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Fiordispina Lauri

(Spoleto, XVI secolo) 

Quando nel 1877 il professor Achille Sansi, storico delle vicende spoletine, ebbe l’incarico di riordinare la toponomastica della città, pensò a Fiordispina Lauri come modello di fedeltà coniugale e le intitolò la via che su tre lati gira intorno al seicentesco palazzo Mauri, oggi sede della Biblioteca Comunale.
 
Fiordispina Lauri ovvero il coraggio delle donne
di Paola Spinelli

Fiordispina Lauri è una figura borderline tra l’invenzione narrativa e la storia locale e se le sue vicende sono datate all’epoca della Controriforma; la sua fortuna come personaggio letterario risale alla seconda metà del XIX sec. quando, fatta l’Italia, si pose il problema del recupero della storia locale per individuare modelli morali da offrire ai giovani all’interno di un percorso educativo completamente laico in contrapposizione alla tradizionale pedagogia gesuitica o bigotta.
Fiordispina visse a Spoleto in un’epoca in cui alla donna erano richieste doti come la fedeltà, la sottomissione, l’umiltà, l’osservanza religiosa e alle bambine si insegnavano le virtù domestiche e il ricamo, non certo l’uso delle armi. Lei, tuttavia, si trovò a spezzare questi schemi mostrando grande coraggio e determinazione.
Fiordispina era la sposa di Filolauro Lauri un giovane nobile, gentile e innamorato; si era trattato di un matrimonio d’amore, cosa assai rara per quei tempi. Gli sposi abitavano in vaita Palazzo (le vaite erano i rioni in cui era divisa la città di Spoleto), tra la Rocca e la piazza del Mercato.
Il nobile Antonluigi  Migliorelli si invaghì di Fiordispina e, nonostante fosse da lei costantemente respinto, non perdeva occasione per insidiarla. La spiava di continuo per comparire ogni volta che il marito si allontanava, sempre senza risultato.  Il Migliorelli pensò allora di liberarsi del marito per avere campo libero e una sera avvenne la tragedia. La notte era  tiepida e Filolauro era uscito con gli amici fuori Borgo San Matteo sotto una splendida luna piena. Fiordispina, rimasta in casa, si era addormentata. A un tratto fu svegliata da un grido, riconobbe la voce di Filolauro, corse alla finestra e vide il Migliorelli che minacciava con la spada il suo sposo. Si precipitò in strada appena in tempo per scorgere a terra il marito ferito che stava per ricevere il colpo fatale. Senza esitare Fiordispina prese una lancia, la scagliò con tutte la sua forze contro il Migliorelli  e lo colpì mortalmente al petto.
Le guardie del Governatore arrestarono lei e il marito e li condussero alla Rocca, Fiordispina subì la tortura della corda, ma non parlò. Solo quando sentì che Filolauro veniva sottoposto allo stesso supplizio, Fiordispina confessò che lei, lei sola era colpevole, che aveva ucciso il Migliorelli per salvare la vita del marito. La gente di Spoleto cominciò ad affluire alla Rocca chiedendo la grazia e la liberazione di Fiordispina, c’era il  il rischio di una sommossa popolare, ma per fortuna lo stesso padre del giovane ucciso si recò dal governatore, riconobbe le colpe del figlio e perdonò Fiordispina che poté tornare a casa insieme al marito.

Fonti:
Marina Antonini, Fiordespina Lauri un’eroina popolare nella Spoleto del ‘500, edizioni Era Nuova, 2004.
http://www.myspoleto.it/citta/strade/Via-delle-cantoncelle.html
http://www.comunespoleto.gov.it/la-citta/monumenti/palazzo-mauri-e-mosaico-del-vi-secolo/
http://books.google.it/books?id=huadPRbMVbYC&pg=PA16&lpg=PA16&dq=fiordespina+lauri&source=bl&ots=A3RMun_exV&sig=Nc8fg89f_bDlxUm2vG9CCkQFjKM&hl=it&sa=X&ei=mE3eU_m-LrHn7Aa6m4GgCQ&ved=0CDAQ6AEwBDgK#v=onepage&q=fiordespina%20lauri&f=false

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Lavoratrici del Padule del Fucecchio

Alcuni antichi lavori femminili sono ricordati nella toponomastica toscana: via delle Fiascaie a Montelupo Fiorentino e a Empoli, via Trecciaiole a Montelupo Fiorentino; a Grosseto troviamo via delle Paduline.

Impagliatrici, trecciaiole e altri mestieri

di Laura Candiani

Il Padule di Fucecchio, anche se ormai ridotto a circa 1800 ettari, è la più vasta area umida interna d’Italia, quanto rimane di una palude molto più ampia, tradizionale bacino di caccia e pesca, che ha subito bonifiche in varie epoche, prima con i Medici e poi con i Lorena, soprattutto per eliminare la piaga della malaria e per rendere i terreni coltivabili. Intorno vi si affacciano alcuni paesi della Valdinievole, provincia di Pistoia e della provincia di Firenze, e aree di grande interesse naturalistico (colle di Monsummano, Cerbaie, Montalbano), mentre un tempo il Padule arrivava a comprendere larghe zone delle province di Pisa (Padule di Bièntina) e di Lucca (laghetto di Sibolla) e la vita si svolgeva sulle colline, quelle “castella” che sembrano fare da sentinelle alla pianura, sulle direttrici verso Lucca e verso Empoli.    Questa area, attraversata da numerosi corsi d’acqua, oggi è luogo di piacevoli passeggiate e visite con guide ambientali presso gli osservatori attrezzati, punto di passaggio ma anche di sosta e ripopolamento per tante specie di uccelli (fra cui oggi le cicogne); fino agli anni Cinquanta del XX secolo, però, era soprattutto una fonte inesauribile di cibo e di lavoro per le popolazioni di “padulini” (o padulani), sia mezzadri sia poveri contadini costretti alla sussistenza. Grazie al Padule si poteva sopravvivere e molti compiti erano riservati alle donne, talvolta anche ai bambini e, qualcuno ancora ricorda, «il Padule era la nostra fabbrica …».
Le donne erano forti, vigorose, temprate dal molto lavoro che ricadeva sulle loro spalle fin da piccole, riempiendo tutte le ore della giornata e rubando molto spesso il sonno durante le ore notturne.
Alle fatiche casalinghe (la cura della casa, dei bambini e degli anziani), si sommavano spesso altri carichi di lavoro sia in appoggio alle attività maschili sia sotto forma di impegno autonomo, una sorta di imprenditoria elementare e con pochi guadagni, fondamentali, però, per la limitata economia familiare.                  
Una delle principali attività femminili era la raccolta delle erbe palustri: la sara serviva per impagliare i fiaschi e il sarello per impagliare le seggiole e creare i “cappelli” delle damigiane. Si tratta di piante spontanee, un tempo molto diffuse. Si usavano anche il biòdano e la gaggìa (acacia) dai rami flessibili per realizzare il cesto robusto che veniva posto alla base della damigiana. Dopo la raccolta, l’erba seccata veniva lavorata, dandole la forma di lunghe trecce (realizzate dalle lavoranti dette appunto trecciaiole) che servivano anche per realizzare rustiche sporte.
Si raccoglieva poi la legna, indispensabile per scaldarsi e per cucinare, che però non doveva superare precise dimensioni e precise quantità, verificate dal “fattore”. Venivano raccolte anche le cannelle che servivano per realizzare cannicci di protezione per orti o coltivazioni e per far essiccare l’uva nei sottotetti (con cui produrre vin santo). Tutti gli avanzi delle erbe (“pattume”) si usavano come lettiera per gli animali per diventare poi letame; era evidentemente una società con una cultura naturalmente ecologica, senza sprechi e senza rifiuti. La saggina invece non era una pianta spontanea, ma veniva coltivata; se ne ricavavano soprattutto spazzole, scopini, scope che alimentarono anche una discreta attività economica, specie nel larcianese, fino agli anni ’70-80 del XX sec.
I campi erano quasi sempre orlati da filari di gelsi che avevano lo scopo principale di diventare nutrimento per i bachi da seta; e qui veniamo a un’altra attività essenzialmente femminile.  In molte case, in una stanza idonea ben disinfettata, si realizzavano in maggio i graticci coperti di foglie fresche di gelso e si allevavano i “filugelli”. Bambine e bambini davano una mano con gioia perché si trattava di un compito non faticoso e abbastanza semplice, almeno all’apparenza. I minuscoli animaletti (detti “semi” all’acquisto per quanto sono piccoli) mangiano voracemente e crescono, se sono in buona salute, in maniera vertiginosa: moltiplicano il loro peso 9.000 volte e la lunghezza per 30 volte! Ma sono delicati e se si ammalano (o non fanno il bozzolo) vanno eliminati immediatamente; al momento opportuno, smettono di mangiare e cominciano a fare il meraviglioso bozzolo; vanno scelti uno per uno e portati su nuovi ripiani coperti di frasche di olivo o fascette di rape o di stipa. Qui inizia l’ultima fase, finché il bozzolo (per un totale di circa 3 km. di filo) è concluso, la metamorfosi è avvenuta e la farfallina è costretta a morire prima di prendere il volo. I bozzoli venivano infatti gettati in acqua bollente e poi si procedeva nell’essiccatoio, prima delle fasi conclusive della filatura e, infine, della tessitura.  Ancora una volta un’attività economica sommersa, difficilmente quantificabile, ma certo un aiuto per le finanze familiari visto che il patto con il padrone prevedeva di fare a metà del ricavato.                                             
Nelle economie di sussistenza è normale sfruttare tutto l’esistente; in questa area erano abbondanti ricci, ghiri, tassi, istrici, volpi, conigli selvatici, granchi di fiume, chiocciole, oltre ai consueti animali da cortile, di cui si occupavano le donne e che poi si vendevano al mercato, insieme alle uova, o si portavano direttamente nelle case dei compratori.  Si trattava di un’alimentazione davvero povera, e non per moda o per consiglio medico: pochissimo olio (si usavano strutto, lardo e pancetta), poco maiale, niente manzo, raro il pollame (solo la domenica e le “feste comandate”). Con i frutti dell’orto, presenti in tutte le stagioni per la loro varietà, le donne realizzavano le marmellate e con i pomodori la conserva. Si raccoglievano i funghi e si mangiavano frutti oggi quasi del tutto scomparsi: le sorbe, le more del gelso, le bacche dei corbezzoli, le more di rovo; si cucinavano tutte le erbe commestibili per fare zuppe e frittate e persino i fiori di alcune piante (come la gaggìa). Le pelli dei conigli, opportunamente conciate, diventavano colletti per i cappotti femminili oppure manicotti o calde e ben imbottite coperte per i lettini e le culle.
Il Padule offriva grande abbondanza di pesce “povero” e liscoso, ma nutriente e versatile, che garantiva alimento alla famiglia. Le donne impegnate in mansioni di cernita e pulitura del pesce e, per quanto riguarda la caratteristica cattura dei ranocchi, alimento squisito da veri intenditori, le donne intervenivano per spellarli e cucinarli. Anche la caccia era un modo per procacciarsi un po’ di cibo proteico: le donne, spesso accompagnate dalla prole, catturavano gli uccelli più comuni, allodole, passeri, rondoni, balestrucci, con mezzi vari: lacci, reti, tagliole, pània, pratiche oggi inaccettabili e proibite, ma che la fame giustificava. Poteva avvenire persino lo svezzamento con la carne tenera degli uccellini.              Le donne lavoravano sempre. Anche quando potevano sembrare rilassate ed erano sedute, mentre il paiolo bolliva sul fuoco e i bambini piccoli dormivano, rammendavano e cucivano perché i vestiti, come si sa, si scorciavano, si allungavano, si “rovesciavano” addirittura e si riutilizzavano finché non cadevano a pezzi; ricamavano il corredo, lavoravano all’uncinetto o facevano la calza (maglie, calzini, camiciole: tutto era rigorosamente realizzato in casa …). Riparavano o realizzavano le reti da pesca e si occupavano dell’orto, raccoglievano ed essiccavano la camomilla spontanea ed erbe curative, come la malva il cui infuso è un ottimo rinfrescante.  In molte famiglie si teneva anche un telaio perché si potessero tessere lenzuoli, asciugamani, tovaglie di canapa, lino e cotone. Qualche donna, mentre andava al fosso, al fiume o al lavatoio, già che c’era prendeva in carico il “bucato” altrui, trasformandolo in una piccola ulteriore rendita. Le famiglie patriarcali, allargate a nonne, zie, cognate, nuore costituivano anche un mondo di saperi, di esperienze, di solidarietà, in assenza di asili e case di riposo; non mancavano poi i momenti di allegria e di convivialità, come la vendemmia e la battitura del grano.

Fonti:
AA.VV., Il lavoro delle donne. Attività femminili in Valdinievole tra Ottocento e Novecento, Buggiano (PT), Vannini, 2004 (a cura dell’Istituto Storico Lucchese- sezione Storia e storie al Femminile)
Borghini-Cecchi, Passato nostro. Vita, mestieri, costumi a Ponte Buggianese nella prima metà del Novecento, Pisa, Pacini editore, 2007
Borghini-Cecchi-Trinci, Il porto e la fattoria del Capannone, Pisa, Pacini editore, 1999
Ciuffoletti-Conti (a cura di), Ponte Buggianese.Un secolo di storia(1883-1983),Firenze, Centro editoriale toscano,1995
Francesca Romana Dani (a cura di ), Il Padule di Fucecchio e il Laghetto di Sibolla, Firenze, Editori dell’Acero,1999 (a cura del centro di Ricerca,Documentazione  e Promozione del Padule di Fucecchio)

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Paola Lombroso

(Pavia 1871 – Torino 1954) 

A differenza del padre Cesare Lombroso, ampiamente celebrato nella toponomastica italiana, mancano delle intitolazioni alla scrittrice e pedagogista Paola Marzola Lombroso anche a Pavia, città che le diede i natali, e Torino, dove trascorse la sua vita spendendosi in attività filantropiche rivolte all'infanzia che le valsero la medaglia d'oro dei benemeriti della Pubblica Istruzione nel 1950. Il gruppo di Toponomastica femminile ha partecipato nel 2014 a un bando del 1° Circolo didattico di Cuneo proponendo il suo nome per l'intitolazione di una scuola.
 
Paola Lombroso, istruzione come emancipazione
di Saveria Rito
 

Nacque a Pavia il 14 marzo 1871 da Nina De Benedetti e Cesare Lombroso, celebre antropologo e criminologo di origine ebrea, che le diede questo doppio nome per omaggiare il suo maestro Paolo Marzolo. La famiglia si trasferì a Torino nel 1876, una città che si stava rapidamente aprendo al progresso industriale e scientifico: in quell'ambiente culturalmente vivace, Paola e la sorella Gina ricevettero un'educazione paritaria rispetto ai tre fratelli e cominciarono presto a collaborare all'Archivio di psichiatria, rivista che il padre aveva fondato nel 1880. Paola pubblicò in quegli anni diversi articoli anche sul Fanfulla della domenica, Vita moderna e la Gazzetta letteraria, concentrandosi sulla pedagogia e la letteratura per l'infanzia, e scrisse alcune novelle e racconti sulla rivista di Luigi Capuana, Cenerentola.
Fondamentale nella sua formazione culturale e personale fu l'incontro con Anna Kuliscioff, una donna degna di ammirazione poiché impegnata negli studi e nella politica, che frequentava casa Lombroso e avvicinò Paola e la sua famiglia al socialismo. Ne seguì, dunque, una collaborazione giornalistica propagandistica con Il grido del popolo, Per l'idea, Germinal. Fu nel 1896 che Paola e Gina Lombroso, su suggerimento di Kuliscioff, fondarono a Torino "Scuola e famiglia", un doposcuola per i figli di famiglie operaie  che si inseriva nella lotta all'analfabetismo. Ben presto furono coinvolte tutte le scuole elementari di Torino, col sostegno del comune, e il successo dell'iniziativa convinse Paola Lombroso dell'importanza di istruire le nuove generazioni, della possibilità di far progredire le fasce sociali più deboli e superare le barriere del determinismo positivista.
Nel 1899 sposò Mario Carrara, allievo di suo padre Cesare, uno tra i pochi docenti universitari che nel 1931 non avrebbero prestato giuramento di fedeltà al Fascismo perdendo la cattedra.
Agli inizi del Novecento continuò a collaborare con diverse testate giornalistiche, come l'Avanti, denunciando le condizioni delle classi più svantaggiate e, proprio dall'esperienza nella carta stampata e nella pedagogia, le venne l'idea di realizzare un giornale interamente dedicato all'infanzia. Propose il progetto a Luigi Albertini, allora direttore del Corriere della sera, e il 27 dicembre 1908 vide la luce il primo numero del Corriere dei piccoli, allegato settimanale su cui Paola teneva delle rubriche, come Corrispondenza, firmandosi Zia Mariù. Nonostante l'ottima riuscita della sua iniziativa ottenne soltanto un incarico di collaborazione col giornale, oggetto di contenzioso con Albertini che le preferì nella direzione Silvio Spaventa Filippi, e dopo ripetute divergenze lasciò il Corriere nel 1911 per dedicarsi al nuovo progetto delle "Bibliotechine rurali", guardato con un certo sospetto dalla redazione di via Solferino. Erano nate a seguito della richiesta inviata a Zia Mariù da Liduina Valz, maestra di Riabella Balma nel biellese, che si trova a pagina 3 della Piccola Posta nel Corrierino del 25 luglio 1909: "...mi scrive domandandomi d'interessare i miei piccoli a mandar dei libri per la bibliotechina della sua scoletta [...] quello di arricchiere con qualche libro almeno le scuole rurali è sempre stato uno dei miei più cari sogni. Ed ecco che cosa propongo. Tutti i bambini devono quest'estate cercar in qualche modo di raggranellare dei soldi per comprare dei libri da mandare non solo alla scuoletta di Riabella Balma - questa sarà la prima - ma a tutte le altre che si possa, 10 volumi per scuola". All'appello lanciato  dalle pagine del Corriere  da Zia Mariù risposero immediatamente da tutta Italia con centinaia di donazioni (di libri oppure francobolli, cartoline da vendere e denaro), lei preparava i pacchi pieni di testi e li spediva alle maestre che ne facevano richiesta:  al 25 dicembre 1910 si contavano 255 bibliotechine! A p. 15 del Corriere dei piccoli del 23 gennaio 1910, scriveva entusiasta: "Figuratevi che l'altro giorno ho condotto una mia amica nella camera dove son pronte per essere spedite altre trenta bibliotechine. A dir trenta bibliotechine è niente. Se voi entraste nella stanzetta vi parrebbe un finimondo. Pacchi sul tavolo, sul letto, sulle sedie, pare un magazzino di libraio in rivoluzione". Come ha notato Delfina Dolza a p. 128 di "Essere figlie di Lombroso", dai nomi della rubrica Corrispondenza e del successivo Bollettino delle bibliotechine rurali viene fuori un "circuito femminile" dietro quell'impresa filantropica, fatto di bambini e bambine e principalmente di giovani maestre aperte ai nuovi metodi pedagogici.
Inoltre, si deve sempre a Paola Lombroso l'inaugurazione nel 1915 della "Casa del sole" di Torino per ospitare i figli sani dei tubercolotici ma, con l'affermarsi del regime fascista e soprattutto dopo il rifiuto di giuramento del marito, dovette lasciare tutte le istituzioni sociali da lei fondate.
Nel 1943, per via dell'approvazione delle leggi razziali, si rifugiò in Svizzera presso la sorella e rientrò in Italia dopo la fine della guerra e diversi lutti familiari. Fece riaprire la "Casa del sole" e nel 1951 riavviò il meccanismo di solidarietà delle bibliotechine.
Numerosi furono i riconoscimenti per il suo costante e innovativo impegno, come la medaglia d'oro dei benemeriti della Pubblica Istruzione ricetuta nel 1950. Concluse la sua vita a Torino il 23 gennaio 1954.

Fonti:
Il secolo del Corriere dei Piccoli: un'antologia del più amato settimanale illustrato, a cura di Fabio Gadducci e Matteo Stefanelli, Milano,  Rizzoli,  2008
Salotti e ruolo femminile in Italia: tra fine Seicento e primo Novecento, a cura di Maria Luisa Betri ed Elena Brambilla, Venezia, Marsilio, 2004
Stefania Pisano, Lombroso Paola in Donne del giornalismo italiano. Da Eleonora Fonseca Pimentel a Ilaria Alpi. Dizionario storico bio-bibliografico secoli 18.-20., a cura di Laura Pisano, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 226-227
Delfina Dolza, Essere figlie di Lombroso. Due donne intellettuali tra '800 e '900, Milano, Franco Angeli, 1990
Paola Di Stefano, Paola Lombroso, in Enciclopedia delle donne  http://www.enciclopediadelledonne.it/index.php?azione=pagina&id=61
http://it.wikipedia.org/wiki/Paola_Lombroso_Carrara
Giuseppe Zaccaria in http://www.treccani.it/enciclopedia/paola-lombroso-carrara/

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Elena Luzzato

(Ancona 1900 – Roma 1983) 

Non risulta alcuna area di circolazione dedicata alla prima architetta italiana, né ad Ancona, città natale, né a Bracciano, Taormina, Napoli, dove lasciò tracce visibili del suo ingegno, né a Roma,  città di studio e di lavoro, dove infine concluse la sua vita.
 
Elena Luzzato, pioniera dell’architettura “rosa”
di Livia Capasso
 
Elena Luzzato è stata la prima donna in Italia  a laurearsi in architettura: si era iscritta nel 1921 alla Regia Scuola Superiore di Architettura di Roma, l’anno stesso in cui l’Istituto iniziò la sua attività, e ottenne il diploma nel 1925. La donna “angelo del focolare” dimostra che il focolare sa anche costruirlo, smentendo un’affermazione che Mussolini ebbe a fare in un discorso del 1927: “La donna  è estranea all’architettura, che è sintesi di tutte le arti; essa è analitica, non sintetica. Ha forse mai fatto l’architettura in tutti questi secoli? Le si dica di costruirmi una capanna non dico un tempio! Non lo può".
Non meraviglia la posizione antifemminista del duce e conosciamo la sua disistima sulla capacità della donna di sentirsi autonoma e realizzata al di fuori delle mura domestiche. Per lungo tempo la professione dell’architetto è stata appannaggio maschile: si riteneva poco adatta a una donna, costretta a cimentarsi con le varie fasi della progettazione e a seguire la messa in opera nei cantieri. Ma intanto diverse donne diventavano architette: le romane Anna Luzzatto, detta Annarella, madre di Elena, laureatasi due anni dopo la figlia e Attilia Travaglio Vaglieri , progettista di palazzi, impianti sportivi e ricreativi in puro stile littorio (vincitrice di un concorso Internazionale ad Alessandria d’Egitto, non poté ritirare il premio in ossequio alle leggi musulmane che lo vietavano ad una donna); arredatrici di interni come Luisa Lovarini ed Elvira Luigia Morassi, che predilessero uno stile sobrio e funzionale; Carla Maria Bassi, autrice della Cassa di Risparmio di Milano; la napoletana Stefania Filo, che progettò giardini pubblici e sanatori e partecipò alla realizzazione della Mostra delle Terre Italiane d'Oltremare a Napoli voluta da Benito Mussolini. Queste sono solo alcune tra le architette più attive tra gli anni venti del Novecento, o “architettrici”, come allora venivano chiamate. Non ebbero vita facile: l’architettura “rosa” veniva accusata di essere timida, troppo attenta agli spazi familiari, in realtà fu un’architettura dalle linee semplici e pulite, funzionale, razionale, e sensibile alla luce, apprezzabile per  le soluzioni tecniche  adottate e per la chiarezza delle concezioni planimetriche.
 Appena laureata, Elena Luzzato entrò nell’Ufficio Tecnico del Comune di Roma e fino al 1934 fu assistente alla cattedra del prof. V. Fasolo. Partecipò e vinse numerosi concorsi. Già nel 1928 progettò un villino a Ostia per il gerarca fascista Giuseppe Bottai e sempre a Ostia vinse un concorso per un gruppo di villini, in seguito non realizzati. 
Oltre all’edilizia residenziale di villini, palazzine e case popolari, per cui spesso collaborò con il marito ing. Felice Romoli (realizzò ville a Bracciano - Behrnard, 1962 - e a Taormina - M. Bentivoglio, 1962), progettò numerose opere pubbliche.
Vinse concorsi per progetti di tipologie assai diverse: dalle steli funerarie (Verano) alle stazioni, dai fabbricati rurali coloniali (Somalia) a sanatori e ospedali (Viterbo, Bolzano), dalle chiese alle scuole, dai cimiteri militari e civili a negozi e mercati…
Tra le opere pubbliche realizzate ricordiamo il Cimitero di Prima Porta (Roma, 1945), il mercato di Primavalle (Roma, 1950), la scuola media di Villa Chigi (Roma, 1960)  e l’attuale mercato coperto di Piazza Alessandria (Napoli), ancora in uso.
Nel dopoguerra fu  capogruppo per la progettazione di case popolari per l'Istituto INA-CASA nell' Italia meridionale.

Fonti
Katrin Cosseta, Ragione e sentimento dell'abitare. La casa e l'architettura nel pensiero femminile tra le due guerre, 2000,  Architecture

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