rientro in Italia, lascia i Paesi Bassi nel 1584. Di nuovo passa per il Ducato di Parma e Piacenza per poi proseguire per l’Abruzzo. Questa volta la sua meta è Ortona, città marinara dal clima più mite rispetto ai rigori invernali de L’Aquila, dove decide trasferirsi e di far costruire una dimora privata degna del suo rango. Margherita d’Austria non vedrà mai conclusi i lavori del suo nuovo palazzo: muore il 18 gennaio 1586. Le sue spoglie riposano nella Chiesa di San Sisto a Piacenza.

Fonti:
Marcello Vannucci, Le donne di Casa Medici, Newton Compton editori, 2016
Giuseppe Bertini,
Margherita d'Austria e i Farnese negli anni romani (1538-1550): nuovi documenti
http://bia.medici.org/DocSources/Home.do  https://www.academia.edu/20154449/MARGHERITA_DAUSTRIA_E_I_FARNESE_NEGLI_ANNI_ROMANI_1538-1550_NUOVI_DOCUMENTI
https://www.academia.edu/10180271/Una_corte_rinascimentale_poco_men_che_reale_il_palazzo_di_Margherita_dAustria_tra_ingressi_feste_e_cerimoniali
http://www.treccani.it/enciclopedia/margherita-d-austria-duchessa-di-firenze-poi-duchessa-di-parma-e-piacenza_(Dizionario-Biografico)/
www.patriziadebicke.com/ita/rac_margheritaaustria.pdf
http://www.leonessa.org/art6.htm
http://www.prolococittaducale.it/cittaducale-il-territorio/margherita-daustria-a-cittaducale/
https://it.wikisource.org/wiki/Francesco_Marchi_e_le_medaglie_di_Margherita_d%E2%80%99Austria


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Maddalena de la Tour d’Auvergne

 

(Francia, 1498? – Firenze, 1519)

Non esistono strade in suo onore

Una duchessa sfortunata
di Livia Cruciani

 

In piazza della Signoria, a Firenze, passeggia una giovane donna, bella e raffinata, che non comprende e non parla l’italiano. È una ragazza venuta da oltralpe, entrata in città al braccio del nuovo signore di Firenze Lorenzo II de’ Medici: è Maddalena de la Tour d’Auvergne.
La giovane donna è veramente preziosa per la città toscana e per i Medici ma, purtroppo, è altrettanto sfortunata. Preziosa perché, per lignaggio e per dote, il suo matrimonio illumina la famiglia medicea e garantisce una strategica alleanza tra la Francia, il papato e Firenze; sfortunata perché muore ad appena vent’anni, dopo aver partorito l’erede per la nobile casata fiorentina. Nonostante la sua vita sia stata tanto breve, tuttavia è lei la chiave di volta per la famiglia de’ Medici.

Siamo all’inizio del 1500 e Papa Leone X, al secolo Giovanni de’Medici, sta giocando una difficile partita a scacchi in campo politico ed è disposto anche a sacrificare qualche alfiere, se non lo ritiene più un alleato importante. È questo il destino di Francesco Maria I Della Rovere, Duca d’Urbino, che non aveva seguito il pontefice nella battaglia di Marignano contro i francesi: le sue terre vengono affidate, non per caso, a Lorenzo II de’ Medici, figlio di Alfonsina Orsini e Piero il Fatuo, fratello di Clarice nonché nipote del papa e signore di Firenze.
È ora il turno di muovere scacco a un re e Leone X si rivolge al sovrano di Francia, Francesco I. Fino a poco tempo prima i rapporti con questa potente nazione erano stati molto tesi, ma ora al re servono nuovi accordi con Roma a discapito di Austria e Spagna, mentre il pontefice ambisce a un matrimonio di classe per il suo pupillo Lorenzo.

È così che le due parti convergono su un punto assai vantaggioso per entrambi: unire in matrimonio il giovane Medici con una fanciulla francese, la diciassettenne e ricca Maddalena, molto vicina alla corte di Parigi visto che è la figlia di Giovanni III de la Tour d’Auvergne e della principessa reale Giovanna di Borbone-Vendôme.
Lorenzo viene invitato da Francesco I al battesimo del Delfino il 25 aprile 1518: “Il Cristianissimo [Francesco I] vuole che Nostro Signore sia suo compare e mandi il Duca a tenere suo figlio a battesimo et ordina di fargli tutti gli onori che sono possibili”, scrive l’ambasciatore di Firenze a casa Medici. Si è pronti a partire: il tempo è mite, le giornate lunghe e il fiorentino si imbarca con il suo seguito su una sontuosa nave carica di doni preziosi: nelle stive ci sono trecentomila ducati da versare alla sposa, suppellettili, opere d’arte e due quadri dal valore inestimabile, San Giorgio che abbatte il drago e La sacra famiglia di Raffaello.
Le nozze sono celebrate una settimana dopo il battesimo, il 2 maggio, nel suggestivo castello di Amboise, il prediletto del re perché costruito a formare un ponte da una parte all’altra di un fiume. La sposa, a cui Lorenzo non ha nulla da obiettare perché è davvero “très belle”, è accompagnata all’altare dal sovrano in persona. Alla regale coppia fa omaggio tutta la nobiltà di Francia, tutti gli ambasciatori e gli stranieri che in quel momento si trovano a corte. Ai festeggiamenti segue un banchetto, nel cortile della residenza protetto da drappi, in cui davvero non si bada a spese: quarantacinque portate, ognuna accompagnata da uno squillo di tromba e dallo chef, litri e litri di vino versati da alacri coppieri, posate e vassoi d’argento, coppe preziose, piatti smaltati, danze di corte e popolari per allietare il pranzo. Durante il banchetto di nozze gli sposi siedono accanto al sovrano e alla regina Claudia; con loro anche la madre del re, Luisa di Savoia, sorella di Filiberta da poco vedova di un altro Medici, Giuliano duca di Nemours. A conclusione della giornata Maddalena viene accompagnata dalla regina Claudia di Francia al talamo nuziale dove si trova Lorenzo: le cronache riferiscono che lo sposo dimostra di aver “bene laborato lo possesso” e che il matrimonio viene consumato. Come per tutte le nozze di alto lignaggio, l’obiettivo principale è dar vita a una nutrita schiera di eredi e garantire il proseguimento della stirpe.
Anche i giorni seguenti sono allietati da giostre e giochi. Lo sposo stesso partecipa ai tornei per provare alla sua bella dama il valore posseduto con la spada: in sella a un destriero bianco mostra a tutti i presenti di essere lui a occupare il cuore di Maddalena, stringendo sopra l’armatura lucente la sciarpa con i suoi colori.
Le settimane seguenti i novelli sposi cavalcano per andare a visitare i numerosi possedimenti nella terra di Bretagna, molto vasti perché Maddalena è la figlia di Giovanni conte di Boulogne e di Caterina Bourbon de Vendome, orfana fin da bambina e dunque erede insieme alla sorella Anne, sposata con il duca d’Albany, di tutte le proprietà della famiglia. Veramente una donna da sposare: bella e immensamente ricca!
All’inizio di settembre Maddalena e Lorenzo tornano a Firenze e il 7 settembre si celebra il trionfale ingresso in città: vestita con un abito di foggia tedesca, la novella sposa entra nelle vie fiorentine circondata da quaranta tra le più illustri fanciulle della nobiltà e accolta dalla suocera, Alfonsina Orsini, sulle scale del palazzo di via Larga. La corte medicea non vuole essere da meno di quella d’oltralpe e di nuovo si ripeterono grandi festeggiamenti, tre giorni di giostre, balli, musiche e recite, dopotutto ci si deve mostrare all’altezza della Francia. Nell’archivio digitale su Palazzo Medici Riccardi è possibile rivivere quelle giornate memorabili: “Lungo la facciata del palazzo su via Larga fu alzato un palco alto due metri ornato da un arco trionfale e da una bellissima copertura discendente ai lati. […] Il banchetto si svolse in forma privata nel giardino su retro del palazzo, che per tale occasione era stato lastricato in pietra e dunque trasformato in una sorta di secondo cortile, più ampio e luminoso di quello porticato al centro dell'edificio. L'area così rinnovata era ornata da statue antiche […]. Le pareti del recinto, così come quelle degli interni e della facciata dell'edificio, erano rivestite di arazzi, che dovevano essere più di trecento, tutti in seta e ricamati con figurazioni fantastiche e di animali. Si disse che doveva trattarsi di un regalo del papa visto che l'arazzo più modesto doveva valere più di cinquanta ducati d'oro. […] Sopra alla tavola dove sedeva la duchessa fu posto un importante dipinto appena giunto da Roma: il Ritratto di Leone X e i cardinali Giulio de' Medici e Luigi de' Rossi realizzato nello stesso 1518 da Raffaello su commissione dello stesso pontefice […]: il dipinto così concepito svolgeva il ruolo di un vero e proprio ritratto di stato, sostituendo la persona di Leone X che non poteva essere 'fisicamente' presente a quel matrimonio dalle forti valenze politiche.”
La corte medicea, da sempre culla di straordinaria cultura, decide anche di organizzare la messinscena di tre rappresentazioni teatrali, una per ogni serata di festeggiamento, fra cui forse la Mandragola di Niccolò Machiavelli; dopo gli spettacoli le dame si dedicano alle danze sopra il palco esterno sospeso lungo la facciata.
Al termine dei festeggiamenti nuziali è la volta di un'azione scenica conclusiva, che rimanda a riferimenti classicheggianti e ha toni encomiastici, seguita dal trionfo di Imeneo, dio delle nozze.
Non molto tempo dopo, forse con la complicità anche di Imeneo, Maddalena riamane incinta, un lieto evento per la famiglia de’ Medici che iniziava a non avere più molti eredi: sembra veramente che la buona sorte baci gli sposi. Ma la dea bendata è proverbialmente mutevole, dà e toglie a suo piacere. Lorenzo inizia ad aggravarsi irrimediabilmente, minato forse dalla tubercolosi, forse dalla sifilide, tanto che non riesce più ad alzarsi dal letto. Maddalena porta avanti la sua gravidanza e il 13 aprile 1519 nasce “Madonna la Duchessa” Caterina che fu portata al capezzale del padre che ha “parimenti preso quel piacere che se fussi stato maschio”.
La bambina non conoscerà mai né il padre, né la madre. Maddalena muore pochi giorni dopo il parto per una febbre puerperale, che mieteva molte vittime fra le donne; Lorenzo qualche settimana dopo, senza nemmeno ricevere la nuova proposta del re di Francia che, informato della morte della giovane moglie, è bendisposto a “dargli un’altra bella e ricca consorte”. 

Caterina rimane sola, viene prima affidata alla nonna Alfonsina e poi alla zia Clarice che la accoglie in casa e la segue affettuosamente insieme alle sue figlie e ai suoi figli. Per la neonata Medici il destino ha in serbo un futuro da assoluta protagonista: erede universale della casata fiorentina e della casata Boulogne, dopo che la zia è morta senza figli lasciandole anche i possedimenti inglesi, troverà il suo posto tra i reali di Francia come consorte di Enrico II, figlio di Francesco I.

 

Fonti

Marcello Vannucci, Le donne di Casa Medici, Newton Compton editori, 2016
http://www.palazzo-medici.it/mediateca/it/Scheda_1518_-_Matrimonio_di_Lorenzo_duca_di_Urbino&id_cronologia_contenuto=2

http://www.treccani.it/enciclopedia/maddalena-de-la-tour-d-auvergne-duchessa-di-urbino_(Dizionario-Biografico)/
http://bia.medici.org/DocSources/Home.do;jsessionid=23816AC628933B7FDC40DEDF6FF09B2A

 


 

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Berta Cáceres Flores


(Honduras, 1971 – 2016)

Non risultano intitolazioni in suo onore

 

¡Despertemos

di Andrea Zennaro

 

È la notte tra il 2 e il 3 marzo 2016 quando due ignoti fanno irruzione nella casa di Berta Cáceres, a La Esperanza, uccidendola con quattro colpi di pistola mentre dorme. Il 3 marzo sarebbe stato il suo quarantacinquesimo compleanno. In casa insieme a lei era presente il suo amico messicano Gustavo Castro Soto, rimasto ferito.

La situazione politica e sociale in Honduras è spaventosa: corruzione e abusi di potere sono all'ordine del giorno, la popolazione è preda dei continui attacchi di bande paramilitari armate e finanziate dalle multinazionali e dai narcotrafficanti. Il golpe del 2009, riuscito grazie all'appoggio USA, ha gettato il paese nel più sfrenato neoliberismo: totale libertà di azione e di devastazione alle imprese e fortissima repressione contro chiunque tenti di ostacolarne i profitti. 

Una sfilza di recenti decreti governativi ha autorizzato la costruzione di enormi impianti turistici e petroliferi persino su aree naturali protette; solo negli ultimi 5 anni sono stati privatizzati 47 fiumi e costruite 27 dighe, per non parlare delle almeno 470 concessioni minerarie che hanno svenduto una superficie pari al 31% dell'intero territorio del paese. Dico "almeno" perché non tutte le concessioni sono date in forma ufficiale, quindi molte di queste non risultano nei documenti. Le restanti zone coltivabili sono ormai danneggiate da mercurio, arsenico e cianuro usati negli impianti.

A questo punto agli abitanti di quelle terre, schiacciati tra povertà e disoccupazione da un lato ed esercito e bande dall'altro, non resta che la fuga verso Nord, a ingrossare le fila dei migranti clandestini che affluiscono verso gli Stati Uniti.

Chiunque in Europa avrà sentito parlare, più o meno approfonditamente, di civiltà precolombiane come quella Azteca, Maya o Inca; forse anche dei Sioux, dei Cheyenne e persino dei Mapuche. Ma quante persone conoscono il popolo Lenca?

Si tratta di un'antichissima civiltà che popola i boschi e i monti dell'America Centrale vivendo prevalentemente di agricoltura caccia e pastorizia. Ne consegue, ovviamente, che per loro è vitale il rispetto della Terra: l'inquinamento dell'acqua fluviale e la distruzione delle foreste sarebbero per questa gente fonte di estinzione. I beni comuni della Natura sono i diritti basilari di quei popoli.

A tutto ciò bisogna aggiungere che per le tribù Lenca, come per tutte le popolazioni indigene americane, l'acqua non è soltanto fonte di vita biologica. La Cosmogonia andina vede l'Acqua come qualcosa di sacro, più di un semplice essere vivente: è il sangue della Pachamama, la Madre Terra tradizionalmente venerata in tutti i culti locali; sottrarre o inquinare l'acqua è un crimine contro il mondo e il suo Spirito, contro la Natura e le persone, molto più grave dell'idea cristiana di peccato.

In particolare il fiume Gualcarque, oltre a dare sostentamento ad almeno 600 famiglie nella zona di Rio Blanco, è da sempre considerato un luogo sacro e un punto di incontro di tutti gli spiriti della Terra e dell'Acqua presenti nella regione. "En nuestras cosmovisiones - spiega Berta - somos seres surgidos de la Tierra, del Agua y del maís; de los ríos somos custodes ancestrales el pueblo Lenca." Difficile che una diga possa scardinare credenze così tanto radicate.

In difesa della Terra e delle persone nel 1993 era stato fondato il Consejo de las Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras (COPINH), che negli anni aveva ottenuto svariate vittorie in materia di ecologia e sviluppo sostenibile. Ma subito dopo il colpo di stato del 2009 è iniziata una pioggia di permessi per costruire enormi impianti minerari e idroelettrici con annesse dighe. Titolari dei progetti sono imprese cinesi e nordamericane con capitali anche europei. Tali appalti sarebbero formalmente vietati dalla Convenzione ONU 169 del 1989 sul diritto all'autodeterminazione dei popoli indigeni, secondo la quale grandi opere di questo tipo necessitano del consenso della popolazione locale. Per ottenere diritti che formalmente non avrebbero, le grandi multinazionali fanno ricorso alle cosiddette "squadre della morte", bande armate del tutto indisturbate che uccidono chi difende l'ambiente, stuprano le donne e incendiano i villaggi saccheggiandone le terre e devastandone le coltivazioni. Non sono mai stati trovati né gli esecutori né i mandanti, eppure dal 2010 a oggi sono stati assassinati ben 101 ecoattivisti (se contiamo solo le statistiche ufficiali).

È in questo contesto che si colloca la figura di Berta Cáceres Flores, ambientalista, attivista per i diritti umani e portavoce del COPINH. Proprio sotto la guida di questa donna, la comunità di Rio Blanco ha ottenuto la più grande vittoria della sua storia: dopo tanto sangue versato, è riuscita a far estromettere dalla zona i maggiori costruttori di dighe al mondo, l'americana Desa (i cui profitti sarebbero andati in parte al governo post golpista dell'Honduras) e la cinese Sinohydro, bloccando così la costruzione del gigantesco complesso idroelettrico Agua Zarca, composto di più dighe sul Rio Gualcarque. Sarebbe dovuto essere l'impianto idroelettrico più grande del mondo.

I blocchi e gli atti di resistenza passiva portati avanti dai Lenca sotto il suo coordinamento sono stati molto efficaci, ma la reazione dei militari statunitensi e dei paramilitari onduregni non si è fatta attendere.

In seguito all'ennesimo omicidio di un indio, Berta Cáceres ha fatto ricorso alla Banca Mondiale, ha presentato denunce per la situazione al Congresso degli Stati Uniti, alla Casa Bianca, al Dipartimento di Stato e alla allora segretaria di Stato Hillary Clinton, ricevendo ben poco ascolto.

Per questo suo impegno nel suo Paese è stata accusata di terrorismo. Più volte ha subito anonime minacce di morte e ha dovuto mandare le sue tre figlie e il figlio in Argentina per paura di sequestri o ritorsioni.

Ha portato le parole degli Indios, senza voce da più di 5 secoli, alla Corte europea di Strasburgo, al Tribunale dei Popoli, alla Corte interamericana per i diritti umani e persino in Vaticano, sperando nell'aiuto del pontefice latinoamericano in difesa da ciò che lei definisce "el sistema capitalista, racista y patriarcal, responsable de la depredación de la Tierra y de la explotación de las indígenas". Ma niente da fare, nessuno può ostacolare il "progresso".

Finalmente, nel 2015, il suo impegno è stato riconosciuto con il Goldman Environmental Prize, il premio più prestigioso al mondo in difesa della Terra e dell'Acqua, una specie di premio Nobel per l'Ambiente, concessole con questa motivazione: "In a country with growing socioeconomic inequality and human rights violations, Berta Cáceres (d. 2016) rallied the indigenous Lenca people of Honduras and waged a grassroots campaign that successfully pressured the world’s largest dam builder to pull out of the Agua Zarca Dam."

In una notte di marzo del 2016 una non meglio identificata bandilla ha colpito anche lei. Bandilla è il termine spagnolo usato per indicare i gruppi criminali armati, l'equivalente dell'inglese gang.

La famiglia chiede giustizia e accusa: in Honduras pagare dei sicari è molto facile e sarà impossibile trovarli, ma la responsabilità è chiaramente della Desa; ne sono certamente coinvolti, secondo le parole delle figlie, anche i finanziatori europei del progetto, la banca olandese e quella finlandese.

L'eco della notizia si è sentita in tutto il mondo tanto che, per lo scandalo, l'International Finance Corporation (IFC), braccio privato della Banca Mondiale, ha ritirato i fondi per il progetto di Agua Zarca. Il governo dell'Honduras ha formalmente promesso protezione al suo compagno di lotte Gustavo Castro Soto, presente in casa al momento dell'omicidio, ma in realtà gli ha soltanto impedito di uscire dal Paese (nel quale difficilmente sarà al sicuro) e sospeso il suo legale di fiducia.

Il funerale di Berta Cáceres è stato seguito da una folla imponente. Ma ora le tribù Lenca sono povere, divise e non certo colte: senza di lei non sarà difficile aggirarle in cambio di denaro e riprendere i lavori. Intanto, in Honduras continua ad aumentare il numero di attivisti e contadini assassinati nel totale silenzio delle istituzioni e senza che nessuno faccia giustizia.

"Construyamos sociedades capaces de coexistir de manera justa y digna por la vida. ¡Despertemos humanidad!".  Con queste parole Berta conclude il suo ultimo discorso pubblico: non si rivolge solo ai Lenca o agli Indios o all'America Latina ma all'umanità tutta, perché la violenza che sta colpendo l'Honduras e l'America può da un momento all'altro colpire qualunque zona del mondo.


Fonti

http://www.internazionale.it

http://www.goldmanprize.org/recipient/berta-caceres/


 

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Jessie Boswell

(Leeds, 1881 – Moncrivello (VC), 1956)

Jessie Boswell non viene ricordata né a Torino, dove visse molti anni, né a Moncrivello, in provincia di Vercelli, dove morì in una casa di riposo.

Una pittrice fra pittori

di Barbara Belotti

Jessie Boswell è stata l’unica donna dei “Sei pittori di Torino”, un gruppo artistico della fine degli anni Venti del XX secolo nato su posizioni contrarie alla pittura tradizionale e accademica, collegato alla cultura europea e appoggiato da critici e studiosi come Lionello Venturi, Persico e Bardi.
Jessie nasce a Leeds nel 1881 e studia musica diplomandosi nel 1901.
Si trasferisce nel 1906 in Italia, raggiungendo la sorella che, dopo il matrimonio, viveva a Biella. Nel 1913 si sposta a Torino e entra nella cerchia della famiglia Gualino. Jessie fu “dama di compagnia” di Cesarina Gurgo Salice Gualino, proprio come in una corte antica, divenendone in seguito amica e mantenendo con lei un costante rapporto epistolare anche quando le esistenze delle due donne prendono percorsi differenti. In casa Gualino il ruolo di Jessie è più ampio di quello di “dama di compagnia”, visto che si occupa anche di pittura e, mettendo a frutto il diploma conseguito anni prima alla Royal Academy of Music di Londra, anima le serate organizzando intrattenimenti musicali e concerti. Nelle foto che la ritraggono la si vede in compagnia dei coniugi Gualino sulla spiaggia di Sestri oppure accennare passi di danza accanto a Cesarina e alla danzatrice Bella Hutter.
Nel 1928 lascia l’ambiente colto e illuminato di casa Gualino e comincia a dedicarsi unicamente all’arte sostenendosi economicamente con le lezioni di musica. La sua ricerca artistica era già cominciata nel 1923 con l’esposizione alla Società Promotrice di Belle Arti di Torino; dell’anno successivo è il suo “Le tre finestre”, uno sguardo pacato su uno scenario collinare attraverso le finestre di una stanza pressoché vuota, fatta eccezione per due sedie e un libro in terra. Il silenzio e il vuoto della stanza possiedono un gusto quasi metafisico, un senso di attesa pervade lo spazio quasi ci si potesse aspettare il ritorno di qualcuno.
Nel 1926 e nel 1928 partecipa alla Biennale di Venezia, nel 1927 alla Quadriennale di Torino. A partire dal 1929 fa parte del gruppo dei Sei pittori di Torino e prende parte a tutte le mostre organizzate fino al 1930, dall’esordio torinese nella Galleria Guglielmi fino alle esposizioni di Genova e Milano. La sua ricerca artistica si muove fra ritratti, scene di paesaggio, interni di abitazioni, con o senza figure umane, e la sua pittura si serve di note cromatiche intense e vivaci, giustapposte con pennellate a macchia.
Unica donna del gruppo artistico torinese, la critica le riserva attenzioni minori e giudizi poco rilevanti fin dall’inizio. Nell’estate del ’29, quando I Sei di Torino esordiscono, le sue opere fanno scrivere a Edoardo Persico, che pure sostiene il gruppo, che “né la composizione, né il disegno reggono le sue tele: sensibilità pacata e realistica, alla quale si mescolano gli slanci commoventi di un lirismo infantile e senza pretese. E’, in fondo, questa purezza di cuore che allontanò la Boswell dalla scuola di Casorati: per il gusto che hanno certe signore di preferire ai ricami a macchina quelli che esse fanno in casa con le proprie mani e con tante piccole trovatine”. Poche righe, meno di quelle dedicate agli altri pittori del gruppo, e un giudizio severo che sembra domandare: può una donna esprimere passione artistica, può uscire dagli stretti confini di un perenne dilettantismo? Gli fa eco, sulle pagine della Gazzetta del Popolo dell’8 gennaio 1930, un altro giudizio poco lusinghiero, quello di Emilio Zanzi: “La Boswell è molto lontana dalle doti e dalle possibilità tecniche dei suoi colleghi maschi. Però la sua pittura tranquilla e onesta ha ancora qualche nota di cromatica gaiezza”. Una tecnica corretta, un fare artistico pacato, quasi il capriccio di una signora annoiata che trascorre in questo modo il suo tempo. Nulla che possa essere degno di nota.
Dopo la Biennale di Venezia del 1930 Jessie Boswell si distacca dal gruppo proseguendo la sua attività artistica in maniera autonoma, riuscendo a dare continuità alla sua ricerca ed esponendo con regolarità i suoi lavori fino al 1941. Nonostante gli anni difficili della guerra e la sospensione delle mostre e delle manifestazioni culturali a Torino, l’esperienza pittorica di Jessie prosegue e nel 1944 ha modo di esporre a Biella nella Galleria d’Arte Garlanda. Dopo il 1945 il suo stato di salute comincia a peggiorare e le impedisce piano piano di proseguire il lavoro. Nel 1952 è accolta nella Casa di Riposo delle Figlie di Sant’Eusebio di Moncrivelli, in provincia di Vercelli, dove muore nel 1956.

Fonti
A. Bovero, Archivi dei Sei pittori di Torino, Roma 1965, pp. 17-19 e passim
Simona Weller, Il complesso di Michelangelo, Pollenza – Macerata, 1976, pp. 176 – 177 e passim
http://www.treccani.it/enciclopedia/jessie-boswell_(Dizionario_Biografico)/
http://www.paginadellarte.it/index.php?method=section&action=zoom&id=3686&format=print
http://www.paginadellarte.it/index.php?method=section&action=zoom&id=3508
http://torino.repubblica.it/dettaglio/omaggio-a-jessie-boswell-la-pittrice-dei-sei-di-torino/1604066
http://www.undo.net/it/mostra/89357
http://www.sottocoperta.net/eventi/piemonte/marzo-2009/3075/jessie-boswell-pittrice-inglese-che-aveva-scelto-torino.html
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Le è stato intitolato un parco nella capitale austriaca.

Una madre dell'architettura moderna
di Lorenza Minoli

In effetti  proprio di una madre dell'architettura moderna possiamo parlare, poiché in occasione di uno dei  primi incarichi professionali  il suo nome compare nello stesso team di progettazione di Walter Gropius,  fondatore  del Bauhaus, padre del Movimento moderno di architettura. Il  progetto riguardava due quartieri viennesi di iniziativa pubblica, il Winarskyhof e l'Otto Haas-Hof, 1924.
Margarete Lihotzky è tuttora poco nota sopratutto in Italia. Non è ancora stata raggiunta la piena memoria storica del personaggio, né la consapevolezza che, muovendoci all'interno delle nostre cucine moderne, camminiamo sulle indicazioni tracciate dall'architetta viennese. Per svolgere le mansioni domestiche, con risparmio di energie e di tempo, le sue dettagliate analisi e gli studi approfonditi per razionalizzare il lavoro domestico determinano il progetto della cosiddetta "Cucina di Francoforte", il cui prototipo viene presentato nel 1926. La sequenza delle operazioni determinata secondo i principi tayloristici e ergonomici e le soluzioni progettuali conseguenti  sono rimasti basilari e immutati fino ad ora.  Il piano di lavoro continuo e tutto alla medesima altezza, i pensili predisposti in linea a altezza adeguata, la posizione reciproca di lavello, gocciolatoio e  fuochi, lo zoccolino arrotondato e, in più, la possibilità di lavorare sedute, il cassettino per la raccolta dei rifiuti organici accessibile dal piano di lavoro, ecc. ne costituiscono la cifra. Il suo nome fatica a entrare nella storia anche perché quel poco di conosciuto  del suo lavoro portava la firma del direttore dell'ufficio all'edilizia del comune di Francoforte, città dove si trasferisce dalla natia Vienna per lavorare con il gruppo di super esperti alla progettazione di nuovi quartieri. Quando il suo nome compare è collegato al ruolo subalterno di esecutrice/disegnatrice.
Quasi nulla metteva in evidenza il suo ruolo di prima donna progettista in Austria, figura forte e decisa, cittadina impegnata politicamente e socialmente, partecipe alla resistenza nazifascista. Arrestata  e condannata dai tribunali della Gestapo, sconterà quattro anni di carcere, dal ‘40 al '45, fino alla liberazione da parte delle truppe  alleate.   
A differenza delle altre pioniere del XX secolo, come per esempio la franco-irlandese Eileen Gray  (1878 - 1976 ) o la francese  Charlotte Perriand (1878 - 1976 ),  Margarete opera per gli enti pubblici, le amministrazioni comunali, le cooperative edilizie impegnate a rispondere ai bisogni della classe operaia e dei ceti  medio bassi,nel difficile periodo del primo dopoguerra.  Non ha l'occasione perciò, come le sue colleghe, di progettare elementi di design raffinati, alcuni dei quali, tuttora in produzione,  sono divenuti veri e propri cult.
Perciò  la grande rassegna  Margarete Schütte-Liotzky. Soziale Architektur Zeitzeugin eines Jahrhunderst, che la città di Vienna  le ha dedicato nel 1993, basata sul completo e complesso lavoro di ricerca e di archiviazione da parte di un team di esperte viennesi, ha opportunamente interrotto il silenzio intorno alla sua figura. Si è riusciti a rivalutare la sua figura e la sua produzione intellettuale.
Stupita e entusiasta dell'incontro fortuito con questo evento durante un soggiorno estivo nella capitale dell'ex impero asburgico, evento cui il mio pluriennale impegno negli studi di genere in architettura attribuiva grande rilevanza, l’ho riproposto al Politecnico di Milano per una riedizione almeno parziale. Grazie al patrocinio del Comitato per le pari opportunità tra uomo e donna dell'ateneo, con la collaborazione scientifica  delle curatrici viennesi e di Margarete stessa, si è giunti nel 1996 all’allestimento della rassegna Margarete Schütte-Liotzky. Una donna progettista per l'architettura sociale, comprendente  una selezione significativa di progetti. Ora si cerca di non tralasciare più, nelle rassegne a tema e nei musei, come nel Victoria & Albert Museum di Londra,  l’inserimento dei suoi progetti. Un modellino  della Cucina di Francoforte è  esposto nella mostra "Cucine & ultracorpi"della Triennale di Milano, collegata con Expo.
Ciò che distingue in modo determinante il lavoro di Margarete  Lihotzky, da quello di colleghe e colleghi a lei contemporanei, è la esplicita e più volte ribadita finalizzazione al femminile, ovvero il miglioramento delle condizioni di vita delle donne. E in effetti sia i temi oggetto delle sue ricerche accurate che i progetti lo confermano.
Per realizzare il suo obiettivo prioritario la progettista inizia dagli interni, spazi tradizionali di vita e di lavoro delle donne, soprattutto dalle cucine, luoghi di produzione domestica, e più precisamente dai focolari intesi non solo in senso metaforico. Qui spinge la sua meticolosa indagine per seguire  le tracce dei passi e dei movimenti delle casalinghe tra fornelli, acquaio e dispensa e per rilevarne le caratteristiche geometriche e spaziali insieme ai vissuti incorporati.  
Materializzazione e concentrato di tutti gli studi e le analisi funzionali, volte a ridurre lo spreco di tempi e di passi e a alleggerire  il lavoro domestico, la cucina di Francoforte è di fatto la prima cucina razionale standardizzata. Nel 1926 viene presentato il prototipo e l'anno successivo le cinque varianti. Diecimila esemplari  verranno inseriti nei nuovi alloggi minimi delle Siedlungen  operaie in via di costruzione nella città sul Meno.  
L' obiettivo di contribuire, con progetti edilizi mirati, al miglioramento della condizione femminile spinge l'architetta a interessarsi anche delle donne che lavorano e che vivono da sole, delle studentesse e delle anziane, alle loro necessità e alle difficoltà di reperire alloggi idonei nella Francoforte del primo dopoguerra.
I suoi studi attestano il riconoscimento delle donne  come nuovi soggetti urbani e ne definiscono esigenze e urgenze peculiari. L'abitazione delle donne che lavorano e vivono sole è il titolo di una serie di studi presentati per la prima volta nel 1927. Unità abitative anche molto piccole, purché indipendenti, contro i condizionamenti della coabitazione e del subaffitto, riunite nei piani alti delle palazzine residenziali, con bagni e cucine in comune: questa la soluzione proposta come alternativa alla più usuale, ma più segregante, tipologia delle case per celibi o per nubili. Centralizzazione e autonomia, socializzazione e riservatezza sono i due poli  entro cui la progettista elabora la sua proposta, affinché sia adeguata alle richieste e economicamente attuabile nell'immediato.
La nuova tipologia residenziale, insieme alle lavanderie centralizzate di quartiere, alle scuole professionali per l'apprendimento della nuova economia domestica, agli asili, e a tutte le altre attrezzature didattiche, ricreative e sportive per  l'infanzia, sono gli elementi strutturali del tessuto urbano che l'architetta ordisce a  favore delle donne.  
 Proprio il tema dell'infanzia sarà oggetto dell'incarico professionale che le viene affidato all'interno del gruppo di progettisti, architetti e urbanisti che, trasferitisi in Unione sovietica agli inizi degli anni Trenta, progettano le nuove città previste nelle  aree industriali e nei bacini carboniferi soprattutto in Siberia.
Verso la fine del decennio, con il deterioramento del clima politico precedente la seconda guerra mondiale, inizierà una sorta di esilio e penoso pellegrinaggio di Margarete in diversi paesi europei  alla ricerca del lavoro. Durante il soggiorno in Turchia, dove su incarico del governo elabora delle Direttive per l'edilizia scolastica e realizza alcune scuole, entra a far parte della resistenza antinazista all'estero. Fedele a una delle sue più radicate convinzioni, quella che  «l'architetto è responsabile del progresso del mondo anche al di fuori della sua professione», accetta di compiere la pericolosa missione in patria e qui verrà arrestata.  

Fonti
Lorenza Minoli, Un'abitazione tutta per sé...ovvero...per le donne che lavorano e vivono sole in Lorenza Minoli (a cura di) Dalla cucina alla città. Margarete Schütte-Lihotzky, Franco Angeli ,1999

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Cristina di Lorena

(Bar–le-Duc, 1565 – Firenze, 1637)

Non esistono intitolazioni di strade in suo onore

La principessa dei gigli

Barbara Belotti e Alessandra Rossi

Le donne che appartenevano a famiglie dominanti seguivano, per esercitare il potere, strade più complesse, rispetto agli uomini. Meno frequente era l’azione diretta nel governo politico, più consueto l’esercizio di ruoli politici e sociali cui si affiancavano, in “una dimensione plurima”, “forme alternative del potere nel quale trovavano spazi e funzioni non marginali”. Dal mecenatismo all’assistenza caritatevole, dalla pianificazione di strategie matrimoniali alla costruzione di una solida rete di rapporti e alleanze familiari, per le donne si aprivano percorsi meno usuali che la storiografia a lungo ha ignorato e che le ricerche storiche più recenti hanno cominciato a indagare.
Cristina di Lorena ha avuto modo di agire su entrambi i fronti: il potere politico diretto e le “altre vie”, quelle più informali e meno scontate. Nata nel 1565, da subito la sua vita apparve segnata dalla potente stella della famiglia Medici. La nonna, infatti, era Caterina de’ Medici, la prima regina di Francia del casato fiorentino, una figura chiave per la storia della famiglia e per la storia francese.
Cristina era figlia di Claudia di Valois, morta ancora molto giovane e a sua volta figlia della “regina madre”, l’educazione della piccola erede fu per questo affidata a quella nonna così influente, tenace e raffinata; sembra che Caterina fosse molto affezionata alla nipotina, tanto da lasciarle in eredità una buona parte delle sue sostanze. Fu proprio la nonna a occuparsi delle trattative per il suo matrimonio con Ferdinando I, più grande della fanciulla di quindici anni, che aveva urgente necessità sia di lasciare eredi dopo di lui, sia di allontanare il ricordo degli scossoni assestati alla vita familiare dall’impetuoso amore tra Francesco I e Bianca Cappello, soprattutto dopo la loro morte così misteriosa.
Il desiderio di Ferdinando, uomo già avanti con l’età che aveva senza esitazione e senza rammarico preso le redini del Granducato abbandonando l’abito cardinalizio, era quello di ridare stabilità all’immagine della famiglia e riguadagnare consensi. Cristina di Lorena riuscì ad adempiere perfettamente a questo compito, educata alla perfezione al ruolo che le era stato assegnato. Con sé, al momento del matrimonio celebrato in Francia nel febbraio 1589, la nuova granduchessa portava in dote la cifra considerevole di 600.000 ducati, numerose proprietà e i diritti sul possesso del ducato di Urbino, un altro lascito della potente nonna Caterina, oltre a un’importante rete di relazioni affettive e politiche con la Francia e con mezza Europa.
A Firenze Cristina giunse l’anno successivo, accolta in modo sfarzoso come spesso accadeva per i matrimoni medicei; durante i festeggiamenti la città divenne per giorni lo scenario di molte produzioni teatrali: ovunque si tenevano commedie, era tutto un fiorire di sfarzo intrecciato alla cultura. Questo fu solo l'inizio di un'unione felice e prolifica sotto tutti i punti di vista, non ultimo quello della progenie: Cristina e Ferdinando ebbero, infatti, nove tra figli e figlie, condivisero il potere restituendo l'immagine di una coppia solida, capace di raccogliere il favore delle ricche famiglie fiorentine e di percorrere un’attenta politica di consenso e di conciliazione. Fu davvero un momento di ripresa per la famiglia Medici sia dal punto di vista finanziario che da quello amministrativo: il Granduca riguadagnò le redini dello Stato dopo che suo fratello Francesco, più interessato alle scienze e all’alchimia che all’esercizio del potere, lo aveva lasciato nelle mani di molti delegati; Cristina non fu da meno del marito che la volle vicina nelle questioni politiche più importanti e delicate, nel controllo amministrativo dei beni della famiglia e nella gestione delle numerose ville medicee. Scrisse il segretario granducale Lorenzo Usimbardi che Cristina “fece sì con la dissimulazione e patienza sua, che Ferdinando, vinto a poco a poco dall’accorto ossequio di lei […] cominciò a darle il maneggio della casa e famiglia, sgravandosene”.
Eppure a lungo il suo ruolo è stato definito marginale, la sua popolarità una conseguenza indiretta delle capacità di governo del coniuge: “Ben poco ebbe parte in quest'opera riformatrice, pur se poté godere i benefici di una popolarità giuntale di riflesso; di temperamento mediocre in cui avevano ben attecchito spiriti controriformistici, Cristina si dedicò soprattutto alla fondazione di monasteri e conventi, quali ad esempio il monastero della Pace a Firenze e quello delle convertite a Pisa (1610). I riconoscimenti per tale opera non tardarono: Sisto V nel 1589 e Clemente VIII nel 1593 le inviarono la rosa d'oro”. A questo giudizio negativo se ne sono aggiunti altri ben più sfavorevoli che valutano come “nefasto” il suo governo diretto sul Granducato.
Su di lei Ferdinando I sapeva di poter contare: lo aveva dimostrato in vita, lo dimostrò al momento della morte, nel 1609, nominandola tutrice delle figlie e dei figli e reggente per conto del primogenito Cosimo II, non ancora in età per occuparsi dello Stato; in seguito anche il figlio, che mostrava una fisionomia più sbiadita rispetto a quella paterna, nel testamento designò la madre, insieme alla moglie Maria Maddalena d’Austria, reggente del nipote Ferdinando II, ancora troppo piccolo.
A lungo il governo di Cristina di Lorena è stato giudicato il punto di inizio della china discendente del potere mediceo. Le sono state attribuite gravi colpe: inettitudine nel governo e scarso interesse del bene pubblico, spese enormi capaci di impoverire le casse dello Stato, bigottismo e asservimento alla politica papale, soprattutto nella disputa del Ducato di Urbino i cui diritti di successione le erano arrivati per linea diretta dalla nonna Caterina. Più recentemente l’analisi sul suo operato ha cominciato a mutare in favore di un generale riconoscimento delle sue azioni, di una rivalutazione del suo pensiero politico e del ruolo avuto nei primi decenni del XVII secolo, valutazioni che appaiono più coerenti con i giudizi positivi dei suoi contemporanei. C’è da domandarsi quali e quanti pregiudizi abbiano offuscato le opinioni storiche su Cristina di Lorena definita da Filippo Cavriani, medico curante della regina Caterina de’ Medici con licenza di informare il casato toscano delle vicende di Francia, una delle giovani rampolle “più instrutta nei maneggi di Stato” che si potesse trovare.
Cristina ci è stata descritta come una donna non particolarmente avvenente ma capace di affascinare: uno dei suoi ritratti più noti, quello dipinto da Scipione Pulzone nel 1590, ci restituisce una figura elegante, dallo sguardo diretto, penetrante e indagatore. Colta e raffinata, era animata da una fede profonda ma anche dalla passione per le scienze. A lei, alla fine del XVII secolo, il matematico, astronomo e scienziato Antonio Santucci dedicò un’incisione dal titolo La ruota perpetua, con la quale era possibile individuare, per ogni giorno dell’anno, il sorgere del Sole, le fasi lunari, la lettera dominicale, il numero aureo e l’epatta. L’immagine è formata da cinque ruote nel cui centro viene raffigurata una sfera armillare mentre alla sommità due figure misurano con il compasso le distanze del Cielo e della Terra.

Seguendo da madre l’educazione della prole, Cristina volle per loro un’istruzione allargata verso ogni sapere, in cui alla formazione classica fossero affiancate la conoscenza delle lingue moderne, la matematica, la cosmografia, la meccanica, le scienze; tra il 1605 e il 1608 fu precettore nella corte fiorentina Galileo Galilei che, guidando nella formazione il giovane Cosimo, ne divenne anche amico. L’interesse della granduchessa verso una cultura moderna, aperta a tutti i campi e di impronta nel complesso liberale e non bigotta, si evidenzia anche in una lettera indirizzatele da Galileo: si tratta di uno scritto di fondamentale importanza in cui lo scienziato intendeva dimostrare l'impossibilità di leggere la natura attraverso i passi della Bibbia. In questa fase della sua vita Galileo aveva bisogno del consenso della cattolica Cristina, consapevole dei rischi cui andava incontro schierandosi in favore dell'eliocentrismo: "Leggendosi nelle Sacre lettere, in molti luoghi, che il sole si muove e la terra sta ferma, né potendo la Scrittura mentire o errare, ne seguita per necessaria conseguenza che erronea e dannanda sia la sentenza di chi volesse asserire,  il Sole esser per me stesso immobile e mobile la terra...Sopra questa ragione parmi [...] non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che si sia perpetrato il suo vero sentimento. [...]. Dal che ne seguita che, qualunque volta alcuno, nell'esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono literale, potrebbe, errando esso, far apparir nelle Scritture non solo contraddizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora..." scrisse nel 1615 Galileo alla Granduchessa. Egli cercava di separare la Bibbia, per principio infallibile ma unicamente nell’ambito religioso e morale, dall’interpretazione scientifica affermando che “nelle dispute di problemi naturali, non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie”. Le tesi di Galilei cercavano di salvare, e al tempo stesso limitare, il valore interpretativo delle Sacre Scritture; l’invio della missiva alla Granduchessa presuppone che Galileo riconoscesse a Cristina la capacità di comprendere tematiche tanto importanti quanto scottanti. Egli cercava, forse, l’appoggio di una donna illuminata sì, ma anche di potere e la lettera acquista un po’ il sapore di una richiesta di protezione. Cristina però non poté salvarlo né dal tribunale e dal processo, né dalla condanna.
La potente Granduchessa di Toscana sentì per tutta la vita di essere stata destinata ad alti compiti, sentì l’orgoglio della sua stirpe francese ma accolse in pieno anche quello della corte fiorentina in cui era entrata. Fu una donna dal forte senso del dovere, attenta e partecipe alla vita della sua famiglia – marito, figlie, figli, nipoti – e al tempo stesso consapevole, come scrivono Elisabetta Stumpo e Beatrice Biagioli, “della propria condizione femminile con la conseguente necessità di dover adeguare le proprie decisioni, di volta in volta, a quelle del marito, del figlio o di chi detiene il potere sovrano”.
La storiografia l’ha definita incapace al governo, “di scarso ingegno e di ancor minore capacità politica” eppure rimase al vertice del Granducato a lungo, fino a quando il nipote Ferdinando II, succeduto a Cosimo II, la allontanò dalla corte. Morì nel 1630 nella villa medicea di Castello.

Fonti:
Elisabetta Stumpo e Beatrice Biagioli, Introduzione in Cristina di Lorena, Lettere alla figlia Caterina de’ Medici Gonzaga duchessa di Mantova (1617-1629), (a cura di Elisabetta Stumpo e Beatrice Biagioli), Firenze University Press, 2015
Maria Pia Paoli, La Principessa dei gigli. Cristina di Lorena dal “Bel Regno di Francia” alla corte dei Medici, in Cristina di Lorena, Lettere alla figlia Caterina de’ Medici Gonzaga duchessa di Mantova (1617-1629), (a cura di Elisabetta Stumpo e Beatrice Biagioli), Firenze University Press, 2015, pp.392-435
Maria Pia Paoli Di madre in figlio: per una storia dell’educazione alla corte dei Medici, in http://www.fupress.net/index.php/asf/article/view/9849
Georgia Arrivo, Una dinastia al femminile. Per uno sguardo diverso sulla storia politico-istituzionale, in www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/cartedidonne/pdf/arrivo.pdf
Marcella Aglietti (a cura di), Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano, Modelli e strategie femminili nella vita pubblica della Toscana granducale, Convegno Internazionale di Studi Pisa, 22-23 maggio 2009, Edizioni ETS
Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Newton Compton Editori, 1999.

Galileo Galilei, Lettere Copernicane, Portale Galileo online, Museo - Istituto e Museo di Storia della Scienza http://portalegalileo.museogalileo.it/igjr.asp?c=36305

www.treccani.it/enciclopedia/cristina-di-lorena
http://bia.medici.org/DocSources/Home.do

 

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Dora Maar

(Tours, 1907 – Parigi 1997)
 

La Francia le ha intitolato due strade periferiche: Rue Dora Maar si trova a Saint-Ouen, nella banlieue parigina, e un’omonima via s’incontra a Tours, nella Valle della Loira, in prossimità dell’aeroporto cittadino.

Dora, musa e vittima
di Livia Capasso

Henriette Theodora Markovich, questo il suo vero nome, arriva a Parigi all’età di diciannove anni, dopo aver vissuto a lungo a Buenos Aires. Nella capitale francese compie studi artistici, appassionandosi alla fotografia. Presto diventa un’affermata fotografa e, su suggerimento di Cartier-Bresson, grande pioniere del foto-giornalismo, abbrevia il suo nome, prendendo quello di Dora Maar.
Indipendente, anticonformista, gira a suo agio tra gli artisti e gli intellettuali del tempo e con la sua rolleiflex ritrae il bel mondo parigino. Il suo campo è la fotografia pubblicitaria e di moda ma, attenta alle problematiche sociali, porta il suo obiettivo anche negli angoli più degradati della città, ritraendo l’umanità derelitta dei sobborghi parigini. Introdotta nell’ambiente dei surrealisti, conosce André Breton, Paul Eluard, e posa per Man Ray; la sua tecnica è innovativa: deformazioni, fotomontaggi, collage, tagli prospettici, doppie esposizioni; spesso inserisce i personaggi ritratti in architetture traslate, rovesciate, deformate.
Nel 1936 la sua vita subisce una svolta: incontra Picasso, già cinquantenne, che ha una moglie e ha avuto da poco una figlia dall’amante; Dora è giovane, bella e intelligente e i due s’intendono in pieno, condividono le idee di sinistra, le simpatie per i surrealisti, l’amore per la poesia. Saranno amanti per sette anni e sarà una relazione appassionata ma tormentata, per il difficile carattere di entrambi. E’ lei che lo ritrae mentre prepara "Guernica", riprendendo in centinaia di foto tutte le fasi della lavorazione, foto che saranno pubblicate nel 1937 sulla rivista Cahiers d'art. Picasso a sua volta la ritrae nella "Donna che piange" col volto deformato e reso tagliente dagli spigoli, gli occhi sbarrati per incarnare il dolore universale. Il maestro la convince a lasciare la fotografia e a riprendere la pittura: ma è una serie di insuccessi. Intanto Picasso s’innamora di un’altra donna,più giovane e capace di dargli un figlio, mentre Dora è sterile. Comincia un periodo buio, di depressione, con ricoveri in cliniche e terapie psicanalitiche. Si riprenderà, ma farà vita ritirata, circondata dai tanti ritratti che Picasso le aveva lasciato e dilettandosi di pittura. Tornerà alla fotografia verso i settanta anni. Morirà sola, senza eredi, in una casa per anziani, sconosciuta a tutti.

FONTI
G. Dorfles, A. Vettese Il Novecento. Protagonisti e movimenti, Atlas, Milano 2006
Anne Baldassari, Picasso e la Fotografia - Lo specchio nero, Alinari 1998
Gertrude Stein, Picasso. Adelphi 1973
C. Brandi, voce Picasso in Enciclopedia Universale dell'Arte, vol. X, 1963

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Wangari Maathai

(Nyeri, 01.04.1940 – Nairobi, 25.11.2011)

A Wangari Maathai è intitolata una via ad Audrieu (Francia), una a Montpellier (Francia) ed una a Norroy-le-Veneur (Francia).
A Nairobi è intitolato a lei un edificio adiacente all’Università.
In Italia, nel 2012, il comune di Montecarotto, in provincia di Ancona, le ha intitolato un’area verde.

http://toponomasticafemminile.com/index.php?option=com_content&view=article&id=9204&Itemid=9338

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 Louise Michel

(Vroncourt-la-Côte, 1830 – Marsiglia, 1905)

 

A Parigi, proprio accanto al cimitero dove è sepolta, si trovano rue Louise Michel, la stazione della metropolitana gare Louise Michel e il ristorante Chez Louise.

Numerose le città francesi che le dedicano una strada: da Grenoble a Bourges, da Avignone a Besançon, da Montreuil a Colombes, Bour-en-Bresse, Martignes, Massy, Morsang-sur-Orge, Vaurèal e moltissime altre; di recente le ha reso omaggio anche la toponomastica di Strasburgo. Un vicolo con lo stesso nome si trova nella periferia della capitale del Lussemburgo e a Bivange; anche a Bruxelles una grande strada porta il nome di avenue Louise Michel. Una via in suo onore si trova inoltre nei Paesi Bassi, a Amhem.
Una piccola piazza senza nome nel quartiere arabo di Marsiglia è stata spontaneamente intitolata dalla popolazione place Louise Michel in nome della laicità e della libertà delle donne e ha mantenuto tale nome nonostante il mancato riconoscimento da parte delle autorità locali.

Ovviamente square Louise Michel a Parigi si trova a Glignancourt, scendendo dalla collina di Montmartre verso Pigalle, proprio dove lei comandava la resistenza sulle barricate in difesa della Comune nella primavera del 1871.

 

La partigiana dalla bandiera nera

di Andrea Zennaro

 

Louise nasce il 29 maggio 1830 nel Nord Est della Francia dal nobile Laurent Demahis ma, in quanto figlia illegittima, prende il cognome di Michel dalla donna, una domestica, che l'ha effettivamente portata in grembo. Da bambina riceve un'educazione mista, tra la zia cattolica e i nonni illuministi: la sua prima definizione di se stessa è "come l'ago di una bussola che, sconvolto da una tempesta, torna a cercare il Nord: e il mio nord è la Rivoluzione".

Louise rinuncia alla carriera di insegnante negli istituti statali perché rifiuta di prestare giuramento di fedeltà all'imperatore Napoleone III: come anarchica quell’atto solenne è per lei inaccettabile.

Lascia la provincia per trasferirsi a Parigi, dove si guadagna da vivere insegnando in scuole private minori. Qui incontra Victor Hugo: tra loro nasce una grande amicizia, secondo fonti mai accertate una storia d'amore e una figlia di nome Victorine.

Nel 1870, allo scoppio della guerra franco-prussiana per la contesa su Alsazia e Lorena, comincia un periodo fondamentale per Louise Michel. Il 2 settembre l'esercito francese capitola a Sedan, dopo una battaglia durata solo tre giorni, e la pace imposta alla popolazione prevede condizioni pesantissime e umilianti; il 4 Parigi insorge e istituisce la III Repubblica. Il resto del Paese però ha ben altra posizione e a capo del governo viene eletto il conservatore Adolphe Thiers. In quei giorni Louise si allontana dall'anarchismo e si avvicina alle posizioni di August Blanqui, socialista nostalgico del Terrore giacobino, una sorta di protomarxista francese, e si innamora del giornalista Téophile Ferré. Insieme alla Repubblica Parigi, divisa in arrondissements, istituisce la Guardia Nazionale, un corpo armato autonomo che tutela la popolazione dagli abusi del potere. Louise Michel viene eletta a capo del Comitato di vigilanza (un organo politico spontaneo da cui deriveranno i successivi soviet russi) del XVIII arrondissement, che si trova nella zona collinare di Montmartre. Racconta nel suo libro Memoires: "nessuno era lasciato senza pane, nessuno senza tetto, persino un'aringa si divideva in cinque persone; con le leggi speciali o con le armi, il nostro arrondissement era il terrore degli accaparratori e dei trafficanti". Collabora con i giornali rivoluzionari Le Cri du Peuple e La Marseillaise; propone un'azione armata contro Versailles, sede del governo di Thiers, ma i rapporti di forza non lo consentono. Formalmente Parigi è sotto la stessa giurisdizione di tutta la Francia, ma di fatto i parigini sono teste calde e gestirli non è affatto semplice. Il 18 marzo 1871 Thiers emette l'ordinanza che fa traboccare il vaso: vuole requisire i cannoni della Guardia Nazionale.

Parigi insorge di nuovo, tutta, compatta. L'insurrezione viene portata avanti da un fronte ampio e variegato: sotto il grido di "Vive la Commune!" convivono giacobini, blanquisti, democratici, anarchici e soprattutto proudhoniani, che sognano la graduale liberazione degli individui dalla proprietà privata, dall'istituzione statale e la collaborazione con le altre città insorte da confederare a Parigi. Ma le altre città non insorgono e Parigi rimane sola.

Il 21 maggio la città è assediata dalle forze reazionarie francesi con l'aiuto dell'esercito della Germania appena unita da Bismarck, la potenza militare più forte d'Europa e del mondo di allora. È difficile salvarsi da un attacco di tale entità. La Guardia Nazionale organizza come può la resistenza della Comune, coinvolgendo anche donne, anziani e ragazzi giovanissimi, totalmente impreparati all'uso delle armi. Louise passa giorni e notti sulle barricate e si batte strenuamente in difesa della città: i pochi anarchici superstiti sostengono di non averla mai vista posare il fucile da fabbraio a maggio. Ma Parigi è cambiata: dopo gli sventramenti e la modernizzazione dell'assetto urbanistico sotto Napoleone III, i grandi viali e le spianate sostituiscono i vicoli stretti e intricati, rendendo impossibile la costruzione di barricate, che avevano caratterizzato le rivolte del 1830, del '31 e del '48. L'attuale boulevard Haussmann è in qualche modo il simbolo della repressione.

Inoltre i combattenti della Comune, già di per sé inesperti in materia di guerra rispetto ai soldati professionisti portati da Thiers e da Bismarck, usano armi vecchie di mezzo secolo, che non possono competere con quelle più moderne, rapide ed efficaci dei nemici. Anche numericamente, poche centinaia di migliaia di ribelli non sono comunque sufficienti per difendere una città delle dimensioni della Parigi di fine Ottocento. Il 28 maggio Parigi crolla sotto i cannoni tedeschi.

I comunardi vengono fucilati presso il luogo noto come Muro dei Federati, nel cimitero di Père Lachaise, su cui tuttora campeggia la scritta dorata "AUX MORTS DE LA COMMUNE", e tra questi lo stesso Théophile Ferré.

Louise Michel sfugge ai rastrellamenti ma si consegna spontaneamente: in quanto presidente della Guardia Nazionale e comandante della resistenza di Montmartre, non può non prendersi la responsabilità della ribellione. Si dichiara non pentita e fervente sostenitrice della Rivoluzione sociale.

Incarcerata in un primo momento nell'abbazia di Auberive, viene poi deportata nel 1873 in Nuova Caledonia insieme ai comunardi scampati alle fucilazioni. Qui abbandona le idee autoritarie di Blanqui per abbracciare di nuovo quelle anarchiche.

Nel 1880 ottiene la grazia e torna in Francia, dove prosegue la causa rivoluzionaria. I successivi vent'anni li passa tra scioperi e comizi in Francia, Inghilterra e Algeria. A Londra assiste alla definitiva separazione tra comunisti e anarchici e alla fine dell'esperienza dell'Internazionale. La sua posizione è chiara: nella capitale britannica insegna in una scuola anarchica e tornata in Francia inizia a scrivere sul giornale Le Libertaire. Seguono altri arresti e successive scarcerazioni.

Nel 1882 durante un comizio viene colpita all'orecchio da un colpo di pistola sparato da un monarchico: in quanto anarchica, Louise rifiuta la "giustizia" di uno Stato che non riconosce e non si presenta al processo contro l'attentatore rinunciando a costituirsi parte civile nell'accusa contro di lui.

È sua l'iniziativa, oggi accettata quasi unanimemente dai movimenti antiautoritarii, di adottare a proprio vessillo la bandiera nera come il lutto al posto di quella rossa come il sangue. La stampa francese dell'epoca la ricorda come "la pétroleuse", l'incendiaria.

Nel 1898 durante la guerra ispano-americana scrive articoli in favore dell'indipendenza di Cuba, indipendenza che l'isola ottiene allora dalla Spagna ma non ancora dagli Stati Uniti.

Muore nel 1905 a Marsiglia, dove si era recata per tenere conferenze sull'anarchismo. Viene sepolta nel cimitero parigino di Levallois-Perret dopo un funerale laico che vede una partecipazione popolare straordinaria.
Molte le intitolazioni di strade e luoghi pubblici in suo onore. La partigiana dalla bandiera nera non sarebbe contenta, però, di sapere che la scuola media che le hanno intitolato a Saint-Junien, in Haute-Vienne-Limousine, si trova proprio davanti a un McDonald's!

 

Fonti

http://www.inchiestaonline.it/movimenti/piazza-louise-michel-a-marsiglia-autorganizzata-autocostruita-autogestita/

https://www.inventati.org/louisemichel/index.php?mod=04_Chi_era_L.Michel

http://www.ecn.org/filiarmonici/louisemichel.html

http://ita.anarchopedia.org/Louise_Michel

https://weblmichel.ac-noumea.nc/spip.php?page=imprimer&id_article=59

 

 

 

 

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