- C -


 

Ersilia Caetani Lovatelli

(Roma, 1840 – 1925)

A lei non risulta dedicata alcuna via. E' stata suggerita all'Ufficio Toponomastica del Comune di Roma un'intitolazione in sua memoria per iniziativa del gruppo Toponomastica Femminile. 

L'ultima antiquaria italiana

di Ester Rizzo

Fu la prima donna in Italia ad essere ammessa all'Accademia dei Lincei nel 1879.
Archeologa ed accademica, nacque a Roma il 12 ottobre 1840 da una famiglia di nobili origini ma di idee moderatamente progressiste. La madre, Callista Rzewuska, apparteneva all’aristocrazia polacca e il padre Michelangelo fu principe di Teano e Duca di Sermoneta. 
La memoria della madre polacca, morta prematuramente quando Ersilia aveva solo due anni, è stata da lei onorata con la sua passione per la cultura cosmopolita.
Il padre, appassionato di archeologia, invece, le trasmise ed alimentò il suo interesse per la storia antica.
Ersilia conosceva il latino, il greco antico ed il sanscrito.
Nel 1859, giovanissima, si sposò con Giacomo Lovatelli, anch’egli di nobili origini. Iniziò così ad interessarsi a studi di carattere archeologico, entrando in contatto con le figure più eminenti della ricerca archeologica romana.
Nella sua casa, il suo salotto era frequentato da illustri studiosi ed ella spiccava per essere oltre che intelligente ed elegante, anche abile conversatrice. Tra gli ospiti: Carducci, Zola, Liszt e D’Annunzio. La biblioteca della sua casa vantava oltre 6.000 libri e lei la donò con testamento all’Accademia dei Lincei.
Notevole fu la sua produzione letteraria, ben 9 volumi, ed inoltre collaborò con le riviste "Nuova Antologia" e la "Fanfulla della domenica" dove scriveva di usi e costumi del mondo antico romano.
L'ultima sua pubblicazione risale al 1915; dopo passarono dieci anni di riserbo e silenzio a causa di una malattia che l'aveva colpita.
Morì a Roma il 22 dicembre 1925.
Ersilia Caetani era timida, riservata ed esitava ad esporre in pubblico le sue idee sui monumenti che a quei tempi ritornavano alla luce dal sottosuolo di Roma. Era un'esperta nelle ricerche filologiche ed antiquarie e si era guadagnata la stima di molti studiosi, sia italiani che stranieri.
La sua opera più nota è "Tanathos" pubblicato nel 1887. In queste pagine ci si accorge come l'archeologa non si limitava ad illustrare il monumento, ma trattava in maniera approfondita il concetto della morte del popolo greco e di quello romano. La critica definì quest'opera "un mirabile complesso tanto di comparazione di monumenti che di pensieri sulla caducità della vita umana", aleggia in queste pagine "un profondo senso di amarezza e di malinconia per la consapevolezza della vanità delle cose, a metà tra rassegnazione cristiana e fatalismo pagano".
Curò personalmente l'edizione dei suoi libri pubblicandoli a sue spese e rilegandoli in maniera particolare e raffinata.
E' stata definita "l'ultima antiquaria italiana", dopo di lei il passaggio da questa scienza all'archeologia moderna.
Un'altra definizione che ci piace ricordare è quella che la indica come "la più dotta fra le donne di Roma e fors'anco d'Italia".
I suoi studi contribuirono ad illustrare la città di Roma in maniera non solo chiara ma piacevole da leggere.
Le sue dissertazioni archeologiche non restarono confinate agli addetti ai lavori, come succedeva a quei tempi, Ersilia riuscì a dare "sentimento alla rievocazione archeologica". Ai soggetti che colpivano la sua sensibilità femminile infondeva un alito di vita.
Possiamo concludere affermando che questa donna contribuì al nascere dell'archeologia moderna sia attraverso i suoi scritti, sia attraverso la sua opera divulgatrice.

Fonti
Elisabetta Strickland, La musa pensosa, in “Leggendaria 103” gennaio 2014
http://www.treccani.it/enciclopedia/ersilia-caetani
http://www.brown.edu/Research/Breaking_Ground/bios/Lovatelli_Ersilia.pdf
http://www.lincei-celebrazioni.it/iersilia_caetani.html
http://www.romasegreta.it/s-angelo/palazzo-lovatelli.html
http://www.mommsenlettere.org/person/Details/36
https://scienzaa2voci.unibo.it/biografie/71-caetani-lovatelli-ersilia
http://www.correnterosa.org/1403-ersilia-caetani-lovatelli/

Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons attribuzione - Condividi allo stesso modo


Bianca Cappello

(Venezia, 1548 – Poggio a Caiano (Po), 1587)

Non esistono vie dedicate al suo nome

I misteri di un cuore impavido

di Alessandra Rossi

Bianca Cappello, la nobildonna veneziana amata e temuta dalla famiglia Medici, nasce nel 1548 segnata dal dono ricevuto da sua madre, Pellegrina Morosini, la prima moglie di Bartolomeo Cappello: una bellezza “imperiosa”, per usare l’aggettivo attribuito da Michele de Montaigne al suo viso, che passava per i suoi occhi azzurri e brillanti e attraversava il suo corpo perfetto, quasi fosse modellato dalle mani sapienti di un artista. Bianca, però, non cresce con la madre ma con la seconda moglie di Bartolomeo, Lucrezia Grimaldi, una donna aspra e severa, interprete perfetta del ruolo di matrigna crudele che ci viene proposto dalle fiabe più note. E, proprio come nelle fiabe, alla giovane Bianca sembra offrirsi la possibilità di un riscatto dall’infanzia poco rosea quando riceve le attenzioni di un giovane fiorentino, il ventiquattrenne Pietro Bonaventuri. Alla quindicenne Bianca basta affacciarsi alle finestre della sua casa, che già iniziava a starle stretta, per far invaghire il giovane impiegato del banco della famiglia Salviati, dall’altra parte del canale. Per lei deve esser stato amore a prima vista, o forse l’illusione di un amore: il giovane rappresenta la possibilità di emanciparsi, di fuggire dalla famiglia; per Pietro il matrimonio con Bianca significa la possibilità di scalare repentinamente la piramide sociale, passando dalle innumerevoli scappatelle, per le quali è noto, al legame con una nobildonna veneziana per di più incredibilmente graziosa. Bianca, in realtà, non è solo una fanciulla bella, in lei c’è qualcosa di più profondo: un intimo bisogno di vivere intensamente, di non fermarsi, di non accontentarsi e accettare il destino che il padre e la matrigna vogliono scegliere per lei. Non si risparmia i rischi e per questo viene ripagata con momenti altissimi, durante i quali deve esserle sembrato di poter toccare la volta celeste, seguiti da altri in cui, come quasi sempre accade, sembra di sprofondare nel dolore più forte. 
Pietro e Bianca, che scopre di essere incinta ed è accusata dal padre di aver rubato soldi e gioielli, scappano — sulle loro teste pende anche una taglia — nell’unica città in cui il ragazzo si sente al sicuro dalle leggi della Serenissima e dall’ira impetuosa del padre della sua giovane sposa: Firenze. Qui Bianca pensa forse di avere un’opportunità di salvezza, immagina l’inizio di una nuova vita; invece la città medicea si rivela una realtà non facile, meno fiabesca di quella che forse aveva sognato. Si sposano ma la casa dei genitori del marito è umile rispetto agli standard ai quali era abituata; a Firenze giunge la richiesta da Venezia di consegnarla insieme al marito Piero: ora la decisione spetta a Cosimo I, o meglio al figlio Francesco al quale ormai lo stanco Granduca delega tutte le rogne.
Il primo incontro tra queste due anime, che saranno legate tra loro a doppio filo, forse avviene per questo motivo ma, come in tutte le storie avvincenti, molti elementi leggendari si sono aggiunti successivamente. S
i dice che l’occasione ha come protagoniste Bianca e la sua esplicita bellezza: ancora una volta a lei basta lasciarsi intravedere tra le tende di una finestra, forse lancia una rosa come omaggio al giovane principe. Un amore per una rosa: Francesco la guarda sorridere e in un attimo la sua devozione è tutta per lei.
Ma la bella dama veneziana oltre al legame col Bonaventuri, ora suggellato anche dalla nascita della figlia Pellegrina, ha una rivale ingombrante, la moglie Giovanna d’Austria, poco affascinante stando alle cronache fiorentine del tempo, ma pur sempre sorella dell’imperatore. Il cuore di Francesco non accoglie sentimenti per la consorte, occupato com’è dall’amore per Bianca. L’erede mediceo omaggia la sua amante con doni, ville e palazzi, il primo e più famoso dei quali è il palazzo di via Maggio (ribattezzato in suo onore palazzo Bianca Cappello), vicinissimo a Palazzo Pitti per permettergli di raggiungere comodamente la donna in qualsiasi momento lo desideri; allo stesso tempo Francesco non può esplicitamente permettere che Bianca entri nella vita della sua famiglia “dall’entrata principale”. Sono, infatti, entrambi ancora sposati e questo fa sì che la figura della nobildonna veneziana sia fonte di timore per una parte della corte fiorentina; il più preoccupato sembra il cardinale Ferdinando, fratello di Francesco, che non riuscirà ad accettare sinceramente Bianca neppure quando diventerà ufficialmente Granduchessa. La giovane veneziana ha però un’alleata all’interno della famiglia: è la “Stella di casa Medici”, Isabella, la più abile amministratrice delle fortune medicee, la guida del casato, molto più talentuosa del fratello Francesco nell’amministrazione delle questioni di Stato. Egli, che nel 1574 è diventato Granduca, si rivela un politico rigido e inesorabile, eredita uno stato dall’apparato burocratico e amministrativo funzionante, ma appare refrattario alla routine e al suo ruolo nell’amministrazione; spesso, infatti, si rifugia nello studiolo di Palazzo Vecchio, dove può dedicarsi ai suoi interessi culturali e scientifici: l’amore e gli studi costituiscono per Francesco il modo migliore per elevarsi dalla condizione strettamente terrena di Granduca.
Il destino lavora in favore di Bianca: suo marito viene misteriosamente assassinato in strada mentre è di ritorno dalla casa della sua amante. Si vocifera che oltre al destino ci sia lo zampino di casa Medici, ma il risultato non cambia: l’amore veneziano di Francesco ora non è più sposata e lo scandalo diviene meno “scandaloso”. La Granduchessa Giovanna, poco amata sia dal marito che da Firenze e sempre un po’ in disparte, continua ad arricchire l’albero genealogico della famiglia, ma solo di figlie femmine e questo preoccupa la corte. Si prospetta un’arma vincente per Bianca che si sente pronta ad agire: deve essere assolutamente lei a dare a Francesco il primo figlio maschio. Anche in questo caso le dicerie si arrampicano intorno ai fatti storici: forse non è lei la madre biologica del bambino che nasce nell’agosto del 1576, forse è una giovane ragazza incinta la vera madre dell’erede maschio, affidato a due camerieri personali di Bianca che lo accudiscono. Il neonato, al quale viene dato il nome di Antonio de’ Medici, potrebbe avere un futuro grandioso ed essere destinato a ben altro ruolo che quello di figlio di due camerieri, ma la sorte è beffarda e il 20 maggio 1577 Giovanna d’Austria mette al mondo il primo figlio maschio legittimo del Granduca, il piccolo Filippo: nessuno può immaginare che vivrà appena 5 anni.
Un anno dopo Giovanna d’Asburgo, che aveva avuto la sfortuna di trovarsi in mezzo a una storia d’amore tanto intricata quanto salda, esce di scena a causa di una rovinosa caduta dalle scale: Bianca e Francesco non perdono tempo e si sposano due mesi dopo l’incidente luttuoso, anche se con una cerimonia celebrata in gran segreto. Nessuno ostacolo ormai si frappone fra loro, possono coronare il loro sogno ma con un occhio attento agli umori della città e della nobiltà fiorentina, non ancora pronta ad accogliere quella nuova Granduchessa. Il segreto non rimane a lungo tale, le nuove nozze possono essere un vantaggio e non solo per Bianca. Anche Venezia accoglie con letizia e clamore l’evento: ora Bianca, la stessa donna d’animo irrequieto che era scappata quindicenne dalla casa paterna con una taglia sulla testa, sposata a un borghese qualsiasi e presunta ladra, torna a essere “Figliuola di Venezia”, grande vanto della Repubblica Serenissima e non perché il suo spirito sia mutato, ma solo perché sono cambiati il sangue e il rango dell’uomo al quale è legata. Francesco non vuole per lei un matrimonio morganatico, vuole che la famiglia e la città tutta si inchinino di fronte alla nuova Granduchessa: una seconda cerimonia, solenne e pubblica, viene celebrata nel 1579. La partita, infine, l’ha vinta Bianca.
La coppia ora può muoversi alla luce del sole, i possedimenti medicei possono accoglierli come marito e moglie legittimi: tra le tante ville una in particolare è amata dalla veneziana, quella di Pratolino. Si tratta di una proprietà sulla strada tra Bologna e Firenze, riadattata da Francesco per omaggiare Bianca, un luogo del cuore insomma, intimo e lontano dalle pressioni della famiglia e dalle maldicenze del popolo fiorentino.
Adornata da giardini meravigliosi, curati da straordinari artisti, è costellata di fontane automatiche che stupivano chiunque trascorresse del tempo in questo Eden artificiale. È emblematico il resoconto di Michele de Montaigne che, di ritorno da una Firenze “deludente”, si consola nella splendida dimora affermando nel suo Journal du voyage en Italie par la Suisse et l'Allemagne:La bellezza e la ricchezza di questo luogo non si possono rappresentare con la scrittura”. La villa, in realtà, è arricchita dalla figura di Bianca, dalle sue doti filantropiche e dalla sua intelligenza. I suoi salotti dettano legge in fatto di moda e costume, il suo gusto raffinato influenza quelle nobildonne che inizialmente le erano state ostili, ma ora la imitano nell’uso dei merletti veneziani e di quei particolari colletti che lei sfoggia sempre.
L’idillio d’amore fra Bianca e Francesco dura poco, appena otto anni, e la sorte, o chiunque l’abbia aiutata, piombano inesorabili sui due innamorati. La morte sopraggiunge misteriosa, nel 1587, in un’altra villa medicea, quella di Poggio a Caiano. In principio si pensa a una febbre terzana che nell’arco di 11 giorni si porta via marito e moglie, entrambi affetti dagli stessi sintomi; si parla anche di smodatezza nel bere e nel mangiare, si immagina persino un devastante tumore al seno che avrebbe ucciso Bianca. In seguito comincia a montare la storia del doppio omicidio con arsenico, forse perpetrato dal fratello e cognato Ferdinando de’ Medici. Effettivamente la morte repentina e pressoché identica di Bianca e Francesco lascia spazio a ipotesi diverse, non ultima quella della congiura di palazzo. Il maggiore indiziato appare Ferdinando che in quei tragici giorni si trova proprio ospite nella villa di Poggio a Caiano, teatro dei macabri eventi. Si sa che Ferdinando ha solo apparentemente perdonato a Bianca il suo essere stata la determinata e sempre presente guida del Granduca; inoltre è lui il maggior beneficiario della morte dei coniugi ereditando subito il titolo di Francesco. Gli intrighi di corte sono all’ordine del giorno nell’Italia del XVI secolo e la famiglia medicea, anche in passato, non è stata esente da simili accuse. Forse invece, come era accaduto alla madre di Francesco, Eleonora di Toledo, e ai suoi fratelli minori Giovanni e Garcia, il Granduca e sua moglie Bianca sono vittime delle pericolosissime febbri malariche.
La storia di Bianca rimane ancora una volta costellata di misteri, di luci e ombre; senza dubbio è stata una donna brillante e volitiva, bella, di una bellezza impenetrabile e altezzosa, capace in modo quasi naturale di attirare su di sé invidia e maldicenze, una “straniera” arrivata con una fama terribile e andata via da Granduchessa. Queste cose alle donne si fanno pagare e anche caramente: dopo la sua morte viene infamata nei più modi diversi, a partire dalle battute crudeli del popolo (Qui giace un Cavatel pien di malìe/e pien di vizi. La Bianca Cappella/ puttana, strega, maliarda e fella/che sempre favorì furfanti e spie) fino ad arrivare alla scomparsa del suo corpo, probabilmente sepolto in una fossa comune, ultimo “regalo” del cognato Ferdinando che non le concede le esequie solenni come il suo titolo di Granduchessa prevede.

Fonti:

Michele de Montaigne, Giornale di viaggio in Italia, a cura di E. Camesasca, Milano 1956.

Marcello Vannucci, 1989, I Medici. Una famiglia al potere, Newton Compton editori, 1989.

Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Newton Compton editori.

Patrizia Vezzosi, È lui il più bello. Ritratti medicei nella villa di Cerreto Guidi, Alinea editrice, 2007, p.21

Caroline P. Murphy, Isabella de’ Medici, Milano, Il Saggiatore, 2011.
http://www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/cartedidonne/arrivo.html

http://www.firenzetoday.it/cronaca/oltrarno-misteri-bianca-cappello.html

http://www.treccani.it/enciclopedia/bianca-capello-granduchessa-di-toscana_(Dizionario-Biografico)/


Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons attribuzione - Condividi allo stesso modo


Virginia Carini Dainotti

(Torino, 1911 – Roma, 2003)

Fu una delle principali figure del dibattito biblioteconomico in Italia nel secondo dopoguerra, per dirla col titolo di un convegno a lei dedicato nel 1999, e una delle massime sostenitrici del modello angloamericano di biblioteca pubblica (public library) inteso come strumento fondamentale di crescita democratica. Nel 2013, a dieci anni dalla scomparsa, le è stata dedicata la Sala conferenze della Biblioteca Statale di Cremona e, nello stesso anno, è stata suggerita alla Commissione Consultiva Toponomastica di Roma un'intitolazione in sua memoria per iniziativa congiunta del gruppo Toponomastica Femminile e dell'Editrice Bibliosofica.

La battaglia per la nascita di una public library italiana

di Saveria Rito

Virginia Dainotti nacque a Torino da Paolo Dainotti e Luisa Garbelli l'1 luglio 1911 e, dopo la laurea in lettere e il diploma in paleografia-archivistica-diplomatica e biblioteconomia, ebbe il primo incarico presso la Biblioteca Braidense di Milano. Già nel 1936, ad appena 25 anni, fu nominata responsabile della Biblioteca Governativa di Cremona, dove rimase fino al 1942 e contribuì a risollevare le sorti di un istituto ormai decadente, trasformandolo in un centro culturale per la comunità e seguendone il trasferimento nell’attuale sede cinquecentesca di Palazzo Affaitati. Mi piace ricordare che la Biblioteca Statale di Cremona, oggi appartenente al Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo, istituita dai Gesuiti, era stata aperta al pubblico nel XVIII secolo per volere di una donna, l'imperatrice Maria Teresa d'Austria, che l'aveva dotata di fondi preziosi. Un secolo e mezzo piu tardi, la riorganizzazione scientifica di quella stessa biblioteca fu accolta da un'altra donna, Virginia Dainotti appunto, che la vide come un’opportunità per sperimentare alcuni servizi innovativi, ad esempio l'apertura della Sala studenti, la prima in Italia, rifacendosi alle teorie biblioteconomiche di Luigi de Gregori e a modelli statunitensi di public library da lui divulgati. Dainotti coinvolse stimati intellettuali cittadini a proporre nuovi testi da acquistare, richiamò l'attenzione delle autorità locali ottenendo consistenti finanziamenti e provò ad avvicinare alla biblioteca un'utenza eterogenea e non abituale, come i "semplici lettori". L'intera vicenda dell’ammodernamento fu seguita con particolare attenzione anche dalla stampa locale, sia per merito del suo grande impegno sia perché nel 1939 Virginia Dainotti aveva sposato il prefetto di Cremona, Pietro Carini, acquisendo una certa popolarità.
Nel 1942 lasciò Cremona ed entrò nella commissione ministeriale per la revisione delle Regole per la compilazione del catalogo alfabetico per autori, sospesa dopo l'armistizio del 1943 e ripristinata nel 1945. Sempre nel 1943, assunse la direzione della biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea a Roma, ex Biblioteca del Risorgimento, che mantenne fino al 1951 per essere nominata l'anno successivo ispettrice ministeriale delle province di Modena e Cremona. Dai primi anni Cinquanta in poi, il suo progetto principale fu l'organizzazione del Servizio Nazionale di lettura e partecipò costantemente a commissioni di studio, congressi nazionali e internazionali di biblioteconomia, fu invitata a tenere lezioni e seminari su temi quali i servizi nelle biblioteche, la diffusione della lettura e la sua funzione educativa, l'organizzazione delle biblioteche di enti locali e la formazione del personale. Dal 1967 fu nella commissione per i rapporti col Parlamento per il servizio di pubblica lettura e, alla fine degli anni 70, partecipò agli incontri per l'attuazione di un sistema bibliotecario nazionale, affermatosi un ventennio più tardi.
Tutti gli scritti di una vita, le azioni e gli interventi all'interno dell'AIB (Associazione Italiana Biblioteche) furono mirati alla modernizzazione del concetto di biblioteca pubblica nel nostro Paese per passare da un'istituzione di conservazione, di nicchia e contrapposta a quella "popolare" nata da idee socialiste di inizio Novecento, ad una aperta a ogni tipologia di utenza.  "Diamo la biblioteca al mondo, diamola al suo mondo, che è largo, che è vivo", ricordava in una delle ultime interviste rilasciata nel 2000 a Mauro Flati, tre anni prima di morire, e riportata in appendice agli atti di un convegno tenutosi all'Università di Udine in suo onore nel 1999. Virginia Carini Dainotti  provò a conciliare la realtà italiana con modelli anglosassoni e statunitensi, aveva una visione totalmente innovativa per la sua epoca che contrastava con l'immagine tradizionale del bibliotecario (un tempo quasi tutti maschi) chiuso tra i libri, poiché riteneva la biblioteca un'istituzione viva con un ruolo sociale, alleata nei processi di democratizzazione e sviluppo dei popoli, baluardo del diritto all'informazione. La biblioteca pubblica istituto della democrazia è il titolo di una sua opera del 1964 e sono gli stessi concetti che nel 1995 sarebbero stati universalmente fissati nel Manifesto UNESCO per le biblioteche pubbliche che così la definisce: "[...] via di accesso locale alla conoscenza, costituisce una condizione essenziale per l'apprendimento permanente, l'indipendenza nelle decisioni, lo sviluppo culturale dell'individuo e dei gruppi sociali".

Fonti
Angela Nuovo, Ricordo di Virginia Carini Dainotti, in AIB Notizie 15 (2003), n. 6, p. 8
Virginia Carini Dainotti e la politica bibliotecaria del secondo dopoguerra: atti del convegno, Udine, 8-9 novembre 1999, a cura di Angela Nuovo. Roma, AIB, 2002.
Virginia Carini Dainotti, La biblioteca pubblica istituto della democrazia. L'elaborazione internazionale del concetto di biblioteca pubblica, Milano, Fabbri, 1964
Virginia Carini Dainotti, La Biblioteca Governativa nella storia della cultura cremonese, Cremona, Deputazione di storia patria, 194

Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons attribuzione - Condividi allo stesso modo.


Rosa e Cecilia Caselli Moretti

Rosa (Perugia, 1896 –  1989)   Cecilia (Perugia, 1905 - 1996)

Quando si pensava che il Cenacolo di Leonardo potesse perdersi irrimediabilmente a causa dell’opera di deterioramento, iniziata subito dopo la conclusione dell’affresco, due sorelle “artiste-artigiane” perugine furono capaci di riprodurre mirabilmente in una grande vetrata l’Ultima Cena. Oggi lo studio Caselli Moretti è diventato un laboratorio museo, dove ancora donne della famiglia si tramandano quell’antica arte. Poco lontano dal laboratorio c’è un giardinetto pubblico che non ha un nome, viene indicato come “giardino  di viale Indipendenza”, ci sembra perciò opportuno intitolarlo a Rosa e Cecilia Caselli Moretti.
Questo auspicio si è trasformato, nel giugno 2016, in realtà e i giardini sono stati intitolati alle due pittrici perugine.

Rosa e Cecilia: due donne, due artiste perugine del Novecento

di Giorgio Panduri

Rosa e Cecilia nacquero da Lodovico Caselli Moretti e Paolina Taticchi. È impossibile tracciare la biografia di Rosa senza parlare di Cecilia e viceversa, poiché la loro vita privata e artistica fu strettamente e intimamente legata.
Nate in una famiglia di artisti, fin da bambine respirarono l’aria dello Studio di vetrate artistiche dipinte a fuoco fondato nel 1859 da Francesco Moretti, zio del padre Lodovico; condussero una vita più ritirata rispetto a quelle dei loro predecessori, ma non per questo meno laboriosa.
All’età rispettivamente di 26 e 17 anni, Rosa e Cecilia si ritrovarono senza la preziosa guida del padre, morto prematuramente nel 1922, dopo che anche lo zio Francesco era morto nel 1917.
Scrive Angelo Lupattelli nel 1923: “Dopo sì grave sventura, un solo pensiero, un solo augurio […]; quello cioè che la tradizione artistica dello Studio Moretti Caselli venga gloriosamente continuata dalla valentissima e gentile signorina Rosa, la quale […] saprà far rivivere il nome e l’arte dello zio e del padre, toccando ad essa il merito di compiere le tre vetrate, nello stile del Trecento, per la Chiesa Inferiore di S. Francesco in Assisi, lasciate dal Caselli incompiute”. E Rosa, sempre insieme a Cecilia, non disattese le speranze. Enorme fu il lavoro a cui  si sottoposero le due sorelle in un periodo così doloroso della loro vita familiare, acuito dalla perdita di un fratello, morto di tifo all’età di 15 anni nel 1916, e di una sorella di 23 anni, morta solo poche settimane dopo il padre.
Oltre al completamento delle opere iniziate dal padre in Assisi, Sinalunga e Bastia Umbra, tra il 1922 e il 1930, realizzarono numerose vetrate in Assisi, Todi, Camerino, Terni, Arezzo e Perugia.
Inoltre, tra il 1925 e il 1930, eseguirono l’opera più impegnativa della loro vita: la vetrata che interpreta L’Ultima Cena di Leonardo da Vinci a grandezza naturale (40 mq) per il cimitero Forest Lawn a Glendale, presso Los Angeles. Non va dimenticato che ogni singolo pezzo di vetro è dipinto e cotto almeno tre volte. Lavoravano anche di notte con lampade azzurre particolari chiamate “lampade solari”. Rosa eseguì tutte le teste, mentre Cecilia fu nominata la “sarta” perché dipinse tutti i vestiti degli apostoli. Erano ossessionate dalle rotture del vetro che a volte si verificavano. Nemmeno la curiosità di vedere installata questa grande opera, che era loro costata tanto impegno e lavoro, le indusse a lasciare Perugia per recarsi negli Stati Uniti. Si segnala che a Glendale, accanto alla vetrata, sono collocati i busti di Rosa e di Leonardo.
Rosa, diplomata alle scuole magistrali, frequentò l’Accademia di Belle Arti di Perugia e fu insignita del titolo di Accademica di merito nel 1925. Cecilia, dalla salute molto instabile, frequentò dei corsi liberi presso l’Accademia e nel 1994 fu iscritta nell’Albo d’oro del Comune di Perugia come riconoscimento di una vita dedicata all’arte. Nel 1988 entrambe ricevettero un premio speciale della Camera di Commercio di Perugia, per l’attività e la continuità nella tradizione.
Entrambe erano molto riservate, ma Cecilia fu restia a qualsiasi tipo di attività e relazione pubblica, preferendo dedicarsi interamente ai pennelli, realizzando quadri e delicate miniature quando non era impegnata nell’esecuzione di vetrate; dalla documentazione conservata nell’Archivio Moretti Caselli emergono infatti quasi esclusivamente il nome e la figura di Rosa, la quale curò le relazioni esterne dello Studio.
Rosa, pur non avendo una vita sociale particolarmente intensa, prese parte ad alcune associazioni cittadine, tra cui si ricorda l’Azione Cattolica, della cui sezione femminile fu anche presidente, e l’associazione “Donne artiste e laureate-circolo Vittoria Aganoor”. Fu inoltre terziaria francescana.
La vita delle due sorelle trascorse in gran parte all’interno dell’edificio quattrocentesco di via Fatebenefratelli, fra vetri, carta e colori.

OPERE REALIZZATE:
1922 Sinalunga, Convento di S. Bernardino
1922 Bastia, Chiesa di S. Croce
1923 Todi, Chiesa di S. Fortunato
1924 Assisi, Basilica di S. Francesco (chiesa inferiore, S. Chiara e S. Elisabetta)
1924-27 Assisi, Chiesa Nuova
1924-30 Assisi, Basilica di Santa Chiara
1925-30 Glendale (USA), Ultima Cena
1926 Camerino, Cattedrale
1928 Terni, Chiesa di S. Francesco
1928 Arezzo, Cattedrale, Cappella Madonna del Conforto
1928 Assisi, Basilica di S. Francesco (chiesa superiore, finestrone abside)
1929-31 Perugia, Cappella del Seminario
1932 Montecastello di Vibio, Madonna SS. dei Portenti
1932-39 Perugia, Cattedrale di S. Lorenzo (vetrate abside)
1937 Torgiano, Chiesa di S. Bartolomeo
1937-44 Sansepolcro, Ultima Cena
1947-61 Los Angeles, serie di vetrate per W. L. Frazier
1948 Montegabbione, Chiesa parrocchiale
1952 Matelica, Cattedrale
1953 Deruta, Chiesa di S. Francesco
1955 Perugia, vetrate Villa Fani
1959 S. Enea (PG), Chiesa parrocchiale
1962 Perugia, Rifugio Francescano Frate Indovino
Vetrate per cappelle cimiteriali e dimore private in diverse città d’Italia
Restauri di vetrate per chiese e per privati

Fonti
Archivio Caselli Moretti
http://www.studiomoretticaselli.it
Angelo Lupattelli, Una famiglia di artisti fiorita in Perugia nella seconda metà del XIX secolo. Francesco Moretti, Tito Moretti, Irene Moretti in Caselli, Lodovico Caselli Moretti, Perugia, Tip. G. Guerra, 1923
G. Giubbini, R. Santolamazza (a cura di), La carta, il fuoco, il vetro. Lo studio-laboratorio Moretti Caselli di Perugia attraverso i documenti, i disegni e le vetrate artistiche, Perugia, Edimond, 2001

Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons attribuzione - Condividi allo stesso modo.


Enrichetta Castiglioni

(Modena, 1803 – Venezia, 1832)

Via Enrichetta Castiglioni, la cui intitolazione avvenne nel febbraio 1911, sorge ai margini del centro storico di Modena. E’ lunga appena 168 metri, attraversa due vie dedicate ai patrioti modenesi Vincenzo Borelli e Anacarsi Nardi e finisce in viale Ciro Menotti, il patriota a capo dei moti del 1831 a Modena. Eppure, i cittadini modenesi non sanno né dove sia la strada né chi sia stata Enrichetta Castiglioni, anche se la sua vicenda meriterebbe di essere conosciuta, se non altro perché fu vittima delle decisioni di altri. L’unica decisione presa da lei la portò alla morte e forse per questo ad Enrichetta non sarà dispiaciuto vedere che la targa stradale la ricorda con il cognome del marito e non con quello della sua famiglia di origine.

Una donna modenese nel Risorgimento

di Roberta Pinelli

Enrichetta nacque a Modena il 27 gennaio 1803 da Giuseppe Bassoli, un nobile modenese senza troppe sostanze, che le diede un’istruzione semplice e rudimentale.
A soli 16 anni, per consolidare le fortune familiari, ovviamente senza il suo consenso, le fu combinato il matrimonio con Francesco Manini, gentiluomo di Parma molto ricco, ma anche molto più anziano di lei. Come era logico aspettarsi, Enrichetta rimase vedova con una bambina prima dei vent’anni e fu costretta a far ritorno nella casa paterna.
Poco tempo dopo, l’unica decisione che Enrichetta prese autonomamente: si innamorò perdutamente di Silvestro Castiglioni, giovane figlio del Presidente del Supremo Consiglio di Giustizia del Duca di Modena. Non era certamente il marito ideale, Castiglioni, a causa di precedenti vicende poco edificanti con alcune donne, tanto che il padre lo aveva costretto ad allontanarsi da Modena e ad iscriversi in un reggimento di cavalleria austriaca a Vienna. Enrichetta non si curò di tutto questo e accettò di vivere con lui more uxorio, poiché Castiglioni non poteva sposarla e, pur amandosi teneramente, non poterono unirsi in matrimonio nemmeno quando, nel 1831, dal loro legame nacque un bambino, che Enrichetta volle chiamare Enrico. Nello stesso 1831, Castiglioni, insieme ad altri patrioti, fra cui Ciro Menotti, organizzò i moti carbonari di Modena del 3 febbraio. Non si sa se Enrichetta condividesse o meno gli ideali patriottici dei carbonari; si sa però che al momento dell’insurrezione, nonostante il timore delle conseguenze, spinse Castiglioni a raggiungere Ciro Menotti e gli altri patrioti. Fuggito il Duca Francesco IV d’Austria-Este, Silvestro Castiglioni si ritrovò così a far parte dei 72 cittadini che ressero il nuovo Governo, diventando capitano del 1° reggimento italiano cacciatori a cavallo. Quando si comprese che la rivolta era fallita, Enrichetta insistette affinché Castiglioni lasciasse la città prima del ritorno del Duca (accompagnato dalle armi austriache). Egli però decise di rimanere fino all’ultimo a Modena, ma poi dovette fuggire in tutta fretta per evitare di essere giustiziato con gli altri patrioti rimasti in città. Enrichetta, con il figlio di pochi mesi, decise di seguire il Castiglioni nella fuga, pur consapevole che, se gli Austriaci li avessero catturati, sarebbero stati giustiziati, poiché al suo rientro a Modena il Duca aveva condannato a morte in contumacia tutti i patrioti che erano riusciti a fuggire. Giunti dapprima a Bologna e poi ad Ancona, i patrioti modenesi tentarono la fuga via mare, ma furono catturati da una flotta austriaca appena usciti dal porto ed incarcerati nel carcere veneziano di San Severo. Insieme a loro fu imprigionata anche Enrichetta, che volontariamente aveva deciso di condividere il carcere con il suo uomo. Debilitata dalle pessime condizioni di vita del carcere veneziano, e forse minata da un cancro, Enrichetta riuscì a sposare Silvestro Castiglioni il 23 marzo 1832 e poco dopo, ancora incarcerata nonostante il declinare della salute, morì. Era il 23 aprile 1832; Enrichetta aveva solo 29 anni.
Giunta l’amnistia per i patrioti mazziniani, Silvestro Castiglioni si rifugiò in Francia e, arrivato a Marsiglia, volle onorare la memoria di Enrichetta con solenni onoranze, durante le quali fu lo stesso Giuseppe Mazzini a pronunciarne l’elogio funebre.
Logorato dal carcere e dalla vita grama degli esuli, Silvestro Castiglioni raggiunse Enrichetta l’anno successivo (1833).
Mossa forse più dalla passione amorosa che da aneliti di libertà e patriottismo, vittima delle circostanze e della cultura del suo tempo, fu però capace di decisioni culturalmente e socialmente controcorrente. Questo è stata Enrichetta Castiglioni: una donna che, pur avendo vissuto nell’Ottocento, può a buon diritto essere ricordata come una donna moderna.

Fonti
Bruna Bertolo, Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell’Unità d’Italia, Torino, 2011
Taddeo Guidi, Ciro Menotti e i suoi compagni o le vicende politiche del 1821 e 1831 in Modena. Cenni storico-biografici, Milano, 1880
Alessandro Luzio, Giuseppe Mazzini, Milano, 1905
Giuseppe Mazzini, Scritti editi ed inediti, Imola, 1909
Tommaso Sandonnini, Enrichetta Bassoli Castiglioni in Archivio Emiliano del Risorgimento Nazionale, a. II (1908) fasc. 7-8
http://www.dizionariorosi.it/
http://www.auris.it/files/File/Il%20Risorgimento%20a%20Modena.pdf

Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons attribuzione - Condividi allo stesso modo.


Giovanna Cecioni

(Vaglia (FI), 1841 – Firenze, 1937)

Non risulta alcuna intitolazione a suo nome.

Una pittrice all'ombra dei Macchiaioli

di Laura Candiani

Giovanna Cecioni rappresenta bene la condizione - condivisa con molte come Egle Marini, ad esempio - di artista dimenticata e finita nell'ombra di fratello, colleghi e amici, appartenenti nel suo caso alla cerchia dei Macchiaioli. Dopo 175 anni dalla sua nascita finalmente le preziose ricerche di uno studioso livornese l'hanno fatta riemergere dall'oblio e un recente convegno a Lucca l'ha giustamente ricordata.
Figlia di Giuseppe e di Umiliana Cecchini, fu battezzata Maria Anna, ma dal '42 risulta nei registri parrocchiali come Giovanna. I genitori erano benestanti e per lungo tempo gestirono una locanda, ma il padre aveva anche attitudini artistiche che trasmise ai figli: infatti oltre allo scultore Adriano e alla pittrice Giovanna, si dedicarono all'arte Enrico ed Egisto, bravi stipettai ed eccellenti mosaicisti. Dei sette figli si sposarono soltanto la maggiore, Ersilia, e Adriano; gli altri (Erminia, Giovanna, Ismene, Enrico ed Egisto) non ebbero una famiglia propria, ma sappiamo che furono legati affettuosamente fra di loro e vissero molto vicini l'uno all'altro.
Giovanna non frequentò alcuna accademia e per circa cinque anni (dal '62 al '67) non risulta stabilmente a Firenze; potrebbe essere stata a Napoli con il fratello Adriano che vi soggiornò, ritornando sposato e con il figlioletto Giorgio. Dal '68 Giovanna è a Firenze e vive con i genitori in viuzzi delle Lane al n.394; dall'anno successivo si trasferiscono in via Antonio Giacomini al n.16: lì Giovanna abiterà sempre. La prima testimonianza della sua produzione artistica è del 1868 quando partecipa alla mostra organizzata dalla Società Promotrice di Incoraggiamento di Firenze con il dipinto “I balocchi” che sperava di vendere a 200 lire. Il quadro oggi è sconosciuto, ma il fratello ne fece gli elogi per la naturalezza, la semplicità, la libertà espressiva, in polemica con gli insegnamenti ufficiali e codificati che avversava. Nel '69 Giovanna viene ritratta, mentre dipinge al cavalletto, da Odoardo Borrani e questa bella tela è un duplice documento, perché ce ne mostra l'aspetto grazioso e giovanile, con i capelli castani raccolti, il volto attento e il vezzoso nastrino al collo, ma anche perché testimonia la sua attività artistica. Nel '72 Giovanna fa parte di un gruppo di 16 artiste presenti con le loro opere a Milano e il critico Francesco dall'Ongaro all'epoca nota acutamente che il lavoro per le donne rappresenta “il miglior mezzo di emancipazione e di indipendenza”, in particolare quello artistico che può conservare “quel vanto di gentilezza e di leggiadria”, doti senz'altro appartenenti a Giovanna e alla sua produzione.          Nel '73 Giovanna partecipa all'Esposizione Universale di Vienna con due dipinti; uno dovrebbe essere “Una cucina”, l'altro - ben descritto e assai lodato da Telemaco Signorini - è “Un artista in erba”. Questa tavola (che raffigura un interno in cui un bambino cerca di riprodurre una piccola modella con il cappello da bersagliere, mentre una bambina assiste un po' distratta) per lungo tempo è stata attribuita al fratello Adriano e qui si pone il problema centrale: gli equivoci e le errate attribuzioni si ripetono. Giovanna e Adriano, infatti, lavoravano e presentavano le loro opere insieme, magari firmate con il solo cognome, utilizzavano soggetti simili, interni e familiari; ad esempio: ”La stalla”, ”I balocchi”, ”La cuoca domestica”, ”La colta delle zucche”- lei; “La stalla dei bovi”, ”I soldatini di carta”, ”Le faccende di casa”- lui.
Dai documenti sembra che Cristiano Banti l'abbia inserita nella sua celebre collezione privata (forse proprio con l'olio “Un artista in erba”); nel 1884 Adriano scrive di questa importante raccolta evidenziando la qualità delle opere presenti nella “Galleria Banti”, definita “unica nel suo genere”. Giovanna continua a dipingere e a partecipare alle esposizioni, almeno fino al 1903, ma alla fine degli anni Ottanta decide di dedicarsi all'insegnamento per avere quella tranquillità economica che era sempre mancata ad Adriano, tormentato dalla difficoltà di mantenere la famiglia, cessata solo quando divenne insegnante al Magistero l'anno prima di morire precocemente, nel 1886. Il 30 aprile 1889 Giovanna diviene insegnante aggiunta reggente di disegno nelle scuole normali e prende servizio a Lecce; dal 1° ottobre 1889 è trasferita a Livorno, alla scuola “Angelica Palli” dove rimarrà tre anni; poi avrà sede a Firenze e dal '93 è promossa insegnante aggiunta effettiva di seconda classe. Dal '98 al 1900 insegna al Conservatorio di Santa Maria degli Angioli e alla scuola  normale femminile “Massimina Rosellini”, in seguito presso l'istituto delle Mantellate. Dai giudizi espressi dal direttore, quando era a Livorno, appare una insegnante capace e appassionata, diligente e dedita al lavoro; molto interessante scoprire il suo moderno metodo didattico che lei stessa spiega in una relazione: cercare di lavorare con pazienza e amore, di dare sempre l'esempio, di lodare le allieve per i progressi e di rendere l'insegnamento piacevole. Il suo interesse per la professione è testimoniato anche dalla partecipazione ai congressi annuali degli insegnanti (dal 1902 al 1905), con un ruolo attivo; fa interventi, esprime le proprie idee sulla necessità di rinnovare l'insegnamento ed è l'unica donna a pronunciare un brindisi al banchetto conclusivo del 1902; tuttavia, dopo tre anni, appare delusa per le “ingiustizie e disuguaglianze” che permangono nel mondo della scuola e nel riordino delle carriere dei docenti.
In questi stessi anni lavora assiduamente, con il fratello Enrico e la nipote Giulia, per realizzare il libro Scritti e Ricordi, curato da Gustavo Uzielli, dedicato all'amato fratello Adriano, pittore, caricaturista, critico e teorico dell'arte, portavoce e unico scultore dei Macchiaioli. L'opera uscirà nel 1905. Passano gli anni e della numerosa famiglia sopravvivono solo Giovanna e le sorelle Erminia e Ismene; dai documenti rintracciati da Bernardini scopriamo qualche altro dettaglio interessante. Le idee dei genitori e dei figli erano sempre state improntate al libero pensiero e al patriottismo, erano stati vicini alla causa garibaldina (Egisto combatté con i Mille, Adriano fu volontario nella Seconda guerra di indipendenza) e le tre anziane signore, durante il periodo fascista, sfidavano il potere costituito tenendo comizi anarchici presso la casa di villeggiatura a Fontebuona.
Giovanna concluse a Firenze la sua lunga esistenza a causa di una polmonite il 28 dicembre 1937.
Per moltissimo tempo la fama di Giovanna è stata oscurata dalla notorietà del fratello, eppure sappiamo dal fitto carteggio che la stima era reciproca e Adriano teneva in grande considerazione i pareri della sorella, mentre lei seguiva con la massima attenzione la produzione del fratello, sempre insicuro e tormentato.
Oltre a Signorini e a Banti, hanno apprezzato i dipinti di Giovanna anche Anna Franchi (citandola in un libro sui Macchiaioli) e poi Mario Giardelli che la definì “fine e buona pittrice”. Colui che meglio ne comprese le qualità fu Raffaele Monti, che notò sì la vicinanza con la produzione pittorica del fratello, ma anche la libertà espressiva e la padronanza nella complessa struttura del già citato olio “Un artista in erba”. Ettore Spalletti addirittura ha avanzato l'ipotesi che alcune opere, ancora attribuite ad Adriano, possano in realtà essere della sorella. I dipinti accertati di Giovanna oggi non sono molti (tre con foto), mentre altri venti sono citati in documenti ed esposizioni; di alcuni abbiamo anche il prezzo di vendita, ma non sono rintracciati. Fra i soggetti preferiti si evidenziano gli interni domestici, come “La lezione” con i tre nipotini intenti, secondo l'età, a varie occupazioni e il delizioso “Una cucina”, ricco di dettagli quasi fotografici, in un ambiente raccolto e luminoso; altri sono paesaggi e scorci di esterni.
Certamente una bella sfida per i critici dell'arte e una ricerca da proseguire con tenacia per far riemergere una vera artista dall'oblio.

Fonti
Luciano Bernardini, Giovanna Cecioni pittrice - contributo alla risoluzione di un problema attributivo, Livorno, Books & Company, 2013  
Anna Franchi, Arte e Artisti Toscani dal 1850 ad oggi, Firenze, Alinari,1902
Mario Giardelli, I Macchiaioli e l'epoca loro, Milano, Ceschina,1958
Raffaele Monti, Interni con figure femminili, in  Gli anni di Piagentina. Natura e forma nell'arte dei Macchiaioli (catalogo mostra), Firenze, Artificio,1991
Ettore Spalletti, Le aporie di Adriano Cecioni, in “Amici di Palazzo Pitti - Bollettino 2010”, Firenze, Polistampa, 2011

Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons attribuzione - Condividi allo stesso modo.


Giulia Centurelli

(Ascoli Piceno, 1832 – Roma, 1872)

Tra le letterate e umaniste del passato, la toponomastica di Ascoli Piceno ha scelto di ricordare solo il nome Elisabetta Trebbiani (donna di lettere e poeta della seconda metà del XIV secolo) e quello di Giovanna Garzoni (celebre pittrice del Seicento). L’odonomastica, che definisce la cultura di una città, ha fino ad ora dimenticato Giulia Centurelli, figlia nobile della storia risorgimentale locale, poeta e pittrice del XIX secolo.

Giulia Centurelli, artista felice, donna infelice

di Maria Gabriella Mazzocchi

In anni recenti e in particolare nel 2011, con le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, si sono moltiplicati i contributi di studiose e studiosi che hanno restituito verità all’impegno delle donne nel movimento risorgimentale. La presenza femminile durante il Risorgimento è stata intensa e si è manifestata ad ampio raggio, coinvolgendo donne di diversi ambienti sociali e di tutte le regioni italiane.
Tra le donne marchigiane che, a vario titolo, hanno contribuito all’unificazione del Paese, va ricordata l’ascolana Giulia Centurelli, donna di rare doti intellettuali, poeta, insegnante e pittrice. Oggi è considerata tra le grandi donne italiane del Risorgimento, pur mancando ancora un’approfondita analisi monografica che ne ricostruisca pienamente la vicenda biografica e artistica.
Sensibile, coraggiosa e appassionata, Giulia è stata, sin dalla sua prima giovinezza, una protagonista dell’Ottocento ascolano. Rileggendo le poche notizie sulla sua vita, ci si accorge che qualche biografo ha posto l’accento più sulla presunta melanconia e infelicità di Giulia, che sulle sue doti di coraggio e talento che dovevano essere certamente fuori dall’ordinario. Questa interpretazione storiografica “di genere” non è insolita e testimonia un pregiudizio comune secondo il quale una donna, impegnata sia politicamente che in campo artistico, non poteva realizzarsi nel suo naturale ruolo di moglie, madre o vestale del focolare domestico. Consideriamo ad esempio che un ex garibaldino come Francesco Crispi, una volta divenuto primo ministro dell’Italia Unita, così scriveva: “Quando voi distaccate la donna dalla famiglia, e la gittate nella pubblica piazza, voi fate, o signori, della donna non più l’angelo consolatore della famiglia, ma il demone tentatore…” (cfr. I. Fabbri, P. Zani, Anita e le altre, Bologna 2011, p.10).
Tra le poche notizie su Giulia Centurelli appare particolarmente significativa la testimonianza della studiosa Teresa Paoletti che, nel 1907, nel corso di una conferenza sulle donne ascolane del passato, si sofferma lungamente su di lei. Nel testo della relazione, pubblicato nel 1911, si legge: “La vita di Giulia Centurelli è una mesta istoria; ella buona e gentile passò per una serie lunghissima di atroci sofferenze. La perdita dei genitori e la morte del fidanzato che adorava avevano resa triste l’anima nata a sentire vivamente ogni bellezza, a entusiasmarsi per ogni idea nobile e santa”. Dunque, anche questa testimonianza femminile concorda con la visione di una Giulia tenera, fragile e sfortunata, infervorata di ideali patriottici e dedita all’arte e agli studi. Come se l’impegno politico e la passione per la poesia e per la pittura siano state per lei non una scelta consapevole, ma una reazione alle sue tristi vicende biografiche. La figura di Giulia (tutta sofferenza, rinunce, ispirazioni e ideali) è tratteggiata dai biografi come una versione “laica” di tante sante ed eroine cristiane.
Le fonti concordano sulla sua educazione giovanile. Il suo precoce talento si forma ad Ascoli, presso la scuola del conte Orazio Centini Piccolomini, per dedicarsi in seguito alla poesia e alla politica. Un capitolo coraggioso della sua vita, scelta certo non comune fra le donne del tempo, è stata l’adesione all’associazione patriottica ascolana Apostolato Dantesco, fondata nel 1855 che, nel nome di Dante, promulgava segretamente le idee liberali e nazionaliste di stampo mazziniano e la diffusione delle opere di autori come Foscolo, Leopardi e Byron, amati da Giulia e censurati dallo Stato Pontificio.
Diversi anni fa sono state pubblicate alcune delle sue poesie e parte dell’intenso carteggio tra Giulia e l’amico Nicola Gaetani Tamburini, fondatore dell’Apostolato Dantesco, materiale che contribuì a farla incriminare e processare. Nel dicembre 1857 la polizia pontificia scoprì l’associazione segreta e Tamburini, insieme ad altri patrioti, fu arrestato e condotto in carcere. Nel 1859 anche Giulia fu arrestata e, poiché donna, consegnata alle suore dell’Ospedale civile di Santa Margherita di Ascoli, per essere carcerata in convento. Dopo aver scontato un anno di reclusione, con l’Unità d’Italia Giulia fu liberata e il 19 settembre 1860 scrisse dei versi appassionati intitolati Rendimento di grazie nel giorno della riscossa.
Il commissario straordinario sabaudo Lorenzo Valerio indisse il 4 e il 5 novembre un plebiscito per sancire l’annessione delle Marche al Regno d’Italia. Nonostante le donne fossero escluse dal voto plebiscitario (solo poche votarono per particolari meriti patriottici e fra esse, unica marchigiana, la giovane poetessa di Recanati Maria Alinda Bonacci Brunamonti) la partecipazione e la mobilitazione femminile furono notevoli. Tra le attiviste ascolane che organizzarono il plebiscito si distinse proprio Giulia Centurelli. Dopo essere stata chiamata a insegnare disegno nella “Scuola Normale Femminile” di Ascoli, nel 1870 passò a Roma alla “Scuola Superiore Femminile” diretta da Erminia Fuà Fusinato, patriota, poeta ed educatrice con la quale strinse un bel rapporto di amicizia. Giulia morì a Roma nel luglio del 1872, stroncata a soli quarant’anni da un’epidemia di vaiolo.
Giulia Centurelli riuscì ad esprimere il suo talento oltre che come insegnante, anche come poeta e pittrice, affermando così un ruolo intellettuale attivo e paritario, cosa non scontata nella società ascolana di allora, improntata all’assoluta predominanza maschile. La sua produzione artistica, tra cui diversi disegni e miniature, è andata purtroppo in gran parte dispersa. Di una delle sue opere perdute parla lo scultore e studioso ascolano Riccardo Gabrielli che ricorda una sua copia dell’Annunciazione, tratta dall’originale di Guido Reni della civica Pinacoteca di Ascoli, opera con la quale Giulia partecipò ad un’esposizione a Firenze nel 1861. Nella stessa Pinacoteca Civica si conservano altre quattro opere: un "Amorino", una "Sacra Famiglia" (copia della celebre Madonna della Cesta di Rubens del 1615), un "Autoritratto" e il "Ritratto di Italo Selva". Nell’intenso "Autoritratto" l’artista si ritrae in atteggiamento semplice e severo, il volto giovanile incorniciato dai capelli neri raccolti, la camicetta bianca chiusa da un piccolo colletto, priva di ogni ornamento. Tutta la forza del ritratto sta nell’intensità dello sguardo, che rivela l’animo nobile e appassionato della giovane donna.

Fonti
Gabriele Rosa, Disegno della storia di Ascoli Piceno, Brescia, 1869;

Teresa Paoletti, Donne ascolane nella storia e nell’arte, Ascoli Piceno, 1911;
Riccardo Gabrielli, All’ombra del Colle di S. Marco, Ascoli Piceno, 1948;
Bruno Ficcadenti , Lettere e poesie per una rivoluzione, s.l. 1988;
Luana Montesi, Per amore della patria. Giulia Centurelli nel Risorgimento marchigiano, in "Marche", 2002, nn.7-8-9;
Gian Luca Fruci, Cittadine senza cittadinanza. La mobilitazione femminile nei plebisciti del Risorgimento (1847-1870), in Genesis, 2006, n. 2;
M. Gabriella Mazzocchi, Giulia Centurelli: una donna ascolana del Risorgimento, in "Flash, la Rivista del Piceno", 2013, n. 400.

Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons attribuzione - Condividi allo stesso modo.


Maria Anna Ciccone

Noto (SR), 1892 (o 1891) –  1965

L’Amministrazione comunale e la Fidapa di Noto il 14 novembre 2015, nel corso di un Convegno su Maria Anna Ciccone, hanno posto una targa a perenne ricordo nella casa in cui la professoressa nacque e morì. L’Istituto di Istruzione Superiore “Matteo Raeli” ha partecipato, nell’anno scolastico 2015/16, al concorso nazionale indetto dall’Associazione di Toponomastica Femminile presentando un disegno animato, “Anna Maria Ciccone – Straordinarietà di una vita normale”. È stato chiesto all’Amministrazione comunale di intitolare a Mariannina Ciccone una strada, una scuola, una rotatoria, una sala conferenze.

 

Una tigre netina, partigiana dei libri

di Ada Dimauro e Vera Parisi

Maria Anna o Mariannina Corradina Ciccone nasce il 29 agosto 1892 (o 1891 secondo i documenti) a Noto da Corrado, ricco commerciante, e Caterina Mirmina. Si diploma presso la Regia Scuola Normale (che diventerà in seguito Istituto Magistrale) di Noto nel 1910. Visto che il diploma non le consentiva di accedere alle facoltà scientifiche, Mariannina si iscrive al terzo anno dell’Istituto Tecnico “Archimede” di Modica, nella sezione Fisico-Matematica, ed è l’unica alunna della classe. Dopo il primo anno nella facoltà di Matematica dell’Ateneo di Roma, si trasferisce a Pisa, dove si laurea brillantemente e dove consegue la seconda laurea in Fisica nel 1924. L’anno seguente è Assistente incaricata presso l'Istituto di Fisica dell'Università di Pisa, poi diventa Assistente Ordinaria e dal 1931 Aiuto, su proposta del direttore dell’Istituto di Fisica Puccianti; la Libera Docenza in Fisica Sperimentale arriva nel 1936. Nello stesso anno comincia un periodo di ricerca nell'Istituto di Fisica della Scuola di Ingegneria di Darmstadt in Germania, collaborando in ricerche di spettroscopia con il Prof Gerhard Herzberg, scienziato antinazista, futuro Premio Nobel per la Chimica nel 1971.
La carriera di docente evidenzia la dedizione completa al lavoro di Mariannina Ciccone. La sua attività è interamente concentrata nell’Istituto di Fisica e ai suoi studi scientifici, tanto che trasferisce la sua residenza all’interno dello stesso edificio. Comincia a pubblicare i suoi primi scritti su Il Nuovo Cimento e su Memorie della società toscana di Scienze Naturali: si tratta di articoli che daranno vita in seguito a testi più complessi.
Dal 1939 ottiene l'incarico di Spettroscopia che mantiene poi in modo continuato fino alla pensione; tra il 1943 e il 1944 tiene tutti gli insegnamenti attivi di Fisica e di Istituzioni di Matematica perché unica tra i docenti a rimanere in servizio. Mariannina Ciccone, una delle prime donne laureate in matematica e in fisica a Pisa, vice-direttrice dell'Istituto, osa affrontare i tedeschi riuscendo ad evitare la distruzione totale dell'edificio e anche la totale asportazione degli strumenti e della biblioteca.
Tra la fine di giugno e l'inizio di luglio del '44 un'ala dell'edificio dell'Istituto di Fisica, situato in Piazza Torricelli, edificio già depredato e minato, viene fatta saltare in aria. La professoressa Ciccone, che è rimasta in Istituto per tutto il periodo della guerra e ha continuato a far lezione (l'unica dopo l'8 settembre del '43), affronta gli ufficiali — conosceva bene il tedesco per aver lavorato a Darmstad — affermando con estremo coraggio che non avrebbe abbandonato per nessun motivo il suo posto di lavoro, anche a costo di saltare in aria con l'edificio. Davanti all’atteggiamento risoluto della donna, gli ufficiali tedeschi desistono dal loro proposito e questo consente la salvezza di una parte dell'edificio e di un cospicuo numero di strumenti scientifici. Sia per la sua coraggiosa permanenza nell’Istituto sia per il coraggio mostrato contro i tedeschi, Mariannina Ciccone è stata elogiata sia dall’allora Consiglio di Facoltà che dal Rettore Remo De Fazi e da Luigi Russo, celebre italianista, divenuto Rettore subito dopo la liberazione; anche al momento di andare in pensione venne ricordata la sua determinazione contro i nazisti. Nella minuta di una lettera indirizzata al Ministro della Pubblica Istruzione dal rettore Luigi Russo il 7 giugno 1946 si legge: "Non posso fare a meno di segnalare la benemerenza acquisita dalla Prof. Ciccone, durante il periodo dell'assedio tedesco, per ciò che concerne la tutela del materiale scientifico, in quanto essa fu sempre presente e vigile nel suo Istituto, anche quando allontanandosene, avrebbe significato porsi in salvo dal pericolo".
Dal primo novembre del 1953 viene trasferita presso la cattedra di Chimica-Fisica per continuare le sue ricerche nel campo della spettroscopia dell’infrarosso. È plausibile pensare che il suo trasferimento sia il risultato di precise scelte amministrative volte ad assumere altri docenti nell’Istituto di Fisica e ciò è confermato dal fatto che nella nuova sede di servizio deve affrontare problemi di carattere organizzativo: l’Istituto infatti non possiede gli strumenti richiesti da Mariannina Ciccone per cui viene chiesto che lasci la sua attività. Anche la docente manifesta l’intenzione di non ricoprire il posto di assistente e così il 12 ottobre 1954 si ha la sua cessazione dal servizio. Anche se le viene assegnato un trattamento di pensione, Mariannina continua ad insegnare come docente incaricata esterna, in particolare è docente di fisica presso la Facoltà di Scienze e di Spettroscopia, di Fisica Sperimentale, di Fisica Terrestre e di Fisica Atomica.
Al termine dell’anno accademico 1961-62 è dichiarata decaduta dall’incarico, così ritorna a Noto dove muore il 29 marzo del 1965.La vicenda di Mariannina Ciccone è segnata da una straordinaria normalità. Pur essendo nata alla fine dell’Ottocento in una città del Sud, Noto, sceglie di studiare e insegnare Fisica in un ambiente universitario e scientifico internazionale di grande rilievo, quello di Pisa. Il suo campo di indagine scientifica, nel quale testa nuovi metodi di ricerca modificando gli apparati sperimentali ed elaborando nuove tecniche di osservazione, è quello della spettroscopia e dell’elettromagnetismo. L’aver vissuto in un periodo, la prima metà del Novecento, nell’università di Pisa dove si svolgono le più rilevanti scoperte della fisica moderna capaci di scardinare le conoscenze della materia e le concezioni filosofiche di spazio e tempo, le dà modo di incontrare figure come Polvani, Racaah, Wick, Fermi, Ronchi, Salvini, scienziati che aprivano nuovi orizzonti del pensiero.
La scoperta e la valorizzazione della fisica netina è molto recente e si deve alle ricerche condotte in Toscana sullo stragismo nazista del ’44 dal prof. Marco Piccolino che si è imbattuto nell’episodio di resistenza ai nazisti di Mariannina Ciccone. Lo studio del prof. Corrado Spataro ha permesso di scoprire il volto della scienziata, che lascia Noto per la Normale di Pisa e si dedica corpo e anima allo studio della luce e della Spettroscopia. Scrive Corrado Spataro: “È stato importante, opportuno e gratificante […]avere conosciuta e studiata Mariannina Ciccone, nell’anno 2015 che è stato il cinquantesimo della sua morte e dedicato dall’ONU alla luce che lei, con il suo spettroscopio, cercò di conoscere fin nelle componenti più segrete".


Pubblicazioni di Maria Anna Ciccone

 

Sulla rivista Nuovo Cimento:
L'effetto di Hall nel berillio
Spettri prodotti da scariche elettriche in ossido di carbonio
Lo spettro del berillio I e del berillio II
Spettri ultrarossi e Raman delle molecole
Gli spettri di bande
Recensione a “Spettri e struttura delle molecole” di GerhardHerzberg


Sulla rivista Memorie della società Toscana di scienze naturali
Una reazione nucleare di nuova specie: lo spezzamento dei nuclei dell'Uranio e del Torio sotto l'azione dei neutroni (Vol. 49, 1941)

 

Corso di spettroscopia, Vallerini, Pisa, 1941

Lezioni di spettroscopia, Vallerini, Pisa, 1947

Introduzione allo studio della fisica atomica e molecolare, Vallerini, Pisa, 1953

Nozioni di spettroscopia delle microonde, Vallerini, Pisa, 1954

 

Fonti:

Le fonti principali della biografia di Maria Anna Ciccone sono gli studi, ancora in gran parte inediti, del prof. Corrado Spataro e del prof. Marco Piccolino.

Corrado Spataro, Mariannina Ciccone: la “tigre” che salvò il laboratorio di fisica dell’Università di Pisa, “Il Nuovo Saggiatore” Bollettino della Società Italiana di Fisica, vol.32, 2016, numero 1-2

Marco Piccolino, Mariannina, la “tigre” che fermò i nazisti, in La Nazione, 25 aprile 2015

Edoardo Semmola, “Andate via o uccidete anche me”. La prof che salvò Fisica dai nazisti, in “Corriere Fiorentino”, 25 aprile 2015

Vincenzo Greco, Il gesto coraggioso della netina Ciccone davanti ai tedeschi, in “La Sicilia”, 25 aprile 2015

 

Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons attribuzione - Condividi allo stesso modo.

 


Angela Maria Cingolani Guidi

(Roma, 1896 – 1991)

Solo a Porto Fuori, frazione del comune di Ravenna, c’è una via intitolata ad Angela Maria Cingolani Guidi.

Contro i pregiudizi sulle donne

di Annarita Alescio

Nacque a Roma il 31 ottobre 1896 da Eugenio Guidi e Anna Casini, entrambi appartenenti a famiglie della borghesia cattolica romana.
Decisivo nella sua formazione fu l'incontro con don Luigi Sturzo, che le diede l’incarico di organizzare il lavoro femminile nell'ambito dell'Opera per l'assistenza civile e religiosa per gli orfani di guerra, da lui fondata.
Nel 1919 fu la prima tesserata femminile del Partito Popolare Italiano e questo costituisce un altro suo primato. Inoltre fu tra le prime giovani cattoliche a partecipare al "Movimento Nazionale Pro Suffragio Femminile".
Fu una convinta sostenitrice del cooperativismo e nell'immediato dopoguerra ricevette il diploma di benemerenza del Ministero delle Terre liberate per aver contribuito alla fondazione di cooperative di lavoratrici, in particolare nel Veneto.
Nel 1921 fondò il Comitato Nazionale  per il lavoro e la cooperazione femminile, legato all'Azione cattolica.
In questa veste raccolse le adesioni di più di cinquecento scuole di avviamento al lavoro, laboratori e cooperative. In particolar modo si occupò delle scuole di lavoro femminile per le orfane di guerra, della Federazione delle lavoratrici dell'ago e della cooperazione femminile di lavoro a Caserta e nel Veneto ed ebbe l'incarico di fondare cooperative di produzione e di lavoro nel Friuli-Venezia Giulia. Del Comitato Nazionale rimase segretaria generale fino alla liquidazione, avvenuta nel 1926, e in questo ruolo intraprese numerosi viaggi di studio.
Svolse anche un'intensa attività giornalistica e collaborò con il Corriere d'Italia, Il Popolo, Avvenire d'Italia, con il settimanale L'Ago, la rivista Il Solco e vari altri periodici.
Dal 1924 al 1925 assunse la direzione del settimanale Il Lavoro femminile.
Intensa in questo periodo fu anche la sua azione in ambito sindacale: si interessò di evidenziare la necessità di regolamentazione dell’artigianato e del lavoro a domicilio.
Quando vinse il concorso all'Ispettorato del lavoro di Roma riprese l'opera di assistenza alle mondine; si occupò della lavorazione dei tabacchi e di lavori stagionali, cercando di tener viva un'attività sindacale di orientamento cristiano.
Nel 1929 Angela Maria contribuì alla nascita dell’Associazione Nazionale Donne Professioniste e Artiste, che fu poi assorbita dalle organizzazioni fasciste, con conseguente obbligo di tesseramento. Così nel 1931 si trasferì a Ginevra.
A trentanove anni sposò Mario Cingolani, parlamentare popolare, autorevole esponente dell'Azione cattolica e figura di spicco della futura Democrazia Cristiana. Da lui ebbe un unico figlio, Mario. Insieme al marito Angela Maria fu punto di riferimento per gli antifascisti cattolici romani. I due coniugi parteciparono all'attività di direzione clandestina della DC, ospitando nella loro casa il Comitato di liberazione nazionale e, nella fase di ricostruzione del partito, lei fu incaricata di seguire la sezione femminile. In questo periodo riprese anche gli studi, iscrivendosi all'Istituto orientale di Napoli e laureandosi in Lingue e letterature slave.
Non cessò comunque di interessarsi al lavoro femminile. Nel 1944 fu eletta consigliera nazionale della DC e delegata nazionale del movimento femminile; l’anno dopo, in qualità di membro della Consulta nazionale, partecipò ai lavori della Commissione lavoro e previdenza e alle assemblee plenarie. Nel 1946 fu una delle 21 donne elette alla Costituente. Sostenne fermamente la necessità che l'associazione femminile rimanesse autonoma nell'ambito del partito.
Fu eletta deputata per la DC nel 1948; dal luglio 1951 al luglio 1953 fu Sottosegretaria per l'Artigianato nel Ministero dell'Industria e del Commercio, divenendo così la prima donna in Italia  a ricoprire tale carica. Era stata anche la prima donna a parlare nell'aula di Montecitorio, con queste parole: "Vi invitiamo a considerarci non come rappresentanti del solito sesso debole e gentile, oggetto di formali galanterie e di cavalleria di altri tempi ma pregandovi di valutarci come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che... con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale ed elevazione morale".
Nel ruolo di Sottosegretaria si dedicò particolarmente al piccolo artigianato e alla cooperazione, convinta che la ricchezza italiana stesse nella piccola impresa e si impegnò per far ottenere alla categoria una migliore legislazione e sostegni creditizi e promozionali.
Nel 1952 Angela Maria, eletta sindaca di Palestrina, abbandonò l'impegno politico nazionale per dedicarsi all'amministrazione del comune laziale. Ne avviò il rinnovamento, valorizzando i beni archeologici e attirando l'attenzione nazionale sulla vita culturale della città.
A partire dagli anni Settanta un forte abbassamento della vista condizionò la sua attività.
Ricordiamo che nel 1986 ricevette una medaglia d'oro al merito per la sua attività politica.
Angela Maria Cingolani Guidi morì a Roma l'11 luglio 1991.

Fonti
http://www.cittadinanze.it/angela_maria_guidi_cingolani
http://www.treccani.it/enciclopedia/angela-maria-guidi_
http://www.allapari.regione.emilia-romagna.it/vie-en-rose/vie_donne_ra/guidi-cingolani-angela-maria
http://www.romagnaoggi.it/cronaca/ravenna-vie-e-piazze-nuovi-nomi-nel-segno-delle-pari-opportunita.html

Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons attribuzione - Condividi allo stesso modo.


Adelasia Cocco

(Sassari, 1885 – Nuoro, 1983)

A Nuoro, vicinissimo alla Cattedrale di Santa Maria della Neve, c’è una piccola strada in salita, è difficile individuarla e in molte mappe non è neppure segnata, ma resta l’unica in tutta la Sardegna a ricordare Adelasia Cocco. È una scalinata percorribile soltanto a piedi e da chi è in buona salute e sarebbe piacevole trovare, dopo l’ultimo gradino sommitale, una targa esplicativa, per conoscere questa donna straordinaria e, con l’occasione, riprendere fiato.

Una vita per la medicina

di Teresa Spano

Adelasia Cocco Floris, nata a Sassari nel 1885, è figlia del poeta e narratore Salvatore Cocco Solinas, collaboratore del giornale “Sassari” e della “Rivista delle tradizioni popolari italiane”.
Una donna fuori dal comune fin dal nome, Adelasia, che tradisce echi storici importanti, da giudicessa di Torres, forse non a caso, ma per un presagio paterno.
Fu una delle prime donne sarde a  laurearsi in medicina e la prima in Italia a ricoprire l’incarico di medica condotta.
In molte fonti viene indicata come la prima medica della Sardegna, ma in realtà  la prima laurea femminile in medicina fu di Paola Satta, nel 1902, rilasciata dall’Università di Cagliari. Adelasia fu però la prima medica sarda ad esercitare la professione, superando l’ostracismo della corporazione maschile, la diffidenza di una parte dell’opinione pubblica e la resistenza delle autorità locali.
Iscritta in medicina a Pisa nel 1907, si laureò nel 1913 a Sassari con Luigi Zoja (1866-1959), direttore dell'Istituto di patologia e clinica medica, discutendo una tesi sul potere autolitico del siero di sangue come contributo alle reazioni immunitarie.
Appena titolata, chiese la condotta medica e la ottenne nel 1914, vinte le resistenze del prefetto di Nuoro che esitò a lungo ma, non trovando alcun cavillo legale che ne impedisse l’assegnazione, dovette firmare il decreto di nomina. Esercitò nel popolare rione di Seuna e, quando nel 1915 il medico Andrea Romagna fu ucciso in un agguato, accettò anche di prendersi cura dei malati di Lollove, il luogo in cui Grazia Deledda ambientò il romanzo La Madre.
Alle pochissime mediche, allora, erano minimi gli ambiti concessi nei quali potevano esprimersi, ginecologia o tutt’al più pediatria, seguendo il filo rosso del pudore e della morale che vedeva con meno difficoltà una donna a visitare le donne. Ma lei era medica di tutti, e facilmente si guadagnò la stima dei suoi assistiti.
Oggi Lollove è una frazione di Nuoro che dista 15 km dalla città e ospita una trentina di abitanti, per lo più anziani, ma nei primi anni del secolo scorso contava poco meno di 400 cittadini, prevalentemente contadini e pastori. A Lollove Adelasia  in quei primi anni venne “accompagnata” nell’esercizio della sua professione da un assessore a cavallo ma, prima fra le donne sarde, nel 1919, ottenne la patente automobilistica e con essa l’autonomia e la libertà di movimento.
Adelasia fu medica curante di Attilio Deffenu e di altre figure di spicco della Nuoro del primo Novecento. Fu amica personale di Grazia Deledda, del poeta Sebastiano Satta, del pittore Antonio Ballero.
Dal 1928 Adelasia fu ufficiale sanitaria a Nuoro: c’è una vecchia fotografia risalente a quel periodo, che la ritrae davanti al suo tavolo di lavoro tra microscopio, carte, penne e un vaso colmo di fiori (è diventata la locandina di apertura dell’anno sanitario 2006, a essa dedicato). In questo ruolo si occupò di prevenzione e svolse un’incessante opera di educazione sanitaria. Vinse tante battaglie, ma subì la più dolorosa delle sconfitte: la scarlattina la privò del suo unico figlio maschio di tre anni.
  Nel 1935 divenne direttrice dell’ Istituto  provinciale di Igiene e Profilassi e negli anni successivi il suo lavoro la vide protagonista di studi microbiologici: rabbia, malaria, enteriti causate da batteri patogeni.
Fu collocata a riposo nel 1955.
 Tra i suoi impegni professionali, fu anche attiva nell’Associazione Nazionale Italiana delle Dottoresse in Medicina e Chirurgia, fondata nel 1921 e ora chiamata più brevemente Associazione Donne Medico.
Ci ha lasciato nel 1983, a 98 anni, e la sua terra l’ha quasi dimenticata.

Fonti:
Francesco Floris, Enciclopedia della Sardegna, volume 3 pag 44
Eugenia Tognotti,  Era sarda la prima donna che nel novecento divenne medico condotto,“ Il messaggero sardo”,luglio 2001 p. 30
M. Giovanna Vicarelli, Donne di Medicina. Il percorso professionale delle donne medico in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008 pag 54
Teresa Spano http://www.sardegnademocratica.it/culture/adelasia-un-vuoto-di-memoria-1.28693
http://pacs.unica.it/biblio/storia8.htm

Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons attribuzione - Condividi allo stesso modo.


Mariannina Coffa

(Noto, 1841 – 1878)

Alla poetessa sono intitolate strade in alcune città siciliane. Una via si trova nella sua città natale, Noto (Sr), e una a Ragusa, città del marito Giorgio Morana, dove lei visse da sposata; strade le sono state dedicate anche a  Palermo, a Catania e a Giarre (Ct), località cui è legata  per le relazioni epistolari col giarrese Giuseppe Macherione.

Una poetessa siciliana "nel prestigio del Magnetismo"

di Marinella Fiume

La poetessa siciliana, definita “la capinera di Noto” per alcune somiglianze con le vicende biografiche dell’eroina dell’omonimo romanzo verghiano, fu una bambina sensitiva e precocemente ispirata. Il padre, noto avvocato e patriota frammassone impegnato in ruoli di primo piano nelle rivoluzioni del 1848 e del 1860, si compiaceva di farla esibire nei salotti e nelle accademie con le sue poesie improvvisate su temi dettati in modo estemporaneo.
Dopo qualche anno in un collegio laico per signorine, nel quale imparò versificazione e un po’ di francese mentre – com’ebbe a lagnarsi in seguito - solo ai suoi fratelli fu insegnato seriamente anche il Latino, le fu messo accanto come precettore un canonico dotto e zelante, Corrado Sbano, allo scopo di istruirla e insieme disciplinarne gli slanci del carattere malinconico e dell’estro focoso. A quattordici anni cominciò a prendere lezioni di piano dal venticinquenne Ascenso Mauceri, diplomato al Conservatorio di Napoli, vicino all’ambiente del Ministro Matteo Raeli - l’estensore della Legge sulle Guarentigie - e autore di drammi storici che saranno rappresentati alla Fenice di Venezia. Fu subito innamoramento tra queste due giovani promesse del Campanile già Capovalle della Sicilia borbonica, questi due figli del secolo ammalato di byronismo. Malgrado la differenza di età e anche di status il bell’Ascenso, alto, biondo, dai modi aristocratici, l’aria sofferta da bohémien, era un intellettuale di sicuro avvenire, pupillo del Ministro e cicisbeo delle donne di casa Raeli, salotto esclusivo della città. Se in un primo momento la famiglia Coffa acconsentì al fidanzamento, sottoscrivendo la promessa di matrimonio, successivamente impose alla figlia di troncare la relazione e sposare, a diciotto anni, un partito più vantaggioso, Giorgio Morana, ricco proprietario terriero di Ragusa. Sarà lui a recluderla nella casa del padre, un vecchio, rozzo e avaro despota il quale le impedirà persino di scrivere, ritenendo che “lo scrivere rende le donne disoneste1. Sarà costretta a scrivere le sue poesie di notte, nella sua camera da letto, alla flebile luce di una candela, mentre il suocero aprirà e distruggerà gran parte della corrispondenza a lei indirizzata. Intanto, tra le continue gravidanze che tormentano il suo gracile corpo, il dolore per la morte di due figlie in tenerissima età, la cura dei figli e i pesanti lavori di casa, la malmariée intreccerà una relazione epistolare con l’orgoglioso fidanzato di un tempo che non le perdonerà mai la supina resa al volere dei genitori e il rifiuto della “fuitina” (la fuga a scopo di matrimonio) da lui proposta a suo tempo; non si presenterà nemmeno all’appuntamento che lei, già donna sposata e più volte madre, gli darà, disposta a tutto.
Mariannina sarà così costretta a vivere una vita sdoppiata, iscrivendosi di nascosto ad associazioni e accademie italiane e straniere e pubblicando, a volte con uno pseudonimo, per riviste nazionali come La donna e la famiglia di Genova. L’amicizia con un dotto e geniale medico siciliano, Giuseppe Migneco, detto dai seguaci “Sapiente Maestro”, dai nemici “Cagliostro il piccolo”, originario di Augusta e poi residente a Catania, omeopata e magnetista, famoso per le efficaci cure prestate in occasione delle epidemie di colera, più volte esiliato per “esercizio di arte diabolica” e “spiritismo”, la introdurrà agli arcani del sonnambulismo e del magnetismo animale o messmerismo, anatemizzati dal Papa e coltivati all’interno di élites massoniche democratiche. Saranno questi i sistemi, prodromi della successiva psicanalisi, ai quali la poetessa ricorrerà per cercare di curare le malattie e i disagi del suo corpo e della sua psiche. Mariannina si iscriverà a diverse Società occultiste e teosofiche italiane e straniere e, attraverso lo stesso Migneco e un suo discepolo netino, il dott. Lucio Bonfanti, medico omeopata e democratico del 1860, sarà introdotta, con ruoli probabilmente di primo piano, in logge massoniche swedenborghiane, mistico-teosofiche e magnetiste. Ne nascerà l’ultima straordinaria, purtroppo breve, stagione poetica, fitta di riferimenti simbolici al “gran concetto” e improntata alla “protesta metafisica”, dopo la prima giovanile poesia patriottica di maniera e l’intermedia fase intimista tardo-romantica. Prostrata dalle emorragie, probabile conseguenza di fibromi all’utero, abbandonerà la casa ragusana del suocero rifugiandosi a Noto, nella casa dei genitori, che non esiteranno a cacciarla via perché non ricada su di loro il disonore della separazione dal marito e dai figli. Finirà i suoi giorni tra la fame e gli stenti, assistita solo dall’anziano medico: nessun familiare vorrà pagare le prestazioni di un chirurgo catanese il cui intervento avrebbe potuto probabilmente salvarle la vita. Pochi mesi prima di morire, quando la famiglia ragusana le porta via il figlio che alleviava la sua solitudine e confortava i suoi ultimi giorni di vita, grida in alcune lettere la sua ferma volontà di divorziare, mentre quello del divorzio è un istituto ancora molto di là da venire. La sua rassegnazione si trasforma in odio verso i genitori, i cui voleri ha supinamente eseguito, la sua obbedienza filiale si tramuta in desiderio di vendetta; giunge a invocare Dio perché le conceda ancora qualche giorno di vita per rendere pubbliche le violenze, le manomissioni, le subornazioni, le umiliazioni subite che la conducono alla morte. Tra le sue ultime volontà, affidate al medico curante, c’è che si ordinino le sue poesie secondo “l’immortal concetto”, tenuto avvolto in una serie di allegorie e di simboli, non oscuri solo agli iniziati e fraintesi da una critica per lo più locale, incapace di scorgere al di là della facile chiave di lettura di stampo tardo-romantico. Malgrado la fama di “pazza”, spiritista e sonnambula diffusasi negli ultimi tempi della sua vita, la sua città, memore di quanto da lei fatto quando fu tolto a Noto il capovallato in favore di Siracusa, dichiarò il lutto cittadino. Il Comune si assunse le spese dei solenni funerali e le fece erigere la statua in marmo di Carrara ancora oggi in Piazzetta d’Ercole, mentre i “fratelli” dell’Elorina, che parteciparono al funerale della poetessa portando le insegne solenni, si  prendevano cura di farne imbalsamare il corpo. Nessuno della famiglia seguì il feretro, ma una folla di autorità e gente comune, accorsa a rendere l’estremo commosso omaggio alla “Saffo netina”, che sfilava per l’ultima volta tra le strade e i monumenti del “giardino di pietra”, la sua città barocca.
1 Lettera di Mariannina a Ascenso, Ragusa 17-I-1870

Fonti:
In memoria della poetessa M. C. C. in Morana, Prose e poesie, pubblicate a cura e spese del Municipio di Ragusa, Ragusa, Piccitto e Antoci, 1878
Filippo Pennavaria, Sopra un caso d’isterismo acuto con estasi e sognazione spontanea accaduto in persona della insigne poetessa M. C. C. in Morana – Considerazioni medico filosofiche, Ragusa, Tip. Piccitto e Antoci, 1878
Vincenzo Coffa, Lamento dell’anima a mia sorella M. C., versi, Noto, Zammit, 1879
Corrado Sbano, Memorie e giudizi intorno alla poetessa M. C. in Morana di Noto, Noto, Tip. Zammit, 1879
Vincenzo Coffa Caruso, Rimembranze (Iuvenilia), Noto, Tip. Zammit, 1890
F. Genovesi Caruso, Storia d’una martire (M. C. C.), con prefazione di Giuseppe Sergi, Napoli, Chiurazzi, 1900
Giuseppe Leanti, Una poetessa della patria e del dolore – M. C. C., Noto, Zammit, 1923
Carmelo Sgroi, Lettere di M. C. C. a Mario Rapisardi, estratto dall’ “Archivio storico per la Sicilia orientale”, Catania, Tip. Zuccarello e Izzi, 1931
Carmelo Sgroi, M. C. C. e Giuseppe Macherione (con documenti inediti), Siracusa, Tip. Littoriale, 1934
Benedetto Croce, Pagine sparse, Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1943, vol. III
Gino Raya, M. C., Lettere ad Ascenso, Siracusa, Ciranna, 1957
Francesco Lombardo, M. C. e C. Sammartino in Fileti, ed altri riflessi di vita d’arte e d’ambiente della poetessa netina, Noto, Tip. dell’Autore, 1959
Gioacchino Santocono Russo, Ottocento netino: nel primo centenario della morte di Mariannina Coffa, “Netum”, febbraio-marzo 1977
Teresa Carpinteri, L’eringio (Romanzo), Palermo, Flaccovio, 1978
Biagio Iacono (a cura di), M. C., Poesie scelte, con Introduzione di G. Raya, Noto, Sicula Editrice – Netum, 1987
Rita Verdirame, Finzione rassegnazione e rivolta. L’immagine femminile nella letteratura dell’Ottocento, Papiro, Enna, 1990
Miriam Di Stefano (a cura di), Scritti inediti e rari di M. C., Noto, Arti Grafiche San Corrado, 1996
Marinella Fiume, Sibilla arcana. Mariannina Coffa (1841 – 1878), Edizioni Lussografica, Caltanissetta, 2000

Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons attribuzione - Condividi allo stesso modo.


Laura Conti

(Udine, 1921 – Milano, 1983)

Chissà se a Laura Conti sarebbero piaciute le vie che le sono state intitolate. A Bolzano la strada corre parallelamente a campi con alberi da frutta e vigneti, mentre a Corsico, nell’interland milanese, la striscia di asfalto della strada si allunga fra radure verdi affiancata dalla pista ciclabile. Infine Sorso, in provincia di Sassari, le ha dedicato una via sulla quale si affacciano abitazioni private che lasciano poco spazio alla natura. A Udine, sua città natale, non esistono intitolazioni.

"Guardate! Aiutatemi a vedere."

di Laura Biffi

 “Non risiedo nella cittadella della scienza, sono soltanto un mendicante straccione che si aggira all’ esterno, e si sforza di guardar dentro dalle finestre, e non vede bene, e strizza gli occhi, e con le mani si fa visiera per eliminare i riflessi e discernere qualcosa. Perciò, mentre vi dico “guardate!” vi dico anche “aiutatemi a vedere!”

Partigiana, medica, scrittrice e divulgatrice, politica, ambientalista. E forse non basta per raccontare appieno questa donna del Novecento.

Laura Conti nasce a Udine il 31 marzo 1921. Ragazza, si trasferisce a Milano dove, studentessa di medicina, prende parte alla Resistenza. Nell’agosto del ‘44 viene catturata dai tedeschi e finisce nel carcere di San Vittore, quindi internata nel campo nazista di transito di Bolzano in attesa di venire deportata in Germania. Tornata libera, si laurea in Medicina nel 1949; in Austria si specializza in ortopedia e a Milano svolge la sua attività di medica.

Dal campo scientifico a quello pedagogico, da quello storico a quello ambientalista, è presenza e voce autorevole nelle battaglie civili e culturali del secolo scorso. Dal 1960 al 1970 è Consigliera alla Provincia di Milano; dal 1970 al 1980 è Consigliera alla Regione Lombardia.

Nel 1976 il suo nome sale alla ribalta nazionale: dall’Icmesa di Meda si sprigiona una nube di diossina che contamina decine di chilometri quadrati di hinterland milanese e semina il panico. E’ l’incidente di Seveso. Laura Conti con coraggio e profonda umanità conduce una durissima campagna contro quanti intendono minimizzare il disastro ed eludere le responsabilità politiche e civili, assiste la popolazione spaventata e disinformata sulle conseguenze della nube tossica. Da questa esperienza nascono i libri Visto da Seveso e Una lepre con la faccia di bambina.

A Milano fa parte del direttivo della Casa della Cultura, fonda e dirige l'Associazione Gramsci.

Nella convinzione che la cultura ambientalista debba tradursi in pratica politica, lavora alla fondazione della Lega per l'Ambiente di cui è anche presidente del Comitato scientifico.

Il suo libro Che cos'è l'ecologia è una pietra miliare per il nascente ambientalismo italiano. Ci ha lasciato oltre venti libri e migliaia di articoli pubblicati su riviste scientifiche e quotidiani.

Dal 1987 al 1992 è deputato nazionale nelle liste del Partito comunista italiano.

Scompare a Milano il 25 maggio del 1993.

Nel 2006 il Comune di Milano la riconosce “cittadina benemerita” e il suo nome viene iscritto sulle lapidi del Famedio al Cimitero Monumentale, dove oggi è sepolta.
Fonti:
Laura Conti, Visto da Seveso, Feltrinelli, Milano, 1977
Laura Conti, Che cosa è l’ecologia, Mazzotta, 1977
Laura Conti, Una lepre con la faccia di bambina, Editori Riuniti, 1978
Chiara Certomà, Laura Conti, La Biblioteca del cigno, 2012
http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=8&tipo_articolo=d_documenti&id=30
http://www.xxdonne.net/wordpress/wp-content/uploads/2011/06/conti.pdf
http://scienzaa2voci.unibo.it/biografie/914-conti-laura
http://www.enciclopediadelledonne.it/index.php?azione=pagina&id=1311
http://www.deportati.it/bolzano_canale/default.html
http://www.anpi.it/donne-e-uomini/laura-conti/

 

Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons attribuzione - Condividi allo stesso modo.