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Rosa Fazio Longo 

(Campobasso, 1913 – Roma, 2004)

Dalla ricerca-azione delle/degli studenti di una scuola di Termoli, fra gli istituti partecipanti al Concorso nazionale di Toponomastica femminile “Sulla vie della parità”, è nata l’idea di intitolare a Rosa Fazio una strada della cittadina molisana. La proposta sarà inoltrata all’amministrazione comunale di Termoli per l’identificazione dell’area e l’approvazione finale.

Una donna che ha lottato per i nostri diritti

di Barbara Bertolini

Rosa Fazio Longo […] nata in un’agiata famiglia molisana non ha mai visto la mamma, donna Evelina de Stefano, ai fornelli o con la ramazza in mano, ma sempre intenta a leggere, a studiare, ad intrattenere gli ospiti con brio, stupendoli con la sua profonda cultura, rinnovando così la tradizione del salotto letterario della sua infanzia. Evelina de Stefano apparteneva ad una famiglia di intellettuali romantici, di garibaldini. […]
Il padre di Rosetta, Giuseppe Fazio proveniva, invece, da un ambiente borbonico di proprietari terrieri che, verso la fine del Settecento, avevano comperato sia il castello di Ferrazzano  che il titolo baronale. L’avvocato Giuseppe Fazio era stato uno dei  primi ufficiali a morire al fronte durante la Grande Guerra. […] La bambina, nata il 6 luglio del 1913, due anni prima del luttuoso evento, non aveva nessun ricordo del genitore. […]
Rimasta vedova all’età di 33 anni, Evelina de Stefano abbandona Campobasso per Foligno dove sua sorella le ha trovato un posto come insegnante elementare. La nobildonna, successivamente, per permettere (alle figlie
N.d.R.)  di laurearsi, si trasferisce, tra mille difficoltà, dalla città umbra a Roma.
Durante gli studi universitari, Rosetta incontra Leonardo Longo, un giovane ingegnere che lavora presso il Comune della capitale. I due si sposano nel 1934. Lei ha solo 21 anni. L’anno dopo nasce il primo figlio, Pietro, destinato a seguire le sue orme: diventerà un uomo importante nel mondo politico italiano. 
La maternità non la distoglie dai suoi prediletti studi. Infatti riesce a laurearsi in lettere e in legge e a entrare nel mondo della scuola. Tra il ‘43 e il ’44, in una Roma affamata, priva di trasporti e di servizi, la ragazza vive da  protagonista poiché entra nell’Associazione degli Insegnanti Medi, un’organizzazione clandestina di lotta contro i nazisti che si è costituita nelle scuole romane durante i nove mesi dell’occupazione di Roma. […] E Rosetta all’impegno umano affianca quello politico iscrivendosi, con la collega Laura Lombardo Radice Ingrao, al nascente Comitato di iniziativa dell’Unione Donne Italiane. Lo scopo di questo Comitato era quello di offrire una sponda al movimento dei “Gruppi di difesa della donna” (GDD) che, sotto l’egida del CNL, operavano nell’Italia occupata dai nazisti e, al tempo stesso, di mobilitare sul terreno democratico e chiamare all’attività politica e all’azione di ricostruzione del Paese le donne dell’Italia liberata. […] la molisana è entrata in un movimento clandestino; ha lottato contro le ingiustizie del fascismo rischiando la prigione;  si è  mossa all’interno della città, tra mille pericoli, con mezzi di fortuna; si  è recata a Bari e Taranto per accogliere i reduci dell’Albania; ha difeso, sostenuto e aiutato tante donne; è diventata una componente attiva di un movimento politico. 
Rosetta […], non insensibile al richiamo di collaborazione delle antifasciste comuniste Adele Bei e Laura Lombardo Radice Ingrao, entra anche nella neonata associazione Unione Donne Italiane (UDI) sbocciata a Roma nel 1944 come atto di volontà di “un piccolo gruppo di donne senza sede, senza mezzi e, ciò che più conta – dice lei 
̶  senza neppure l’esperienza di quel che doveva essere una grande associazione femminile."
La Fazio ha solo 30 anni ma è tra le più attive del suo partito, insieme a Giuliana Nenni.
Va a Parigi come delegata di questa associazione nel novembre del 1945. È tra le relatrici  al Congresso di unificazione tra l’Udi e i Gruppi nazionali di difesa della donna, che avevano operato nell’Italia occupata fino alla Liberazione […].
L’esponente socialista conduce le sue battaglie anche sulle pagine di
Noi donne la rivista dell’Udi nata alla fine del 1944. I temi che affronta e che le stanno particolarmente a cuore sono quelli della scuola da riaprire al più presto. Le scuole a Roma, infatti, sono state requisite dagli sfollati, dagli Alleati o come ospedali. Rosetta chiede alla gente dei quartieri di guardarsi intorno e di indicare i palazzi rimasti vuoti dove si potrebbero trasferire queste attività, per liberare le aule e permettere agli scolari di ritornare a scuola, poiché è quasi un anno che non frequentano più le lezioni.
Ma si interessa anche dei diritti delle donne nel loro insieme. Nel numero del 31 maggio 1945, […] esorta infatti le donne a conoscere e a far applicare le leggi per la tutela dei loro diritti. Con una delegazione, Rosetta si presenta al Ministro della Giustizia, Umberto Tupini, che fa parte del Governo di Liberazione Nazionale, per illustrare una bozza di proposta sui nuovi diritti della famiglia.
Le delegate dell’Udi chiedono, infatti, al ministro che il codice civile dichiari che la società coniugale debba svolgersi liberamente nel suo interno e possa essere rappresentata dall’uno o dall’altro dei coniugi a tutti gli effetti civili e penali; che la potestà sui figli sia attribuita ad entrambi i coniugi sui quali gravano uguali responsabilità e uguali oneri. Chi potrebbe negare che è la madre ad occuparsi dei figli? – afferma Rosetta – ad allevarli ad educarli, a dar loro quei principi morali che tanta influenza hanno sulla loro formazione? Eppure – dice la molisana – legalmente la madre non ha sui figli alcun potere, alcuna autorità.
La Fazio tocca altri due punti fondamentali […]: le disposizioni del codice penale che non può avere due pesi e due misure in caso di adulterio, attribuendo alla donna maggiore responsabilità e l’esclusione delle donne dalla carriera della magistratura. […] Il calendario degli impegni politici per l’esponente politica tra il 1945 e il ’46 è incalzante. Appena vinta una battaglia politica eccola di nuovo sulla breccia per il referendum del 2 giungo 1946 dove votano per la prima volta anche le donne. […]
Viene eletta Segretaria generale dell’Udi, è successivamente eletta Segretaria generale della nascente “Federazione mondiale delle donne” (FMD), che raduna le donne comuniste e socialiste di tutto il mondo, la cui Presidente è la russa Irina Fursteva. […] Nel 1948 le viene offerta dal Partito socialista la candidatura a deputata per le elezioni al primo parlamento della neonata Repubblica italiana. La Fazio ha 35 anni ed è pronta per un impegno politico di alta responsabilità. È eletta nel Collegio unico nazionale. Rimarrà in carica dal 1° giugno 1948 al 24 giugno del 1953, per una sola legislatura. Nella veste di deputata si interesserà soprattutto di problemi legati alla scuola, alla maternità, al diritto al lavoro e farà parte della commissione speciale per la ratifica dei decreti legislativi emanati nel periodo della Costituente. […]
L’esponente politica sarà Segretaria Generale dell’Udi dal 1947 sino al IV Congresso del 1959. […] Muore nella sua casa romana il 17 dicembre 2004 […].  

Fonti:
Il testo è tratto dalla biografia di Rosa Fazio Longo pubblicata nel libro di Rita Frattolillo e Barbara Bertolini, Il tempo sospeso. Donne nella storia del Molise, Campobasso, 2007  e in http://donneprotagoniste.blogspot.it/2016/02/rosa-fazio-longo.html)

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 Le figurinaie di Pontito in Valleriana

di Laura Candiani

 

A Coreglia Antelminelli (Lucca) esiste il Museo della figurina di gesso e dell'emigrazione. A Lucca, nel palazzo della Provincia, il Museo Paolo Cresci per la storia dell'emigrazione ospita la collezione dei gessi della raccolta Nannetti-Vincenti. In Sicilia troviamo varie intitolazioni, tutte al maschile, riferite ai “gessai”, talvolta ai “gessaioli” (o “gessaiuoli”) che si possono intendere sia come operai nelle cave sia come artigiani.

Pontito sorge a 760 m. s.l.m. ed è il paese più a nord della Valleriana, un'area collinare sopra la cittadina di Pescia, in provincia di Pistoia. L'abitato ha una curiosa forma a ventaglio, con le stradine parallele da est a ovest su cui sorgono antiche case in pietra, mentre le vie di collegamento da nord a sud sono molto ripide.
A causa delle scarse risorse e delle dure condizioni di vita, negli anni 1921-36 si ebbe un forte fenomeno di emigrazione, temporanea o definitiva, quando molti uomini o intere famiglie partirono per svolgere altrove altri mestieri che potessero assicurare un futuro dignitoso; fra questi l'antico mestiere di figurinaio (o gessaio, figurista, venditore di gessi e statuine). Questa attività si praticava da secoli in varie zone della Toscana, nella Lucchesia, in Garfagnana, nella valle del Serchio e della Lima; ne descrivono la storia sociologi, storici, scrittori (come Renato Fucini). Una leggenda diffusa racconta addirittura che Cristoforo Colombo, appena sbarcato in America, trovò proprio un figurinaio lucchese pronto a vendergli la sua merce.

Per svolgere questa attività era indispensabile avere nei laboratori una fonte di calore, acqua abbondante, scagliola (o gesso) e gli utensili appositi, compresi pennelli e colori; infatti la statuina-modello si realizzava in scagliola, poi si ungeva e si ricopriva con uno strato di scagliola liquida di circa tre centimetri, prima una metà, poi l'altra, formando una sorta di “camicia”. Una volta seccato, questo involucro era il guscio delle successive statuine, lo stampo veniva svuotato e si legava bene, così da una fessura si versava la scagliola liquida. Tenendolo stretto, si girava e si scuoteva perché non rimanessero spazi vuoti. Si faceva seccare, utilizzando talvolta anche i forni per accelerare il procedimento. Quando era ben secca, la statuina bianca veniva estratta, rifinita al banco e poi dipinta a mano, per essere in seguito venduta in fiere e mercati, oppure nei magazzini o anche a domicilio. La “camicia” veniva usata finché era possibile, per creare sempre lo stesso soggetto. Secondo gli studiosi, i lavori di precisione nelle fasi più delicate e finali erano molto spesso svolti dalle donne che rappresentavano circa un terzo della manodopera e per la loro abilità costituivano un elemento determinante; non è poi da sottovalutare l'apporto economico alle modeste finanze familiari.
Come spesso accade nella storia del lavoro femminile, gli studi e i documenti sono scarsi e i censimenti sono vaghi a proposito di alcune attività a carattere temporaneo o locale (come quella di figurinaia); tuttavia restano ancora alcune preziose testimonianze orali che raccontano anche di grosse spedizioni in Paesi stranieri (Belgio, Gran Bretagna, Francia, Olanda) e di esperienze lavorative vissute all'estero.
Prendiamo il caso di Giuliana Perpoli che aveva imparato il mestiere a Bagni di Lucca dove faceva la decoratrice. Trasferita a Edimburgo si sposò, ma rimase presto vedova; ciò che sapeva fare le tornò utile e cominciò il mestiere di figurinaia in proprio; divenne anche un'abile riparatrice di statue e figure spesso presenti in chiese e conventi. Un altro caso di emigrazione riguarda due coniugi, Erminio e Malfisa, che da Pontito si trasferirono con i figli a Parigi dove un parente già lavorava nel settore. Nel suo laboratorio le donne davano quel tocco di colore, inserivano quel dettaglio che faceva la differenza; uscivano dalle loro abili mani statuine a soggetto sacro e personaggi del presepe, ma anche immagini di celebri musicisti francesi o fermacarte o fermalibri che raffiguravano i tre moschettieri oppure Esmeralda e Quasimodo e altri noti grotteschi della cattedrale di Notre-Dame.
Particolarmente interessante è la vita di Libia Papi, riferita dallo storico Cesare Bocci. Libia infatti lavorò non solo a Pontito, ma anche a Treviso e a Milano, alternando all’artigianato altre attività come la sarta, la ricamatrice, la cameriera. La ditta fondata dallo zio Lino a Milano realizzava almeno 150 diversi soggetti a carattere prevalentemente religioso (Madonne, Sacra Famiglia, angioletti), ma anche ballerini (in coppia o singoli), bambini, animali, persino piatti, cornici per specchi e fotografie. Il lavoro qui era più veloce e di tipo quasi industriale perché si utilizzavano le pistole a spruzzo per dare il colore sulle superfici più ampie, mentre i dettagli si facevano sempre con il pennellino.
Quando Libia e i familiari decisero di ritornare nel paese d'origine, impiantarono l’attività nel centro di Pontito; il trasporto della merce avveniva in modo piuttosto avventuroso, addirittura a spalla per le ripide stradine fino alla fine del paese, poi con un’auto fino alla stazione ferroviaria di Pescia, da dove le casse partivano per raggiungere il Nord Italia (da Genova a Bolzano), oppure Roma e altre località del Lazio, Lecce, Foggia e le province toscane. La ditta Papi ebbe l'esclusiva di un soprammobile pubblicitario per un famoso amaro e realizzava statuine di Pinocchio in molte varianti, da vendersi a Collodi presso il parco. Un accordo con vari mobilifici della zona garantiva, a chi acquistava una camera da letto, una tavola in legno o un medaglione con soggetto sacro, realizzato dalle mani sapienti di Libia, da porre al posto d'onore.
Nel '60 la ditta fu costretta a chiudere perché questo genere di artigianato non aveva più mercato a causa dei nuovi gusti delle famiglie italiane e della plastica, il nuovo materiale che stava sostituendo ceramica, legno, gesso. Così le graziose statuine, fragili, ingenue e imperfette ma pur sempre uniche, finirono dai rigattieri e nei mercatini per la gioia delle persone appassionate.

Fonti

Cesare Bocci, La donna e l'artigianato artistico. Il caso delle figure di Pontito in  Valleriana, in AA.VV., Il lavoro delle donne. Attività femminili in Valdinievole fra Ottocento e Novecento, a cura dell'Istituto Storico Lucchese (sezione Storia e Storie al Femminile), Vannini, Buggiano, 2004
Ave Marchi, Andavano alle figure con Canova e Donatello, quaderno della “fondazione Cresci”, 2016
Paolo Tagliasacchi, Figure e figurinai nel XX secolo, Comune di Coreglia Antelminelli, 2002
iltirreno.gelocal.it (10-12-2015)
www.comune.coreglia.lu.it/
www.regioni.it (9-12-2015)

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Anna Franchi

Livorno, 1867- Milano, 1954

 

Le sono intitolati un largo a Livorno e una via a Olbia.

 

 

Paladina dei diritti femminili

 

di Laura Candiani

 

Anna Franchi è stata una pioniera del femminismo, attenta e sensibile ai diritti delle donne in un'epoca in cui se ne parlava con prudenza e i soprusi venivano taciuti per ipocrisia e perbenismo. Non solo, è stata anche musicista, scrittrice, traduttrice, giornalista, biografa e critica d'arte, una intellettuale completa i cui interessi hanno spaziato in molteplici campi.

È nata nel 1867, quando Firenze è capitale del Regno d'Italia, figlia unica di una famiglia livornese benestante; Cesare, il padre, fa il commerciante, la madre, Iginia Rugani, una casalinga molto riservata.
Anna ha maggiori affinità con il padre e la nonna Ernesta e con loro condivide gli interessi e l'amore per la letteratura e la musica.

Comincia presto ad attingere alla biblioteca paterna e a leggere avidamente Giusti, Dumas, Guerrazzi, romanzi sentimentali, patriottici e storici. Diventa un'ottima pianista e a soli 16 anni, nel 1883, sposa il suo insegnante, il violinista Ettore Martini. La coppia si trasferisce ad Arezzo e poi a Firenze (1889), città nelle quali il marito è direttore teatrale. Fra una tournée e l'altra in cui si esibiscono insieme, nascono quattro figli: Cesare, Gino, Folco (che muore bambino) e Ivo; tuttavia il matrimonio è infelice: Ettore contrae debiti, mantiene a fatica il lavoro solo grazie all'impegno della moglie, la tradisce, non sa fare il padre, sarebbe un bravo violinista ma è incostante e instabile. Nel 1903 parte per l'America con i due figli maggiori. Di fatto il matrimonio è finito da tempo e Anna è stata costretta a vendere la casa di Livorno e a mantenere i figli affidati legalmente al padre. Intanto trova il tempo per migliorarsi studiando con Ettore Janni ed Ernesta Bittanti, allora universitari molto promettenti. Inizia a scrivere e comincia a pubblicare: escono le novelle Dulcia-Tristia (1898) e un libro illustrato per bambini (I viaggi di un soldatino di piombo).

Negli anni di fine secolo si impegna nella Lega Femminile (che aderisce alla Camera del Lavoro) e poi nella Lega Toscana; è attiva a fianco delle “trecciaiole” nelle agitazioni del biennio 1896-97 e, pur non essendo iscritta ad alcun partito, è vicina all'ideologia socialista.

Nel 1900 è ammessa nell'associazione dei Giornalisti milanesi (seconda donna, dopo Anna Kuliscioff) e scrive su quotidiani e periodici, fra cui il “Corriere dei piccoli” (con lo pseudonimo “nonna Anna”). Con brevi articoli di informazione artistica e corrispondenze, da Venezia e Parigi per esempio, collabora a varie testate; risulta essere la prima donna editorialista della “Lombardia” e della “Nazione”. 

Gli anni 1902-3 rappresentano il periodo in cui più si impegna per una causa che le sta a cuore: il divorzio. Il Codice civile (1865) e l’enciclica Arcanum divinae sapientiae (1880) attraverso il potere dello Stato e della Chiesa ribadiscono la subordinazione femminile all'uomo padrone e signore in famiglia, ma anche nella vita sociale e professionale. Le donne non possono conseguire titoli di studio superiori, né decidere sui propri beni né stipulare contratti; la moglie deve condividere la residenza scelta dal marito e deve avere la sua autorizzazione se vuole esercitare il commercio o compiere operazioni bancarie.
Questa «mostruosa catena» (Sibilla Aleramo) si spezza nell'opera di Anna perché la protagonista del suo romanzo Avanti il divorzio rifugge le convenzioni e un matrimonio iniziato con un vero e proprio stupro: «La prese brutalmente, violando quella purezza che gli si abbandonava quasi con incoscienza, la prese spudoratamente, nulla attenuando con gentilezza amorevole, senza risparmiarla (...)». Significativi i nomi della coppia: perché il riferimento autobiografico risulti ben chiaro, cambiano solo i cognomi (Mirello lei e Streno lui). Anna Mirello cresce, matura, rischia e cambia grazie a un nuovo amore, ma soprattutto grazie alla propria realizzazione attraverso il lavoro, la letteratura, l'indipendenza economica. La vera nemica della donna infatti è la rassegnazione (come spiegherà Anna Franchi nel saggio Il divorzio e la donna). Interessante risulta anche il confronto con la posizione assunta dalla contemporanea Grazia Deledda che, nel medesimo anno 1902, pubblica il romanzo Dopo il divorzio, mentre veniva discussa e respinta la proposta di legge del Governo Zanardelli.

Nel 1909 compare il secondo importante romanzo, Un eletto del popolo: in cui la protagonista Mariangela viene abbandonata con un figlio da un deputato avido e arido preoccupato dalla carriera. Una vicenda che non può non ricordare quella personale vissuta dalla scrittrice e che rappresenta comunque una vittoria del coraggio e dell'anticonformismo perché la “sora Lange” rifiuta il cognome dell'uomo per il figlio e lo dispensa dall'obbligo del mantenimento.

Nel 1910 esce un romanzo in forma di diario, Dalle memorie di un sacerdote, in cui Angelo, curato nella campagna toscana, soffre per le maldicenze dopo aver salvato da morte certa un neonato abbandonato sul greto di un fiume dalla madre disperata. Don Angelo prova pietà, sa capire e perdonare, mentre il Codice penale (art. 369) distingue fra omicidio e infanticidio (“omicidio scusato”) e libera l'uomo (padre/seduttore) da qualsiasi responsabilità. Per di più il Codice civile (art. 340) proibisce la ricerca del padre con ipocrite motivazioni.  Oppresso dalla cattiveria dei parrocchiani e dai dubbi sulla propria fede, disgustato dai compromessi e dall'autorità ecclesiastica, don Angelo arriva al suicidio.

Nel periodo fiorentino Anna frequenta assiduamente i Macchiaioli e in particolare lo studio di Telemaco Signorini di cui parla ampiamente nella autobiografia (La mia vita-1940), in biografie specifiche e in saggi (Arte e artisti toscani dal 1850 ad oggi), accompagnati da conferenze molto apprezzate. La sua fama raggiunge la Francia, che frequenta durante le esposizioni internazionali e dove diviene affettuosamente “Franscì” per gli amici intellettuali, fra cui Matisse.

Trasferita a Milano prosegue con fervore la sua attività di intermediaria fra i pittori, i galleristi e i collezionisti e scrive la biografia di Fattori (1910) di cui con sapienza mette in luce le doti nel saper rielaborare l'oggetto in modo tutt'altro che fotografico. Negli stessi anni varie testimonianze ricordano l'impegno di Anna sul fronte anticlericale messo in atto con scritti e conferenze; nel 1913 entra nella loggia massonica torinese “Anita Garibaldi” e nel 1914 fonda a Milano la loggia “Foemina superior”, il cui nome indica sia l'intento di «mettere sulla via della verità le giovani menti nelle quali si sviluppa uno spirito di osservazione critica» sia «l'aspirazione della donna verso il miglioramento spirituale».

Siamo ormai alla vigilia della Grande guerra e Anna prende posizione da interventista con le opere Città sorelle (1915) e Il figlio della guerra (1917). Le tragiche vicende nazionali e internazionali la colpiscono duramente: il figlio Gino muore al fronte e il suo corpo non verrà mai ritrovato. Anna fonda allora la Lega d'Assistenza per le madri dei caduti allo scopo di sollecitare la politica a prendere a cuore la situazione delle madri che non possono avere benefici economici nel caso i figli uccisi siano coniugati. Nel dopoguerra con coerenza Anna non entra nelle file del Partito fascista e invece si avvicina ai Valdesi tanto da diventare “direttore responsabile” del loro periodico “L'Appello”. Intanto continua a pubblicare saggi, romanzi, biografie (Caterina de' Medici del 1932), racconti per bambini (Gingillo, 1946) e a impegnarsi in pubbliche conferenze.

Durante la Seconda guerra mondiale opera nelle file della Resistenza e, con la pace ritrovata, il 1946 è per lei un momento di grande soddisfazione: finalmente le donne italiane hanno accesso al voto attivo e passivo; si realizza dunque il sogno di quelle pioniere come Anna Kuliscioff e Anna Maria Mozzoni che tanto a lungo e con tenacia si erano battute. Per l'occasione scrive Cose d'ieri dette alle donne di oggi. Ormai anziana prosegue tuttavia il lavoro e nei primi anni Cinquanta escono ancora sue opere. Muore a Milano il 4 dicembre 1954, ma il funerale si volge a Livorno dove è sepolta nella cappella di famiglia.

 

 «L'equilibrio dovrebbe nascere da una coscienza morale, da una dignità diversa tanto nel maschio quanto nella femmina (...) uguale al maschio? No. Inferiore? Nemmeno. Diversa ma non meno degna di tutte le considerazioni». (Per le donne, 1913)

 

Fonti

Grazia Deledda, Dopo il divorzio, Studio Garamond, Roma, 2016

Elisabetta De Troja, Anna Franchi: l'indocile scrittura. Passione civile e critica d'arte, University Press, Firenze, 2016

Anna Franchi, Avanti il divorzio, Sandron, Milano,1902 - Sandron, Firenze, 2012 (a cura di Elisabetta De Troja)

Un eletto del popolo, Sandron, Milano, 1909

Dalle memorie di un sacerdote, Sandron, Milano, 1910

Giovanni Fattori, Alinari, Firenze,1910

La mia vita, Garzanti, Milano,1940 (ampliato 1947)
I Macchiaioli toscani, Garzanti, Milano,1945

Cose d'ieri dette alle donne di oggi, Hoepli, Milano, 1946

www.letteraturadimenticata.it

www.comune.livorno.it (6.3.2012)

www.archiviodistato.firenze.it/memoria.donna

 

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Rosina Frulla

(Pesaro, 1926 – 2015)

La scomparsa recente di Rosina Frulla non consente di dedicarle ancora una via, non essendo trascorsi 10 anni dalla morte. Ma il cordoglio unanime dell’amministrazione comunale di Pesaro, espresso con toni commossi dal sindaco, lascia sperare in una futura intitolazione. Intanto il nome di Rosina è stato inserito dall’Osservatorio di Genere nell’iniziativa #leviedelledonnemarchigiane, progetto nato per colmare la mancanza di riconoscimenti pubblici all'impegno e alle capacità femminili delle Marche.

La bandiera rossa in giardino

di Barbara Belotti

Non sono uguali le partigiane e i partigiani che hanno combattuto nella Resistenza. Ognuna/o di loro ha scelto di vivere quel pezzo di storia italiana sull’onda della medesima passione e della stessa voglia di libertà, ma ognuna/o di loro rappresenta una vicenda diversa da raccontare e ricordare.
È più facile tramandare i gesti di coraggio eclatanti e potenti, le morti drammatiche e le onorificenze al merito, più difficile non permettere la dispersione della memoria di chi ha lottato, di chi ha messo a rischio la propria vita per la libertà di una intera nazione ma è sopravvissuta/o senza aver raggiunto i vertici della notorietà. La loro limpidezza di intenti e di pensiero rischia di divenire, quando non saranno più qui a raccontare in prima persona cosa è stata la Resistenza, un ricordo annebbiato destinato a scomparire e a perdersi. Soprattutto se si tratta di donne, perché la loro Resistenza, fatta dello stesso coraggio e degli stessi rischi dei compagni maschi, ha faticato a essere conosciuta, narrata e condivisa. 
Rosina Frulla è stata una staffetta partigiana attiva nel pesarese conosciuta come la “Signora in rosso” perché con quel colore si vestiva e si faceva conoscere. Non era un vezzo, ma una esplicita dichiarazione di fede politica e di intenti, proseguita anche dopo la guerra fino alla morte.
Il colore rosso è la caratteristica di Rosina, partigiana. Lei stessa racconta che per molti anni ogni primo maggio ha continuato “a mettere una bandiera rossa in quell’angolo lì del giardino. Prima la issavo con mio marito Ferruccio che è stato anche lui un partigiano. […] Ora che Ferruccio è morto e io non ci vedo più tanto bene, la bandiera la metto con i miei nipoti”.
In un’epoca come la nostra, fatta di incertezze e di coscienze liquide e fluide, i suoi toni appassionati misurano la forza delle sue idee e della sua coerenza: “Forse dovrei smetterla. Ogni anno mi dico “questo è l’ultimo”. Che senso ha oggi, con questa politica qui, quella bandiera sventolante? Che senso ha vestirsi sempre di rosso? Io so solo che il rosso è il colore della mia passione, della mia lotta. Il colore della mia vita. E che anche quest’anno la mia bandiera rossa sarà lì, nell’angolo sinistro del mio giardino, perché tutta la via sappia che qui vive un’antifascista vera.”
Antifascista lo è sempre stata, la sua è quasi una scelta naturale. Si avvicina al PCI sia per l’influenza di un vicino di casa, Luigi Fabi, sia perché la vita non è stata generosa con lei, che ha conosciuto la miseria e ha dovuto lavorare fin da piccola per aiutare la madre vedova e i fratelli.
Le scelte politiche di Rosina si uniscono all’audacia tipica della sua giovane età e a soli 17 anni comincia diffondendo le pagine clandestine de L’Unità e racimolando cibo da portare ai militari italiani prigionieri dei tedeschi. In breve diventa una vera staffetta partigiana, andando a piedi o in bicicletta ‒ “con le ruote senza copertoni” precisa in un’intervista ‒ a consegnare ordini, messaggi, armi.
La Resistenza italiana è stata, per molte donne, l’inizio di un percorso di emancipazione e di presa di coscienza politica e personale che spesso non si è interrotto al termine della guerra. Anche per Rosina è stato così e il suo impegno prosegue nell’UDI: lavora per aprire asili nido, per organizzare le mense e le colonie estive per bambine e bambini, per trovare cibo e indumenti per le tante famiglie sfollate e che hanno perso tutto; da donna lavoratrice, inoltre, si impegna per formare una coscienza politica fra le compagne più giovani. L’impegno, come spiega in un’intervista, "derivava dalla voglia di libertà, dalla voglia di dare un avvenire migliore ai nostri figli".
Una donna piena di coraggio, di determinazione e di coerenza per la quale il passato non passa, “è una storia che ancora brucia e incide nella carne segni profondi”.
Il suo rigore intellettuale e morale le permette di rileggere con lucidità gli anni trascorsi nella Resistenza: “È stata dura. Tanto. Non lo nego; però se tornassi indietro rifarei tutto, dall’inizio alla fine. Io volevo lottare. Dovevo lottare perché ero e sono un’antifascista. […] Se lotti per la libertà non hai paura. Per nessun motivo.”

Fonti:

Massimo Lodovici, Intervista a Rosina e Laura Frulla (Anpi Pesaro, 18 giugno 1994), su Biblioteca archivio Vittorio Bobbato.
Carla Tonini, Una vita per la politica. L' Unione donne italiane a Pesaro nel secondo dopo guerra 1945-1950 , Bobbato.it.
Rosina Frulla: la staffetta partigiana vestita di rosso, in Il Ducato Testata dell'Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino, aprile 2014.
http://www.tele2000.eu/?p=2789
http://www.pesarourbinonotizie.it/20288/pesaro-ricci-esprime-il-cordoglio-della-citta-per-la-scomparsa-di-rosina-frulla
http://www.osservatoriodigenere.com/in-primo-piano/leviedelledonnemarchigiane.html

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Alessandra Wolff Stomersee Tomasi di Palma

(Nizza, 1894 - Palermo, 1982)

A lei è dedicato un albero nel giardino del Centro Psicanalitico di Palermo

Nel mondo della psicanalisi
di Patrizia Rocchi

Figlia del barone Boris Wolff Stomersee, alto dignitario alla corte di Nicola II, e della cantante lirica di origini italiane Alice Barbi, Alessandra visse la sua infanzia alla corte degli zar a San Pietroburgo nel Palazzo d'Inverno.
Trasferitasi nel castello di famiglia di Stomersee al primo sentore della rivoluzione russa, nel 1918 sposò il barone André Pilar e in quegli anni cominciò ad avvicinarsi alla psicoanalisi, a cui dedicò da allora la sua esistenza.
In seguito divorziò, risposandosi nel 1932 con Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nobile siciliano autore de “Il Gattopardo”, con cui ebbe soprattutto un intenso rapporto intellettuale.
Divenuta ben presto personaggio di spicco nell'ambiente psicoanalitico, coltissima e poliglotta, fu fondatrice della scuola siciliana.
Nei successivi decenni consolidò i rapporti, non sempre facili, con Edoardo Weiss e collaborò con i grandi pionieri della psicoanalisi italiana, Cesare Musatti, Nicola Perrotti ed Emilio Servadio, contribuendo all'organizzazione della nascente Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e alla rifondazione e ristrutturazione della sede nazionale di Roma. Ne rivestì peraltro, dal 1955 al 1959, la carica di presidente, diventando così la prima e unica donna a ricoprire tale incarico.
Alla morte del marito, nel 1956, si dedicò con grande caparbietà e tenacia alla pubblicazione postuma e alla diffusione de “Il Gattopardo”, seguendo personalmente anche le riprese del celebre film di Visconti tratto dal romanzo.
Si spense a 86 anni, a Palermo, nel suo palazzo di via Butera.
Ad Alessandra Wolff va il merito di aver importato Freud in Sicilia, dove peraltro riuscì a costruire una significativa fucina culturale d’impronta europea.
Nota per i suoi modi alteri e alquanto bruschi, fu poco amata dalla società e dalla nobiltà palermitana, soprattutto dalla suocera donna Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò, che “mal si adattò ad accogliere nella propria casa quella donna così diversa dai canoni femminili siciliani, intollerante e coltissima, divorziata e per di più sostenitrice di una ‘nuova scienza’ che sovvertiva l’omertà sul sesso e che osava scrutare e svelare i segreti dell’anima”.
A volte poco considerata o addirittura osteggiata dagli altri medici per i suoi metodi ritenuti ‘strani’ o troppo innovativi, fu invece amatissima dai pazienti e stimata dai suoi allievi.
Nel suo lavoro negli ospedali psichiatrici utilizzava metodi non convenzionali, spesso non facendosi pagare.
Nel necrologio pubblicato nel 1982 da Francesco Corrao si ricorda come la principessa avesse importato Freud in città “e con esso un modello culturale e scientifico di impronta europea” e si desume il provincialismo di Palermo fatto di “ostilità, disprezzo e sarcasmo da parte dei medici, degli psichiatri, dei clinici universitari”.
Francesco Corrao raccolse il lascito di questa grande donna fondando nel 1978 il Centro Psicoanalitico di Palermo, di cui Alessandra fu fino alla morte Presidente Onoraria.
Il 4 luglio 2014 è stato inaugurato nella città, all’interno dell’Università, il Giardino di Freud.
In questa splendida e prestigiosa cornice c’è un albero dedicato a lei, fortemente voluto dalla attuale presidente del Centro Malde Vigneri, grande e appassionata studiosa della vita e delle opere della principessa.

Fonti
Corrao F., Alessandra Tomasi di Lampedusa (1895–1982), in "Rivista Psicoanalitica", 1982, 28, pp.455-459.
Vigneri M., La Principessa di Lampedusa, in "Rivista Sicilia", Flaccovio, 10 (99), 2003-2004
Vigneri M. Alessandra Wolff Tomasi, in Marinella Fiume (a cura di), Siciliane. Dizionario Biografico, ed. Emanuele Romeo, 2006
Vigneri M.,  La principessa di Lampedusa,  in "Rivista Psicoanalitica", 2008, 54, pp.389-425.

Cronologia degli scritti
Tomasi di Palma A. (1936) Il caso S. presentato a Weiss nel 1936 e relazionato a Giuseppe Tomasi nella lettera del 25 settembre 1937.
Tomasi di Palma A. (1946). «Sviluppi della diagnostica e tecnica psicoanalitica». Psicoanalisi, 2.
Tomasi di Palma A. (1950). «L'aggressività nelle perversioni», lavoro letto al II Congresso della S.P.I., Roma 1950.
Tomasi di Palma A. (1956). «Le componenti preedipiche dell'isteria d'angoscia». Riv. Psicoanal., 2, 101-106.
Tomasi di Palma A. (1956). «Necrofilia e istinto di morte (Osservazioni su un caso clinico)». Riv. Psicoanal., 3, 173-186.
Tomasi di Palma A. (1960). «La spersonalizzazione». Presentato al XXI Congresso di Psicoanalisi di lingue Romanze (Roma 7-9 aprile 1960). Riv. Psicoanal., 1961, 1, 5-10.

Inediti
Tomasi di Palma A. (1975-1977). «Il caso del Licantropo». Dattiloscritto in originale, pubblicato (a cura di Malde Vigneri) nella Rivista di Psicoanalisi, 2/2008.
Tomasi di Palma A. (1980). «Uno spostamento e due meccanismi di difesa per il sorgere della nevrosi ossessiva», Presentato al Centro di Psicoanalisi di Palermo nel 1984, pubblicato (a cura di Malde Vigneri) con il titolo "Il patto con il diavolo" nella Rivista di Psicoanalisi, 2/2008.

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- V -


Livia Vernazza

(Genova, 1590 - 1655)

 

Non risultano intitolazioni di strade in suo onore

 

La figlia di un materassaio alla corte dei Medici


di Tanja Vittori

 

Una donna forte, passionale e acuta. Questo è il ritratto di Livia Vernazza, la bellissima figlia di un materassaio genovese di cui Don Giovanni de’ Medici si innamorò follemente, divenendo insieme a lei protagonista di una complicata storia d’amore.

Livia nacque nel 1590 a Genova; suo padre, Bernardo Vernazza, la obbligò quando era ancora una bambina di 13 anni (secondo alcune fonti ne aveva 15) a sposare un socio in affari, un uomo di circa quarant’anni di nome Battista Granara. Il matrimonio fu celebrato intorno al 1604.

Il temperamento di Livia si manifestò presto: secondo alcune testimonianze dell’epoca minacciò di suicidarsi gettandosi dal balcone piuttosto che accettare di convolare a nozze con un uomo vecchio e rozzo; dai familiari non ottenne però che altre violenze, tanto che persino durante la celebrazione del matrimonio dovette soccombere allo sguardo minaccioso dei fratelli, i quali pronunciarono in sua vece i voti nuziali temendo che la giovane rifiutasse di sposare l’uomo scelto per lei.

Sono ambigue le notizie riguardanti quanto avvenne successivamente al matrimonio: il fatto che la famiglia Medici non vedesse assolutamente di buon occhio la relazione tra Livia e Giovanni, contribuì decisamente a produrre una storiografia tutta incentrata sulla pessima reputazione di lei.

Non sappiamo con certezza se la fuga sia stata la soluzione a un marito violento o se si sia trattato di una fuga d’amore con un amante, quel che è certo è che Livia, forse dopo aver dato alla luce un figlio (ma di questo non si hanno notizie certe) lasciò la casa del marito e scappò a Firenze nel 1607. Qui probabilmente si mantenne prostituendosi e venne iscritta nel libro dell’honestà, ovvero venne schedata come donna di malaffare.

Nel 1609 avvenne l’incontro che le cambiò la vita: conobbe Giovanni, all’epoca cinquantenne, e se ne innamorò, ricambiata.

L’amore di Giovanni per lei fu sincero; in una lettera datata 12 febbraio 1612 l’uomo si rivolge a Livia definendola «Illustre signora mia et unica Patrona».

Dalla corrispondenza tra loro, avvenuta soprattutto nel periodo in cui l’uomo era lontano in una campagna militare, emergono un sentimento profondo e una passione ardente che Livia esprime così: «non è possibile che io viva in questa maniera, perché non dormo né mangio e ho una passione continova che non mi lasia vivere» [15 ott. 1617]. Un episodio significativo si ebbe quando le giunse voce di una possibile rivale: la notizia la fece reagire con queste parole «fatemi aver costei nelle mani, non puosso più scrivere perché sono stracha» [10 ott. 1671]. Pare che Giovanni l’abbia tradita, ferendo profondamente la giovane donna ma che, una volta smascherato, si sia reso conto della sciocchezza compiuta e abbia chiesto sinceramente perdono all’amata. Livia non era donna che lasciasse correre e, dopo averlo tenuto a lungo sulle spine, decise di perdonarlo ma lo coinvolse in una vendetta nei confronti della rivale di cui purtroppo non conosciamo i risvolti né l’esito.

L’amore tra i due ebbe però ostacoli ben maggiori. La famiglia Medici, infatti, sin dal principio non approvò la relazione. Giovanni era figlio naturale di Cosimo I ed Eleonora degli Albizzi, era un uomo molto intelligente, aveva talento militare, non era previsto che sposasse una donna di rango inferiore e addirittura prostituta. Le vere motivazioni di questa avversione erano di tipo patrimoniale ed economico: se avessero avuto un figlio, quest’ultimo sarebbe divenuto un possibile erede al trono e avrebbe potuto avanzare pretese nella successione dei beni. La coppia si trasferì a Venezia dove trascorse giorni sereni finché non vennero avviate le pratiche per l’annullamento del primo matrimonio di Livia. La curia di Genova accettò la tesi avanzata da Giovanni e il matrimonio venne dichiarato nullo in quanto contratto sotto forzatura.

Il primo tentativo di troncare la liaison si ebbe proprio in questa occasione: la famiglia Medici fece in modo che il primo marito di Livia inoltrasse ricorso in tribunale e presentarono una petizione al Papa per chiedere che la donna venisse rinchiusa in un monastero mentre il suo caso veniva discusso. La richiesta non venne accolta e Giovanni e Livia si sposarono a Venezia nel 1619, dopo la morte del primo marito.

La famiglia Medici aveva perso una battaglia ma la guerra era soltanto all’inizio.

Sempre nel 1619 la coppia ebbe un figlio, Giovanni Francesco, per il quale il padre nutrì un tenero affetto e di cui si occupò finché non morì nel 1621. Con la morte di Giovanni iniziò il calvario di Livia, incinta di una seconda figlia, morta soltanto venti giorni dopo la nascita. Sembra che, una volta vedova, avesse attirato le attenzioni di un ricco patrizio della famiglia Grimani, cosa che le garantiva una certa protezione dalla vendetta medicea. Ma il casato fiorentino seppe intervenire prontamente: Maria Maddalena d’Austria, granduchessa di Toscana, la attrasse con l’inganno a Firenze, dove venne rapita e dove le fu tolto il figlio.  Dichiarato nullo il suo matrimonio con Giovanni, le proprietà dell’uomo vennero ridistribuite tra gli altri membri della famiglia e Giovanni Francesco fu affidato a Baroncelli, ex segretario di Giovanni.

Livia rimase imprigionata a lungo. Prima fu costretta agli arresti domiciliari nella villa di Montughi poi, forse perché si mostrò irriverente nei confronti delle granduchesse Cristina di Lorena e Maria Maddalena d’Austria, fu rinchiusa nelle fortezze di Belvedere e di San Miniato. Solo con la morte di Cristina, avvenuta nel 1637, fu trasferita nel convento delle monache di Foligno. Le granduchesse Cristina e Maria Maddalena, cattolicissime, combatterono senza esclusioni di colpi l’intrusa-prostituta trasformandosi, loro che non erano delle Medici di nascita, in convinte e solide difenditrici del casato, dimostrando di aver bene appreso i metodi dei figli di Cosimo I, Francesco e Ferdinando, che mai riconobbero i ruoli di moglie sia di Camilla Martelli che di Bianca Cappello.

Livia spese quel che le restò in avvocati sleali e per pagare i suoi carcerieri. Intanto si faceva di tutto per cancellare la sua memoria; venne persino cambiato il titolo di un dipinto che portava il suo nome e che la ritraeva in tutta la sua bellezza: da quel momento in poi, nei cataloghi medicei, venne rinominato semplicemente Ritratto di donna.

A peggiorare ulteriormente la condizione di Livia furono i pessimi rapporti con il figlio, cresciuto lontano da lei e influenzato dalla propaganda medicea, il quale la maltrattò, la minacciò di morte e cercò persino di farla incriminare per stregoneria.

Livia riuscì in qualche modo a non darla del tutto vinta ai suoi rivali. Prima di essere imprigionata, avendo intuito quel che stava per accadere ma non potendo fare nulla contro tanto potere, riuscì a far trasferire i gioielli donati dal marito, tutti di gran valore, in un convento di Murano. Le granduchesse Cristina e Maria Maddalena fecero di tutto per riaverli senza riuscirci mai.

L’ultimo atto di sfida fu contro il figlio: Livia lasciò i suoi averi ai padri della chiesa di S. Michele Visdomini di Firenze, gli unici ad averle dato un po’ di conforto nei momenti difficili e che le offrirono sepoltura nella loro chiesa quando morì nel 1655. Il lascito venne in seguito utilizzato per il restauro della chiesa.

Si concluse in questo modo la vita di una donna che non accettò il suo destino, lottò per il suo amore e per la sua dignità, per aver voluto una vita diversa

 

Fonti

Emma Micheletti, Le donne dei Medici, Firenze, 1983

Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Roma, 1999

Brendan Dooley, Amore e guerra nel tardo Rinascimento. Le lettere di Livia Vernazza e Don Giovanni de’ Medici, 2009

http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-de-medici_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/cartedidonne/cdd_02_arrivo.pdf

http://bia.medici.org/DocSources/Home.do

 

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Giuseppina Vittone Li Causi

(Torino, 1923 - 2013)

A Giuseppina Vittone Li causi non risulta intitolata alcuna via.

Una piemontese in Sicilia
di Ester Rizzo

Correva l’anno 1953 e all’ARS (Assemblea Regionale Siciliana) venne eletta come deputata Giuseppina Vittone Li Causi.
Era nata a Torino il 30 marzo 1923 e nel 1943 aveva conosciuto Girolamo Li Causi, detto Mommo, un nome prestigioso fra i comunisti di quei tempi, più grande di lei di ventisette anni. Con rito civile, i due si sposarono nel 1946.
Sin da giovanissima Giuseppina era stata una partigiana. Proveniva da una famiglia operaia ed il PCI le aveva pagato un corso di stenografia che le permise di trascrivere i comunicati di Radio Londra e di Radio Mosca. Si occupava inoltre di diffondere clandestinamente il giornale L’Unità.
Nel 1945 arrivò in Sicilia ed iniziò ad “organizzare” le donne dei quartieri popolari di Palermo, battendosi per la loro emancipazione e per l’acquisizione dei diritti loro spettanti. Si recava nei vicoli dell’Albelgheria per parlare alle donne dei diritti all'alloggio, all'erogazione dell’acqua, al lavoro… e le donne l’ascoltavano, si commuovevano, le offrivano i propri balconi per poter fare i comizi.
Un po’ frastornata e disorientata nella Sicilia di allora, in cui erano rari i casi di emancipazione femminile, seppe comunque imporre la sua personalità e, anche se non comprendeva il dialetto siciliano, pian piano iniziò a capirlo e addirittura a parlarlo.
Venne mandata a tenere un comizio a Bisacquino, piccolo paese in provincia di Palermo, e lei stessa dichiarò che era molto inquieta quando arrivò nella piazza principale e non vide alcuna donna: erano tutti uomini. Mentre parlava, il prete della chiesa indispettito iniziò a far suonare le campane.
Quando venne eletta all’ARS rifiutò lo stipendio da deputata affermando che già c’era quello del marito e che quindi potevano vivere dignitosamente. Non fu un gesto pubblico per ottenere consensi ma un gesto dettato dall’idea profonda che la politica è un servizio da dare alla città e ai cittadini senza ricevere benefici. Una figura di donna e di politica eticamente ineccepibile, onesta, idealista, attiva, generosa e poco o per nulla conosciuta.
E’ morta il 2 settembre 2013 a novant’anni.

 

 



 

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 Alma Sabatini

(Roma 1922 - 1988)

Incredibilmente assente nella toponomastica romana, Alma Sabatini è stata una figura di rilievo del femminismo italiano, insegnante, anglista e saggista. A lei dobbiamo la pubblicazione nel 1986 delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, linee guida per superare gli stereotipi di genere attraverso scelte linguistiche critiche e consapevoli. Nel 2012, il gruppo di Toponomastica femminile ha proposto al Comune di Roma una sua intitolazione nell'ex XVII municipio, attuale I municipio, con delle motivazioni consultabili all'indirizzo http://67.23.224.138/~toponoma/index.php?option=com_content&view=article&id=109&Itemid=155

Alma Sabatini e il linguaggio come strumento di percezione della realtà
di Saveria Rito

Nacque a Roma il 6 settembre 1922 e si laureò in Lettere moderne presso l'Università La Sapienza nel 1945. Le borse di studio in Inghilterra e negli Stati Uniti le permisero di perfezionare la lingua inglese che insegnò nelle scuole medie e superiori della capitale per diversi anni, prima di ritirarsi nel 1979 e dedicarsi completamente alla causa femminista. Dal 1960 militò nel Partito Radicale e nel 1971 fu tra le fondatrici, e prima presidente, del Movimento di Liberazione della Donna (MLD), che si batteva per la legalizzazione dell'aborto, contro il sessismo e il patriarcato. A metà dello stesso anno, alcune divergenze spinsero Alma e altre attiviste a staccarsi dal movimento per praticare una politica femminista separatista e organizzare un gruppo di autocoscienza, che si incontrava per discutere di sessualità, esperienze personali e rapporto tra i sessi (secondo il principio il personale è politico). Fu in una di quelle riunioni che Gabriella Parca propose di fondare una rivista, la futura Effe pubblicata dal 1973, alla quale Alma collaborò fino agli inizi del 1975. Nello stesso periodo si avvicinò al Collettivo di via Pompeo Magno, poi diventato Movimento Femminista Romano, contribuendo alla stesura di un bollettino informativo mensile e partecipando a iniziative e manifestazioni contro la prostituzione e per la legalizzazione dell'aborto: a sostegno di quest'ultima causa, nel 1973, adottò con alcune attiviste la pratica dell'autodenuncia durante il processo di Gigliola Pierobon (accusata di aver abortito ai sensi dell'art. 546 del Codice Penale del 1930, poi abrogato dalla L.194/78).  "L'oppressione, la repressione e lo sfruttamento della donna passano attraverso l'equivoco della maternità" - sosteneva Alma - "Il femminismo è anzitutto la coscienza che non esiste una possibilità di liberazione individuale al di fuori di quella di tutte le altre donne".
La fitta corrispondenza con femministe americane come Diana Russell, Marcia Keller,  Karen DeCrow e Betty Friedan, le diede occasione di ritornare negli Stati Uniti come ospite di convegni,  seminari e interviste in diverse città dal 1971 al 1972.
Numerosi furono i suoi articoli, pubblicati su Effe e Quotidiano donna, riguardanti  tematiche come aborto, maternità, pari opportunità, prostituzione, violenza, matrimonio e linguistica.
Oggi il suo nome rimane legato principalmente ad uno studio sul "sessismo insito nella lingua italiana" che, nel 1986, portò alla pubblicazione per conto della Commissione Nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana. Nell'opera, che seguiva analoghe esperienze estere ed era rivolta alle scuole e all'editoria scolastica, Sabatini elencava forme di linguaggio stereotipato che mal celavano pregiudizi di genere e proponeva delle alternative. Si partiva da un'indagine sui libri di testo e sui mass media per mettere in risalto la prevalenza del genere maschile, usato in italiano anche con doppia valenza, il cosiddetto maschile neutro, che cancella dal discorso la presenza del soggetto femminile (ad esempio, i diritti dell'umanità è da preferire all'espressione i diritti dell'uomo; le popolazioni primitive sostituisce gli uomini primitivi). Sottolineava, inoltre, la mancanza o il mancato uso di termini istituzionali e di potere declinati al femminile (ministra, sindaca, assessora), l'accezione positiva e il prestigio di un termine maschile rispetto alla sua forma femminile (il sostantivo segretario, di Stato o di un partito, è percepito diversamente dalla forma segretaria, stereotipo del lavoro femminile subordinato).
La premessa teorica alla base di questo lavoro è che la lingua non solo riflette la società che la parla, ma ne condiziona e ne limita il pensiero, l'immaginazione e lo sviluppo sociale e culturale. La lingua infatti non è un semplice strumento di comunicazione e di trasmissione di informazioni e di idee, ma è soprattutto strumento di percezione e di classificazione della realtà [...]: tendiamo a vedere soltanto ciò che ha nome e lo vediamo come quel nome stesso ci suggerisce" dichiarava Alma Sabatini nell'introduzione alle Raccomandazioni.

Il lavoro suscitò apprezzamenti e polemiche a colpi di articoli di giornale, tuttavia rimane una tappa fondamentale che ha aperto un dibattito sulla necessità di un rinnovamento linguistico nel nostro Paese, sostenuta recentemente anche dall'Accademia della Crusca.
Alma Sabatini morì a Roma in un incidente d'auto il 12 aprile 1988 assieme al marito Robert Braun. I funerali laici di entrambi vennero celebrati nel giardino del Buon Pastore, sede della Casa Internazionale delle Donne.

Fonti
Documenti d'archivio dal Fondo Alma Sabatini conservato a Roma presso Archivia - Biblioteca Archivi Centri Documentazione delle Donne. Sito internet www.archiviaabcd.it
Donnità : cronache del Movimento Femminista Romano, Roma, Centro di documentazione del Movimento Femminista Romano,  1976
Marina Ceratto, Il "Chi è?" delle donne italiane: 1945-1982, Milano, Mondadori, 1982, p. 280
Alma Sabatini, Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1986
 

Maria Assunta Sabatini

(Massa Cozzile (PT), 1860 - Firenze, 1940)

Non risulta alcuna intitolazione a suo nome.

La "Marietta" e l'Artusi.
di Bruna Rossi

Maria Assunta Sabatini, meglio nota come “la Marietta”, fu la fedele domestica e collaboratrice di Pellegrino Artusi nel suo ultimo periodo di vita, proprio quello in cui scrisse e pubblicò La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, il manuale che lo incoronò come il padre indiscusso della gastronomia italiana.
Era nata  il 4 ottobre 1860 a Massa e Cozzile, un piccolo comune della Valdinievole, come possiamo ricavare dal documento di battesimo esistente nell’Archivio delle Parrocchie della Diocesi di Pescia; era figlia di Luigi e Palmira Guidi, montecatinese. Alla bambina venne imposto il nome di entrambe le nonne,  Assunta, ma nei suoi scritti (visto che lei, come il fratello, sapeva leggere e scrivere) si firmava Maria o, piuttosto, Marietta.
Forse fu proprio durante una delle sue periodiche permanenze a Montecatini (che lui stesso ci  testimonia nella Autobiografia) che Artusi conobbe quella che sarebbe divenuta la sua cameriera tuttofare, una donna giovane, ma energica e capace che, oltre a occuparsi della casa, gli avrebbe fornito sostegno e assistenza fino alla morte.  
Marietta alla fine del 1881 risultava ancora residente con la famiglia a Massa, tuttavia aveva preso servizio da Pellegrino Artusi già dal 1878. Nel 1888, ancora nubile, la si saprà ufficialmente trasferita a Firenze.  
Chi avrebbe mai potuto immaginare che proprio Maria Assunta, nata in un piccolo paese ignoto ai più, avrebbe dato un fondamentale contributo alla diffusione della cucina e della lingua italiana non solo nella nazione italiana nascente, ma addirittura nel mondo intero?  Il trattato conosciuto come L’Artusi, infatti, distaccandosi nettamente da una cucina considerata “alta” ma espressione di un gusto francese che non ci era proprio, ha restituito piena dignità nazionale e gastronomica alla cucina regionale e popolare della tradizione italiana. In esso Pellegrino ha abilmente trasferito ed esaltato le ricette locali (spesso tramandate oralmente), portandole fuori dai loro ristretti confini e campanilismi, trasformandole in piatti nazionali e proponendole al lettore con l’uso di un lessico  appropriato ma facilmente comprensibile. Ha così favorito il processo di unificazione e di  italianizzazione della classe medio-borghese, utilizzando un vocabolario volutamente privo di termini stranieri. È lo stesso Artusi ad affermare: «Dopo l’unità della patria mi sembrava logica conseguenza il pensare all’unità della lingua parlata». E quale modo migliore di farlo, se non  parlando agli Italiani (anzi, soprattutto alle Italiane!) di qualcosa con cui dovevano confrontarsi ogni  giorno, la preparazione del cibo, elevata finalmente al rango di Arte del mangiar bene!?
Va detto, a questo punto, che forse quel manuale non sarebbe mai nato se nella abitazione di Artusi non fosse capitata Marietta, una ragazzina di paese che a soli diciassette anni, lasciando la propria casa a Massa ed un sicuro ma poco ambito destino di “cucitrice”, andò come servetta presso quello scapolo quasi sessantenne, dal carattere burbero e molto diffidente verso i  domestici che, a detta sua, avevano sempre cercato di truffarlo e derubarlo...
Conosciuta da tutti come “la Marietta”, essa prese subito in mano le redini della casa con  competenza e una determinazione suggerita anche dal suo aspetto statuario e dalle forme  giunoniche. Nell’intervista pubblicata sulla rivista “La Cucina Italiana” quando era ormai settantaduenne, Rina Simonetta la descriveva ancora così: «una donna dalla figura alta, slanciata; figura giovanile nonostante i capelli bianchi; figura distinta e signorile». Nella stessa intervista Marietta parlava con affetto del padrone, ormai scomparso da molti anni, ricordando le sue passioni: «A parte la cucina gli piaceva leggere. Invecchiato però, gli si era indebolita la vista e per non farlo stancare ero io che leggevo per lui (...) leggere mi piaceva. Ma mi ci sono logorata gli occhi». La donna ricordava di essergli stata accanto fino agli ultimi momenti della sua vita: «Quando morì stavamo leggendo l’Eneide...».
Chissà se proprio a lei andrebbe attribuito il merito di aver suggerito al padrone di riunire la  passione per le lettere e quella per la buona tavola in un volume che sarebbe ben presto diventato la Bibbia per chiunque avesse osato avvicinarsi ai fornelli, dalla semplice casalinga al più famoso  gastronomo?
La prima edizione di La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene uscì soltanto nel 1891, dopo meno di tre anni dal trasferimento definitivo di Marietta in casa Artusi: Pellegrino aveva già 71 anni e da 30 l’Italia era stata unificata.
Ai fornelli, accanto a Marietta e al suo padrone, c’era il cuoco Francesco Ruffilli, il quale però mantenne sempre un tono dimesso e deferente, sottomesso anche a Marietta, la quale non fu solo la “serva” di casa, ma una presenza forte, attenta e costante, che svolgeva anche il ruolo di governante e assistente, non solo in cucina, ma in ogni incombenza, accompagnando spesso il padrone, ormai anziano, anche nei suoi viaggi di lavoro e nei soggiorni estivi. Lo faceva ancor più volentieri quando Pellegrino si recava ai Bagni di Montecatini, che rappresentavano per lei un ritorno a casa.
Ben presto “la Marietta” divenne un autentico “personaggio”: le signore, ma anche molti  uomini, pur considerando Artusi un vero maestro dell’economia domestica, si rivolgevano a lei chiedendole un aiuto competente per risolvere i più svariati problemi legati alla cucina e alla gestione della casa in generale. Essa rappresentava la migliore consulente degli amici di Pellegrino, sempre pronta a dare preziosi consigli e a suggerire non solo ricette e menù, ma anche a offrire un sostegno psicologico nei momenti di difficoltà:«Ci ricordi con affetto alla buona Marietta, la quale non cesso di ricordarmi le sue sgridate, in qualche noioso momento della mia nevrastenia».
La “bella Marietta dalle forme scultorie”, addirittura “giunonica”, come la descriveva Goffredo Corelli, era anche molto abile nello scegliere e fornire utili nominativi di virtuosi cuochi e domestiche di sua fiducia, che spesso accompagnava e presentava personalmente, guadagnandosi ulteriore simpatia e gratitudine. Ogni tanto Assunta rientrava a Massa per sistemare le faccende di famiglia, non disdegnando tuttavia una salutare e mondana sosta ai Bagni di Montecatini. In quelle occasioni la sua casa era letteralmente presa d’assalto: molte giovani speravano in lei per ottenere un impiego presso qualche casa signorile. È logico pensare che gran parte del personale che Marietta raccomandava provenisse dalla sua Valdinievole, che facesse parte della sua cerchia di familiari e amici: persone che conosceva dall’infanzia e sulla cui correttezza sapeva di poter contare anche se talvolta, purtroppo, anche la sua fiducia riceveva qualche colpo basso.
Marietta Sabatini si  potrebbe definire una vera benefattrice per la sua terra d’origine, per aver offerto a molte ragazze la possibilità di lavorare presso prestigiose residenze di Firenze e non solo, sfuggendo in tal modo ad un inesorabile futuro di lavoro nei campi, in cartiera o in una filanda...
Artusi dimostrò di apprezzare appieno le qualità della collaboratrice: non solo le dedicò la ricetta n.604 (uno speciale  panettone, «migliore assai del panettone di Milano»), ma alla morte lasciò i diritti d'autore del suo manuale a lei e al cuoco Ruffilli. Marietta del resto, rispettando il  giuramento fatto al padrone, si batté in modo risoluto perché venissero rispettate tutte le volontà testamentarie di Pellegrino che, con disappunto di alcuni parenti, vedevano la maggior parte dell'eredità destinata al Comune di Forlimpopoli e a opere benefiche. Marietta continuò a vivere a Firenze anche dopo la morte di Artusi; morì a 80 anni, di broncopolmonite, il 22 dicembre 1940, e venne sepolta nel cimitero di Trespiano.

Fonti:

Archivio Storico Comunale di Massa e Cozzile, XXXII.5, Terzo Censimento generale della popolazione del Regno da farsi alla mezzanotte del 31 dicembre 1881
Pellegrino Artusi, Autobiografia, a cura di Alberto Capatti, Bra (Cuneo), Arcigola Slow Food Editore, 2003
Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Modena, ed. La Vela, 1980
Luciana Cacciaguerra, Piero Camporesi, Laila Tentoni, Pellegrino Artusi e la sua Romagna - note d’archivio, Forlimpopoli, Casa Artusi, 2012
Bruna Rossi, Pellegrino Artusi e le Mariette di Valdinievole, in Fare le Italiane, Buggiano (PT), Vannini, 2015 (a cura dell'Istituto Storico Lucchese-Sezione Storia e Storie al Femminile)
Rina Simonetta (a cura di), Parliamo di Pellegrino Artusi, intervista a Maria Sabatini, in “La Cucina italiana. Giornale di gastronomia per le famiglie e per i buongustai”, 15 febbraio 1932

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Elena Salvestrini

Uliveto Terme (PI), 1904 - Viareggio, 1985 )

Di Elena Salvestrini non si ha traccia nella toponomastica toscana, nonostante la preziosa attività didattica (unica per l’epoca) e l’interesse suscitato dalla pubblicazione del bel libro curato da Gabriella Nocentini (nipote di quella famiglia Tonarelli che accolse la maestra in casa), presentato ripetutamente (Firenze, Pistoia, Pescia, Cutigliano,Viareggio, ecc.); insieme all'edizione del testo anche una mostra di fotografie  inedite e del quaderno  del ’29, con interventi della nipote (Isabella Pera) e dei soci della sezione “Storia e Storie al femminile” dell’Istituto Storico Lucchese.

Ritratto di una maestra
di Isabella Pera e Laura Candiani

Elena Salvestrini nasce a Uliveto Terme (Pisa) il 9 gennaio del 1904. Il padre, Arturo Salvestrini, è direttore di una fabbrica nel paese, la madre, Amelia Lavoratti, è casalinga, cura la casa e i quattro figli, due maschi e due femmine.
Nel 1918 si iscrive alle Scuole normali di Pisa, dove si diploma nel luglio 1922. Subito dopo inizia ad insegnare nelle scuole elementari, facendo supplenze nella zona di Pisa: a San Giovanni alla Vena, dove rimane fino all’aprile 1925, poi a Cucigliana, tra il 1925 e il 1926.
Dopo aver sostenuto e superato brillantemente gli esami di abilitazione ottiene la sede provvisoria a La Romola (FI), ma solo per qualche mese, dall’aprile al luglio 1926. La sua sede definitiva sarà invece la scuola “rurale” di Ponte Sestaione (PT), una piccola frazione di poche case sull’Appen-nino pistoiese, presso Cutigliano, lungo la Statale 12 che porta all’Abetone, dove arriva nel set-tembre 1926 .
Nel paese trova alloggio presso la famiglia Tonarelli e inizia il suo lavoro di insegnante in una pluriclasse dei primi tre anni della scuola elementare, ospitata in una grande e fredda stanza (ex stalla) di una colonia situata poco lontano, la colonia elioterapica “Franchetti”. Le bambine e i  bambini  erano 9 in Prima,18 in Seconda e 10 in Terza, ma non tutti e non sempre frequentavano, essendo spesso impegnati ad aiutare le famiglie (la semina, gli animali, la raccolta delle castagne, dei funghi, delle fragole) o -in inverno- bloccati in casa dalla neve. Malgrado l’ambiente poco accogliente e il variegato gruppo classe, la maestra, con un metodo originale e attento alla crescita dei suoi alunni , riesce a costruire con loro un rapporto diretto, che non si limita alla didattica consueta, ma li coinvolge in molte altre attività: escursioni, spettacoli e recite (di cui lei stessa scrive spesso i copioni e le canzoni accompagnandosi con il violino), feste in maschera durante il periodo di carnevale per le quali confeziona i costumi con pochi mezzi e molta fantasia. La scuola diventa il centro della vita della piccola frazione, proprio grazie alle molte e originali iniziative che accom-pagnano la realtà quotidiana della gente del Ponte.
Elena Salvestrini documenta questi avvenimenti, come anche i luoghi e le persone, con la sua macchina fotografica Eastman Kodak Folding Autographic Brownie n. 2, acquistata nel 1926, poco prima di partire per Ponte Sestaione, uno strumento non così consueto all’epoca, soprattutto nelle mani di una donna. Certo era una donna moderna ed emancipata, di famiglia borghese, bella, giovane e sportiva; non disdegnava l’eleganza e la moda, ma oltre a bei capi rifiniti in pelliccia indossava spesso i pantaloni (nascosti sotto una gonna); portava i capelli corti e “sembrava un’attrice”- come sottolineano i ricordi dei suoi alunni ormai anziani; riuscì in soli quattro anni a lasciare una traccia profonda nella realtà locale e a integrarsi in una comunità chiusa e tradizionale, divenendo una sorta di “mediatrice culturale” (come afferma Teresa Bertilotti ). Sapeva dipingere e disegnare benissimo, ma anche cucire, fare la calza  e ricamare, insieme alle ragazze del luogo; a sue spese fece curare alunni malati e acquistava talvolta i grembiulini per i più bisognosi o faceva “recuperi” pomeridiani a chi affrontava l’esame da privatista.
Nel 1929 gli alunni delle scuole elementari della provincia di Pistoia furono invitati a scrivere del luogo dove vivevano sotto molteplici aspetti ˗ storico, geografico, economico, artistico ˗ per celebrare l’istituzione della nuova provincia in piena epoca fascista. I numerosi quaderni, che furono esposti in mostra alla Casa del Balilla di Pistoia, vennero poi donati alla Biblioteca Forteguerriana, dove sono ancora conservati e digitalizzati. Tra le tante scuole della montagna pistoiese che parteciparono ci fu anche quella di Ponte Sestaione. Molti dei lavori sono scritti in bella grafia dalle maestre e contengono informazioni generiche, mentre quello redatto dalla scuola del Ponte (il n.141) appare ben più originale, perché sono gli stessi bambini che, sotto la guida dell’insegnante, descrivono il luogo dove vivono in maniera piuttosto spontanea e sincera, non nascondendo i problemi (l’emigrazione, la durezza delle condizioni di vita) e i desideri (la realizzazione di una nuova scuola), ma anche il legame con il territorio e con le sue tradizioni. Il quaderno è inoltre arricchito di fotografie scattate da Elena Salvestrini e costituisce un documento molto interessante, come del resto tutta la raccolta, per comprendere la vita, la condizione socio-economica e culturale di quelle zone.
La maestra Salvestrini lascia la scuola del Ponte Sestaione nel 1930,  nello stesso anno si sposa con Raffaello Sabatini e si trasferisce in Versilia, a Viareggio, insegnando per un anno a Bargecchia, poi a Corsanico (1931-1934) e Stiava (1934-1941). Nel periodo dello sfollamento si rifugia con la figlia Annamaria proprio a Stiava e, dopo la guerra, riprende la sua attività nelle scuole viareggine di Levante, del Varignano, della Darsena e infine, dal 1963, alle “R. Lambruschini”. Nel 1967 è collocata a riposo e  muore a Viareggio nel 1985.

Annotazioni e approfondimenti: La legge Gentile del ’23 allargò l’obbligo scolastico ai 14 anni, oltre quindi la scuola elementare i cui programmi furono curati da Giuseppe Lombardo Radice. Fu creato l’Istituto Magistrale per i futuri insegnanti elementari, in sostituzione delle Scuole normali.
Le maestre -che rappresentavano all’epoca circa l’80 % del corpo insegnante- in mancanza di stanze idonee nell’edificio scolastico, dovevano trovare un alloggio decoroso nelle sedi spesso disagiate e  sperdute dove erano costrette  a  trasferirsi in modo stabile. Quasi esclusivamente alle donne erano riservate le prime tre classi delle elementari, mentre gli uomini per legge dovevano insegnare nel successivo biennio e nelle classi totalmente maschili. La “moralità” delle maestre (per lo più giovani e forestiere) era tenuta sotto stretto controllo dai Direttori Didattici e dalla comunità locale; non pochi furono purtroppo i casi - con esiti drammatici - di pettegolezzi e maldicenze (vedi la vicenda della “povera, infelice Italia Donati, maestra sventurata” 1863-1886).

Il materiale realizzato dalle scuole nel ’29 e raccolto presso la Biblioteca Forteguerriana di Pistoia rimase sessant’anni in deposito e fu studiato da Teresa Dolfi e Stefania Lucarelli nel 1990; consiste in 363 pezzi. Nel 1999 tutte le pagine sono state scansionate per un totale di oltre 13.000 immagini a  cui si aggiungono gli indici e le esecuzioni di 27 canti popolari riportati nei testi.

Fonti:
Gabriella Nocentini (a cura di), Con l’aiuto della Signorina maestra. Elena Salvestrini e la scuola di Ponte Sestaione, Cutigliano (1926-1930), Firenze, Edizioni dell’Assemblea, 2014.
Biblioteca Forteguerriana, CD ROM La scuola in mostra. Pistoia, 1929, Fondazione Cassa di Risparmio Pistoia e Pescia, 1999.
Marcello Dei, Colletto bianco,grembiule nero, Bologna, Il Mulino,1994
Elena Gianini Belotti, Prima della quiete. Storia di Italia Donati, Milano, Rizzoli, 2005
 

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(Firenze, 1499 – 1543)


Non risultano intitolazioni in suo onore

 

Donna nelle dispute sagacissima
di Alessandra Rossi

 

Nella divulgazione storica la figura di Maria Salviati risulta sempre un po’ oscurata dalla fama degli uomini che hanno fatto parte della sua vita, a partire dal marito, il famigerato e intraprendente Giovanni de’ Medici conosciuto come Giovanni dalle Bande Nere, fino ad arrivare al figlio, il primo Granduca di Toscana Cosimo I. Traspare dai testi e dalle rappresentazioni pittoriche l’immagine di una Maria devota al marito sempre lontano, costantemente  immerso nelle numerose imprese di guerra e, dopo la morte di quest’ultimo, di una vedova austera e priva di qualsiasi ricerca di eleganza e di ogni forma di vanità; emerge soprattutto l’immagine di una madre, consapevole del ruolo fondamentale che il figlio viene a ricoprire nella storia della famiglia Medici.
In realtà approfondendo la conoscenza di questa donna, si comprende quanto le sue azioni e la sua tempra abbiano influito sulla fama successiva di Giovanni, di Cosimo e, in generale, della stirpe medicea.
Maria nasce a Firenze il 17 luglio del 1499 da Jacopo Salviati e Lucrezia de’ Medici, primogenita di Lorenzo il Magnifico e appartiene, quindi, al ramo principale della casata Medici: quello di Cafaggiolo.
La vicenda individuale di Maria Salviati si inserisce in un periodo denso di importanti avvenimenti per la famiglia, dall’esilio da Firenze al ritorno al potere dopo la parentesi repubblicana, dal trionfo con l’elezione di papa Leone X alla crisi politica fra Clemente VII e Carlo V: la sua vita è condizionata irreversibilmente dal repentino susseguirsi di questi eventi. 
Maria entra molto presto in contatto con quello che sarà il suo futuro sposo: nel 1509, infatti, il piccolo Giovanni de’ Medici è affidato a Jacopo Salviati quando sua madre, Caterina Sforza, è prigioniera di Cesare Borgia a Roma. Giovanni appartiene al ramo mediceo dei popolani e un futuro matrimonio tra i due ragazzi sancirebbe il ricongiungimento dei due rami della casata: Maria e Giovanni effettivamente si sposano nel 1516.
Il cospicuo epistolario di Giovanni dalle Bande Nere ci restituisce l’immagine di un uomo audace ma anche piuttosto intemperante, tanto presente e indubbiamente fondamentale per il mantenimento dello spirito di corpo sui campi di battaglia, quanto assente nella gestione dei delicati rapporti diplomatici e nelle questioni finanziarie che coinvolgono la famiglia.
Maria scrive al marito e lo informa, ma raramente riceve risposta: “io non havevo a chi commettere una faccenda et qui non capita più persona: et dalla V.S. non ho mai hauto risposta alcuna […]”, gli scrive in una lettera datata al 10 gennaio del 1521. Fin da giovane Giovanni si distingue per il suo carattere impulsivo e focoso: una delle sue tante amanti, una tale Donna Paola evidentemente da lui abbandonata, gli scrive in una lettera dell’agosto del 1526, “Hor si conoscerà quanto V.S. duri in un’affittione!”.
Maria ha in mano la situazione della sua famiglia e ci appare una donna ferma, capace di assumere ruoli decisivi in più di una occasione. Probabilmente è grazie anche a una sua minuta di supplica, del 5 dicembre 1523, se l’anno successivo il nuovo papa Clemente VII estingue i debiti di Giovanni a patto che egli, momentaneamente ingaggiato dagli imperiali, passi con i Francesi. Anche quando nel 1527 è costretta ad allontanarsi da Firenze e a vivere esule, con il piccolo Cosimo a Venezia, riesce ad amministrare il patrimonio a disposizione sua e del figlio e “a portare avanti – come spiega Bruce Edelstein – la produzione agricola e tessile della tenuta [della villa medicea di Castello N.d.R.] unico vero bene di cui avrebbe potuto disporre Cosimo”.
Maria gestisce tutto e nel frattempo impiega ogni sua energia in quello che comprende essere il compito fondamentale: l’educazione del figlio Cosimo. Non si tratta solo di istinto materno ma, più probabilmente, Maria coglie l’importanza storica del ruolo che dovrà ricoprire suo figlio.
Uno degli esempi più eclatanti della sua consapevolezza politica e della sua lungimiranza si trova nelle lettere che scambia con Pietro l’Aretino dopo la morte del marito Giovanni avvenuta nel 1526 combattendo contro i Lanzichenecchi. In una di queste missive Maria, infatti, afferma: “Sono certa che la morte sua, sì immatura ed inopinata vi duole; et se la duole a voi, che a me ella passa l’anima et il core; et fammi tanto male, che io non credo vi sia al mondo bene che lo pareggi. […] Non vi sia dunque grave per amor mio entrare in questa impresa […] et a me basta che descriviate solo ciò che havete tocco con mano de sua invitta eccellentia. Però, se mai pensate farmi cosa grata, descrivete in qualunque modo vi pare li quattordici anni che Sua Signoria ha sì francamente combattuto et li altri quattordici farò notare io, cominciando dalle fasce, da chi lo ha allevato, et visto segni in lui che pronosticavano lo invitto et magno animo suo.”

Maria è consapevole di quanto sia importate tramandare le gesta e le imprese perché queste siano conosciute e ne sia riconosciuto il valore. È ancora giovane quando rimane vedova, ha solo 27 anni, preferisce non risposarsi, anche se le sue famiglie di origine, Medici e Salviati, avrebbero preferito lo facesse. Non vuole perdere suo figlio Cosimo, che in caso di nuovo matrimonio avrebbe dovuto lasciare, e in questa sua scelta consapevole è determinata e irremovibile.

Ora è una vedova e le uniche immagini che ci rimangono di lei, in due quadri di Pontormo, ci trasmettono la dimensione di austerità in cui si chiude dopo la morte del marito. Mai come ora tutti i suoi sforzi sono proiettati verso la legittimazione del ruolo che il figlio Cosimo deve ricoprire: quello di vero erede della stirpe medicea. Cosimo riceve un’educazione non solo militare ma anche letteraria; la madre provvede a farlo viaggiare (lo invia, per esempio all’incoronazione di Carlo V a Bologna nel 1530) e lascia che soggiorni presso le corti straniere, anche per sottolineare agli occhi dei Signori e dei Principi come nel figlio sia racchiusa la risoluzione dei problemi dinastici della famiglia Medici.
Effettivamente nel 1537, quando il duca di Firenze Alessandro de’ Medici, la cui carica è piuttosto controversa per la sua ambigua condizione di erede illegittimo della famiglia, viene assassinato, è il diciassettenne Cosimo a essere nominato ufficialmente secondo Duca di Firenze e, tempo dopo, primo Granduca di Toscana. È lui a dare vita a un dominio che si estinguerà solo con l’estinguersi della dinastia.
Maria vede così compiersi il suo destino e il destino della sua famiglia, per le cui sorti tanto ha lottato. Ora può allontanarsi dalla vita pubblica di Firenze, nella villa di Castello dove era cresciuto suo marito Giovanni, e, nonostante le cattive condizioni di salute, dedicarsi alla cura e all’educazione delle/dei nipoti: Bia, che definisce “il sollazzo della corte”, la figlia naturale di Cosimo, poi Maria, la prima nata dal matrimonio di Cosimo con Eleonora di Toledo, Francesco, l’erede del potere mediceo, Isabella, la figlia prediletta del Duca, infine Giovanni, nato poco tempo prima della morte della nonna. 
Si spegne il 29 dicembre 1543 annientata dalla sifilide, la malattia che le era stata trasmessa dal marito e che l’aveva accompagnata per molto tempo della vita fino a intensificarsi terribilmente negli ultimi tre anni della sua esistenza. Il figlio Cosimo, avvertito all’ultimo momento dell’aggravarsi della madre, non fa in tempo a recarsi al suo capezzale per l’ultimo saluto. La salma viene trasportata a Firenze e sepolta nella tomba di famiglia nella chiesa di San Lorenzo a Firenze.

Quattro giorni dopo la morte, il ricordo di Maria fu rinnovato da un’orazione funebre pubblica declamata da Benedetto Varchi nell’Accademia fiorentina. Era questo un onore raramente attribuito alle donne e infatti Maria fu la prima donna fiorentina, e la prima appartenente alla casa Medici, a ottenere un simile omaggio. Le fu dedicato anche un testo biografico, composto dal Francesci e pubblicato a Roma nel 1545. La figura di Maria trovò spazio anche nella Storia fiorentina scritta da Benedetto Varchi e voluta da Cosimo I.

 

Fonti:

Benedetto Varchi, Storia fiorentina, Volume V, Milano, 1804
Dizionario biografico cronologico diviso per classi degli uomini illustri di tutti i tempi e di tutte le nazioni compilato dal professore Ambrogio Levati
, vol. III, pp. 118-119, Milano, 1822
Filippo Moisè, Lettere inedite e testamento di Giovanni de’ Medici detto delle bande nere con altre di Maria e di Jacopo Salviati, di principi, cardinali, capitani familiari e soldati, Archivio storico italiano, Firenze, 1858-1859, Documenti consultabili su 
http://www.cortedeirossi.it/letteregbn/

Cesare Marchi, Giovanni dalle Bande Nere, Rizzoli editore, 1981.

Carlo Capra, Storia moderna (1492-1848), Mondadori Education, 2004.
Bruce L. Edelstein, Eleonora di Toledo e la gestione dei beni familiari: una strategia economica? in
https://www.academia.edu/3728321/_Eleonora_di_Toledo_e_la_gestione_dei_beni_familiari_una_strategia_economica_
Maria Pia Paoli, Di madre in figlio: per una storia dell’educazione alla corte dei Medici , in https://www.academia.edu/4838459/Educazione_Medici_2008_testo_in_Annali_di_Storia_di_Firenze
Caroline P. Murphy, Isabella de’ Medici, Il Saggiatore, 2011.

Marcello Vannucci, Le donne di Casa Medici, Newton Compton editori, 2016.
https://www.jstor.org/stable/24308114?seq=1#page_scan_tab_contents

http://www.danielacavini.eu/maria-una-vita-per-cosimo/

http://www.treccani.it/enciclopedia/maria-salviati/

http://bia.medici.org/DocSources/Home.do
www.polomuseale.firenze.it/areastampa/files/.../Relazione%20FornaciariOK.pdf  

 
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Grazia Sanna Serra

(Iglesias (CI), 1915- 2000)

 

In occasione della mostra del 2016, il comune di Iglesias le ha intitolato la piazza del castello Salvaterra.

 

Una scrittrice sarda da riscoprire

 

di Laura Candiani

 

In Sardegna un'altra scrittrice di nome “Grassiedda”, oltre alla ben più nota Deledda, meriterebbe di essere ricordata: si tratta di Grazia Sanna, i cui libri tuttavia non sono usciti dall'ambito locale e attendono da molto tempo di essere ristampati e diffusi.

In vita sono comparsi tre romanzi, mentre di un quarto ci rimangono la trama e gli appunti indirizzati a uno sconosciuto “Giovanni” a cui confida le sue perplessità sui luoghi, le vicende e le tematiche trattate. Anche alcune poesie sono state ritrovate dalla figlia Maria Carmen, insieme ad un carteggio, il cui studio è stato affrontato da un'altra donna importante in questa vicenda: Laura Aru Pintus, curatrice di una bella mostra a Iglesias, in occasione della prima Fiera del Libro (22-25 aprile 2016). Dieci anni prima Iglesias l'aveva celebrata con un convegno nell'Archivio storico comunale dal titolo “La città raccontata da una donna: Iglesias nelle pagine di Grazia Sanna Serra” ; durante l'evento era nata l'idea di un concorso letterario in suo nome, che sembra però non abbia avuto seguito.

Ma veniamo a Grazietta; era figlia di una famiglia di commercianti di idee aperte; a Iglesias vivevano in una dimora storica, Casa Rodriguez, ancora oggi visibile nel centro della cittadina; poi si trasferirono a ridosso delle antiche mura in una villa circondata da piante di agrumi, dove attualmente risiede la figlia. In piena epoca fascista, la sua famiglia non si faceva troppo condizionare dal regime e la lasciava crescere libera di studiare, leggere, ascoltare musica, libera di uscire e persino di indossare il due pezzi in spiaggia, quando ancora era un indumento assai raro, per non dire proibito. Era una ragazza graziosa, dai bei capelli neri, dai lineamenti fini, come mostrano alcune fotografie in età giovanile. Aveva un carattere inquieto tanto che prima studiò presso il liceo musicale a Cagliari, che aveva deciso lei stessa di frequentare per la grande passione verso la musica e il pianoforte, poi lasciò questi studi per iniziare con altrettanta passione quelli di infermiera. Si diplomò e cominciò a lavorare presso la clinica pediatrica del prof. Giuseppe Macciotta a Cagliari. Riguardo alla vita sentimentale, si sa che aveva avuto un amore che però non si concretizzò con il matrimonio; a più di 30 anni conobbe un ufficiale dei carabinieri, Luigi Serra, che sposò nel 1950. Grazia allora smise di lavorare per dedicarsi alla famiglia e due anni dopo nacque la loro unica figlia, Maria Carmen.

Intanto cominciava saltuariamente a mostrarsi qualche sintomo del “male oscuro” che la accompagnò tutta la vita, un “male di vivere”, lo definisce la figlia, che emerse vistosamente una decina di anni dopo e tuttavia fu linfa vitale per le sue opere. Grazia infatti scrive, scrive, con entusiasmo e impegno, “febbrilmente”, come afferma lei stessa. «Togliermi di mano la penna è come togliere di mano il rosario a un santo», confessa nei suoi appunti inediti. Così prende vita il suo primo romanzo Il regno dei Pintadu, ambientato fra Nuoro e la fascia marina presso il golfo di Orosei, dove da bambina soggiornava in estate, ospite della zia; un paradiso perduto davvero perché la finzione ricalca dei fatti realmente accaduti, cioè la triste fine di alcuni terreni di proprietà della sua famiglia sommersi dalle acque della diga del fiume Cedrino. Evento da lei particolarmente sofferto e ricordato sempre con immenso dolore. La pubblicazione del romanzo non fu semplice: aveva contattato l'unico, allora, editore cagliaritano per posta e per telefono, ma era stata ignorata; non si perse d'animo e decise di andare personalmente a incontrarlo. Grazie alla cortesia della moglie, si fece ricevere e gli fece leggere qualche pagina dell'opera; l'editore si convinse immediatamente e lo stampò. Nello stesso anno della pubblicazione (1966) partecipò al Premio Deledda con un secondo romanzo inedito (I sudditi del Dio Rosso) che fu segnalato dalla giuria, ma rimase senza riconoscimento perché il premio non ricevette finanziamenti e fu sospeso. La seconda opera (pubblicata nel 1973) è ambientata nell'Iglesiente, nell'Ottocento, e descrive la comunità locale nelle sue contraddizioni sociali ed economiche. Grazia non disdegna i toni forti e qualche parola e situazione scabrosa, di cui non si scusa affatto con i lettori, anzi, nell'introduzione, afferma di non essere bigotta e di non scrivere né per i bambini né per gli imbecilli. Continuava intanto a dedicarsi anche alla poesia, tanto che alcuni suoi componimenti ricevettero il premio città di Firenze. Partecipò ad un altro concorso con una nuova stesura del secondo romanzo e lei stessa ricordava un aneddoto curioso: il concorso (dedicato alla poetessa Mercede Mundula) in realtà era per racconti e poesie, lei quindi si era sbagliata nel leggere il bando, tuttavia il suo romanzo piacque a tal punto che la giuria “inventò” un nuovo premio, assegnandole la medaglia d'argento.

Nel 1974 due eventi la segnarono profondamente: prima il matrimonio della amata figlia, poi la morte del marito; l'età avanzava e la salute non sempre la sosteneva ma Grazia, avvertendo il senso di vuoto e la solitudine, continuò a dedicarsi alle sue passioni: la lettura, la scrittura, la musica. Nel 1987 uscì la sua terza fatica, un'opera autobiografica (Tutto un mondo all'obiettivo) in cui racconta della sua famiglia, di sé e del suo ambiente; in seguito amava rivedere e rielaborare quanto già realizzato e che a lei, evidentemente, sembrava sempre non concluso.

La quarta opera era rimasta nel cassetto, forse perché non ne era convinta fino in fondo; la vicenda

era ambientata a Cagliari, nella clinica pediatrica in cui aveva lavorato in gioventù; tuttavia, essendo passato parecchio tempo, non era più sicura delle cure e della condizione di malati e medici, ma non voleva commettere errori nel testo. Ci teneva a sottolineare, nella lettera al signor “Giovanni”, che le protagoniste Benedetta e Maria Passione non erano riferibili a lei stessa e la situazione narrata non era autobiografica, anche se incentrata su un mondo che aveva ben conosciuto e amato.

Pur essendo stata apprezzata e stimata, pur avendo ottenuto lusinghieri giudizi e premi di varia natura, Grazia Sanna è rimasta una scrittrice sconosciuta ai più, anche agli stessi Sardi; nel 2016 il secondo romanzo ha avuto una piccola riedizione a uso locale, ed è un vero peccato. Anche le biblioteche pubbliche sono per lo più sfornite delle sue opere, come abbiamo potuto verificare. Probabilmente quando era il momento giusto, Grazia non trovò chi le desse fiducia e la “lanciasse” come meritava nel mercato della carta stampata. Speriamo che qualche editore sensibile e attento decida di riscoprirla.

 

Fonti:

 

Grazia Serra Sanna, Il regno dei Pintadu, Editrice sarda Fossataro, Cagliari, 1966 (con prefazione di Marcello Serra)
Grazia Serra Sanna, I sudditi del Dio Rosso, Edizioni 3t di Gianni Trois e figlio editori, Cagliari,1973

Grazia Sanna Serra, Tutto un mondo all'obiettivo, Ramagrafic editrice, Iglesias,1987

Gianmichele Lisai, Forse non tutti sanno che in Sardegna..., Newton Compton Editori, Roma, 2016

Grazia Sanna Serra, La scrittrice della città dell'argento, www.ladonnasarda.it (15-9-2016)

Una mostra ricorda Grazia Sanna Serra, www.tentazionidellapenna.com (30-4-2016)

La città sulle strade dell'arte, ricordo della scrittrice Grazia Sanna Serra, in “La nuova Sardegna” (22-4-2006)

Fiera del libro: scopriamo Grazia Sanna Serra, enricaena.blogspot.com (24-4-2016)

 

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Filiberta di Savoia

(1498 – Virieu, 1524)

Non risultano intitolazioni di strade e aree pubbliche in sua memoria

È lei la Gioconda?

di Barbara Belotti

I legami parentali intrecciati dai Medici con la famiglia Orsini, attraverso il matrimonio di Lorenzo il Magnifico con Clarice, avevano avuto lo scopo di aprire alla famiglia fiorentina le porte dello Stato della Chiesa per cominciare a tessere trame politiche anche in Vaticano. Si era trattato, inoltre, di un’unione che prometteva appoggi militari da parte degli Orsini, uomini d’arme da avere alleati al proprio fianco nei giochi dello scacchiere politico italiano. Su queste basi si era celebrato un secondo matrimonio, quello fra Piero, figlio di Lorenzo e Clarice, e Alfonsina Orsini.
Logico che a queste strategie, tutte interne alla politica italiana, si cercasse di affiancare un progetto dinastico di più ampio respiro che introducesse la famiglia Medici nelle grandi corti d’Europa.
Il primo passo fu quello delle nozze fra Filiberta di Savoia e Giuliano de’ Medici, ultimogenito di Lorenzo il Magnifico e Clarice Orsini.
Filiberta (1498 – 1524) è figlia di Filippo II di Savoia e di Claudina di Brosse. Alla nascita riceve il titolo di Marchesa del Gex, un possedimento del ducato di Savoia, al quale aggiunge in seguito quello di Signora di Fossano, Malaval, Bridiers, Thors, Fletz, Chasey, Poncin e Cerdon.
Quando sposa Giuliano, nel 1515, Filiberta ha 17 anni, lui 36, più del doppio della sua età.
Giuliano ha anche un figlio illegittimo, Ippolito, avuto da una relazione con Pacifica Brandano, una donna conosciuta alla corte di Urbino. La famiglia Medici sta risalendo la china, dopo il periodo di esilio seguito alla cacciata di Piero il Fatuo nel 1494, e l’elezione del fratello Giovanni al soglio pontificio, col nome di Leone X, rinforza le speranze di riaffermare l’antico prestigio.
Filiberta e Giuliano si incontrano in Francia il 1° gennaio 1515 per l’incoronazione di Francesco I: Filiberta è la zia del re, sorella di sua madre Luisa; Giuliano rappresenta il pontefice e sfoggia il titolo di duca di Nemours, concesso proprio da Francesco probabilmente su intercessione papale. Si sposano poco tempo dopo, prima a Parigi e poi, una seconda volta, al rientro a Firenze. La loro vita coniugale è di breve durata: Giuliano, che ha una salute cagionevole, muore nel marzo 1516 lasciando la moglie ancora molto giovane e senza un erede legittimo. Ludovico Ariosto dedica a Filiberta di Savoia la Canzone III: “Anima eletta che nel mondo folle,/ e pien d’orror, sì saggiamente quelle/ candide membra belle/ reggi, che ben l’alto disegno adempi/ del re degli elementi e delle stelle,/ che sì leggiadramente ornar ti volle/ perché ogni donna molle/ e facile a piegar nelli vizi empi,/ potesse aver da te lucidi esempi,/ che fra regal delizie in verde etade/ a questo d’ogni mal secolo infetto/ giunta esser può d’un nodo saldo e stretto/ con somma castità somma beltade:/ delle sante contrade,/ ove si vien per grazia e per virtute,/ il tuo fedel salute/ ti manda, il tuo fedel caro consorte,/ che ti levò di braccio iniqua morte.” Di Filiberta Ariosto celebra l’antico lignaggio e la grandezza del casato dei Savoia, ne canta le virtù morali e la fede religiosa. I versi si concludono con un saluto del marito Giuliano: “A queste fide parole/ a Filiberta mia scriva e rapporti:/ e prieghi per mio amor che si conforti”. Nelle annotazioni conclusive dei testi poetici viene riportato anche che la nobildonna “si diede nondimeno a vita ritirata e religiosa in un monastero da lei edificato”.
Filiberta resta ancora un po’ di tempo a Firenze, poi nel mese di luglio parte verso nord e si ferma nel castello di Carignano, ospite di Bianca Paleologa duchessa di Monferrato, che la accoglie con tutti gli onori. Ci dicono i documenti del tempo che la duchessa volle festeggiare l’arrivo della giovane vedova chiedendo ai suoi castellani di inviarle selvaggina e pescato in gran quantità per preparare raffinate portate per i banchetti. Filiberta ha intenzione di fermarsi per pochi giorni in Piemonte, ma una malattia la colpisce improvvisamente ed è costretta a fermarsi per più tempo.
In seguito i rapporti con la famiglia Medici e i contatti con la corte di Francia, sempre più intensi dopo il trasferimento nel palazzo parigino in cui vive la sorella Luisa di Savoia, permettono a Filiberta di seguire e assecondare le trattative per un altro matrimonio importante, quello fra Lorenzo, figlio di Alfonsina e Piero, e Maddalena de la Tour d'Auvergne.
Anche la vita di Filiberta di Savoia, come quella del marito Giulianbreve: muore a 26 anni in uno dei possedimenti francesi della famiglia Savoia, il castello di Virieu. È il 1524.
Nel libro Le donne di casa Medici Marcello Vannucci scrive: «Bella e saggia, ma su quelle sue qualità estetiche non tutti sono d’accordo. Troppo alta e curva nella persona; un volto dai lineamenti assai poco aggraziati: così ce la descrive qualcuno; altri però affermano il contrario: Filiberta di Savoia è una bella fanciulla». Di lei non rimangono molte immagini eppure recentemente è stata fatta un’ipotesi suggestiva. Nel 1515 Filiberta e Giuliano si trovano a Bologna, ospiti entrambi della famiglia Felicini, nota e potente casata di banchieri. A Bologna c’è anche Francesco I di Francia che ha condotto con sé un personaggio illustre, Leonardo da Vinci. Secondo alcuni storici il pittore, durante il soggiorno bolognese, avrebbe dipinto la “Gioconda” che, ma l’ipotesi è alquanto ardita, andrebbe interpretata come il ritratto di Filiberta duchessa di Nemours. 

Fonti:
Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Roma, 1999
Angelo Fraboni (a cura di), Rime e Satire di Ludovico Ariosto, tomo VIII, Firenze, 1824
https://it.wikipedia.org/wiki/Filiberta_di_Savoia
http://www.palazzo-medici.it/mediateca/it/Scheda_Giuliano_duca_di_Nemours
http://www.treccani.it/enciclopedia/giuliano-de-medici_(Dizionario-Biografico)
https://www.yumpu.com/it/document/view/42670775/filiberta-di-savoia-bresse-carignanoturismoit
http://cronologia.leonardo.it/savoia/sabdonne/donne3.htm
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/05/02/via-galliera-e-le-tracce-di-leonardo/108419/


Caterina Scarpellini

(Foligno, 1808 - 1873)

Nello spazio celeste esiste un cratere del pianeta Venere intitolato a Caterina Scarpellini, una delle maggiori astronome italiane, e c'è una stella cometa da lei segnalata nel 1854 che è rimasta legata al suo nome. Sulla Terra, invece, sia Foligno, che le diede i natali, quanto Roma, sede della sua attività scientifica, sono ancora in forte ritardo nel rendere omaggio al suo intelletto. Il gruppo di Toponomastica femminile ha proposto al Comune di Roma un'intitolazione nell'ex XX municipio, attuale XV.

Omaggiata in cielo, dimenticata in terra
di Saveria Rito
 
"Nelle sere del 2, 3 e 6 [aprile] corrente la Cometa presentava una forte luce al centro del nucleo, il quale era circondato da larga nebulosità che ripiegandosi indietro formava la coda": così si apriva su Corrispondenza scientifica del 1854, l'articolo sull'avvistamento di una nuova stella già osservata da altri a Senftenberg, Londra e Parigi pochi giorni prima e "ravvisata il primo di aprile dalla sig. Caterina Scarpellini all'Osservatorio Astronomico della Romana Università sul Campidoglio". Quella stella, classificata come C/1854 F1, fu uno dei più importanti fenomeni astronomici documentati da Caterina Scarpellini.
Nata a Foligno il 29 ottobre 1808, si trasferì a Roma diciottenne per completare la formazione e fare da assistente allo zio Feliciano Scarpellini, nominato nel 1826 responsabile dell'Osservatorio astronomico sul Campidoglio. In quell'ambiente conobbe Erasmo Fabri, anche lui astronomo, che divenne suo marito e, caso eccezionale, aggiunse al suo cognome quello della moglie. La coppia continuò a lavorare nella sede capitolina anche sotto la guida di Ignazio Calandrelli e fondò nel 1847 la rivista "La Corrispondenza scientifica di Roma. Bullettino universale", che aveva come fine  "la propaganda della contemporaneità scientifica" e il coordinamento di istituti di ricerca degli stati italiani pre-unitari ed esteri (in modo particolare riceveva aggiornamenti dalle accademie francesi e inglesi). È su questa rivista che Caterina Scarpellini pubblicò la maggior parte dei suoi articoli: potremmo citare a mo' di esempio quelli sull'osservazione di un'altra grande cometa nel giugno 1861 e sul passaggio di Mercurio davanti al Sole nel novembre dello stesso anno, sull'eclissi totale di luna del giugno 1863, sugli sciami di stelle cadenti, ma anche su terremoti e piogge di sabbia verificatisi a Roma negli anni sessanta dell'Ottocento, che sono sicuramente tra i suoi scritti più celebri. La rivista destò anche qualche sospetto politico, che va inquadrato nel clima di un'Italia risorgimentale ancora divisa, e sul tormentato rapporto tra scienza e potere, qualche tempo dopo, Caterina Scarpellini avrebbe scritto nell'incipit della biografia di Ignazio Calandrelli:
"Una lotta perfidiosa e indomabile tra la scienza e la ignoranza, fra la sapienza e l’astuzia fu e sarà sempre perpetua in questa valle di lagrime. - Ma la sapienza, forte di luce della ragione interminabile e della coscienza del ben fare, non soccomberà giammai alle insidie della insipienza e del dispotismo, che puntellandosi a vicenda altro non sono che l’origine maledetta dei mali degli uomini”.
Nel 1856, inoltre, ebbe l'idea di istituire una stazione ozonometrica e meteorologica privata presso l'osservatorio del Campidoglio, cui seguì la pubblicazione di un "Bullettino delle osservazioni ozonometriche-meteorologiche" per divulgare i dati da lei raccolti quotidianamente, e si occupò anche di rilevazioni idrometriche e idrotermiche del fiume Tevere. Le misurazioni del livello di ozono a Roma la portarono a teorizzare, col chimico Paolo Peretti, una relazione tra l’aumento di tale gas nell'aria e la diminuzione della diffusione del colera in città nel 1867.
Per il suo alto contributo scientifico, l'astronoma Scarpellini ricevette la medaglia d'oro del Regno d'Italia nel 1872, venne accolta nell'Accademia dei Georgofili di Firenze e in quella dei Quiriti di Roma e ottenne numerosi riconoscimenti anche all'estero.
Morì a Foligno il 28 novembre 1873.

Fonti:
Caterina Scarpellini  in Dizionario biografico delle scienziate italiane (secoli 18. -20.). Volume 2: Matematiche, astronome, naturaliste, a cura di Sandra Linguerri, Bologna, Pendragon, 2012, pp. 184-187.
Elisabetta Mattei, Caterina Scarpellini, una cometa sul Tevere, in Roma. Percorsi di genere femminile, Volume 1, a cura di Maria Pia Ercolini, Pavona di Albano, Iacobelli, 2011, pp. 134-135.
Simonetta Schirru, Scarpellini Caterina in Donne del giornalismo italiano, a cura di Laura Pisano, Milano, Franco Angeli,  2009, p. 338.
La Corrispondenza scientifica di Roma. Bullettino universale, a. 1854, numeri 10-11, pp. 84-85.

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Teresa Schemmari

(Noto (SR), 1952 - 1997)

Dopo la morte le è stato intitolato il Centro Giovanile con Servizio Informagiovani da lei ideato per il Comune di Noto. Il 21 febbraio 2016 è stata intitolata a Teresa Schemmari una pianta di jacaranda del “Giardino delle Giuste e dei Giusti” dell’Istituto “Matteo Raeli”; nel maggio dello stesso anno le è stato intitolato l’asilo-nido comunale.

Una vita tra amore, antropos e agorà

di Elinpaola Murè

Teresa Schemmari è nata a Noto il 15 aprile 1952. Bambina bella, intelligente e molto vivace è la terzogenita di Carlo, medico odontoiatra, e di Lucia Basile. All’età di 5 anni una caduta evidenzia una malattia congenita (ilmorbo di Albright), una forma di osteoporosi pseudocistica che determina la frattura delle ossa, anche senza una caduta vera e propria. La fanciullezza trascorre tra gessi, interventi ortopedici e carrozzelle.

A 7 anni frequenta con la sorella minore Maria la scuola elementare ma, a seguito delle continue fratture, Teresa è costretta a rimanere in casa, continuando gli studi da autodidatta. La sua disabilità fisica non l’ha mai ostacolata nell’affrontare intrepidamente la vita.

Anni dopo, nell’anno accademico 1982-1983 consegue la Laurea in Filosofia presso l’Università di Catania con 110 e lode discutendo una tesi incentrata sulla Logique di Alphonse Gratry (1805-1872), un epistemologo francese convertitosi al cattolicesimo e studioso di scienze matematiche e logiche. Il prof. Antonio Brancaforte, suo relatore, le chiede di fargli da assistente nelle lezioni di Antropologia culturale presso la Scuola di Servizio Sociale “Santa Caterina da Siena” di Noto.

Questa esperienza le permette di appassionarsi all’Antropologia culturale e di approfondire lo studio della realtà sociale di Noto, con il misterioso mondo dei Caminanti, stabilmente presenti dal 1952.

Proprio con una ricerca su “Caminanti nomadi di Sicilia” Teresa consegue la seconda laurea in Sociologia presso l’Università di Urbino con 110 e lode e la proposta di pubblicazione della tesi.

Gli studi universitari, unitamente al cammino di fede intrapreso con i Neocatecumenali, fanno evolvere la sua nascente religiosità in fede. Da antropologa sostenuta dalla fede riesce ad andare oltre, fino a vivere l’incontro con realtà diverse come quella dei Caminanti di Noto.

Indagando a fondo sulla loro organizzazione sociale e lavorativa, sui matrimoni, sul significato della morte, sull’origine e sulla denominazione della loro lingua, la ricerca non si è limitata alla semplice osservazione, ma è stata un vero e proprio ingresso nel tessuto culturale di questa etnia. Il lavoro antropologico di Teresa lancia la sfida di rispettare la radicale alterità dell’altro cogliendone le ricchezze.

Nel 1995 entra a far parte del Centro UNESCO di Catania e forma a Noto una sezione e nello stesso anno riceve dal Sindaco di Noto l’incarico di Dirigente del settore della Solidarietà Sociale e del Servizio Scuola. Si apre per lei la possibilità di vivere, con le parole della filosofa Hannah Arendt, “accanto alla sua vita privata una sorta di seconda vita, il suo biòs politikòs”.

Teresa innova radicalmente il settore dei Servizi Sociali impostando il futuro Centro Giovanile con il Servizio Informagiovani, volto ad assicurare assistenza e guida alle giovani generazioni desiderose di avviare nuove attività lavorative con gestione imprenditoriale. Nel marzo del 1996 ha pubblicato Puisìa, una silloge di versi in dialetto netino e in italiano.

Teresa ha vissuto intensamente il reale facendo le cose ordinarie, le più ordinarie, in modo straordinario.

Durante l’anno scolastico 2013-2014, l’Istituto d’Istruzione Superiore “Matteo Raeli” di Noto ha partecipato al Concorso nazionale “Sulle vie della parità” indetto da Toponomastica Femminile presentando un lavoro dal titolo Teresa Schemmari tra Amore, Antropos e Agorà e vincendo il primo premio per la sezione digitale. L’anno scolastico successivo il progetto è stato completato attraverso l’allestimento di una mostra Per raccontare Teresa: corpi, luoghi, immagini, (articolata in tre sezioni: fotografia- installazione e pittura- video, realizzate dai ragazzi degli indirizzi Artistico, LES e Scientifico) e l’organizzazione di un Convegno, dopo il quale è stata apposta, presso l’abitazione di Teresa, una targa commemorativa in ricordo del suo impegno culturale, politico e sociale nella storia di Noto.

 

 

Pubblicazioni di Teresa Schemmari

 

Ceramica popolare, in La ceramica moderna, Faenza dicembre 1983.

Il ruolo delle donne per una società più giusta, in La vita diocesana, Noto 26/4/1987.

Essere donna oggi, in Corriere Elorino, Rosolini 1>15/4/1987.

Corrado Curcio, Netum, Noto dicembre 1981.

Noto accanto ai piccoli e agli anziani, in La vita diocesana, Noto 19/1/1986.

Natale con gli anziani, inLa vita diocesana, Noto 27/1/1985.

Artigianato femminile da riscoprire, in La vita diocesana, Noto 11/10/1987.

Pierantonio Tasca: il piccolo Bellini, in La vita diocesana, Noto 20/5/1984.

Anna Marziano, in La vita diocesana, Noto 25/11/1984.

Religione e Società, in La vita diocesana, Noto 26/7/1985.

Ho trovato il senso della croce, in La vita diocesana, Noto 31/7/1988.

Ma tu sei per l’handicap? in La vita diocesana, Noto 10/9/1989.

Chi sono e da dove vengo, in La vita diocesana, Noto 8/1/1989.

Il cambiamento dei servizi e dei valori per assicurare il diritto alla diversità, in Asteroid, Augusta marzo 1992.

Il soggetto con Handicap supera i disagi solo se la società comprende i suoi valori, Diari doc, Siracusa 21/3/1992.

La politica è anche "donna", Diario doc, Siracusa 29/2/1992.

Il mondo dei Caminanti, Zingari oggi, Torino aprile 1993.

Esperienza Estiva per i Caminanti, Zingari oggi, Torino dicembre 1992.

I Caminanti di Noto, Zingari oggi, Torino febbraio 1993.

Quando la storia diventa eternità, in La vita diocesana, Noto 3/3/1991.

Per meglio sapere come vivono i Caminanti bisogna partecipare attivamente alle loro usanze, Diario doc, Siracusa 7/2/1992.

Chi sono e da dove vengono i Caminanti che rifiutano l'appellativo di zanni, Diario doc, Siracusa 22/2/1992.

I Caminanti: realtà ed immagine, in Alveria, Noto 25/12/1989.

Dei seminomadi a Noto: problema sociale ma soprattutto etico ed antropologico, in Elorino n. 3, Rosolini 1>15/2/1990.

I Caminanti: aspetti di una cultura, Conferenza del 17/11/1990, Noto, in Lacio Drom n. 2 Roma 1991.

I Caminanti che si fermano a Noto, in La città, Noto gennaio 1991.

I Caminanti: aspetti di una cultura, in Corriere Elorino, Rosolini 1>15/2/1991.

Caminanti Siciliani, in Setteppì, Noto 19/5/1991.

Il popolo fantasma, in Cronache parlamentari siciliane, Palermo luglio 1991.

Analfabeti d'antica cultura, in La Sicilia, Catania 23/7/1991.

Caminanti Siciliani, in Zingari Oggi n. 4, Torino agosto>ottobre 1991.

Sicilia senza tempo, in Espresso Sera, Catania 12-13/12/1991.

Il popolo nomade nella nostra Noto, in La vita diocesana, Noto 3/1/1991.

Esseri, in AA.VV., Caleidoscopio, Gugnali, Rosolini 1992.

Vindicari, di G.L. Danzuso e G. Gambino, Sanfilippo, Catania 1991(collaborazione).

I Caminanti. Nomadi di Sicilia, Firenze Atheneum, Fi 1992 (saggio), Premio Medaglia d'oro  "I migliori dell'anno 1992", "Scena Illustrata" e 2° premio “Calabria '79", 1993.

Puisìa, Pungitopo, 1996.

 
Fonti

Antonio Brancaforte, Teresa Schemmari. Fides et Ratio: una sintesi felice, in Testimoni di vita cristiana del XX secolo nella chiesa di Noto, La Vita diocesana, Diocesi di Noto, gennaio 2001.

Francesca Gringieri Pantano, Teresa Schemmari in Le Siciliane, Emanuele Romeo Editore, marzo 2006.

Atti della Mostra-Convegno-Intitolazione Teresa Schemmari tra Amore, Antropos e Agorà, Istituto di Istruzione superiore “Matteo Raeli”- Noto, 2015.

 

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Maria Antonia Serra Sanna

(Nuoro, 1866 - Luogo e data di morte sconosciuti)

Non risulta alcuna intitolazione

"Sa Reina" nuorese

di Laura Candiani

A fine Ottocento il Nuorese era percorso da briganti i cui nomi evocavano puro terrore: Antonio Mulas, Giuseppe Pau, Tomaso Virdis,Vincenzo Fancello, Paolo Solinas e i temibili Serra Sanna: Giacomo, Elias e la sorella Mariantonia, detta “sa Reina”(la regina). Questi banditi, a capo di centinaia di uomini, spesso emanavano veri e propri “bandi” a cui la popolazione doveva sottostare se non voleva incorrere in punizioni tremende ed esemplari.
Nel 1899 il capitano Giuseppe Petella e il tenente Giulio Bechi si misero accanitamente sulle loro tracce, in una “caccia grossa” come quelle che si facevano ai cinghiali; il presidente del Consiglio dell'epoca Luigi Pelloux inviò in Sardegna truppe allo scopo di annientare definitivamente la piaga del brigantaggio e nei primi mesi della “caccia alcuni risultati cominciano a vedersi” con l'arresto di numerosi latitanti.

Si sa che dietro le azioni di Elias e Giacomo, fratelli amatissimi, c'era Mariantonia, la mente organizzatrice di furti, omicidi, vendette. Nella fama popolare, tramandata anche da Grazia Deledda, viene descritta molto bella, alta e robusta, dai lineamenti fini, pallida, con due grandi occhi neri e due sopracciglia folte, spietata e diabolica. Quando incedeva per le vie con il ricchissimo costume tradizionale, accompagnata dalle serve, incuteva rispetto e timore e qualcuno si inchinava come fosse una vera regina.
La famiglia aveva fatto fortuna: il padre Giuseppe detto Peppeddu, noto con il soprannome “Carta”, era stato un pastore poi diventato possidente con case, vasti terreni, animali. Il patrimonio era gestito da Mariantonia che usava metodi infallibili per incrementarlo: visitando amici e conoscenti chiedeva gentilmente a nome dei fratelli piccoli favori e doni concreti (armi, munizioni, soldi, bovini e ovini) che naturalmente non potevano essere rifiutati; lei poi rilasciava regolare ricevuta. Fra il 1897 e il '99 le visite di cortesia furono particolarmente frequenti e spesso “sa Reina” si faceva accompagnare da una amica bella, istruita e ambiziosa: Giuseppa (Peppa) Lunesu. Si racconta che si fosse innamorata di un bandito piuttosto insignificante ma che per lei avesse perso la testa un carabiniere, trasferito in breve tempo nel continente per non portare disonore all'esercito regio.

Ufficialmente Mariantonia conduceva una vita regolare, non si era data alla macchia come i fratelli proprio per avere libertà di azione e poterli supportare nella latitanza; si racconta che indossasse talvolta abiti maschili per raggiungerli a cavallo nei luoghi impervi del Supramonte dove si nascondevano. Una sola volta era stata arrestata ed era rimasta in carcere alcuni mesi, nel 1895; poi l'accusatore, terrorizzato dalle possibili conseguenze, aveva ritrattato e lei era stata rilasciata.

Nel 1899 la lotta al banditismo venne animata da vero furore: il prefetto di Sassari, il conte Giovanni Battista Nepomuceno Cassis, voleva arrestare tutti i latitanti (ma solo a Nuoro se ne contavano circa 200) e procedeva con metodi ritenuti anche all'epoca discutibili e soprattutto inefficaci. Per ritorsione e come minaccia arrestava i parenti dei ricercati, ritenuti sempre dei fiancheggiatori; le fonti informano che addirittura sul quotidiano “La nuova Sardegna” fu inserita una apposita rubrica dal titolo significativo:” Testa di Cassis”.
Si arriva ad un momento chiave: la notte fra il 14 e il 15 maggio 1899 passò alla storia come la “notte di san Bartolomeo” sarda perché portò a circa 600 arresti, proseguiti anche nei giorni successivi; tuttavia almeno la metà degli imputati furono subito messi in libertà, gran parte dei rimanenti furono prosciolti per mancanza di prove. Mariantonia, che allora aveva 33 anni, e il padre vennero catturati nella loro abitazione e portati via fra lo stupore generale.
Poco tempo dopo l'azione si spostò nelle campagne e sui monti. A Morgogliai, a circa 30 km. da Orgosolo, fra il 9 e il 10 luglio avvenne uno scontro epico in cui persero la vita sia Giacomo, di 34 anni, sia Elias che di anni ne aveva 27. Per loro si mobilitarono forze ingenti, più di 200 fra carabinieri e soldati guidati dal capitano Petella e dal brigadiere Cau.

Mariantonia seppe in carcere della morte dei fratelli e si chiuse nel suo immenso dolore. Fu condannata a 20 anni, la pena più dura fra tutte quelle comminate agli arrestati di maggio (rimasti circa 150), e ne scontò 18 nella cupa prigione la “Rotonda” di Nuoro (oggi abbattuta).
Si sa che al suo rilascio, ormai cinquantenne, si sposò con un uomo di Orgosolo, fratello di una compagna di cella, e vissero insieme per un certo periodo a Nuoro. Poi anche i familiari ne persero le tracce e non ne seppero più nulla.

 

Fonti

 

Giulio Bechi, Caccia grossa: scene e figure del banditismo sardo, Ilisso, Nuoro, 1997

Brigaglia, Mastino, Ortu, Storia della Sardegna, Laterza, Bari, 2006

Grazia Deledda, Cosima, Mondadori, Milano,1998

Franco Fresi, Le banditesse. Storie di donne fuorilegge in Sardegna, Il Maestrale, Nuoro, 2015

Giovanni Ricci, Sardegna criminale, Newton Compton editore, Roma, 2007

www.ladonnasarda.it

www.sandalyon.eu
www.rivistadonna.com

www.webalice.it

 

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Caterina Sforza

(Milano, 1463 – Firenze, 1509)

L’odonomastica italiana ricorda Caterina Sforza con una piazza a Roma e con vie nei centri di Forlì, Forlimpopoli, Imola e San Mauro Pascoli.

La virtù meravigliosa di trovare tempo per tutto e tutti
di Barbara Belotti

Ci sono molte figure femminile nei primi anni della vita di Caterina Sforza.
Prima di tutto Lucrezia Landriani, sua madre, che l’ha avuta da una relazione con Galeazzo Maria Sforza; poi la nonna Bianca Maria Visconti che si prende cura di lei, la segue amorevolmente e la educa ai doveri e agli onori del suo ruolo. Infine Bona di Savoia, la moglie del padre, che la accoglie all’età di cinque anni mostrandosi gentile e amorevole. Con lei resterà un rapporto affettuoso per tutta la vita.
Nonostante sia una figlia illegittima, riceve un’educazione accurata e Caterina si rivela un’allieva interessata, desiderosa di conoscere e comprendere e dotata di grande memoria; studia la lingua latina e conosce i classici, si appassiona alle scienze, soprattutto la botanica e la chimica. Al contrario delle altre ragazze, Caterina subisce il fascino dei combattimenti e delle armi che impara a usare forse ereditando il gusto dal padre e dalla nonna Bianca Maria.
Malgrado Galeazzo sia un uomo dispotico e prepotente, con lei sembra premuroso e attento, alla sua morte Caterina proverà un profondo dolore. Certo, lui la considera una pedina da manovrare per creare alleanze dinastiche favorevoli ai suoi progetti politici, ma questo accade in tutte le famiglie del tempo. Caterina è conscia del suo ruolo e si dimostra, a tempo debito, ubbidiente e decisa nell’accettare il proprio destino; non si dimostrerà, però, passivo strumento nelle mani altrui, anzi saprà essere protagonista di tante vicende storiche e politiche.
Uno dei primi avvenimenti pubblici a cui partecipa è il viaggio a Firenze compiuto nel 1471 insieme al padre Galeazzo e a Bona di Savoia per visitare la famiglia Medici. La corte milanese si muove con gran pompa: carri rivestiti con tessuti d’oro e d’argento, moltissimi cavalli riccamente bardati, 100 uomini armati, 500 fanti, 50 staffieri vestiti di seta e argento, 500 coppie di cani e moltissimi falconi e sparvieri per la caccia; con la famiglia ducale, inoltre, un lungo seguito di aristocratici e cortigiani. Nonostante lo sfarzo mostrato dalla corte milanese, la famiglia Medici sa dare il meglio di sé. Accoglie gli ospiti con il suo tesoro di opere e oggetti preziosi e raffinati, dimostrando uno stile e una cultura che non ha pari; anche la città è coinvolta e sono allestiti tre spettacoli di carattere religioso, ciascuno in una importante chiesa: l'Annunciazione a San Felice in Piazza, l'Ascensione in Santa Maria del Carmine, la Pentecoste in Santo Spirito; per le rappresentazioni delle prime due vengono utilizzate delle macchine (ingegni) il cui progetti sono attribuiti da Vasari a Filippo Brunelleschi. Se ospiti e invitati restano colpiti dall’eleganza di quelle giornate, è probabile che ugualmente la piccola Caterina sia affascinata da quanto visto a Firenze e nella corte medicea; d’altra parte anche lei vive in una corte immersa nel clima umanista, conosce artisti e letterati che frequentano e animano il ducato di Milano. La città e la famiglia toscana, che conosce in questa occasione, torneranno nella sua vita di donna anche se lei, ancora bambina, questo non può ancora saperlo.
Alcuni anni dopo Caterina viene data in sposa a Girolamo Riario, nipote di papa Sisto IV; il contratto di fidanzamento è firmato nel 1473, il matrimonio celebrato per procura a Milano ma solo nel 1477, quando Caterina raggiunge “un’età conveniente”, si unisce al marito.
È giovane e bella. Le vengono attribuiti molti ritratti, ma la critica è più concorde nel rintracciare le sue sembianze nel quadro La dama dei gelsomini di Lorenzo di Credi, dipinto presumibilmente tra il 1485 e il 1490. L’opera raffigura una giovane donna dai capelli biondi con alle spalle un doppio scenario: sulla destra colline e rocce dietro a uno specchio d’acqua, sulla sinistra una costruzione turrita che si specchia in un fiume. La fanciulla ha tra le dita affusolate delle mani alcuni gelsomini, forse da associare agli interessi di Caterina per la botanica, la chimica e i rimedi naturali sia nella cosmesi che in medicina. In un suo recente studio la storica dell’arte Magdalena Soest ha proposto una suggestiva ipotesi sulla base di una certa somiglianza fra questo quadro e i ritratti di Leonardo: La dama dei gelsomini di Lorenzo di Credi raffigurerebbe la contessa Sforza da giovane, mentre la Gioconda leonardesca sarebbe un successivo suo ritratto in età più matura.
In una delle prime biografie su Caterina, Pier Desiderio Pasolini racconta: “Era in lei (scrivono i contemporanei) una virtù meravigliosa per trovare tempo per tutto e per tutti. Nonostante le cure della famiglia, dei figlioli, della corte, della politica, trovava modo di leggere molto, e pare che più che altro leggesse libri storici e divoti”. E ancora: “Caterina è l’ideale della virago cantata dal Boiardo, dall’Ariosto e dai poeti romanzeschi. Caterina è l’ultimo, ma forse il perfetto tipo dell’eroina cavalleresca del medioevo. Essa è grande nella storia non già per aver iniziato tempi nuovi, ma per avervi spiccato come figura antica”.
Una figura degna di vivere tra le pagine dei grandi poemi cavallereschi: come scrive Joyce de Vries nel Caterina Sforza and the art of appearances il termine virago mette in evidenza i tratti duplici del personaggio, quelli femminili e quelli maschili che si alternano nel corso della vita.
Come moglie si mostra figura rispettabile, elegante e colta: commissiona opere, fa realizzare architetture, colleziona oggetti preziosi; a Roma, pur ancora molto giovane, è un personaggio di spicco nella corte di Sisto IV. Raffinata come è, frequenta artisti, letterati, musicisti e si trova al centro della considerazione anche del pontefice; partecipa a cerimonie pubbliche, ricevimenti, visite diplomatiche, nei territori romagnoli contribuisce a trasformare il volto dei centri urbani rafforzando la rocca di Imola, costruendo edifici difensivi, palazzi e ville secondo il gusto elegante del Rinascimento. A Milano, quando torna per mantenere vivi i legami familiari e politici con la famiglia d’origine, ha modo, presumibilmente, di conoscere e seguire i lavori e le ricerche, anche scientifiche, di Leonardo. La passione per le scienze la accompagna lungo tutta la vita e, nonostante i grandi impegni politici e militari che deve affrontare, non abbandona i suoi studi e i suoi interessi riuscendo negli anni a raggiungere un’esperienza e una conoscenza tali da potersi confrontare con medici e scienziati del tempo.
Ben diversa è, invece, l’immagine che ci tramanda la storia al momento della morte di Sisto IV, nell’estate del 1484, quando tumulti popolari e disordini terrorizzano Roma. Le biografie ricordano una Caterina audace e determinata nel raggiungere Castel Sant’Angelo e rivendicare il ruolo di governatore del marito Girolamo; la sua è la difesa estrema del potere che sembra vacillare e, a capo di un contingente di soldati, si dimostra capace di resistere dodici giorni prima di arrendersi.
Gli stessi tratti ardimentosi li mostra alla morte di Girolamo Riario, ucciso in una congiura il 14 aprile 1488: in pochi giorni riesce a passare dalla condizione di prigioniera a signora dei territori di Forlì e Imola. Il 30 dello stesso mese diventa reggente di quest’area della Romagna per conto del figlio Ottaviano, ancora troppo piccolo per poter esercitare il potere, e si trasforma ancora una volta proponendo di sé una doppia immagine, quella di vedova fedele e di reggente determinata. Vendica la morte del marito mettendo in prigione chiunque abbia appoggiato la congiura contro di lui, distrugge le abitazioni delle famiglie contrarie al suo potere e distribuisce i loro beni fra la popolazione povera. Dopo la vendetta Caterina, che ha le terre di Imola e Forlì sotto il suo diretto controllo, può dedicarsi alla politica e al governo non solo stabilendo alleanze strategiche, ma prendendo decisioni per il suo Stato: rivede il sistema fiscale, riduce o elimina alcuni dazi, controlla le spese, si dedica all’approvvigionamento delle truppe militari e al loro addestramento. Per la sicurezza dei suoi territori, situati in una posizione di passaggio obbligato fra il Nord e il Sud Italia, sa che gli apparati militari hanno una funzione strategica, anche se Caterina sceglie di rimanere neutrale in questo periodo di forti tensioni fra il regno di Napoli e il Ducato di Milano.
Terribile e indomabile si dimostra in un’altra occasione, quando nel 1495 viene ucciso in un agguato il secondo marito, Giacomo Feo, sposato con nozze segrete per non perdere la tutela del figlio e il controllo del governo. Le punizioni per chi ha tradito sono feroci, secondo le testimonianze storiche addirittura superiori per durezza alle repressioni per la morte di Riario. Caterina Sforza compie scelte e si attribuisce compiti e impegni più di quanto non sia necessario per un uomo e, scrive ancora Joyce de Vries, il suo volto pubblico sembra gestito da lei in modo tale da contrastare la disapprovazione sociale che accompagna le posizioni di comando di una donna.
La vita di Caterina Sforza ha molte fasi, tutte ugualmente importanti e dense di avvenimenti.
La “terza vita” comincia quando incontra l’ambasciatore della Repubblica di Firenze, Giovanni de’ Medici detto il Popolano, membro di un ramo collaterale della famiglia. Questo terzo matrimonio viene celebrato nel 1497, Caterina ha 34 anni, Giovanni 30, dalla loro unione nasce Ludovico. La loro storia è destinata a durare poco, Giovanni si ammala improvvisamente e a nulla servono le cure e il trasferimento a Santa Maria in Bagno, dove si spera che le acque termali possano avere un effetto benefico. Caterina è al suo capezzale e lo assiste fino alla fine, avvenuta il 14 settembre 1498; dopo la scomparsa decide di mutare in Giovanni il nome del figlio, in memoria del padre.
Sono momenti difficili per la storia d’Italia e Caterina non può far prevalere il suo dolore sul ruolo politico e militare. Prima si scontra con l’esercito di Venezia che attacca Forlì poi, nel 1499, si prepara ad affrontare le truppe di Luigi XII re di Francia: rinforza le rocche, fa scorte di viveri per sopportare l’assedio, addestra i soldati e fa nuove reclute. La minaccia è davvero fortissima, guida l’esercito francese Cesare Borgia che vuole la Romagna tutta per sé.
La più bella, la più audace e fiera, la più gloriosa donna d'Italia, pari se non superiore ai grandi condottieri del suo tempo la definisce Cecilia Brogi nel suo libro su Caterina Sforza; e così la descrivono le cronache del tempo che raccontano come, per molti giorni, riesca a contrastare con successo l’assedio dell’esercito francese, cercando di contrattaccare in ogni modo. Cesare Borgia ha la meglio solo il 12 gennaio 1500, dopo aver bombardato per sei giorni consecutivi la Rocca di Ravaldino. “Magnanima impresa” fu definita da Machiavelli la strenua difesa di Caterina Sforza; e ben le calza l’appellativo di Tygre che le cronache del tempo le assegnano.
Caterina, una volta catturata, fa l’abile mossa di dichiararsi prigioniera delle truppe francesi sapendo che una legge in vigore in Francia non consente alle donne di essere trattate come detenute di guerra. Se Cesare Borgia abbia fatto buon viso a cattivo gioco a questo guizzo di furbizia non è del tutto accertato, di fatto la donna viene presa in consegna dai suoi uomini, trattata come un’ospite ma trasferita a Roma. In un primo momento è condotta in Vaticano e alloggiata nel Palazzo del Belvedere; successivamente, incolpata di aver attentato alla vita di papa Borgia, è rinchiusa nelle prigioni di Castel Sant’Angelo. Anche in questo caso non ci sono fonti storiche unanimi, anche se mi piace pensare che l’irriducibile donna sarebbe stata realmente capace di avvelenare il pontefice pur di riconquistare la libertà e i suoi territori.
Sta di fatto che nella fortezza di Castel Sant’Angelo Caterina rimane per circa un anno, fino all’estate del 1501, liberata grazie all’intervento dell’esercito francese. Riacquistata la libertà è costretta però a firmare un documento di rinuncia a ogni pretesa di governo sui territori di Imola e Forlì.
Non le rimane che la possibilità di lasciare Roma alla volta di Firenze, dove si trovano i suoi figli e l’unica figlia Bianca. Caterina, che ai tempi in cui Giovanni de’ Medici era ambasciatore, aveva ottenuto la cittadinanza fiorentina, va a vivere nei possedimenti del suo ultimo marito, soprattutto nella Villa di Castello.
Comincia un’altra fase della sua esistenza, ancora una volta una fase di lotte. In primo luogo contro il cognato per l’affidamento del figlio più piccolo, Giovanni. Al momento dell’arresto il bambino le era stato sottratto ma, una volta riacquistata la libertà, Caterina sfodera tutta la determinazione di madre e dà battaglia legale, vedendo riconosciuti i suoi diritti. Infatti la sua detenzione non è paragonata a quella di un delitto comune e il giudice, nel 1504, le restituisce il piccolo Giovanni, destinato ad azioni “d’arme e audaci imprese” e a
dare origine alla dinastia granducale della famiglia Medici.
Mentre difende i suoi legami familiari, Caterina lotta anche per riconquistare i territori sottratti da papa Alessandro VI Borgia, scomparso nel 1503. La sua morte significa la perdita del potere per il figlio Cesare e Caterina comincia a immaginare di poter tornare a governare Imola e Forlì; anche il nuovo papa Giulio II non si oppone. È però il popolo a non volere più il governo della contessa Caterina: ora non le rimane altra possibilità che chiudere definitivamente questa fase della sua esistenza.
Si dedica unicamente alla sua famiglia, alle relazioni sociali e alle sue passioni scientifiche, alle ricerche chimiche, a quelle cosmetiche e mediche, alla scoperta di rimedi naturali. Di questi suoi interessi ci resta un libro, Experimenti della excellentissima signora Caterina da Forlì, in cui sono racchiuse 471 ricette. Ecco alcuni di quei rimedi: Aqua a fare la faccia bianchissima et bella et lucente et colorita: piglia chiara de ove et falla distillar in alambicco et con quella aqua lava la faccia che è perfectissiina a far bella et leva tutti li segni et cicatrici; […]
A guarir le mano crepate: piglia succo de ortiga et un poco de sale et nzestica insieme bene et ognete le mano dove sonno crepate; […] A fare aqua de oclmi perfectissimna: piglia aqua vida (acquavite) aqua rosada aqua de imuta aqua de finochi zucaro fino et mestica omnni cosa insieme etpoi mmzetti una goccia ne lo occhio; […]  A far li denti bianchi: piglio un maruio bianco, corallo bianco, osso di seppia, salgetnnma, incenso et mastice. Polverizza bene et metti detta polvere in un sacchetto di tela piccolo, frega i denti poi lava con buon vino et poi frega coli una pezza di panno scarlatto; A fare odorare la bocca et el fiato: piglio scorsa de cedro, noce moscata, garofoni et salvia. Fa polvere, incorpora con vino et fanne pallottole et pigliane prima ti el cibo et de poi del cibo […] A far venir capelli de color castagnaccio se prima fossero bianchi: piglio mela cruda et fanne aqua con alambicco de vetro a fuoco lento et bagna 4 o5 volte la settimana et veniranno eccellenti.
Nonostante gli interessi per il mondo medico-scientifico, nulla può la sua esperienza contro una forte polmonite che la uccide nella primavera del 1509.

Fonti
Pier Desiderio Pasolini, Caterina Sforza, Roma, 1893
Cecilia Brogi, Caterina Sforza, Arezzo, Alberti & C.Editori, 1996
Natale Graziani, Gabriella Venturelli, Caterina Sforza, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001
Joyce de Vries, Caterina Sforza and the art of appearances, New York, 2010
Marcello Vannucci, I Medici, una famiglia al potere, Newton Compton editori, 2015
Marcello Vannucci, Le donne di Casa Medici, Newton Compton editori, 2016
http://bia.medici.org/DocSources/Home.do
http://francescasandri.altervista.org/universita/arte/progetto.html
https://it.wikipedia.org/wiki/Caterina_Sforza
http://www.palazzomedici.it/mediateca/it/Scheda_1471__Visita_di_Galeazzo_Maria_Sforza_e_di_Bona_di_Savoia&id_cronologia_contenuto=2

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Nerina Maria Simi

(Firenze, 1890 - Firenze, 1987)

Nel  luglio del 2014 il comune di Stazzema ha intitolato a Nera Simi una piazza – belvedere, omaggio ad una pittrice che ha contribuito, con la sua arte e la sua presenza, ad arricchire il valore artistico del paese dell’Alta Versilia.

La migliore allieva
di Barbara Belotti
 
Chissà quante volte Nera Simi avrà contemplato lo scenario montano che oggi è possibile guardare dal belvedere che le è stato dedicato. Stazzema era per lei, e per tutta la sua famiglia, un luogo del cuore, un buen retiro dove trascorrere i giorni d’estate; ma anche un mondo dove lavorare e accogliere le allieve e gli allievi giunti da tutto il mondo per seguire i suoi corsi di pittura e di disegno.
La vita di Nera Simi è l’arte e l’arte è la sua vita.
Nata a Firenze nel 1890, si dedica allo studio della pittura seguendo le orme del padre, l’artista Filadelfo Simi, che l’accompagna e la segue fin dall’inizio. È una sua allieva, la sua “migliore”allieva.
Dopo gli studi nell’Accademia di Belle Arti di Firenze e il diploma conseguito nel 1914, ottiene anche l’abilitazione alla docenza e comincia ad insegnare  nell'Istituto delle Montalve "Alla Quiete" di Firenze, dove resterà fino al momento di andare in pensione.
Partecipa alle prime mostre insieme al padre e al fratello Renzo, esponendo nel 1917 a Firenze e l’anno seguente a Forte dei Marmi, accanto ad artisti di fama.
La sua esperienza artistica prosegue nel solco della tradizione che eredita da Filadelfo, lontana dalle sperimentazioni delle Avanguardie, ma anche dai trionfalismi dell’arte di regime; la sua ricerca pittorica conserva la pastosità delle pennellate, i morbidi accordi cromatici e la sensibilità luministica della pittura tardo ottocentesca. Privilegia i paesaggi e i ritratti, temi che mettono in risalto le caratteristiche del suo naturalismo e la freschezza della sua pittura.
Nei disegni e negli studi preparatori, realizzati con pastelli, matite colorate o carboncini, i tratti, necessariamente veloci e sommari, nulla tolgono alla resa comunicativa, segno inequivocabile di una tecnica artistica consapevole e salda.
Su questi presupposti si basa, dopo la morte del padre avvenuta nel 1923, la sua attività di insegnante di disegno e di pittura nella Scuola Internazionale di Via dei Tintori (oggi via Tripoli) a Firenze. L’istituto, fondato e diretto fino al momento della morte da Filadelfo, ha accolto giovani pittori e pittrici da tutto il mondo: ora è Nera ad occuparsene e a seguire anche i corsi nell’Istituto di Stazzema che diventa, in quegli anni, un vero e proprio cenacolo artistico internazionale.
La carriera espositiva di Nerina prosegue negli anni: nel 1927 partecipa alla 80° Esposizione Internazionale di Palazzo Pitti  e nel 1933 alla Mostra Interregionale Sindacale. Purtroppo, destino comune a molte artiste, le sue opere non sono identificate e la ricostruzione del suo percorso risulta, per questo motivo, meno lineare.
Il legame affettivo e professionale con il padre è un altro dei tratti caratteristici dell’esistenza di Nera. Anche a distanza di tanti anni, lei sente che deve rimanere fedele all’eredità culturale e professionale lasciatele. Collabora quindi, nel 1958, all'allestimento della mostra retrospettiva in onore di Filadelfo organizzata a Palazzo Strozzi dal Comune di Firenze; diversi anni dopo, nel 1985, un’altra grande mostra retrospettiva nella Villa Medicea di Seravezza la vede impegnata nel mantenere vivo il ricordo del padre.
Muore due anni dopo, nel 1987. Riposa nel cimitero di San Miniato accanto alle spoglie dei genitori.

Fonti:
Alba Tiberto Beluffi, Filadelfo Simi, un uomo, un artista, Pisa, Pacini ed., 1996
Alba Tiberto Beluffi, Nera Simi, Catalogo della mostra, Pietrasanta, Tipografia Dini, 2009
http://www.dols.it/2014/07/13/stazzema-belvedere-sulla-versilia/
http://www.lagazzettadiviareggio.it/alta-versilia/2014/07/dal-12-luglio-due-mostre-per-ricordare-nerina-simi-e-la-sua-scuola/
http://www.filadelfosimi.it/biografia/nera_simi.htm
http://www.filadelfosimi.it/opere/archivio_beluffi/nera_simi/anni_trenta.htm
http://www.prolocoseravezza.it/?p=3777
http://www.anneshingleton.com/ita/mostre-attuali.htm

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Sara Sismondi Forti

(Ginevra 1776 - Pescia 1835)

Né di Sara né di sua madre Henriette - appartenenti a un’illustre famiglia di origine pisana, legate in vario modo a uomini celebri, autrici di diari e di un’infinità di lettere - si hanno tracce nella toponomastica di Pescia e dintorni (prov. di Pistoia). Il loro prezioso patrimonio cartaceo è custodito presso l’Archivio di Stato di Pescia, all’interno del vasto fondo della famiglia Sismondi. A Francesco Forti (1806/1838- giornalista, giurista, magistrato, figlio di Sara) è dedicato l’Istituto Tecnico Commerciale di Monsummano Terme.

Henriette e Sérine, da Ginevra a Pescia, nell'Europa di fine Settecento
di Laura Candiani
 
Sara (detta Sérine) Simonde de Sismondi1  è un personaggio assai interessante per svariati motivi: parte di una famiglia così antica e illustre da essere ricordata nella “Commedia” di Dante, autrice di un diario assolutamente originale, sorella e madre di due uomini di spicco nel panorama culturale dell’epoca (difficile) in cui visse, protagonista di un’emigrazione inversa e di un atipico matrimonio d’amore.
Nel 1795 la situazione europea è critica e una coalizione internazionale ha mosso guerra alla Francia per arginare gli effetti della rivoluzione. A Ginevra – dove vivono i Simonde - si è concluso il periodo detto del Terrore, ad alcuni nuclei cittadini preferiscono espatriare.
La famiglia Sismonde, benestante, di religione protestante, dalla cultura vasta, abituata a viaggi e soggiorni all’estero, è composta dalla madre (Henriette Girodz), dal padre (Gédéon François Simonde) e da due figli: Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi (1773-1842) - celebre storico, economista, critico letterario - e Sara (nata nel 1776).
Parte della famiglia si mette in viaggio per luoghi più sicuri e tranquilli. Il padre resta in Svizzera a curare gli affari, madre, figlia e Charles lasciano Ginevra senza sapere se vi faranno mai ritorno e se metteranno radici altrove.
Henriette scrive per circa trent’anni, Sara per otto unendo lo stile del diario a quello epistolare (si rivolge spesso alla cara amica Mary rimasta in patria).  Emerge, dalle sue parole, la vivace personalità della ragazza: curiosa, brillante, osservatrice critica e accurata nel cogliere i dettagli, tanto delle persone quanto degli ambienti e della natura.
Il primo motivo di interesse verso Sara è proprio nel suo “Journal”, sopravvissuto, insieme a quello della madre, per oltre due secoli: si tratta di una raccolta di semplici quaderni, di piccole dimensioni, legati fra loro con ago e filo. Inizialmente in francese, dal 1793 vengono scritti in inglese, praticamente senza punteggiatura né maiuscole, con numerose abbreviazioni e narrano in modo avvincente il loro avventuroso viaggio: tre “fuggiaschi”, anomali per l’epoca, che non affrontano un “grand tour” né una piacevole vacanza, ma si dirigono verso luoghi sconosciuti, cercando una nuova patria e un nuovo destino. La partenza avviene l’8 ottobre, con una carrozza appositamente affittata. Henriette ha 47 anni, Jean Charles 222  e Sara 19.
Tappa dopo tappa, si ritrovano nelle pagine del Journal luoghi, fatti e sentimenti: l’attraversamento delle Alpi, il timore per il maltempo, le locande, la sosta a Milano, il trasporto su chiatta, il sequestro di libri da parte dei rigorosi doganieri asburgici. A Sara piace la rigogliosa campagna emiliana e rimane colpita dalla città di Parma, mentre è delusa dal paesaggio appenninico e talvolta tormentata dalle pulci… Con grandi speranze i tre approdano a Firenze, nel Granducato di Toscana, che dovrebbe garantire una buona accoglienza agli esuli (alcuni dati indicano 400.000 forestieri residenti in Toscana, fra il 1793 e il ’95) e da poco vanta, come ambasciatore, un lord inglese di loro conoscenza. Per oltre un mese, visitano chiese, frequentano teatri, incontrano persone del loro rango. Quasi per caso Charles, durante una sua perlustrazione del circondario, si ferma a Pescia, allora cittadina di circa 5.000 abitanti estranea ai circuiti turistici, e affitta per alcuni mesi una villa su una salita ripida e quasi impraticabile. E’ il 15 dicembre quando Sara, triste e delusa, dopo una sosta per la notte a Pistoia e un passaggio rapido da Montecatini annota: ”Qui io sono entrata nella mia prigione fino al 10 giugno prossimo.” Ma non sarà un viaggio fallimentare: la famigliola rimarrà in Toscana per sempre; dopo aver acquistato la splendida villa della “Valchiusa”, la madre vi morirà, nel 1821, e Sérine vi metterà le sue radici.
Corteggiata già dal 1796 da un nobile pesciatino (Anton Cosimo Dante Forti) amico del fratello, Sara non ne resta indifferente e inizia una fitta frequentazione, ben più moderna e libera rispetto agli usi italiani. Sembra di trovarsi in un romanzo di Jane Austen o delle Bronte: i due giovani vanno a teatro, passeggiano, osservano la natura, leggono, suonano il pianoforte, studiano l’inglese, frequentano biblioteche e salotti; soltanto dopo due anni di travagliato fidanzamento, si possono sposare. A ostacolarli è la differente fede religiosa, problema solo recentemente risolto.. Sara infatti è calvinista, Antonio cattolico e la loro visione del matrimonio è necessariamente diversa: per l’uno è un sacramento, per l’altra un impegno civile. Ci vorranno tenacia e pazienza, tentativi, incontri, fogli, pratiche, dichiarazioni, giuramenti, dispense; si penserà addirittura a un matrimonio clandestino, a un trasferimento momentaneo a Livorno o a Trieste, dove vigeva il più liberale codice asburgico di Giuseppe II. Dopo tanto penare e una nuova dispensa, Antonio dovette giurare che si sarebbe impegnato a far diventare cattolica Sara, mentre Sara avrebbe dovuto educare alla fede cattolica i figli, ma avrebbe mantenuto la propria libertà di culto e possibilità di visitare senza restrizioni i propri parenti svizzeri. Il contratto di nozze riporta la meraviglia del notaio nel constatare che le leggi di Ginevra erano più favorevoli alle donne rispetto a quelle italiane. Il 22 gennaio 1798 si celebra il matrimonio in chiesa, in forma privata e rapida, con due soli testimoni e i genitori della sposa, senza la tradizionale benedizione.
Nel diario Sara scrive: “I am Mrs. Forti. I have the best husband that can be wished for. Pray God may be a good wife.” La sua vita di sposa e madre non sarà però senza dolori, primo fra tutti la morte precoce di quattro dei suoi otto figli, mentre la fede le sarà di conforto, insieme alla lettura, alla musica, all’attenta educazione rivolta ai piccoli e al legame continuo e affettuoso con la madre e il fratello.
Muore a Pescia, a 59 anni, nel 1835, e per sua esplicita volontà viene sepolta a Livorno, nel cimitero protestante, accanto alla tomba di Henriette.

1.Il cognome italianizzato Sismondi viene adottato dopo il 1800 circa.
2.All'epoca la maggiore età si raggiungeva a 25 anni, perciò il padre firma un atto di emancipazione per il figlio

Fonti:
Vincenza Papini, From Geneva to Tuscany. Un viaggio del Settecento nel diario di Sara Sismondi, 2004, Istituto Storico Lucchese. Sezione “Storia e Storie al femminile”-Buggiano Castello
Liana Elda Funaro, Orgoglio e pregiudizio. Il matrimonio di Sara Sismondi (1798), in Andare sposa, 2012, Istituto Storico Lucchese. Sezione “Storia e Storie al femminile”, Buggiano Castello

Maria Soderini

(Firenze, 1490 circa - ?)

Non si conoscono intitolazioni di aree pubbliche in suo onore

Il dolore di una madre
di Barbara Belotti

Nel suo libro sulle figure femminili di casa Medici, Marcello Vannucci dedica un capitolo a Maria Soderini e, intitolandolo “Mater dolorosa”, ne sottolinea la capacità di sacrificarsi: dà molto di se stessa al marito, alla famiglia, a uno dei figli in particolare, quel Lorenzino di Pierfrancesco de’ Medici che la storia ci consegna con l’appellativo di Lorenzaccio.
Maria nasce a Firenze forse intorno al 1490 e, figlia di Tommaso Soderini e Fiammetta Strozzi, appartiene per linea diretta a due importanti famiglie del tempo. È considerata una donna molto bella ed è lodata per l’onestà dei costumi e le virtù muliebri; è anche molto accorta, però, capace di gestire l’economia traballante della famiglia e di mantenerla entro i binari di una vita decorosa
Di lei si conosce poco: c’è incertezza su quando sia nata, sono sconosciuti sia il luogo che la data di morte, la ricostruzione della sua vita si basa sull’esistenza degli altri: il marito, i figli e le figlie.
Nel 1511 sposa Pierfrancesco de’ Medici, membro di un ramo collaterale che si fa chiamare “i popolani”. Sono entrambi giovani: lui, che ha 24 anni, fino al matrimonio ha avuto un’esistenza disordinata e ha fortemente intaccato il patrimonio; lei, che ha una ventina d’anni, si occupa di rimettere in sesto le risorse familiari. Donna oculata e di buon senso, decide che è meglio andare a vivere nella tenuta in Mugello, piuttosto che in città, per far fruttare quello che possiedono.
Dal loro matrimonio nascono due femmine, Laudomia e Maddalena, e due maschi, Lorenzino e Giuliano.
Maria è attenta agli sprechi, segue ogni attività agricola e casalinga, amministra al meglio ciò che possiede cercando anche che la servitù non sottragga i prodotti coltivati e i raccolti.
Non lontana da lei, nel castello del Trebbio, vive un’altra Donna Maria, Maria Salviati che, sposata a Giovanni dalle Bande Nere, sta tirando su suo figlio Cosimo destinato a diventare l’uomo più importante di Firenze e della Toscana. Le loro vicende si intrecciano perché i piccoli Cosimo e Lorenzino giocano insieme, si inerpicano per i sentieri di campagna, osservano gli animali selvatici e saldano un legame che probabilmente si allarga anche alle due madri; lo stato vedovile è un altro aspetto comune alle due donne, quando muoiono prima Pierfrancesco, nel 1525, e poi Giovanni nel 1526.
Sono anni difficili quelli della metà degli anni Venti del XVI secolo: le bande di lanzichenecchi che minacciosamente si spingono verso lo Stato pontificio sono un pericolo concreto e molto serio anche per Maria Soderini e la tenuta di Cafaggiolo, posta lungo la strada che da Firenze va verso Bologna, potrebbe rivelarsi una trappola per lei, le sue figlie e i suoi figli. Decide così di mettere in salvo se stessa e tutta la sua famiglia: accompagna in convento Laudomia e Maddalena, sperando che le mura del monastero possano proteggerle, e manda i figli Lorenzino e Giuliano a Venezia, insieme a Cosimo. I ragazzi sono accompagnati dai precettori, che badano alla loro educazione, le madri li raggiungeranno nel 1527.
L’anno successivo Maria Soderini si rende conto che, con la crisi politica fra Carlo V imperatore e papa Clemente VII, neppure Venezia è molto sicura per chi si chiama Medici; si sposta perciò in Romagna e poi a Bologna, dove giunge nel 1529. Sente anche la responsabilità del futuro dei suoi figli e, puntando tutto sul prestigioso cognome del marito, si reca a Roma per trovare un impiego per Lorenzino: anche se di un ramo cadetto, il giovane si chiama pur sempre Medici come il papa. Questo figlio ribelle e un po’ violento, appena adolescente, la preoccupa, cerca per lui e ottiene un incarico, anche se non di grande prestigio. Non avrà grandi soddisfazioni: dopo poco il ragazzo fa rientro a casa, a Roma non può più stare, Clemente VII è furioso contro di lui dopo le scorribande nei Fori e i danni provocati ad alcune statue e ai rilievi antichi dell’Arco di Costantino. Bisogna che le acque si calmino di nuovo prima di riavvicinarsi al resto della famiglia, ma nel frattempo il nome Lorenzino è stato trasformato in Lorenzaccio, appellativo con cui è tragicamente passato alla storia.
È un grosso pensiero per Maria Soderini questo figlio, arrogante e violento, ma anche fine scrittore e drammaturgo. Ora che è tornato a Firenze si lega a Alessandro, il figlio naturale del papa, che ambisce a diventare padrone di Firenze, ma che la popolazione non ama a causa delle sue prepotenze e dei suoi eccessi in tutto. Sono molto legati i due giovani Medici tanto che Lorenzino, che si diletta nello scrivere, compone la commedia Aridosia, appositamente ideata per celebrare le nozze di Alessandro con Margherita d’Austria e allestita durante i festeggiamenti per il matrimonio, nel giugno 1536.
Ma l’epilogo dell’amicizia fra i due Medici è cupo e drammatico: Lorenzino uccide con un inganno Alessandro de’ Medici, e da poco elevato al rango di Duca di Firenze. È il 6 gennaio 1537. Lorenzino è costretto a scappare verso Venezia, ma fa tappa a Cafaggiolo dove si trova la madre. È considerato un pericoloso ribelle e un traditore, su di lui viene posta una taglia di quattromila fiorini; il delitto commesso ha ripercussioni anche su Maria, sul figlio Giuliano e sulle figlie Laudomia e Maddalena. Costretti a fuggire in esilio, spogliati degli averi, riparano prima a Bologna e poi a Venezia, aiutati dalla famiglia Strozzi.
Lorenzino si sposta in continuazione, dalla corte francese di Caterina de’Medici a Costantinopoli: Maria rivedrà il figlio sono alcuni anni dopo, nel Natale del 1544. A Venezia la sua vita e quella del figlio sono in continuo pericolo: sulla sua testa pende ancora una taglia e il vecchio compagno di giochi Cosimo, ora primo granduca di Toscana, gli sguinzaglia contro alcuni sicari con l’appoggio dell’imperatore Carlo V; recenti studi rivelano, invece, che i soldati sono inviati da Carlo V per vendicare l’uccisione del genero Alessandro de’ Medici. Comunque sia andata, anche questa vicenda ha un epilogo tragico: Lorenzino viene ucciso il 26 febbraio del 1548 insieme allo zio Alessandro Soderini. La madre, accorsa immediatamente, può solo abbracciarlo e chiudergli gli occhi. 

Fonti
Giuseppe Maria Mecatti, Storia cronologica della città di Firenze, parte seconda, p.661, Napoli 1755.
J.C.L. Simondo Sismondi, Storia delle Repubbliche italiane dei secoli di mezzo, vol. II, Lugano, 1838.
Marcello Vannucci, Le donne di Casa Medici, Newton Compton editori, 2016.


Letizia Spagnoli

(Viareggio, 1910 -  2010)

Non risulta un ricordo nella toponomastica né di Viareggio né di Lido di Camaiore né di altre località versiliesi.

Una pittrice naïf:  il fascino della semplicità
di Laura Candiani
 
Letizia Caterina Manfredi Spagnoli  è stata una affermata pittrice naïf che ha mostrato tutta la sua gentilezza d’animo e la sua sensibilità attraverso l’uso delle immagini e del colore. Nata a Viareggio il 12 marzo 1910, era la dodicesima figlia di una coppia di emigranti rientrati dal Brasile e perciò detti “gli americani”. Frequentò gli studi fino alla sesta classe per iscriversi poi ad una scuola di ricamo; dopo un anno di fidanzamento si sposò nel 1928 con Spagnolo Spagnoli. Dal felice matrimonio nacquero cinque figli: Lia, Lincoln, Onorato, Gemma e Maria Grazia. Letizia rimase presto vedova, a soli 42 anni, ma era sostenuta da una grande fede e da una forte determinazione. Iniziò quindi a mettere a frutto le sue doti naturali cucendo originali cuscini e oggetti di arredamento; dopo seri problemi di salute che la costrinsero ad una vita piuttosto sedentaria, dette il via alla sua nuova proficua carriera: quella di pittrice naïf. Letizia componeva con ingenuità e freschezza, senza aver frequentato scuole e senza maestri, con totale spontaneità. I suoi lavori erano improntati alla descrizione del quotidiano (come “La pesca delle cee”), al garbato richiamo fiabesco (“Primo ballo”), alla fede ingenua e sentita(“Notte di Natale”), ai  paesaggi, ai sogni, ai ricordi; quello che colpisce è l’uso sapiente e brillante del colore con una netta prevalenza del blu e dell’azzurro , ma anche con molto giallo, bianco, rosso (il bellissimo “Fiori per te”). Il mondo di Letizia è fatto di piccoli uomini e piccole donne, di palloncini che volano, di fiori, tanti fiori, di una natura pacifica e serena, di cieli senza nubi, di prati cosparsi di infinite macchioline, in una atmosfera rarefatta e rasserenante, di stupore e meraviglia,  che spesso  viene replicata anche in ingenue brevi poesie .
La svolta avvenne grazie ai consigli di un pittore viareggino, Giorgio Michetti,  che introdusse le opere di Letizia nel mondo culturale e artistico milanese, quando era più che sessantenne ; nel ’72  si realizzò la sua prima mostra personale a Lucca, alla Galleria dell’Associazione Commercianti di Palazzo Sani. A questo punto è il successo: Letizia (che ha scelto di firmare le sue opere con il cognome da sposata) espone in Italia (Bari, Firenze, Milano, Prato, Bologna, Padova, Roma), ma anche all’estero (Parigi e Cracovia). Ottiene rico-noscimenti e premi prestigiosi : Naifs Italia-Francia (’76),  Arte Sacra di Cracovia (’79), Accademia H.E.D.E. di Ferrara (’80  e ’81) e Romagna (’80), Guercino (’82), bozzetto della cartolina di Natale dell’Antoniano di Bologna.  Le sue opere partecipano costantemente a concorsi toscani, soprattutto in Garfagnana  e Ver-silia, e sono esposte nelle più importanti gallerie di Viareggio e Lido di Camaiore. Letizia diviene  membro  di accademie (come la San Marco di Napoli, la Tiberina e la Legion d’oro di Roma, la Homo Electus Ducati Extensis di Ferrara, l’Associazione Italiana Pittori della Versilia). Figura anche nel catalogo Bolaffi e nell’Archivio per l’arte italiana del Novecento di Firenze e proprio la città di Firenze le ha tributato il grande onore del Premio Giotto per l’arte (’80).
Il figlio Lincoln ha lasciato un bellissimo ricordo della madre in cui racconta come fosse una bambina allegra e vivace, con un vero talento per la recitazione; con i fratelli, le sorelle e i genitori  c’era un clima sereno e affettuoso, tanto che anche il precocissimo fidanzamento con un ventenne venne tollerato e accettato. Quando i due ragazzi si sposarono - ricorda  sempre il figlio -chi li vide passare in carrozza li prese per due  comunicandi, non certo per due sposi. I primi due figli nacquero in Darsena, a Viareggio, dove viveva la famigliola; Letizia, per aiutare il marito nella sua attività, partiva prestissimo la mattina in bicicletta e af-frontava un percorso lungo e disagiato. In seguito andarono a vivere in via Mazzini, nel centro cittadino,  ma il marito aveva acquistato anche  una piccola proprietà in campagna, nel paese di origine del nonno Onorato, a Montigiano di Massarosa,  dove i bambini si divertivano molto e avevano i genitori tutti per sé. Nacquero  poi gli altri figli, durante la Seconda Guerra Mondiale, e furono molto coccolati proprio perché la guerra aveva rallentato le attività economiche e la famiglia stava sempre insieme, lontana dai pericoli dei bombardamenti e dei rastrellamenti. Si erano allora trasferiti in un luogo ancora più isolato, a Monteggiori sopra Capezzano, in una antica casa medievale e, nonostante le privazioni , la presenza dei Tedeschi, la carenza di cibo, i timori di possibili deportazioni, vivevano uniti e sereni, legati dall’amore reciproco che Letizia poi riversò nelle sue opere, illuminate dalla grazia e dall’armonia.
Letizia  Manfredi Spagnoli è morta a Viareggio il 30 marzo 2010, poco dopo aver compiuto 100 anni.


Fonti:
Fabio Flego (a cura di), Letizia Spagnoli. Naïveté. Antologia pittorica e poetica, Pezzini Editore, Viareggio, 2011
M.T., Addio Letizia,pittrice naïf solare come la sua Viareggio, in "Il Tirreno", 31.3.2010


 
 
 

  

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 Regina Dal Cin Marchesini

(San Vendemiano (TV), 1816 – Cappella Maggiore (TV), 1897)

Il comune di Cappella Maggiore, dove riposano le sue spoglie, le ha dedicato un vicolo e una scuola primaria.

L'acconcia-ossi

di Nadia Cario

Regina nasce a San Vendemiano nella primavera del 1816, da Adriana Zandonella e da Lorenzo Marchesini.
La madre proviene da una famiglia di acconcia-ossi, attività che esercita con successo nel suo paese di origine del Cadore e che continua a esercitare anche dopo il trasferimento nel villaggio del marito e la nascita di Regina.
La bimba fin da piccola è presente durante le pratiche della madre che, accortasi della predisposizione della bimba, la istruisce nell’acconciare le slogature delle ossa e dei muscoli.
A 10 anni Regina va a vivere dal fratello nel paese di Anzano, frazione di Capella Maggiore sempre in provincia di Treviso, e qui approfondisce lo studio della muscolatura e delle ossa, con particolare attenzione al posizionamento del femore, osservando e studiando i cadaveri nell’ospedale di Ceneda.
Si sposa a 18 anni e lei stessa racconta che il mattino del suo matrimonio operò felicemente quattro lussazioni, guadagnando in questo modo i soldi per le spese delle sue nozze.
Rimasta presto vedova con una figlia, continua la sua attività specializzandosi sempre più.
Dopo aver guarito con grande successo un carrettiere di Alpago al quale i chirurghi avevano diagnosticato inevitabile l’amputazione di una gamba, viene denunciata dai medici per l’esercizio di una professione in cui non era legalmente e professionalmente autorizzata.
Nel processo viene difesa calorosamente dal carrettiere guarito e viene prosciolta dall’accusa, ma con l’ingiunzione a non operare più.
Nel 1843 Regina ha già raggiunto un’esperienza e un’abilità tali da riuscire ad anticipare con precisione, per ciascun caso, l’esito favorevole del trattamento, fornendo ogni volta precise istruzioni sul successivo decorso: da sua madre ha appreso la sistemazione di lussazioni e fratture, con il suo studio e l’applicazione costante è diventata esperta nella riposizione del femore.
Continua a esercitare di nascosto nonostante le ingiunzioni. I pazienti guariscono in pochi minuti e in modo indolore. Le cronache di allora raccontano come fosse difficile trovare ospitalità negli alberghi della zona, sempre occupati da persone bisognose delle sue cure.
Nel 1867 subisce un nuovo processo durante il quale si difende da sola riuscendo a essere assolta in appello. Superata anche questa burrasca, alla presenza del giudice, dichiara che avrebbe “operato fino alla morte”.
Nelle frequenti contrapposizioni medico-scientifiche sui suoi successi di abile acconcia-ossi, parecchi dottori negano i buoni risultati, nonostante le tante testimonianze dirette di persone beneficiate; alcuni al contrario esprimono attestati di stima, come il dott. Trombini di Venezia, il quale ebbe a dire che l’arte di Regina dal Cin “merita di essere tranquillamente studiata dai professori di chirurgia per coronare l’edifizio da essa piantato”, poiché secondo gli “operatori scientifici le lussazioni congenite e antiquate del femore, difficilmente si possono ridurre e rade volte si operano le più recenti che si datano da più di quaranta giorni. Ora è appunto su questi IRREDUCUBILI, tenuti tali dalla presente chirurgia, che la Dal Cin da un gran pezzo operava, e l’arte sua sarebbe forse per sempre ignorata, se la fortuna non l’avesse presa per mano e condotta a Venezia dove principiò la sua fama.”
Nonostante il divieto di operare, la sua fama si estende anche a Venezia, dove viene chiamata più volte, anche per parecchi giorni, a ricomporre lussazioni del femore e trattare casi ancora più gravi considerati “irreducibili” dalla chirurgia. I risultati sono numerosi e importanti tanto che sulla “Gazzetta di Venezia” vengono pubblicate le dichiarazioni autentiche di chi, dopo il suo intervento, è riuscito a ritornare a una vita normale, nonostante le diagnosi pessimiste dei rappresentanti della medicina ufficiale.
Viene chiamata anche a Trieste per curare, ancora una volta con risultati egregi, una lussazione congenita. Dopo tre giorni di interventi positivi, il Municipio la invita a operare nell’Ospedale civico alla presenza di illustri chirurghi; riceve pubblici riconoscimenti e l’offerta, da parte del Comune, di una casa a disposizione e di una rendita annua per continuare a praticare all’interno dell’ospedale.
I successi ottenuti nella ricomposizione delle lussazioni del femore congenite e antiquate, ampiamente documentati, insieme alle attestazioni dei medici e chirurghi di Venezia, Trieste, Vittorio Veneto, Mira, Dolo e Mirano contribuiscono a far emanare, nel 1871, un decreto del Ministero dell’Interno in cui, in accordo con il Consiglio Superiore di Sanità, si riconosce l’abilità di Regina e la si autorizza alla pratica nella specialità delle lussazioni femorali con l’obbligo, però, di operare alla presenza di un medico, accorgimento già da tempo adottato dalla donna.
Benedetto Zenner che nel 1871 pubblica il testo Cenni biografici di Regina Dal Cin (l’Operatrice di Anzano), così la descrive “[…] E’ donna di ordinaria grandezza, sana e robusta à fisonomia aperta e lieta; vivissimi gli occhi, che rivelano sagacia ed accortezza. Parla un po’ rozzamente, ma non senza urbanità e piacevolezza, saettando alle volte mòtti arguti e spiritosi. È modesta, disinteressata ed affettuosa con tutti, specialmente co’ poveri: veste ora pulitamente, ma sotto l’abito nòvo si vede la buona popolana di Anzano, che, come la triste, così la lieta fortuna non arriverà a guastare e corrompere. […] Opera senza alcun apparato da spaventare i pazienti: riduce le lussazioni del fèmore dichiarate irreducibili, senza che gli ammalati se ne accorgano.- Sotto la sua mano le ossa e i muscoli le obbediscono rapidamente, e nel vederla operare sembra che Ella li palpi e li carezzi-“.
Regina Marchesini Dal Cin muore il 15 agosto del 1897 a ottantuno anni, alle ore 6 e minuti 10.

Fonti:
Zenner Benedetto, Cenni biografici di Regina Dal Cin (l’Operatrice di Anzano), luglio 1871,Tipografia Nazionale di Gaetano Longo
Comune di Cappella Maggiore (TV), Estratto per riassunto del registro degli atti di morte consultato il 12-4-2016

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Deiva De Angelis Terradura

(Farneto (PG), 1885 – Roma, 1925)

Alla pittrice eugubina è stata intitolata una via a San Mariano, comune in provincia di Perugia.
Roma, la città della sua vita professionale e artistica, fino ad ora non le ha dedicato alcuna strada. Nel maggio del 2014 Toponomastica femminile ha inoltrato all’Ufficio Toponomastico della capitale la richiesta di una intitolazione in ricordo di Deiva, rifiutata dall’ufficio perché definita artista di rilevanza minore.

Dipingeva come un uomo

di Barbara Belotti

Una vita piena di misteri quella di Deiva Terradura. Di lei non ci sono notizie anagrafiche certe. Nulla nei registri delle nascite né in quelli dei battesimi; nulla di certo neanche sul giorno della morte, né una tomba che ricordi il suo nome.  
Il cognome Terradura, ereditato dalla madre, sembra riassumere tutte le difficoltà di una vita fatta di fatica e sacrifici. Il suo luogo di nascita è probabilmente Farneto , un borgo non lontano da Perugia; nacque nel 1885 e la mancanza di un atto di registrazione fa presumere che la sua nascita sia stata taciuta. Le sue furono povere origini contadine e Deiva parve subito destinata ad una vita con poche prospettive, quelle del  lavoro duro accompagnato dall’arte di arrangiarsi per sopravvivere; fu, al contrario, una ragazza desiderosa di riscrivere il proprio destino.
Non sappiamo quando la giovane lasciò la casa in cui era nata per recarsi a Roma e vendere le violette a Piazza di Spagna, come facevano molte ragazze di bella presenza sperando di farsi notare da un artista e diventare modelle. Riuscì, non si sa quando, ad essere ingaggiata dal pittore William Walcot che la fece posare per i suoi lavori.
Anton Giulio Bragaglia ricorda, in un articolo del 1925, che la scoperta delle doti artistiche di Deiva fu assolutamente casuale: «Walcot, che viveva a Roma, si attardava un giorno in pose su pose, non riuscendo a finire un suo quadro, il cui soggetto era proprio Deiva con una sua compagna modella. Difficile da ritrarre era quell’amica! Ma il pittore uscì per un momento e Deiva preso il carbone terminò la figura della compagna. Quando Walcot, tornando, vide, restò come trasognato. Da quel giorno Deiva fu pittrice.»
Secondo quanto scrive Franco Cremonese in un articolo del 1960, nel 1903 William Walcot e Deiva partirono insieme per un viaggio in Europa durante il quale la giovane ebbe modo di visitare importanti musei, osservare da vicino le opere di grandi maestri europei e impossessarsi della forza del colore.
Al rientro a Roma, la sua vita cambiò ancora. Sposò l’avvocato De Angelis, ma anche in questo caso dei documenti non resta traccia; una sola cosa è certa: con il nome di Deiva De Angelis e non più Terradura nel 1913 fece il suo esordio nel mondo artistico romano.
Tra il marzo e il giugno di quell’anno, infatti, si tenne la prima Esposizione Internazionale d’arte della “Secessione” al Palazzo delle Esposizioni. Alla mostra furono esposte opere di avanguardia, come quelle di Matisse e Van Dongen, e composizioni come quelle di Manet, Monet, Renoir, meno recenti ma comunque significative per lo scenario italiano e per tutti coloro che intendevano opporsi al linguaggio accademico. La vetrina era importante e Deiva espose il dipinto Studio d’uomo. Partecipò anche alle altre manifestazioni della Secessione, fino all’ultima edizione, quella del 1916.
Conobbe nel ’14 Cipriano Efisio Oppo, giovane pittore legato a Villa Strohl-Fern, luogo di elezione per molti artisti dell’ambiente secessionista romano. Il clima umano e lavorativo era vivace e intenso, Deiva continuò a consolidare la sua ricerca cromatica non lontana dalle ricerche dello Spirituale nell’Arte di Kandinskij, come scrisse Oppo:
“Si è sempre tentato di stabilire tra i colori e la musica un certo secreto di corrispondenze espressive. […] Fra la natura (non l’astrazione) vista pittoricamente nelle sue essenziali necessità e lo stato d’animo creato dalla tavolozza come dalla tastiera di un piano, con tutti i suoi toni alti e bassi, vivi e cupi, si stabiliscono dei rapporti, delle armonie che spogliate da ogni altra ricerca di solidità costruttiva e di presa di possesso del soggetto, possono essere occasioni di raffinatissime gioie pittoriche. Un tentativo del genere è quello di Deiva De Angelis.”
Con Oppo visse un’intensa relazione, affettiva e professionale, fino al 1918 quando la coppia, dopo un periodo di convivenza nello studio nel parco di Villa Strohl-Fern, si separò. Deiva era rimasta incinta e probabilmente decise di abortire dopo che il suo compagno, già proiettato verso una importante carriera di artista e di critico, non volle proseguire il legame.
Anton Giulio Bragaglia, che di Deiva fu amico sincero ed estimatore, arrivò a definirla «un ottimo cervello maschio» che «dipingeva come un uomo», una “modernissima colorista” che seppe dichiarare al mondo artistico romano “la sua vigorosa schiettezza di artista indelebilmente”.
Il suo ruolo di protagonista era difficile da far accettare al mondo artistico della capitale, dominato soprattutto da uomini; eppure, come ricorda sempre Bragaglia, “ci fu un tempo che non pochi pittori maschi (e reputati) la imitavano”.
Alla fine degli anni Dieci il talento della pittrice era al culmine. Partecipò alla Mostra d’arte giovanile negli ambienti della Casina Valadier al Pincio, una collettiva organizzata in modo autonomo da chi si era formato all’interno del movimento secessionista romano. Altre donne esposero insieme a lei, Pasquarosa, Leonetta Cecchi Pieraccini, Matilde Festa Piacentini; le sue opere riuscivano a trasmettere «quel favorevole gioco di colori, di quel disegno armonioso, pieno di energia e di sicura evidenza»  che ormai i critici avevano imparato a riconoscere.
Sempre più saldo divenne il rapporto professionale e umano con Anton Giulio Bragaglia, che ricorda ancora: “Confesso che a me stesso la guida di Deiva ha giovato enormemente: le osservazioni di mestiere ch’ella mi indicava, m’hanno scoperto il sistema di critica vero; che è il più moderno oggi ed è anche il più antico”. La prima personale della pittrice si tenne nel 1920 proprio nella Casa d’Arte Bragaglia e vide riuniti oltre quaranta lavori. Nello stesso anno cominciò la collaborazione con la prestigiosa rivista Cronache d’Attualità, legata alla Casa d’Arte, e Deiva pubblicò alcuni disegni che illustravano le liriche e le poesie di Arturo Onofri; questo impegno si protrasse in seguito con altre illustrazioni della pittrice in cui si evidenziava un tratto veloce e incisivo.
La carriera di Deiva De Angelis proseguì con successive mostre significative: le Biennali romane del ’21, del ‘23  e del ’25, altre collettive nella Casa d’Arte di Bragaglia, l’Exposition Internationale d’Art Moderne a Ginevra, fra il dicembre 1920 e il gennaio 1921, in occasione del convegno della Società delle Nazioni.
La solitudine la accompagnò per molti tratti della vita, nonostante lo scambio artistico e culturale con numerose persone e gli amori vissuti. Essere pittrice comportava rinunce, prevedeva ostacoli, determinava una celebrità effimera raggiunta attraveso percorsi tortuosi. Il suo destino, difficile fin dalla nascita, continuò ad accompagnarla e la aggredì con una malattia che non lasciò scampo: un tumore, forse all’intestino, che la fece soffrire molto e che la divorò in breve tempo. Deiva fu costretta a vendere o meglio svendere  i suoi quadri per comprare le medicine che, se non riuscirono a combattere il cancro, le diedero un po’ di tregua dal dolore. Morì nel 1925, poco tempo dopo aver esposto alla Terza Biennale Romana Mostra Internazionale di Belle Arti.
Anche per la morte non esistono documenti, venne tumulata in un loculo pagato dallo Stato del quale non si ebbero presto più notizie. Deiva era passata nella storia e nell’arte della capitale come una meteora, un lampo folgorante del quale rimangono poche tracce. La dispersione dei suoi lavori ha creato – e tuttora crea - ostacoli nel lavoro di ricerca.

Mostre:
Prima Esposizione Internazionale d’Arte della “Secessione” – 22 marzo – 30 giugno 1913, Palazzo delle Esposizioni Roma;
Quarta mostra d’Arte Italiana, Rimini, estate 1914;
Fiera della Stampa per i danneggiati del terremoto, Associazione Artistica internazionale, dal 21 gennaio 1915;
Terza  Esposizione Internazionale d’Arte della “Secessione” – 4 aprile  – 13  giugno 1915, Palazzo delle Esposizioni Roma;
Arte e beneficenza, 19 – 26 dicembre 1915, Palazzo degli studi, Faenza;
Mostra d’arte pro Croce Rossa, 24 febbraio – 1 aprile 1916, Roma;
Quarta  Esposizione Internazionale d’Arte della “Secessione” – 9 dicembre 1916  – 25  gennaio 1917, Palazzo delle Esposizioni Roma;
Esposizione di guerra, Associazione Artistica internazionale, ottobre – novembre 1917;
Mostra delle opere di Deiva De Angelis e di Pasquarosa, maggio 1918, Circolo artistico Internazionale, Roma;
Mostra d’arte giovanile, 5 giugno – luglio 1918, Casina Valadier, Roma;
Mostra del gruppo romano, primavera 1920, Famiglia artistica, Milano;
42° Esposizione Casa d’arte Bragaglia, dal 1 ottobre 1920, Roma;
Exposition Internationale d’Art Moderne, 26 dicembre 1920 – 25 gennaio 1921, Ginevra;
Prima Biennale Romana, 30 marzo – 30 giugno 1921, Palazzo delle Esposizioni, Roma;
La Fiorentina primaverile, 8 aprile – 31 luglio 1922, Palazzo del Parco di San Gallo, Firenze;
79° Esposizione Casa d’arte Bragaglia, maggio – giugno 1922, Roma;
Collettiva romana, 17 maggio – giugno 1923, Casa d’arte Bragaglia, Roma;
Seconda Biennale Romana, 4 novembre 1923 – 30 aprile 1924, Palazzo delle Esposizioni, Roma;
Collettiva di paesaggi e nature morte, dal 4 dicembre 1923, 106° Esposizione Casa d’arte Bragaglia, Roma;
Collettiva romana, giugno 1924, 116° Esposizione Casa d’arte Bragaglia, Roma;
Terza Biennale Romana, marzo – giugno 1925, Palazzo delle Esposizioni, Roma;
Collettiva romana, dicembre 1925 – gennaio 1926, Casa d’arte Bragaglia, Roma [mostra postuma].

Fonti:
Aldo Di Lea, Deiva De Angelis, in “Cronache d’Attualità”, n.V, gennaio 1921.
Anton Giulio Bragaglia, L’arte di Deiva De Angelis, in “La Stirpe”, a. III, n.4-5, Roma, aprile-maggio 1925.
Franco Cremonese, Deiva De Angelis, la pittrice di Via Brunetti cominciò col fare la modella, in “Il Giornale d’Italia”, 15-16 marzo 1960.
Simona Weller, Il complesso di Michelangelo, Pollenza-Macerata, La Nuovo Foglio editrice, 1976, pp.188-189.
Lea Vergine, L’altra metà dell’Avanguardia, Roma, Mazzotta editore, 1980, p. 53
Mario Quesada, Deiva De Angelis, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1987, vol. 33, pp.270-272
Martina Corgnati, Artiste. Dall’impressionismo al nuovo millennio, Milano, Bruno Mondadori, 2004
Duccio Trombadori, Francesca Romana Morelli, Lucia Fusco, Deiva De Angelis, 1985-1925. Una “fauve” a Roma, Roma, 2005
Pier Paolo Pancotto, Artiste a Roma nella prima metà del ‘900, Roma, Palombi Editori, 2006

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Lucia Delitala Tedde

(Nulvi (SS), 1705 – luogo e data di morte incerti)

A Nulvi una via è dedicata alla nobile famiglia Delitala e - sull'antico palazzo di famiglia- è visibile una targa in ricordo del padre Francesco.

Quando le donne sarde cominciarono a "banditare"

di Laura Candiani

I documenti di battesimo presentano Lucia come figlia legittima del nobile don Francesco Delitala Tedde e di donna Jana (Giovanna) Maria Tedde, ma non esistono testimonianze certe sulla sua morte né sulla sua tomba. Secondo alcune fonti sarebbe morta fra il 1755 e il 1767, secondo altre nel 1760; non ci sono lapidi né ricordi nel cimitero di Nulvi e nella chiesa di sant'Antonio Abate, divenuta nel tempo una sorta di tomba di famiglia. Qualcuno avanza l'ipotesi di un assassinio avvenuto a Chiaramonti dove si sarebbe nascosta e sarebbe stata sorpresa da un incendio nel sonno, mentre era abbracciata nel letto ad un uomo.

La famiglia aveva ottenuto il cavalierato nel 1636 e la nobiltà nel 1641; si sa che erano ricchissimi grazie ad attività non sempre lecite, come il contrabbando e il brigantaggio; alcuni membri parteciparono ai moti del 1720 contro i Savoia, mentre altri si trasferirono stabilmente in Corsica. La casata si estinse nel corso del XX secolo. 
Lucia ebbe un'infanzia protetta, in un ambiente affettuoso e sereno, mentre il paese natale era insanguinato dalla rivalità fra i Tedde e i Delitala, divenuta una vera e propria faida.
Si racconta che fin da bambina avesse un carattere ribelle e usasse spesso come arma le sue piccole forbici da ricamo contro le ragazze della parte avversa, ma soprattutto contro le donne che parteggiavano per i Savoia. Con le forbicine, usate in chiesa, a un ballo, durante una cerimonia pubblica, si potevano tagliare gli abiti, i nastri, i pizzi delle avversarie causando pochi danni ma grande imbarazzo per le malcapitate cui magari cadeva la gonna per strada.

Molti la ricordano assai bella e somigliante come una gemella alla cugina Marietta, immortalata in un quadro nella parrocchiale di Nulvi. Il marchese Carlo Amedeo Battista di San Martino d'Agliè e di Rivarolo, Viceré di Sardegna, la descrive invece, senza averla mai vista, dotata di «due mustacchi da granatiere e usa le armi e il cavallo come un gendarme». Pare che fosse solita indossare una maschera quando voleva nascondere la sua identità e quando, ormai adulta, utilizzava lo schioppo ad arcione, con innesco a pietra focaia, oppure lo stocco, più leggero della spada, mentre percorreva la Gallura con il suo amato cavallo Tronu.

Per contrastare il banditismo il Vicerè aveva inventato metodi violenti e fantasiosi, anche se poco efficaci: aveva infatti creato un corpo militare itinerante, a cui si univano giudici e una forca sempre pronta per mettere in atto spietate condanne; aveva poi utilizzato l'”importazione” di continentali per popolare vaste aree totalmente disabitate, in modo da renderle meglio controllabili e meno selvagge. Ebbe l'idea di sopprimere l'Università di Sassari e cercò in ogni modo di cancellare, negli abiti, nelle usanze e persino nell'architettura, le tradizioni spagnole radicate in quattro secoli di dominazione. Certo è che in Sardegna, nel Settecento, il governo piemontese appariva altrettanto straniero e ancora più avido e i banditi molto spesso si ammantavano di un'aura da liberatori e difensori dei diritti. Lucia, incoraggiata dal padre, fece propria questa battaglia e cominciò a servirsi di uomini armati al suo servizio per assalire le truppe sabaude, specie quando si trovavano isolate e in zone a loro poco familiari.
Lucia ebbe un valido amico e alleato nel bandito Giovanni Fais che si era dato alla macchia con la moglie Chiara Unali e la figlioletta Mattea.
Un fatto di particolare rilievo fu l'assalto ai soldati del distaccamento di Ozieri che finì in una vera e propria strage. Il Vicerè, che inventò un altro provvedimento curioso, ovvero l'obbligo per gli uomini di non portare la barba, arrestò Francesco Delitala e, prima di procedere contro Lucia, la invitò a Cagliari, nel suo palazzo. Dopo un breve e provvisorio arresto, la donna fu libera a condizione che non proseguisse le sue imprese contro il governo. Per Lucia questa fu quasi una provocazione: cominciò davvero a fare la vita della “bandita”, con un certo agio però, perché veniva ospitata, grazie alla sua casata nobilissima, in palazzi signorili ben protetti.

Un altro episodio che si tramanda è l'assalto (a Montesanto) a una compagnia di dragoni che portavano con sé prigionieri e denaro. Questo massacro fece tanto scalpore che addirittura il gesuita padre Vassallo riunì a Nulvi i capi delle due fazioni, Giovanni Tedde e Antonio Delitala, per stipulare una pace duratura almeno fra di loro. Da allora Lucia maturò sempre più la convinzione di combattere per una giusta causa, da patriota contro gli invasori, ma il commissario governativo fece arrestare molti suoi seguaci che finirono impiccati o torturati con la lingua strappata. Anche l'amico Fais rischiò di essere catturato in un epico scontro che vide cadere al suolo duecento uomini fra soldati e banditi; Lucia, in modo avventuroso e romanzesco, riuscì ad arrivare in tempo con un manipolo di fedelissimi e a portare al sicuro Fais, con Chiara e Mattea. Fais però non rimase a lungo nascosto e si gettò di nuovo nelle imprese pensando di essere sempre protetto dai pastori, su montagne impenetrabili. Fu invece intercettato e sarebbe stato di nuovo arrestato se non fosse stato ancora una volta per l’aiuto di Lucia che ‒ si racconta ‒ arrivò sul suo cavallo Tronu indossando un mantello rosso, la maschera sul volto e l'elmo di cuoio. Fais con la famiglia fu fatto fuggire in Corsica, dove rimase quindici anni. Al ritorno era convinto che il suo passato fosse stato dimenticato e riprese con i sequestri, ma fu catturato e impiccato a Sassari nel 1774; il suo corpo fu smembrato e disperso perché non ne rimanesse alcuna memoria.

Lucia nel frattempo non si sa se fosse ancora in vita, vista la mancanza di un atto di morte; certo è che non finì di stupire con il suo testamento lasciando diecimila lire in favore del collegio dei Gesuiti di Ozieri. Quando l'ordine fu soppresso, il parroco di Chiaramonti fece buon uso del denaro tanto che molti anni dopo poté essere costruita una nuova parrocchiale. Altri fondi furono generosamente lasciati alla Chiesa, a testimonianza di una devozione certo molto particolare in una donna spietata e senza paura, il cui nome è divenuto leggendario in Sardegna.

 

Fonti:

Franco Fresi, Banditi di Sardegna, Newton Compton editori, Roma,1998

Franco Fresi, Le banditesse. Storie di donne fuorilegge in Sardegna, Il Maestrale, Nuoro, 2015

Valeria Gentile, La Sardegna dei banditi, Perrone, Roma, 2013

Enzo Giacobbe, La notte delle fiaccole, Castello, Cagliari, 1985

Giuseppe Manno, Storia di Sardegna, Ilisso, Nuoro, 1996

Giuseppe Manno, Note Sarde e Ricordi, CUEC, Cagliari, 2003

www.ladonnasarda.it

www.webalice.it

www.regionesardegna.it

lanuovasardegna.gelocal.it  (23.11.15 )

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Eleonora de' Nobili

(Pesaro, 1902 – Modena, 1968)

Nel comune di Ripe, in provincia di Ancona, il “Museo Nori de’ Nobili: centro studi sulla donna nell’arte” ricorda una pittrice del Novecento ancora poco conosciuta. Qui sono state radunate le sue opere e, nell’annesso archivio, è raccolto tutto il materiale che la riguarda con l’obiettivo di non disperderne il lavoro e la memoria, come spesso è accaduto alle donne.
L’Amministrazione comunale le ha, inoltre, dedicato una via a ricordo dei periodi estivi trascorsi dalla giovane “Nori” insieme alla famiglia.
Al contrario altre due città, legate alla sua esistenza, ne ignorano il nome: sono Pesaro, che le ha dato i natali, e Modena, in cui visse segregata per oltre trent’anni fino alla morte.

Donna che non fu mai doma

di Barbara Belotti

L’arte di Nori de’ Nobili è emersa dal buio dell’oblio in tempi recenti.
Nel 2005 una mostra al Parlamento Europeo, la sistemazione del Museo-archivio di Ripe, la realizzazione di video, recital, spettacoli teatrali ci hanno riconsegnato una affascinante figura di donna e di artista.
La vita di Eleonora - per tutti Nori - è drammatica e tormentata.
Nata nel 1902 a Pesaro, è la prima di quattro figli in una famiglia tradizionale: il padre, ufficiale di cavalleria, è spesso lontano dalla famiglia; la madre, di origini aristocratiche, segue l’educazione dei figli. D’estate Nori trascorre giornate serene e indimenticabili a Brugnetto, una frazione di Ripe, in una elegante dimora chiamata la villa delle “Cento finestre”. È una bambina serena, legata alla mamma e ai fratelli; segue gli studi classici ma dimostra interesse per il disegno e la musica. Crescendo comincia a desiderare di frequentare l’università, ma il padre si oppone: considera una stravaganza inconcepibile che una giovane donna di buona famiglia possa proseguire gli studi, appannaggio esclusivo della formazione maschile.
Prima a Roma e poi a Firenze, dove con la famiglia si trasferisce nel 1924, Nori comincia a studiare pittura frequentando lo studio di Ludovico Tommasi, tra gli ultimi seguaci dei Macchiaioli. Per lei è un’occasione importante, la prima vera opportunità di dedicarsi all’arte, di confrontarsi con il clima culturale del tempo. Comincia ad entrare in contatto con i circoli artistici legati al gruppo del Novecento, che stimolano il suo linguaggio espressivo. La sua è una ricerca intensa, totale, a cui si dedica con passione e frenesia lavorativa.
Scorrendo le note biografiche della sua esistenza, comincia ad emergere la fisionomia di una giovane donna acuta e intensa, sensibile e fragile.
Nori si apre alla vita, ma alcune delusioni d’amore la feriscono e la sua giovinezza comincia a coprirsi di ombre scure. La famiglia la ostacola, ma nonostante ciò i suoi legami affettivi rimangono saldi e vivi. Le sue fragilità emergono anche in un rapporto contrastato (definito “delirio passionale”) con un critico d’arte fiorentino, Aniceto Del Massa, che pure l’aiuta a partecipare alla IV Mostra Regionale Toscana nel 1930.
Tre anni dopo, la morte prematura del fratello Alberto, al quale è particolarmente legata, determina il suo crollo psichico. La famiglia decide che Nori deve essere allontanata e la fa rinchiudere nella clinica Villa Igea a Modena. È il 1935, Nori ha 33 anni e per altri trentatre anni vivrà segregata dal mondo. La libererà solo la morte.
Nella casa di cura Nori riceve le visite della famiglia, ma dopo poco decide di eliminare anche quell’ultimo legame con l’esterno. Da tempo sente che quella non è più la sua famiglia: le hanno impedito di studiare, hanno ostacolato la sua vita, l’hanno rinchiusa e cancellata dal mondo.
Nel corso dei suoi anni da segregata, Nori si affida alla poesia e alla pittura.
I versi, scritti anche in inglese e in francese, sono un diario interiore continuo (un’autobiografia in versi), un filo per la sopravvivenza. Non sono datati, non hanno alcuna indicazione cronologica: l’isolamento e la solitudine della reclusione in manicomio rendono il tempo un elemento estraneo alla sua vita, immutabile ogni giorno. La pittura accompagna i testi poetici ed è una produzione immensa: più di mille opere realizzate in ogni modo e su ogni superficie disponibile: tela, carta, il coperchio di una scatola, la copertina di un taccuino. Molti sono gli autoritratti: il viso ovale, lo sguardo fisso, la carnagione chiara contrastano con l’abbigliamento curato e caratterizzato da eleganti e vivaci contrasti cromatici; intorno alla sua figura sono distribuiti elementi che ricorrono più volte come ventagli, maschere che nascondono volti, gatti.
Anche la sua pittura si ripete. Nelle ricerche artistiche giovanili si era avvicinata alla pittura silenziosa, ferma e sognante del gruppo del Novecento; ora il suo linguaggio acquista toni espressionistici, nei volti e negli occhi dipinti si intuiscono domande angosciose, toni sgomenti. L’immobilità delle scene richiama l’immobilità del tempo e dello spazio della sua segregazione; quelle figure sono l’unica possibilità di evadere dagli spazi della clinica. La pittura l’unico modo per sentire la vita.
Dopo la morte di Nori, avvenuta nel giugno del 1968, la sorella Bice cercherà in ogni modo di ricostruire il suo percorso artistico, cercando con le mostre, gli incontri con critici, la divulgazione della produzione lirica il modo di non spegnere il ricordo.

Fonti:

Nori De' Nobili: opere 1920-1935, catalogo della mostra a cura di Gabriele Barucca, Ancona, 1997
Nori de’ Nobili: memorie e presagi, testo introduttivo di F. Miele, Falconara
http://librisenzacarta.it/2012/10/12/se-questa-e-follia-omaggio-a-nori-de-nobili-regia-di-maurizio-liverani-voce-recitante-giuseppe-di-mauro/
http://www.dols.it/2013/06/04/nori-de-nobili-donna-che-non-fu-mai-doma/
http://www.ilmegafonodelledonne.it/2013/05/la-storia-umana-di-nori-de-nobili-video-ideato-realizzato-da-giuliano-de-minicis/

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Properzia de' Rossi

(Bologna, 1490 circa – 1530)


 Vie a lei intitolate a Castenaso (BO) e a Granarolo dell'Emilia (BO)

http://toponomasticafemminile.com/index.php?option=com_content&view=article&id=9210&Itemid=9330

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Livia De Stefani

 (Palermo, 1913 – Roma, 1991)

A lei non risulta intitolata alcuna via.

La mafia alle sue spalle
di Ester Rizzo

 

Livia De Stefani scrittrice, era nata a Palermo nel 1913 in una famiglia di ricchi proprietari terrieri.  Trascorse la sua infanzia e la sua adolescenza nel feudo del nonno paterno situato tra Alcamo e Partinico. A soli 17 anni, invitata a Roma dagli zii, conobbe lo scultore Renato Signorini e con lui convolò subito a nozze lasciando la Sicilia per la capitale. Intrattenne rapporti con Elsa Morante, Maria Bellonci, Vitaliano Brancati e altri scrittori e intellettuali di quei tempi. Quell’ambiente colto la faceva “respirare”, le faceva dimenticare la sua terra natia dove si era sentita prigioniera di regole e consuetudini ataviche che la soffocavano. Ma in quella terra ritornava, spesso per amministrare le proprietà che aveva ereditato, ed è la vita di quel lembo della Sicilia occidentale che viene descritta nelle sue opere.

Nel 1953 è pubblicato il suo primo romanzo La vigna dalle uve nere e Livia diventa così la prima donna a scrivere di mafia in un libro. La storia narrata è ambientata in una retriva cittadina siciliana dove si consuma la tragedia di vite già segnate dal destino, dove case, cibi, letti, affari e amori descrivono gli usi e i costumi della Sicilia arcaica, immobile e patriarcale dei primi decenni del Novecento. Dove l’uomo padrone decide il destino delle donne della sua casa, un uomo duro, rozzo, privo di sensibilità. Così scrisse Carlo Levi nella prefazione, “chiusi sono tutti i luoghi del racconto serrati nei recinti e nei pensieri: prigioni, tombe gelose […] da questi regni murati, da questi luoghi isolati […] ogni partenza è fuga, ogni fuga è sacrilegio, tradimento, delitto mortale”. Il romanzo ebbe un notevole successo e fu tradotto in vari Paesi tra cui Francia, Germania, Portogallo, Inghilterra, Stati Uniti e Argentina. Fu definito una delle opere più mature della narrativa italiana del dopoguerra. Nel 1984 da questo libro trasse l’ispirazione uno sceneggiato televisivo con la regia di Sandro Bolchi.
Livia scrisse anche una raccolta di racconti Gli affatturati e altri romanzi tra cui Passione di Rosa del 1938, Viaggio di una sconosciuta del 1963 e La signora di Cariddi del 1971.
Nel 1991, un mese prima della sua morte, viene pubblicato La mafia alle mie spalle dove è descritta la mafia di quel periodo, con i suoi codici d’onore, con l’omertà e con la bramosia di impossessarsi delle proprietà terriere a qualunque costo. Livia De Stefani racconta la Sicilia assolata senza mare, il suo appezzamento di terra con il suo casamento borbonico; racconta come, per lei, fu difficile iniziare a piantare vigneti al posto delle distese di grano e come i contadini la guardavano diffidenti quando decise di piantare un bel po’ di alberi ornamentali, alberi che non producevano frutti. In quel pezzo di terra, l’ex feudo Virzì, non poteva esserci spazio per il nuovo e per il bello, Livia con la sua irruenza e le sue idee voleva stravolgere l’ordine atavico che regnava in quel pezzo di mondo.
Forse per questo suo coraggioso racconto, tanti siciliani la isolarono dichiarandosi offesi per le descrizioni della loro terra offerta alla luce impietosa del degrado e dell’ignoranza, con il ritratto di un mondo maschile patriarcale, autoritario e feroce.
Il libro si chiude con la descrizione del terremoto del Belice del 14 gennaio 1968. Livia da Roma si precipita in Sicilia ed è testimone della rovina, del disastro. Di fronte a questo suo mondo sgretolato decise di vendere l’ex Feudo Virzì. Ai parenti che osteggiarono questa sua decisione così rispose: “Ciò che conta è di averle possedute, le cose smarrite, conosciute e amate […] perse, o sottratte, o andate in polvere, niente e nessuno ce le potrà togliere mai […] mai strapparle dall’anima, dalla mente, dal sangue. Nessun ladro, nessun prepotente […] nessun terremoto”.
Così raccontava i primi anni passati ad amministrare le sue terre:” Ero una donna tutta sola piantata in mezzo a problemi virili, senza l’aiuto di un incoraggiamento, sia pure d’un sorriso […] mi dibattevo come un farfallone attirato a notte da un lume traditore, acciecata da cose che dovevo ancora imparare a temere. Era una brutta, bieca società maschilista […] e che fosse anche mafiosa me ne resi conto non per vie deduttive ma per quelle dell’osservazione diretta”
E coraggiosamente mise nero su bianco i nomi dei mafiosi con cui era stata costretta a dialogare per salvare la sua attività imprenditoriale.
Livia è morta a Roma il 28 marzo del 1991 e su di lei è calato il silenzio.

Fonti:

Livia De Stefani, La vigna di uve nere, Ed. BUR, 1975
Livia De Stefani, La mafia alle mie spalle, Arnoldo Mondadori Editore, 1991
Marinella Fiume (a cura di), Siciliane dizionario biografico, Emanuele Romeo Editore, 2006 
Ester Rizzo (a cura di), Le Mille. I primati delle donne, Navarra Editore 2016

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Paska Devaddis

(Orgosolo (NU), 1888? - 1913)

Non risulta alcuna intitolazione

"Sa bandida" nella faida di Orgosolo

di Laura Candiani

Paska, malata da sempre e ormai consapevole della fine, fra il 5 e il 6 novembre 1913 si fa portare dal fidanzato Michele Manca e da altri quattro compagni nella grotta “de sa funtana de Ananìa”, nel Supramonte, dove si racconta venissero a bere i due santi Egidio e Ananìa. Dopo la morte viene trasportata a casa coperta dal lenzuolo ricamato che teneva sempre con sé, su una lettiga improvvisata; ritorna così nel luogo da cui era partita. Vestita a festa, viene deposta sul tappeto funebre; il giorno seguente il medico può solo constatare che la giovane ricercata è morta di tisi, a soli 25 anni, nella propria abitazione. Il maresciallo dei carabinieri provvede a far effettuare l'autopsia nel cimitero di Orgosolo da due medici di fiducia i quali annotano la sua altezza (m.1,60), il precoce invecchiamento del suo corpo a causa della malattia, ma verificano anche l’intatta verginità.

Ma chi è Paska (Pasqua) e perché è una latitante? Cosa è accaduto nell'Oristanese perché una ragazza si sia data alla macchia nonostante le precarie condizioni di salute?

Tutto risale alla faida (la più grande della storia sarda come afferma Franco Fresi) iniziata ufficialmente il 3 aprile 1905 (oppure il 4 giugno 1907, le fonti sono discordanti), quando nel Campidano un certo Egidio Podda uccide Carmine Corraine; la faida poi avrà fine il 25 giugno 1917 con un processo che vide assolti tutti proprio nel momento culminante della Prima guerra mondiale. In realtà le origini furono precedenti e dovute a questioni di denaro: un vero tesoro sarebbe infatti scomparso alla morte di Diego Moro, un ricco proprietario, e ciò aveva scatenato odi e vendette fra gli eredi. Alla morte del Corraine i familiari riuscirono a rintracciare il colpevole e a consegnarlo alla giustizia, ma il tribunale lo assolse per “legittima difesa” (anche se tutti sapevano che la vittima era disarmata). Visto il fallimento della legalità si passò dunque alla vendetta e alla “disamistade” fra le famiglie in campo: i Cossu, i Corraine, i Succu, i Moro, i Devaddis. 
Nel 1912 i Corraine, pur essendo possidenti e benestanti, dovettero darsi alla latitanza diventando di fatto banditi sanguinari. Il 6 giugno 1913 furono arrestati i loro parenti rimasti a casa e in pochi giorni si registrarono sei omicidi, tre per parte.
Paska sembra fosse del tutto estranea a queste vicende, ma ebbe la sventura di venire di essere stata vista nei pressi dell'abitazione di un ucciso e di essere accusata da una testimone; così preferì la fuga e lasciò per sempre la sua vita tranquilla di ragazza onorata. D'altra parte la sua famiglia aveva già pagato con il sangue ed era coinvolta nella faida: un fratello (Battista) era stato accusato di omicidio e condannato a 18 anni, un altro (Francesco), incensurato e non ricercato, era stato ucciso in un conflitto a fuoco in cui si sospettò fortemente una messa in scena della famiglia Cossu. Il padre Giuseppe aveva tentato di far valere le sue ragioni, ma gli imputati erano stati assolti; in compenso lui stesso, anziano e malato, era stato a sua volta arrestato. Così Paska si trovava a vivere una situazione di sofferenza e di rancore verso la giustizia, che la sua salute malferma non placava.

Vivere nel Supramonte significava affrontare disagi immensi, freddo, fatiche, soffrire fame e sete, correre continui rischi e condividere l'esistenza con uomini duri e spietati. Poteva capitare di imbattersi in qualche pattuglia di militari, ma si racconta che Paska, pur non essendo di indole violenta, sapesse difendersi con lo schioppo. Sembra anche che non avesse mai condotto una azione illecita e che nel suo ricordo si confonda il reale con l'immaginario.

Se sia stata una povera vittima di eventi più grandi di lei o una coraggiosa combattente non è dato sapere. Certo è che il suo nome ancora ispira leggende e persino l'alta moda, grazie allo stilista Antonio Marras, le ha dedicato una collezione autunno-inverno 2010-11 con tessuti rustici e preziosi, con pellicce di montone, con colori e richiami agli abiti tradizionali sardi.

 

Fonti:

Silvia de Franceschi, tesi di laurea, 2009

Franco Fresi, Le banditesse. Storie di donne fuorilegge in Sardegna, Il Maestrale, Nuoro, 2015

Michelangelo Pira, Paska Devaddis, per un teatro dei sardi, Edizioni della Torre, Cagliari,1981

Giovanni Ricci, Sardegna criminale, Newton Compton editori, Roma, 2007
www.ladonnasarda.it

www.sandalyon.eu

www.webalice.it

lanuovasardegna.gelocal.it (27.3.2009)

Marras stile Barbagia, lanuovasardegna.gelocal.it (1.3.2010)

Sfilata Antonio Marras Milano, www.vogue.it

 

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Eleonora Di Mora

(?, 1642 ca. – Madrid, 1707)

A Palermo non risulta alcuna via intitolata a Donna Eleonora Di Mora.

La Vicerè di Sicilia
di Ester Rizzo

Non si trova traccia di lei nelle Cronologie dei Viceré di Spagna, dove c'è un vuoto di 28 giorni, ma nel Dizionario delle figure delle istituzioni e dei costumi della Sicilia storica e nel terzo volume della Storia cronologica dei Viceré troviamo il suo nome e i suoi provvedimenti.
Fu la prima e unica donna Viceré di Spagna in Sicilia nel 1677. Fu destituita dopo solo 28 giorni in quanto non poteva assumere l'autorità di Legato Papale (titolo indivisibile da quello di Viceré), a causa del suo sesso femminile.
Per disposizione testamentaria succedette, nella carica, al marito Angel de Guzmàn, marchese di Castel Rodrigo, diventando così Viceré di Sicilia. Come si racconta, tutti pensavano che Eleonora, essendo donna, avesse un carattere debole e quindi facilmente manovrabile dai potenti di turno che aspiravano ad arricchirsi a spese del popolo. Ma così non fu.
Eleonora fu una donna dalle doti politiche e umanitarie estremamente eccellenti. "Fece cose più e meglio degli altri Viceré", pur avendo contro funzionari e cortigiani corrotti.
Una femminista ante litteram: ripristinò il “conservatorio per le Vergini pericolanti", che era stato prima chiuso per mancanza di fondi. Le “Vergini pericolanti” erano ragazze, appartenenti ai ceti più poveri, che erano rimaste orfane e, quindi, correvano  più delle altre il pericolo di cadere nel baratro della prostituzione. Per evitare ciò veniva loro dato un sussidio di sostentamento tramite questo Conservatorio.
Successivamente Eleonora ricostituì il “conservatorio delle Ripentite” con l’intento di salvaguardare le ex-prostitute che venivano così aiutate a cambiare vita ed istituì una Dote Regia per le ragazze povere che desideravano sposarsi.
A lei si devono, inoltre, la riduzione delle tasse per chi aveva una famiglia numerosa, la legge per abbassare il prezzo del pane, la creazione del Magistrato del Commercio che riuniva le 72 maestranze palermitane. Praticamente in un tempo brevissimo questa donna Viceré apportò migliorie notevoli a beneficio della popolazione.
Lasciata Palermo, si risposò nel 1679 e da questo secondo matrimonio nacque un figlio che, però, morì prematuramente. Di conseguenza, Donna Eleonora non lasciò alcun erede.
Lo scrittore Andrea Camilleri ha scritto un romanzo, La rivoluzione della luna, unendo la storia documentata all'invenzione narrativa, su questa donna Viceré che governò l'isola per 28 giorni "come il ciclo della luna, pianeta femminile per eccellenza".

Fonti:
Andrea Camilleri, La rivoluzione della luna, Sellerio editore, Palermo, 2013
Stefano Malatesta, Questa Eleonora ha il carattere di Montalbano, in La Repubblica, 17/3/2013
http://it.wikipedia.org/wiki/Eleonora_de_Moura http://it.wikipedia.org/wiki/Vicer%C3%A9_di_Sicilia

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Ersilia Caetani Lovatelli

(Roma, 1840 – 1925)

A lei non risulta dedicata alcuna via. E' stata suggerita all'Ufficio Toponomastica del Comune di Roma un'intitolazione in sua memoria per iniziativa del gruppo Toponomastica Femminile. 

L'ultima antiquaria italiana

di Ester Rizzo

Fu la prima donna in Italia ad essere ammessa all'Accademia dei Lincei nel 1879.
Archeologa ed accademica, nacque a Roma il 12 ottobre 1840 da una famiglia di nobili origini ma di idee moderatamente progressiste. La madre, Callista Rzewuska, apparteneva all’aristocrazia polacca e il padre Michelangelo fu principe di Teano e Duca di Sermoneta. 
La memoria della madre polacca, morta prematuramente quando Ersilia aveva solo due anni, è stata da lei onorata con la sua passione per la cultura cosmopolita.
Il padre, appassionato di archeologia, invece, le trasmise ed alimentò il suo interesse per la storia antica.
Ersilia conosceva il latino, il greco antico ed il sanscrito.
Nel 1859, giovanissima, si sposò con Giacomo Lovatelli, anch’egli di nobili origini. Iniziò così ad interessarsi a studi di carattere archeologico, entrando in contatto con le figure più eminenti della ricerca archeologica romana.
Nella sua casa, il suo salotto era frequentato da illustri studiosi ed ella spiccava per essere oltre che intelligente ed elegante, anche abile conversatrice. Tra gli ospiti: Carducci, Zola, Liszt e D’Annunzio. La biblioteca della sua casa vantava oltre 6.000 libri e lei la donò con testamento all’Accademia dei Lincei.
Notevole fu la sua produzione letteraria, ben 9 volumi, ed inoltre collaborò con le riviste "Nuova Antologia" e la "Fanfulla della domenica" dove scriveva di usi e costumi del mondo antico romano.
L'ultima sua pubblicazione risale al 1915; dopo passarono dieci anni di riserbo e silenzio a causa di una malattia che l'aveva colpita.
Morì a Roma il 22 dicembre 1925.
Ersilia Caetani era timida, riservata ed esitava ad esporre in pubblico le sue idee sui monumenti che a quei tempi ritornavano alla luce dal sottosuolo di Roma. Era un'esperta nelle ricerche filologiche ed antiquarie e si era guadagnata la stima di molti studiosi, sia italiani che stranieri.
La sua opera più nota è "Tanathos" pubblicato nel 1887. In queste pagine ci si accorge come l'archeologa non si limitava ad illustrare il monumento, ma trattava in maniera approfondita il concetto della morte del popolo greco e di quello romano. La critica definì quest'opera "un mirabile complesso tanto di comparazione di monumenti che di pensieri sulla caducità della vita umana", aleggia in queste pagine "un profondo senso di amarezza e di malinconia per la consapevolezza della vanità delle cose, a metà tra rassegnazione cristiana e fatalismo pagano".
Curò personalmente l'edizione dei suoi libri pubblicandoli a sue spese e rilegandoli in maniera particolare e raffinata.
E' stata definita "l'ultima antiquaria italiana", dopo di lei il passaggio da questa scienza all'archeologia moderna.
Un'altra definizione che ci piace ricordare è quella che la indica come "la più dotta fra le donne di Roma e fors'anco d'Italia".
I suoi studi contribuirono ad illustrare la città di Roma in maniera non solo chiara ma piacevole da leggere.
Le sue dissertazioni archeologiche non restarono confinate agli addetti ai lavori, come succedeva a quei tempi, Ersilia riuscì a dare "sentimento alla rievocazione archeologica". Ai soggetti che colpivano la sua sensibilità femminile infondeva un alito di vita.
Possiamo concludere affermando che questa donna contribuì al nascere dell'archeologia moderna sia attraverso i suoi scritti, sia attraverso la sua opera divulgatrice.

Fonti
Elisabetta Strickland, La musa pensosa, in “Leggendaria 103” gennaio 2014
http://www.treccani.it/enciclopedia/ersilia-caetani
http://www.brown.edu/Research/Breaking_Ground/bios/Lovatelli_Ersilia.pdf
http://www.lincei-celebrazioni.it/iersilia_caetani.html
http://www.romasegreta.it/s-angelo/palazzo-lovatelli.html
http://www.mommsenlettere.org/person/Details/36
https://scienzaa2voci.unibo.it/biografie/71-caetani-lovatelli-ersilia
http://www.correnterosa.org/1403-ersilia-caetani-lovatelli/

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Bianca Cappello

(Venezia, 1548 – Poggio a Caiano (Po), 1587)

Non esistono vie dedicate al suo nome

I misteri di un cuore impavido

di Alessandra Rossi

Bianca Cappello, la nobildonna veneziana amata e temuta dalla famiglia Medici, nasce nel 1548 segnata dal dono ricevuto da sua madre, Pellegrina Morosini, la prima moglie di Bartolomeo Cappello: una bellezza “imperiosa”, per usare l’aggettivo attribuito da Michele de Montaigne al suo viso, che passava per i suoi occhi azzurri e brillanti e attraversava il suo corpo perfetto, quasi fosse modellato dalle mani sapienti di un artista. Bianca, però, non cresce con la madre ma con la seconda moglie di Bartolomeo, Lucrezia Grimaldi, una donna aspra e severa, interprete perfetta del ruolo di matrigna crudele che ci viene proposto dalle fiabe più note. E, proprio come nelle fiabe, alla giovane Bianca sembra offrirsi la possibilità di un riscatto dall’infanzia poco rosea quando riceve le attenzioni di un giovane fiorentino, il ventiquattrenne Pietro Bonaventuri. Alla quindicenne Bianca basta affacciarsi alle finestre della sua casa, che già iniziava a starle stretta, per far invaghire il giovane impiegato del banco della famiglia Salviati, dall’altra parte del canale. Per lei deve esser stato amore a prima vista, o forse l’illusione di un amore: il giovane rappresenta la possibilità di emanciparsi, di fuggire dalla famiglia; per Pietro il matrimonio con Bianca significa la possibilità di scalare repentinamente la piramide sociale, passando dalle innumerevoli scappatelle, per le quali è noto, al legame con una nobildonna veneziana per di più incredibilmente graziosa. Bianca, in realtà, non è solo una fanciulla bella, in lei c’è qualcosa di più profondo: un intimo bisogno di vivere intensamente, di non fermarsi, di non accontentarsi e accettare il destino che il padre e la matrigna vogliono scegliere per lei. Non si risparmia i rischi e per questo viene ripagata con momenti altissimi, durante i quali deve esserle sembrato di poter toccare la volta celeste, seguiti da altri in cui, come quasi sempre accade, sembra di sprofondare nel dolore più forte. 
Pietro e Bianca, che scopre di essere incinta ed è accusata dal padre di aver rubato soldi e gioielli, scappano — sulle loro teste pende anche una taglia — nell’unica città in cui il ragazzo si sente al sicuro dalle leggi della Serenissima e dall’ira impetuosa del padre della sua giovane sposa: Firenze. Qui Bianca pensa forse di avere un’opportunità di salvezza, immagina l’inizio di una nuova vita; invece la città medicea si rivela una realtà non facile, meno fiabesca di quella che forse aveva sognato. Si sposano ma la casa dei genitori del marito è umile rispetto agli standard ai quali era abituata; a Firenze giunge la richiesta da Venezia di consegnarla insieme al marito Piero: ora la decisione spetta a Cosimo I, o meglio al figlio Francesco al quale ormai lo stanco Granduca delega tutte le rogne.
Il primo incontro tra queste due anime, che saranno legate tra loro a doppio filo, forse avviene per questo motivo ma, come in tutte le storie avvincenti, molti elementi leggendari si sono aggiunti successivamente. S
i dice che l’occasione ha come protagoniste Bianca e la sua esplicita bellezza: ancora una volta a lei basta lasciarsi intravedere tra le tende di una finestra, forse lancia una rosa come omaggio al giovane principe. Un amore per una rosa: Francesco la guarda sorridere e in un attimo la sua devozione è tutta per lei.
Ma la bella dama veneziana oltre al legame col Bonaventuri, ora suggellato anche dalla nascita della figlia Pellegrina, ha una rivale ingombrante, la moglie Giovanna d’Austria, poco affascinante stando alle cronache fiorentine del tempo, ma pur sempre sorella dell’imperatore. Il cuore di Francesco non accoglie sentimenti per la consorte, occupato com’è dall’amore per Bianca. L’erede mediceo omaggia la sua amante con doni, ville e palazzi, il primo e più famoso dei quali è il palazzo di via Maggio (ribattezzato in suo onore palazzo Bianca Cappello), vicinissimo a Palazzo Pitti per permettergli di raggiungere comodamente la donna in qualsiasi momento lo desideri; allo stesso tempo Francesco non può esplicitamente permettere che Bianca entri nella vita della sua famiglia “dall’entrata principale”. Sono, infatti, entrambi ancora sposati e questo fa sì che la figura della nobildonna veneziana sia fonte di timore per una parte della corte fiorentina; il più preoccupato sembra il cardinale Ferdinando, fratello di Francesco, che non riuscirà ad accettare sinceramente Bianca neppure quando diventerà ufficialmente Granduchessa. La giovane veneziana ha però un’alleata all’interno della famiglia: è la “Stella di casa Medici”, Isabella, la più abile amministratrice delle fortune medicee, la guida del casato, molto più talentuosa del fratello Francesco nell’amministrazione delle questioni di Stato. Egli, che nel 1574 è diventato Granduca, si rivela un politico rigido e inesorabile, eredita uno stato dall’apparato burocratico e amministrativo funzionante, ma appare refrattario alla routine e al suo ruolo nell’amministrazione; spesso, infatti, si rifugia nello studiolo di Palazzo Vecchio, dove può dedicarsi ai suoi interessi culturali e scientifici: l’amore e gli studi costituiscono per Francesco il modo migliore per elevarsi dalla condizione strettamente terrena di Granduca.
Il destino lavora in favore di Bianca: suo marito viene misteriosamente assassinato in strada mentre è di ritorno dalla casa della sua amante. Si vocifera che oltre al destino ci sia lo zampino di casa Medici, ma il risultato non cambia: l’amore veneziano di Francesco ora non è più sposata e lo scandalo diviene meno “scandaloso”. La Granduchessa Giovanna, poco amata sia dal marito che da Firenze e sempre un po’ in disparte, continua ad arricchire l’albero genealogico della famiglia, ma solo di figlie femmine e questo preoccupa la corte. Si prospetta un’arma vincente per Bianca che si sente pronta ad agire: deve essere assolutamente lei a dare a Francesco il primo figlio maschio. Anche in questo caso le dicerie si arrampicano intorno ai fatti storici: forse non è lei la madre biologica del bambino che nasce nell’agosto del 1576, forse è una giovane ragazza incinta la vera madre dell’erede maschio, affidato a due camerieri personali di Bianca che lo accudiscono. Il neonato, al quale viene dato il nome di Antonio de’ Medici, potrebbe avere un futuro grandioso ed essere destinato a ben altro ruolo che quello di figlio di due camerieri, ma la sorte è beffarda e il 20 maggio 1577 Giovanna d’Austria mette al mondo il primo figlio maschio legittimo del Granduca, il piccolo Filippo: nessuno può immaginare che vivrà appena 5 anni.
Un anno dopo Giovanna d’Asburgo, che aveva avuto la sfortuna di trovarsi in mezzo a una storia d’amore tanto intricata quanto salda, esce di scena a causa di una rovinosa caduta dalle scale: Bianca e Francesco non perdono tempo e si sposano due mesi dopo l’incidente luttuoso, anche se con una cerimonia celebrata in gran segreto. Nessuno ostacolo ormai si frappone fra loro, possono coronare il loro sogno ma con un occhio attento agli umori della città e della nobiltà fiorentina, non ancora pronta ad accogliere quella nuova Granduchessa. Il segreto non rimane a lungo tale, le nuove nozze possono essere un vantaggio e non solo per Bianca. Anche Venezia accoglie con letizia e clamore l’evento: ora Bianca, la stessa donna d’animo irrequieto che era scappata quindicenne dalla casa paterna con una taglia sulla testa, sposata a un borghese qualsiasi e presunta ladra, torna a essere “Figliuola di Venezia”, grande vanto della Repubblica Serenissima e non perché il suo spirito sia mutato, ma solo perché sono cambiati il sangue e il rango dell’uomo al quale è legata. Francesco non vuole per lei un matrimonio morganatico, vuole che la famiglia e la città tutta si inchinino di fronte alla nuova Granduchessa: una seconda cerimonia, solenne e pubblica, viene celebrata nel 1579. La partita, infine, l’ha vinta Bianca.
La coppia ora può muoversi alla luce del sole, i possedimenti medicei possono accoglierli come marito e moglie legittimi: tra le tante ville una in particolare è amata dalla veneziana, quella di Pratolino. Si tratta di una proprietà sulla strada tra Bologna e Firenze, riadattata da Francesco per omaggiare Bianca, un luogo del cuore insomma, intimo e lontano dalle pressioni della famiglia e dalle maldicenze del popolo fiorentino.
Adornata da giardini meravigliosi, curati da straordinari artisti, è costellata di fontane automatiche che stupivano chiunque trascorresse del tempo in questo Eden artificiale. È emblematico il resoconto di Michele de Montaigne che, di ritorno da una Firenze “deludente”, si consola nella splendida dimora affermando nel suo Journal du voyage en Italie par la Suisse et l'Allemagne:La bellezza e la ricchezza di questo luogo non si possono rappresentare con la scrittura”. La villa, in realtà, è arricchita dalla figura di Bianca, dalle sue doti filantropiche e dalla sua intelligenza. I suoi salotti dettano legge in fatto di moda e costume, il suo gusto raffinato influenza quelle nobildonne che inizialmente le erano state ostili, ma ora la imitano nell’uso dei merletti veneziani e di quei particolari colletti che lei sfoggia sempre.
L’idillio d’amore fra Bianca e Francesco dura poco, appena otto anni, e la sorte, o chiunque l’abbia aiutata, piombano inesorabili sui due innamorati. La morte sopraggiunge misteriosa, nel 1587, in un’altra villa medicea, quella di Poggio a Caiano. In principio si pensa a una febbre terzana che nell’arco di 11 giorni si porta via marito e moglie, entrambi affetti dagli stessi sintomi; si parla anche di smodatezza nel bere e nel mangiare, si immagina persino un devastante tumore al seno che avrebbe ucciso Bianca. In seguito comincia a montare la storia del doppio omicidio con arsenico, forse perpetrato dal fratello e cognato Ferdinando de’ Medici. Effettivamente la morte repentina e pressoché identica di Bianca e Francesco lascia spazio a ipotesi diverse, non ultima quella della congiura di palazzo. Il maggiore indiziato appare Ferdinando che in quei tragici giorni si trova proprio ospite nella villa di Poggio a Caiano, teatro dei macabri eventi. Si sa che Ferdinando ha solo apparentemente perdonato a Bianca il suo essere stata la determinata e sempre presente guida del Granduca; inoltre è lui il maggior beneficiario della morte dei coniugi ereditando subito il titolo di Francesco. Gli intrighi di corte sono all’ordine del giorno nell’Italia del XVI secolo e la famiglia medicea, anche in passato, non è stata esente da simili accuse. Forse invece, come era accaduto alla madre di Francesco, Eleonora di Toledo, e ai suoi fratelli minori Giovanni e Garcia, il Granduca e sua moglie Bianca sono vittime delle pericolosissime febbri malariche.
La storia di Bianca rimane ancora una volta costellata di misteri, di luci e ombre; senza dubbio è stata una donna brillante e volitiva, bella, di una bellezza impenetrabile e altezzosa, capace in modo quasi naturale di attirare su di sé invidia e maldicenze, una “straniera” arrivata con una fama terribile e andata via da Granduchessa. Queste cose alle donne si fanno pagare e anche caramente: dopo la sua morte viene infamata nei più modi diversi, a partire dalle battute crudeli del popolo (Qui giace un Cavatel pien di malìe/e pien di vizi. La Bianca Cappella/ puttana, strega, maliarda e fella/che sempre favorì furfanti e spie) fino ad arrivare alla scomparsa del suo corpo, probabilmente sepolto in una fossa comune, ultimo “regalo” del cognato Ferdinando che non le concede le esequie solenni come il suo titolo di Granduchessa prevede.

Fonti:

Michele de Montaigne, Giornale di viaggio in Italia, a cura di E. Camesasca, Milano 1956.

Marcello Vannucci, 1989, I Medici. Una famiglia al potere, Newton Compton editori, 1989.

Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Newton Compton editori.

Patrizia Vezzosi, È lui il più bello. Ritratti medicei nella villa di Cerreto Guidi, Alinea editrice, 2007, p.21

Caroline P. Murphy, Isabella de’ Medici, Milano, Il Saggiatore, 2011.
http://www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/cartedidonne/arrivo.html

http://www.firenzetoday.it/cronaca/oltrarno-misteri-bianca-cappello.html

http://www.treccani.it/enciclopedia/bianca-capello-granduchessa-di-toscana_(Dizionario-Biografico)/


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Virginia Carini Dainotti

(Torino, 1911 – Roma, 2003)

Fu una delle principali figure del dibattito biblioteconomico in Italia nel secondo dopoguerra, per dirla col titolo di un convegno a lei dedicato nel 1999, e una delle massime sostenitrici del modello angloamericano di biblioteca pubblica (public library) inteso come strumento fondamentale di crescita democratica. Nel 2013, a dieci anni dalla scomparsa, le è stata dedicata la Sala conferenze della Biblioteca Statale di Cremona e, nello stesso anno, è stata suggerita alla Commissione Consultiva Toponomastica di Roma un'intitolazione in sua memoria per iniziativa congiunta del gruppo Toponomastica Femminile e dell'Editrice Bibliosofica.

La battaglia per la nascita di una public library italiana

di Saveria Rito

Virginia Dainotti nacque a Torino da Paolo Dainotti e Luisa Garbelli l'1 luglio 1911 e, dopo la laurea in lettere e il diploma in paleografia-archivistica-diplomatica e biblioteconomia, ebbe il primo incarico presso la Biblioteca Braidense di Milano. Già nel 1936, ad appena 25 anni, fu nominata responsabile della Biblioteca Governativa di Cremona, dove rimase fino al 1942 e contribuì a risollevare le sorti di un istituto ormai decadente, trasformandolo in un centro culturale per la comunità e seguendone il trasferimento nell’attuale sede cinquecentesca di Palazzo Affaitati. Mi piace ricordare che la Biblioteca Statale di Cremona, oggi appartenente al Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo, istituita dai Gesuiti, era stata aperta al pubblico nel XVIII secolo per volere di una donna, l'imperatrice Maria Teresa d'Austria, che l'aveva dotata di fondi preziosi. Un secolo e mezzo piu tardi, la riorganizzazione scientifica di quella stessa biblioteca fu accolta da un'altra donna, Virginia Dainotti appunto, che la vide come un’opportunità per sperimentare alcuni servizi innovativi, ad esempio l'apertura della Sala studenti, la prima in Italia, rifacendosi alle teorie biblioteconomiche di Luigi de Gregori e a modelli statunitensi di public library da lui divulgati. Dainotti coinvolse stimati intellettuali cittadini a proporre nuovi testi da acquistare, richiamò l'attenzione delle autorità locali ottenendo consistenti finanziamenti e provò ad avvicinare alla biblioteca un'utenza eterogenea e non abituale, come i "semplici lettori". L'intera vicenda dell’ammodernamento fu seguita con particolare attenzione anche dalla stampa locale, sia per merito del suo grande impegno sia perché nel 1939 Virginia Dainotti aveva sposato il prefetto di Cremona, Pietro Carini, acquisendo una certa popolarità.
Nel 1942 lasciò Cremona ed entrò nella commissione ministeriale per la revisione delle Regole per la compilazione del catalogo alfabetico per autori, sospesa dopo l'armistizio del 1943 e ripristinata nel 1945. Sempre nel 1943, assunse la direzione della biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea a Roma, ex Biblioteca del Risorgimento, che mantenne fino al 1951 per essere nominata l'anno successivo ispettrice ministeriale delle province di Modena e Cremona. Dai primi anni Cinquanta in poi, il suo progetto principale fu l'organizzazione del Servizio Nazionale di lettura e partecipò costantemente a commissioni di studio, congressi nazionali e internazionali di biblioteconomia, fu invitata a tenere lezioni e seminari su temi quali i servizi nelle biblioteche, la diffusione della lettura e la sua funzione educativa, l'organizzazione delle biblioteche di enti locali e la formazione del personale. Dal 1967 fu nella commissione per i rapporti col Parlamento per il servizio di pubblica lettura e, alla fine degli anni 70, partecipò agli incontri per l'attuazione di un sistema bibliotecario nazionale, affermatosi un ventennio più tardi.
Tutti gli scritti di una vita, le azioni e gli interventi all'interno dell'AIB (Associazione Italiana Biblioteche) furono mirati alla modernizzazione del concetto di biblioteca pubblica nel nostro Paese per passare da un'istituzione di conservazione, di nicchia e contrapposta a quella "popolare" nata da idee socialiste di inizio Novecento, ad una aperta a ogni tipologia di utenza.  "Diamo la biblioteca al mondo, diamola al suo mondo, che è largo, che è vivo", ricordava in una delle ultime interviste rilasciata nel 2000 a Mauro Flati, tre anni prima di morire, e riportata in appendice agli atti di un convegno tenutosi all'Università di Udine in suo onore nel 1999. Virginia Carini Dainotti  provò a conciliare la realtà italiana con modelli anglosassoni e statunitensi, aveva una visione totalmente innovativa per la sua epoca che contrastava con l'immagine tradizionale del bibliotecario (un tempo quasi tutti maschi) chiuso tra i libri, poiché riteneva la biblioteca un'istituzione viva con un ruolo sociale, alleata nei processi di democratizzazione e sviluppo dei popoli, baluardo del diritto all'informazione. La biblioteca pubblica istituto della democrazia è il titolo di una sua opera del 1964 e sono gli stessi concetti che nel 1995 sarebbero stati universalmente fissati nel Manifesto UNESCO per le biblioteche pubbliche che così la definisce: "[...] via di accesso locale alla conoscenza, costituisce una condizione essenziale per l'apprendimento permanente, l'indipendenza nelle decisioni, lo sviluppo culturale dell'individuo e dei gruppi sociali".

Fonti
Angela Nuovo, Ricordo di Virginia Carini Dainotti, in AIB Notizie 15 (2003), n. 6, p. 8
Virginia Carini Dainotti e la politica bibliotecaria del secondo dopoguerra: atti del convegno, Udine, 8-9 novembre 1999, a cura di Angela Nuovo. Roma, AIB, 2002.
Virginia Carini Dainotti, La biblioteca pubblica istituto della democrazia. L'elaborazione internazionale del concetto di biblioteca pubblica, Milano, Fabbri, 1964
Virginia Carini Dainotti, La Biblioteca Governativa nella storia della cultura cremonese, Cremona, Deputazione di storia patria, 194

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Rosa e Cecilia Caselli Moretti

Rosa (Perugia, 1896 –  1989)   Cecilia (Perugia, 1905 - 1996)

Quando si pensava che il Cenacolo di Leonardo potesse perdersi irrimediabilmente a causa dell’opera di deterioramento, iniziata subito dopo la conclusione dell’affresco, due sorelle “artiste-artigiane” perugine furono capaci di riprodurre mirabilmente in una grande vetrata l’Ultima Cena. Oggi lo studio Caselli Moretti è diventato un laboratorio museo, dove ancora donne della famiglia si tramandano quell’antica arte. Poco lontano dal laboratorio c’è un giardinetto pubblico che non ha un nome, viene indicato come “giardino  di viale Indipendenza”, ci sembra perciò opportuno intitolarlo a Rosa e Cecilia Caselli Moretti.
Questo auspicio si è trasformato, nel giugno 2016, in realtà e i giardini sono stati intitolati alle due pittrici perugine.

Rosa e Cecilia: due donne, due artiste perugine del Novecento

di Giorgio Panduri

Rosa e Cecilia nacquero da Lodovico Caselli Moretti e Paolina Taticchi. È impossibile tracciare la biografia di Rosa senza parlare di Cecilia e viceversa, poiché la loro vita privata e artistica fu strettamente e intimamente legata.
Nate in una famiglia di artisti, fin da bambine respirarono l’aria dello Studio di vetrate artistiche dipinte a fuoco fondato nel 1859 da Francesco Moretti, zio del padre Lodovico; condussero una vita più ritirata rispetto a quelle dei loro predecessori, ma non per questo meno laboriosa.
All’età rispettivamente di 26 e 17 anni, Rosa e Cecilia si ritrovarono senza la preziosa guida del padre, morto prematuramente nel 1922, dopo che anche lo zio Francesco era morto nel 1917.
Scrive Angelo Lupattelli nel 1923: “Dopo sì grave sventura, un solo pensiero, un solo augurio […]; quello cioè che la tradizione artistica dello Studio Moretti Caselli venga gloriosamente continuata dalla valentissima e gentile signorina Rosa, la quale […] saprà far rivivere il nome e l’arte dello zio e del padre, toccando ad essa il merito di compiere le tre vetrate, nello stile del Trecento, per la Chiesa Inferiore di S. Francesco in Assisi, lasciate dal Caselli incompiute”. E Rosa, sempre insieme a Cecilia, non disattese le speranze. Enorme fu il lavoro a cui  si sottoposero le due sorelle in un periodo così doloroso della loro vita familiare, acuito dalla perdita di un fratello, morto di tifo all’età di 15 anni nel 1916, e di una sorella di 23 anni, morta solo poche settimane dopo il padre.
Oltre al completamento delle opere iniziate dal padre in Assisi, Sinalunga e Bastia Umbra, tra il 1922 e il 1930, realizzarono numerose vetrate in Assisi, Todi, Camerino, Terni, Arezzo e Perugia.
Inoltre, tra il 1925 e il 1930, eseguirono l’opera più impegnativa della loro vita: la vetrata che interpreta L’Ultima Cena di Leonardo da Vinci a grandezza naturale (40 mq) per il cimitero Forest Lawn a Glendale, presso Los Angeles. Non va dimenticato che ogni singolo pezzo di vetro è dipinto e cotto almeno tre volte. Lavoravano anche di notte con lampade azzurre particolari chiamate “lampade solari”. Rosa eseguì tutte le teste, mentre Cecilia fu nominata la “sarta” perché dipinse tutti i vestiti degli apostoli. Erano ossessionate dalle rotture del vetro che a volte si verificavano. Nemmeno la curiosità di vedere installata questa grande opera, che era loro costata tanto impegno e lavoro, le indusse a lasciare Perugia per recarsi negli Stati Uniti. Si segnala che a Glendale, accanto alla vetrata, sono collocati i busti di Rosa e di Leonardo.
Rosa, diplomata alle scuole magistrali, frequentò l’Accademia di Belle Arti di Perugia e fu insignita del titolo di Accademica di merito nel 1925. Cecilia, dalla salute molto instabile, frequentò dei corsi liberi presso l’Accademia e nel 1994 fu iscritta nell’Albo d’oro del Comune di Perugia come riconoscimento di una vita dedicata all’arte. Nel 1988 entrambe ricevettero un premio speciale della Camera di Commercio di Perugia, per l’attività e la continuità nella tradizione.
Entrambe erano molto riservate, ma Cecilia fu restia a qualsiasi tipo di attività e relazione pubblica, preferendo dedicarsi interamente ai pennelli, realizzando quadri e delicate miniature quando non era impegnata nell’esecuzione di vetrate; dalla documentazione conservata nell’Archivio Moretti Caselli emergono infatti quasi esclusivamente il nome e la figura di Rosa, la quale curò le relazioni esterne dello Studio.
Rosa, pur non avendo una vita sociale particolarmente intensa, prese parte ad alcune associazioni cittadine, tra cui si ricorda l’Azione Cattolica, della cui sezione femminile fu anche presidente, e l’associazione “Donne artiste e laureate-circolo Vittoria Aganoor”. Fu inoltre terziaria francescana.
La vita delle due sorelle trascorse in gran parte all’interno dell’edificio quattrocentesco di via Fatebenefratelli, fra vetri, carta e colori.

OPERE REALIZZATE:
1922 Sinalunga, Convento di S. Bernardino
1922 Bastia, Chiesa di S. Croce
1923 Todi, Chiesa di S. Fortunato
1924 Assisi, Basilica di S. Francesco (chiesa inferiore, S. Chiara e S. Elisabetta)
1924-27 Assisi, Chiesa Nuova
1924-30 Assisi, Basilica di Santa Chiara
1925-30 Glendale (USA), Ultima Cena
1926 Camerino, Cattedrale
1928 Terni, Chiesa di S. Francesco
1928 Arezzo, Cattedrale, Cappella Madonna del Conforto
1928 Assisi, Basilica di S. Francesco (chiesa superiore, finestrone abside)
1929-31 Perugia, Cappella del Seminario
1932 Montecastello di Vibio, Madonna SS. dei Portenti
1932-39 Perugia, Cattedrale di S. Lorenzo (vetrate abside)
1937 Torgiano, Chiesa di S. Bartolomeo
1937-44 Sansepolcro, Ultima Cena
1947-61 Los Angeles, serie di vetrate per W. L. Frazier
1948 Montegabbione, Chiesa parrocchiale
1952 Matelica, Cattedrale
1953 Deruta, Chiesa di S. Francesco
1955 Perugia, vetrate Villa Fani
1959 S. Enea (PG), Chiesa parrocchiale
1962 Perugia, Rifugio Francescano Frate Indovino
Vetrate per cappelle cimiteriali e dimore private in diverse città d’Italia
Restauri di vetrate per chiese e per privati

Fonti
Archivio Caselli Moretti
http://www.studiomoretticaselli.it
Angelo Lupattelli, Una famiglia di artisti fiorita in Perugia nella seconda metà del XIX secolo. Francesco Moretti, Tito Moretti, Irene Moretti in Caselli, Lodovico Caselli Moretti, Perugia, Tip. G. Guerra, 1923
G. Giubbini, R. Santolamazza (a cura di), La carta, il fuoco, il vetro. Lo studio-laboratorio Moretti Caselli di Perugia attraverso i documenti, i disegni e le vetrate artistiche, Perugia, Edimond, 2001

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Enrichetta Castiglioni

(Modena, 1803 – Venezia, 1832)

Via Enrichetta Castiglioni, la cui intitolazione avvenne nel febbraio 1911, sorge ai margini del centro storico di Modena. E’ lunga appena 168 metri, attraversa due vie dedicate ai patrioti modenesi Vincenzo Borelli e Anacarsi Nardi e finisce in viale Ciro Menotti, il patriota a capo dei moti del 1831 a Modena. Eppure, i cittadini modenesi non sanno né dove sia la strada né chi sia stata Enrichetta Castiglioni, anche se la sua vicenda meriterebbe di essere conosciuta, se non altro perché fu vittima delle decisioni di altri. L’unica decisione presa da lei la portò alla morte e forse per questo ad Enrichetta non sarà dispiaciuto vedere che la targa stradale la ricorda con il cognome del marito e non con quello della sua famiglia di origine.

Una donna modenese nel Risorgimento

di Roberta Pinelli

Enrichetta nacque a Modena il 27 gennaio 1803 da Giuseppe Bassoli, un nobile modenese senza troppe sostanze, che le diede un’istruzione semplice e rudimentale.
A soli 16 anni, per consolidare le fortune familiari, ovviamente senza il suo consenso, le fu combinato il matrimonio con Francesco Manini, gentiluomo di Parma molto ricco, ma anche molto più anziano di lei. Come era logico aspettarsi, Enrichetta rimase vedova con una bambina prima dei vent’anni e fu costretta a far ritorno nella casa paterna.
Poco tempo dopo, l’unica decisione che Enrichetta prese autonomamente: si innamorò perdutamente di Silvestro Castiglioni, giovane figlio del Presidente del Supremo Consiglio di Giustizia del Duca di Modena. Non era certamente il marito ideale, Castiglioni, a causa di precedenti vicende poco edificanti con alcune donne, tanto che il padre lo aveva costretto ad allontanarsi da Modena e ad iscriversi in un reggimento di cavalleria austriaca a Vienna. Enrichetta non si curò di tutto questo e accettò di vivere con lui more uxorio, poiché Castiglioni non poteva sposarla e, pur amandosi teneramente, non poterono unirsi in matrimonio nemmeno quando, nel 1831, dal loro legame nacque un bambino, che Enrichetta volle chiamare Enrico. Nello stesso 1831, Castiglioni, insieme ad altri patrioti, fra cui Ciro Menotti, organizzò i moti carbonari di Modena del 3 febbraio. Non si sa se Enrichetta condividesse o meno gli ideali patriottici dei carbonari; si sa però che al momento dell’insurrezione, nonostante il timore delle conseguenze, spinse Castiglioni a raggiungere Ciro Menotti e gli altri patrioti. Fuggito il Duca Francesco IV d’Austria-Este, Silvestro Castiglioni si ritrovò così a far parte dei 72 cittadini che ressero il nuovo Governo, diventando capitano del 1° reggimento italiano cacciatori a cavallo. Quando si comprese che la rivolta era fallita, Enrichetta insistette affinché Castiglioni lasciasse la città prima del ritorno del Duca (accompagnato dalle armi austriache). Egli però decise di rimanere fino all’ultimo a Modena, ma poi dovette fuggire in tutta fretta per evitare di essere giustiziato con gli altri patrioti rimasti in città. Enrichetta, con il figlio di pochi mesi, decise di seguire il Castiglioni nella fuga, pur consapevole che, se gli Austriaci li avessero catturati, sarebbero stati giustiziati, poiché al suo rientro a Modena il Duca aveva condannato a morte in contumacia tutti i patrioti che erano riusciti a fuggire. Giunti dapprima a Bologna e poi ad Ancona, i patrioti modenesi tentarono la fuga via mare, ma furono catturati da una flotta austriaca appena usciti dal porto ed incarcerati nel carcere veneziano di San Severo. Insieme a loro fu imprigionata anche Enrichetta, che volontariamente aveva deciso di condividere il carcere con il suo uomo. Debilitata dalle pessime condizioni di vita del carcere veneziano, e forse minata da un cancro, Enrichetta riuscì a sposare Silvestro Castiglioni il 23 marzo 1832 e poco dopo, ancora incarcerata nonostante il declinare della salute, morì. Era il 23 aprile 1832; Enrichetta aveva solo 29 anni.
Giunta l’amnistia per i patrioti mazziniani, Silvestro Castiglioni si rifugiò in Francia e, arrivato a Marsiglia, volle onorare la memoria di Enrichetta con solenni onoranze, durante le quali fu lo stesso Giuseppe Mazzini a pronunciarne l’elogio funebre.
Logorato dal carcere e dalla vita grama degli esuli, Silvestro Castiglioni raggiunse Enrichetta l’anno successivo (1833).
Mossa forse più dalla passione amorosa che da aneliti di libertà e patriottismo, vittima delle circostanze e della cultura del suo tempo, fu però capace di decisioni culturalmente e socialmente controcorrente. Questo è stata Enrichetta Castiglioni: una donna che, pur avendo vissuto nell’Ottocento, può a buon diritto essere ricordata come una donna moderna.

Fonti
Bruna Bertolo, Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell’Unità d’Italia, Torino, 2011
Taddeo Guidi, Ciro Menotti e i suoi compagni o le vicende politiche del 1821 e 1831 in Modena. Cenni storico-biografici, Milano, 1880
Alessandro Luzio, Giuseppe Mazzini, Milano, 1905
Giuseppe Mazzini, Scritti editi ed inediti, Imola, 1909
Tommaso Sandonnini, Enrichetta Bassoli Castiglioni in Archivio Emiliano del Risorgimento Nazionale, a. II (1908) fasc. 7-8
http://www.dizionariorosi.it/
http://www.auris.it/files/File/Il%20Risorgimento%20a%20Modena.pdf

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Giovanna Cecioni

(Vaglia (FI), 1841 – Firenze, 1937)

Non risulta alcuna intitolazione a suo nome.

Una pittrice all'ombra dei Macchiaioli

di Laura Candiani

Giovanna Cecioni rappresenta bene la condizione - condivisa con molte come Egle Marini, ad esempio - di artista dimenticata e finita nell'ombra di fratello, colleghi e amici, appartenenti nel suo caso alla cerchia dei Macchiaioli. Dopo 175 anni dalla sua nascita finalmente le preziose ricerche di uno studioso livornese l'hanno fatta riemergere dall'oblio e un recente convegno a Lucca l'ha giustamente ricordata.
Figlia di Giuseppe e di Umiliana Cecchini, fu battezzata Maria Anna, ma dal '42 risulta nei registri parrocchiali come Giovanna. I genitori erano benestanti e per lungo tempo gestirono una locanda, ma il padre aveva anche attitudini artistiche che trasmise ai figli: infatti oltre allo scultore Adriano e alla pittrice Giovanna, si dedicarono all'arte Enrico ed Egisto, bravi stipettai ed eccellenti mosaicisti. Dei sette figli si sposarono soltanto la maggiore, Ersilia, e Adriano; gli altri (Erminia, Giovanna, Ismene, Enrico ed Egisto) non ebbero una famiglia propria, ma sappiamo che furono legati affettuosamente fra di loro e vissero molto vicini l'uno all'altro.
Giovanna non frequentò alcuna accademia e per circa cinque anni (dal '62 al '67) non risulta stabilmente a Firenze; potrebbe essere stata a Napoli con il fratello Adriano che vi soggiornò, ritornando sposato e con il figlioletto Giorgio. Dal '68 Giovanna è a Firenze e vive con i genitori in viuzzi delle Lane al n.394; dall'anno successivo si trasferiscono in via Antonio Giacomini al n.16: lì Giovanna abiterà sempre. La prima testimonianza della sua produzione artistica è del 1868 quando partecipa alla mostra organizzata dalla Società Promotrice di Incoraggiamento di Firenze con il dipinto “I balocchi” che sperava di vendere a 200 lire. Il quadro oggi è sconosciuto, ma il fratello ne fece gli elogi per la naturalezza, la semplicità, la libertà espressiva, in polemica con gli insegnamenti ufficiali e codificati che avversava. Nel '69 Giovanna viene ritratta, mentre dipinge al cavalletto, da Odoardo Borrani e questa bella tela è un duplice documento, perché ce ne mostra l'aspetto grazioso e giovanile, con i capelli castani raccolti, il volto attento e il vezzoso nastrino al collo, ma anche perché testimonia la sua attività artistica. Nel '72 Giovanna fa parte di un gruppo di 16 artiste presenti con le loro opere a Milano e il critico Francesco dall'Ongaro all'epoca nota acutamente che il lavoro per le donne rappresenta “il miglior mezzo di emancipazione e di indipendenza”, in particolare quello artistico che può conservare “quel vanto di gentilezza e di leggiadria”, doti senz'altro appartenenti a Giovanna e alla sua produzione.          Nel '73 Giovanna partecipa all'Esposizione Universale di Vienna con due dipinti; uno dovrebbe essere “Una cucina”, l'altro - ben descritto e assai lodato da Telemaco Signorini - è “Un artista in erba”. Questa tavola (che raffigura un interno in cui un bambino cerca di riprodurre una piccola modella con il cappello da bersagliere, mentre una bambina assiste un po' distratta) per lungo tempo è stata attribuita al fratello Adriano e qui si pone il problema centrale: gli equivoci e le errate attribuzioni si ripetono. Giovanna e Adriano, infatti, lavoravano e presentavano le loro opere insieme, magari firmate con il solo cognome, utilizzavano soggetti simili, interni e familiari; ad esempio: ”La stalla”, ”I balocchi”, ”La cuoca domestica”, ”La colta delle zucche”- lei; “La stalla dei bovi”, ”I soldatini di carta”, ”Le faccende di casa”- lui.
Dai documenti sembra che Cristiano Banti l'abbia inserita nella sua celebre collezione privata (forse proprio con l'olio “Un artista in erba”); nel 1884 Adriano scrive di questa importante raccolta evidenziando la qualità delle opere presenti nella “Galleria Banti”, definita “unica nel suo genere”. Giovanna continua a dipingere e a partecipare alle esposizioni, almeno fino al 1903, ma alla fine degli anni Ottanta decide di dedicarsi all'insegnamento per avere quella tranquillità economica che era sempre mancata ad Adriano, tormentato dalla difficoltà di mantenere la famiglia, cessata solo quando divenne insegnante al Magistero l'anno prima di morire precocemente, nel 1886. Il 30 aprile 1889 Giovanna diviene insegnante aggiunta reggente di disegno nelle scuole normali e prende servizio a Lecce; dal 1° ottobre 1889 è trasferita a Livorno, alla scuola “Angelica Palli” dove rimarrà tre anni; poi avrà sede a Firenze e dal '93 è promossa insegnante aggiunta effettiva di seconda classe. Dal '98 al 1900 insegna al Conservatorio di Santa Maria degli Angioli e alla scuola  normale femminile “Massimina Rosellini”, in seguito presso l'istituto delle Mantellate. Dai giudizi espressi dal direttore, quando era a Livorno, appare una insegnante capace e appassionata, diligente e dedita al lavoro; molto interessante scoprire il suo moderno metodo didattico che lei stessa spiega in una relazione: cercare di lavorare con pazienza e amore, di dare sempre l'esempio, di lodare le allieve per i progressi e di rendere l'insegnamento piacevole. Il suo interesse per la professione è testimoniato anche dalla partecipazione ai congressi annuali degli insegnanti (dal 1902 al 1905), con un ruolo attivo; fa interventi, esprime le proprie idee sulla necessità di rinnovare l'insegnamento ed è l'unica donna a pronunciare un brindisi al banchetto conclusivo del 1902; tuttavia, dopo tre anni, appare delusa per le “ingiustizie e disuguaglianze” che permangono nel mondo della scuola e nel riordino delle carriere dei docenti.
In questi stessi anni lavora assiduamente, con il fratello Enrico e la nipote Giulia, per realizzare il libro Scritti e Ricordi, curato da Gustavo Uzielli, dedicato all'amato fratello Adriano, pittore, caricaturista, critico e teorico dell'arte, portavoce e unico scultore dei Macchiaioli. L'opera uscirà nel 1905. Passano gli anni e della numerosa famiglia sopravvivono solo Giovanna e le sorelle Erminia e Ismene; dai documenti rintracciati da Bernardini scopriamo qualche altro dettaglio interessante. Le idee dei genitori e dei figli erano sempre state improntate al libero pensiero e al patriottismo, erano stati vicini alla causa garibaldina (Egisto combatté con i Mille, Adriano fu volontario nella Seconda guerra di indipendenza) e le tre anziane signore, durante il periodo fascista, sfidavano il potere costituito tenendo comizi anarchici presso la casa di villeggiatura a Fontebuona.
Giovanna concluse a Firenze la sua lunga esistenza a causa di una polmonite il 28 dicembre 1937.
Per moltissimo tempo la fama di Giovanna è stata oscurata dalla notorietà del fratello, eppure sappiamo dal fitto carteggio che la stima era reciproca e Adriano teneva in grande considerazione i pareri della sorella, mentre lei seguiva con la massima attenzione la produzione del fratello, sempre insicuro e tormentato.
Oltre a Signorini e a Banti, hanno apprezzato i dipinti di Giovanna anche Anna Franchi (citandola in un libro sui Macchiaioli) e poi Mario Giardelli che la definì “fine e buona pittrice”. Colui che meglio ne comprese le qualità fu Raffaele Monti, che notò sì la vicinanza con la produzione pittorica del fratello, ma anche la libertà espressiva e la padronanza nella complessa struttura del già citato olio “Un artista in erba”. Ettore Spalletti addirittura ha avanzato l'ipotesi che alcune opere, ancora attribuite ad Adriano, possano in realtà essere della sorella. I dipinti accertati di Giovanna oggi non sono molti (tre con foto), mentre altri venti sono citati in documenti ed esposizioni; di alcuni abbiamo anche il prezzo di vendita, ma non sono rintracciati. Fra i soggetti preferiti si evidenziano gli interni domestici, come “La lezione” con i tre nipotini intenti, secondo l'età, a varie occupazioni e il delizioso “Una cucina”, ricco di dettagli quasi fotografici, in un ambiente raccolto e luminoso; altri sono paesaggi e scorci di esterni.
Certamente una bella sfida per i critici dell'arte e una ricerca da proseguire con tenacia per far riemergere una vera artista dall'oblio.

Fonti
Luciano Bernardini, Giovanna Cecioni pittrice - contributo alla risoluzione di un problema attributivo, Livorno, Books & Company, 2013  
Anna Franchi, Arte e Artisti Toscani dal 1850 ad oggi, Firenze, Alinari,1902
Mario Giardelli, I Macchiaioli e l'epoca loro, Milano, Ceschina,1958
Raffaele Monti, Interni con figure femminili, in  Gli anni di Piagentina. Natura e forma nell'arte dei Macchiaioli (catalogo mostra), Firenze, Artificio,1991
Ettore Spalletti, Le aporie di Adriano Cecioni, in “Amici di Palazzo Pitti - Bollettino 2010”, Firenze, Polistampa, 2011

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Giulia Centurelli

(Ascoli Piceno, 1832 – Roma, 1872)

Tra le letterate e umaniste del passato, la toponomastica di Ascoli Piceno ha scelto di ricordare solo il nome Elisabetta Trebbiani (donna di lettere e poeta della seconda metà del XIV secolo) e quello di Giovanna Garzoni (celebre pittrice del Seicento). L’odonomastica, che definisce la cultura di una città, ha fino ad ora dimenticato Giulia Centurelli, figlia nobile della storia risorgimentale locale, poeta e pittrice del XIX secolo.

Giulia Centurelli, artista felice, donna infelice

di Maria Gabriella Mazzocchi

In anni recenti e in particolare nel 2011, con le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, si sono moltiplicati i contributi di studiose e studiosi che hanno restituito verità all’impegno delle donne nel movimento risorgimentale. La presenza femminile durante il Risorgimento è stata intensa e si è manifestata ad ampio raggio, coinvolgendo donne di diversi ambienti sociali e di tutte le regioni italiane.
Tra le donne marchigiane che, a vario titolo, hanno contribuito all’unificazione del Paese, va ricordata l’ascolana Giulia Centurelli, donna di rare doti intellettuali, poeta, insegnante e pittrice. Oggi è considerata tra le grandi donne italiane del Risorgimento, pur mancando ancora un’approfondita analisi monografica che ne ricostruisca pienamente la vicenda biografica e artistica.
Sensibile, coraggiosa e appassionata, Giulia è stata, sin dalla sua prima giovinezza, una protagonista dell’Ottocento ascolano. Rileggendo le poche notizie sulla sua vita, ci si accorge che qualche biografo ha posto l’accento più sulla presunta melanconia e infelicità di Giulia, che sulle sue doti di coraggio e talento che dovevano essere certamente fuori dall’ordinario. Questa interpretazione storiografica “di genere” non è insolita e testimonia un pregiudizio comune secondo il quale una donna, impegnata sia politicamente che in campo artistico, non poteva realizzarsi nel suo naturale ruolo di moglie, madre o vestale del focolare domestico. Consideriamo ad esempio che un ex garibaldino come Francesco Crispi, una volta divenuto primo ministro dell’Italia Unita, così scriveva: “Quando voi distaccate la donna dalla famiglia, e la gittate nella pubblica piazza, voi fate, o signori, della donna non più l’angelo consolatore della famiglia, ma il demone tentatore…” (cfr. I. Fabbri, P. Zani, Anita e le altre, Bologna 2011, p.10).
Tra le poche notizie su Giulia Centurelli appare particolarmente significativa la testimonianza della studiosa Teresa Paoletti che, nel 1907, nel corso di una conferenza sulle donne ascolane del passato, si sofferma lungamente su di lei. Nel testo della relazione, pubblicato nel 1911, si legge: “La vita di Giulia Centurelli è una mesta istoria; ella buona e gentile passò per una serie lunghissima di atroci sofferenze. La perdita dei genitori e la morte del fidanzato che adorava avevano resa triste l’anima nata a sentire vivamente ogni bellezza, a entusiasmarsi per ogni idea nobile e santa”. Dunque, anche questa testimonianza femminile concorda con la visione di una Giulia tenera, fragile e sfortunata, infervorata di ideali patriottici e dedita all’arte e agli studi. Come se l’impegno politico e la passione per la poesia e per la pittura siano state per lei non una scelta consapevole, ma una reazione alle sue tristi vicende biografiche. La figura di Giulia (tutta sofferenza, rinunce, ispirazioni e ideali) è tratteggiata dai biografi come una versione “laica” di tante sante ed eroine cristiane.
Le fonti concordano sulla sua educazione giovanile. Il suo precoce talento si forma ad Ascoli, presso la scuola del conte Orazio Centini Piccolomini, per dedicarsi in seguito alla poesia e alla politica. Un capitolo coraggioso della sua vita, scelta certo non comune fra le donne del tempo, è stata l’adesione all’associazione patriottica ascolana Apostolato Dantesco, fondata nel 1855 che, nel nome di Dante, promulgava segretamente le idee liberali e nazionaliste di stampo mazziniano e la diffusione delle opere di autori come Foscolo, Leopardi e Byron, amati da Giulia e censurati dallo Stato Pontificio.
Diversi anni fa sono state pubblicate alcune delle sue poesie e parte dell’intenso carteggio tra Giulia e l’amico Nicola Gaetani Tamburini, fondatore dell’Apostolato Dantesco, materiale che contribuì a farla incriminare e processare. Nel dicembre 1857 la polizia pontificia scoprì l’associazione segreta e Tamburini, insieme ad altri patrioti, fu arrestato e condotto in carcere. Nel 1859 anche Giulia fu arrestata e, poiché donna, consegnata alle suore dell’Ospedale civile di Santa Margherita di Ascoli, per essere carcerata in convento. Dopo aver scontato un anno di reclusione, con l’Unità d’Italia Giulia fu liberata e il 19 settembre 1860 scrisse dei versi appassionati intitolati Rendimento di grazie nel giorno della riscossa.
Il commissario straordinario sabaudo Lorenzo Valerio indisse il 4 e il 5 novembre un plebiscito per sancire l’annessione delle Marche al Regno d’Italia. Nonostante le donne fossero escluse dal voto plebiscitario (solo poche votarono per particolari meriti patriottici e fra esse, unica marchigiana, la giovane poetessa di Recanati Maria Alinda Bonacci Brunamonti) la partecipazione e la mobilitazione femminile furono notevoli. Tra le attiviste ascolane che organizzarono il plebiscito si distinse proprio Giulia Centurelli. Dopo essere stata chiamata a insegnare disegno nella “Scuola Normale Femminile” di Ascoli, nel 1870 passò a Roma alla “Scuola Superiore Femminile” diretta da Erminia Fuà Fusinato, patriota, poeta ed educatrice con la quale strinse un bel rapporto di amicizia. Giulia morì a Roma nel luglio del 1872, stroncata a soli quarant’anni da un’epidemia di vaiolo.
Giulia Centurelli riuscì ad esprimere il suo talento oltre che come insegnante, anche come poeta e pittrice, affermando così un ruolo intellettuale attivo e paritario, cosa non scontata nella società ascolana di allora, improntata all’assoluta predominanza maschile. La sua produzione artistica, tra cui diversi disegni e miniature, è andata purtroppo in gran parte dispersa. Di una delle sue opere perdute parla lo scultore e studioso ascolano Riccardo Gabrielli che ricorda una sua copia dell’Annunciazione, tratta dall’originale di Guido Reni della civica Pinacoteca di Ascoli, opera con la quale Giulia partecipò ad un’esposizione a Firenze nel 1861. Nella stessa Pinacoteca Civica si conservano altre quattro opere: un "Amorino", una "Sacra Famiglia" (copia della celebre Madonna della Cesta di Rubens del 1615), un "Autoritratto" e il "Ritratto di Italo Selva". Nell’intenso "Autoritratto" l’artista si ritrae in atteggiamento semplice e severo, il volto giovanile incorniciato dai capelli neri raccolti, la camicetta bianca chiusa da un piccolo colletto, priva di ogni ornamento. Tutta la forza del ritratto sta nell’intensità dello sguardo, che rivela l’animo nobile e appassionato della giovane donna.

Fonti
Gabriele Rosa, Disegno della storia di Ascoli Piceno, Brescia, 1869;

Teresa Paoletti, Donne ascolane nella storia e nell’arte, Ascoli Piceno, 1911;
Riccardo Gabrielli, All’ombra del Colle di S. Marco, Ascoli Piceno, 1948;
Bruno Ficcadenti , Lettere e poesie per una rivoluzione, s.l. 1988;
Luana Montesi, Per amore della patria. Giulia Centurelli nel Risorgimento marchigiano, in "Marche", 2002, nn.7-8-9;
Gian Luca Fruci, Cittadine senza cittadinanza. La mobilitazione femminile nei plebisciti del Risorgimento (1847-1870), in Genesis, 2006, n. 2;
M. Gabriella Mazzocchi, Giulia Centurelli: una donna ascolana del Risorgimento, in "Flash, la Rivista del Piceno", 2013, n. 400.

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Maria Anna Ciccone

Noto (SR), 1892 (o 1891) –  1965

L’Amministrazione comunale e la Fidapa di Noto il 14 novembre 2015, nel corso di un Convegno su Maria Anna Ciccone, hanno posto una targa a perenne ricordo nella casa in cui la professoressa nacque e morì. L’Istituto di Istruzione Superiore “Matteo Raeli” ha partecipato, nell’anno scolastico 2015/16, al concorso nazionale indetto dall’Associazione di Toponomastica Femminile presentando un disegno animato, “Anna Maria Ciccone – Straordinarietà di una vita normale”. È stato chiesto all’Amministrazione comunale di intitolare a Mariannina Ciccone una strada, una scuola, una rotatoria, una sala conferenze.

 

Una tigre netina, partigiana dei libri

di Ada Dimauro e Vera Parisi

Maria Anna o Mariannina Corradina Ciccone nasce il 29 agosto 1892 (o 1891 secondo i documenti) a Noto da Corrado, ricco commerciante, e Caterina Mirmina. Si diploma presso la Regia Scuola Normale (che diventerà in seguito Istituto Magistrale) di Noto nel 1910. Visto che il diploma non le consentiva di accedere alle facoltà scientifiche, Mariannina si iscrive al terzo anno dell’Istituto Tecnico “Archimede” di Modica, nella sezione Fisico-Matematica, ed è l’unica alunna della classe. Dopo il primo anno nella facoltà di Matematica dell’Ateneo di Roma, si trasferisce a Pisa, dove si laurea brillantemente e dove consegue la seconda laurea in Fisica nel 1924. L’anno seguente è Assistente incaricata presso l'Istituto di Fisica dell'Università di Pisa, poi diventa Assistente Ordinaria e dal 1931 Aiuto, su proposta del direttore dell’Istituto di Fisica Puccianti; la Libera Docenza in Fisica Sperimentale arriva nel 1936. Nello stesso anno comincia un periodo di ricerca nell'Istituto di Fisica della Scuola di Ingegneria di Darmstadt in Germania, collaborando in ricerche di spettroscopia con il Prof Gerhard Herzberg, scienziato antinazista, futuro Premio Nobel per la Chimica nel 1971.
La carriera di docente evidenzia la dedizione completa al lavoro di Mariannina Ciccone. La sua attività è interamente concentrata nell’Istituto di Fisica e ai suoi studi scientifici, tanto che trasferisce la sua residenza all’interno dello stesso edificio. Comincia a pubblicare i suoi primi scritti su Il Nuovo Cimento e su Memorie della società toscana di Scienze Naturali: si tratta di articoli che daranno vita in seguito a testi più complessi.
Dal 1939 ottiene l'incarico di Spettroscopia che mantiene poi in modo continuato fino alla pensione; tra il 1943 e il 1944 tiene tutti gli insegnamenti attivi di Fisica e di Istituzioni di Matematica perché unica tra i docenti a rimanere in servizio. Mariannina Ciccone, una delle prime donne laureate in matematica e in fisica a Pisa, vice-direttrice dell'Istituto, osa affrontare i tedeschi riuscendo ad evitare la distruzione totale dell'edificio e anche la totale asportazione degli strumenti e della biblioteca.
Tra la fine di giugno e l'inizio di luglio del '44 un'ala dell'edificio dell'Istituto di Fisica, situato in Piazza Torricelli, edificio già depredato e minato, viene fatta saltare in aria. La professoressa Ciccone, che è rimasta in Istituto per tutto il periodo della guerra e ha continuato a far lezione (l'unica dopo l'8 settembre del '43), affronta gli ufficiali — conosceva bene il tedesco per aver lavorato a Darmstad — affermando con estremo coraggio che non avrebbe abbandonato per nessun motivo il suo posto di lavoro, anche a costo di saltare in aria con l'edificio. Davanti all’atteggiamento risoluto della donna, gli ufficiali tedeschi desistono dal loro proposito e questo consente la salvezza di una parte dell'edificio e di un cospicuo numero di strumenti scientifici. Sia per la sua coraggiosa permanenza nell’Istituto sia per il coraggio mostrato contro i tedeschi, Mariannina Ciccone è stata elogiata sia dall’allora Consiglio di Facoltà che dal Rettore Remo De Fazi e da Luigi Russo, celebre italianista, divenuto Rettore subito dopo la liberazione; anche al momento di andare in pensione venne ricordata la sua determinazione contro i nazisti. Nella minuta di una lettera indirizzata al Ministro della Pubblica Istruzione dal rettore Luigi Russo il 7 giugno 1946 si legge: "Non posso fare a meno di segnalare la benemerenza acquisita dalla Prof. Ciccone, durante il periodo dell'assedio tedesco, per ciò che concerne la tutela del materiale scientifico, in quanto essa fu sempre presente e vigile nel suo Istituto, anche quando allontanandosene, avrebbe significato porsi in salvo dal pericolo".
Dal primo novembre del 1953 viene trasferita presso la cattedra di Chimica-Fisica per continuare le sue ricerche nel campo della spettroscopia dell’infrarosso. È plausibile pensare che il suo trasferimento sia il risultato di precise scelte amministrative volte ad assumere altri docenti nell’Istituto di Fisica e ciò è confermato dal fatto che nella nuova sede di servizio deve affrontare problemi di carattere organizzativo: l’Istituto infatti non possiede gli strumenti richiesti da Mariannina Ciccone per cui viene chiesto che lasci la sua attività. Anche la docente manifesta l’intenzione di non ricoprire il posto di assistente e così il 12 ottobre 1954 si ha la sua cessazione dal servizio. Anche se le viene assegnato un trattamento di pensione, Mariannina continua ad insegnare come docente incaricata esterna, in particolare è docente di fisica presso la Facoltà di Scienze e di Spettroscopia, di Fisica Sperimentale, di Fisica Terrestre e di Fisica Atomica.
Al termine dell’anno accademico 1961-62 è dichiarata decaduta dall’incarico, così ritorna a Noto dove muore il 29 marzo del 1965.La vicenda di Mariannina Ciccone è segnata da una straordinaria normalità. Pur essendo nata alla fine dell’Ottocento in una città del Sud, Noto, sceglie di studiare e insegnare Fisica in un ambiente universitario e scientifico internazionale di grande rilievo, quello di Pisa. Il suo campo di indagine scientifica, nel quale testa nuovi metodi di ricerca modificando gli apparati sperimentali ed elaborando nuove tecniche di osservazione, è quello della spettroscopia e dell’elettromagnetismo. L’aver vissuto in un periodo, la prima metà del Novecento, nell’università di Pisa dove si svolgono le più rilevanti scoperte della fisica moderna capaci di scardinare le conoscenze della materia e le concezioni filosofiche di spazio e tempo, le dà modo di incontrare figure come Polvani, Racaah, Wick, Fermi, Ronchi, Salvini, scienziati che aprivano nuovi orizzonti del pensiero.
La scoperta e la valorizzazione della fisica netina è molto recente e si deve alle ricerche condotte in Toscana sullo stragismo nazista del ’44 dal prof. Marco Piccolino che si è imbattuto nell’episodio di resistenza ai nazisti di Mariannina Ciccone. Lo studio del prof. Corrado Spataro ha permesso di scoprire il volto della scienziata, che lascia Noto per la Normale di Pisa e si dedica corpo e anima allo studio della luce e della Spettroscopia. Scrive Corrado Spataro: “È stato importante, opportuno e gratificante […]avere conosciuta e studiata Mariannina Ciccone, nell’anno 2015 che è stato il cinquantesimo della sua morte e dedicato dall’ONU alla luce che lei, con il suo spettroscopio, cercò di conoscere fin nelle componenti più segrete".


Pubblicazioni di Maria Anna Ciccone

 

Sulla rivista Nuovo Cimento:
L'effetto di Hall nel berillio
Spettri prodotti da scariche elettriche in ossido di carbonio
Lo spettro del berillio I e del berillio II
Spettri ultrarossi e Raman delle molecole
Gli spettri di bande
Recensione a “Spettri e struttura delle molecole” di GerhardHerzberg


Sulla rivista Memorie della società Toscana di scienze naturali
Una reazione nucleare di nuova specie: lo spezzamento dei nuclei dell'Uranio e del Torio sotto l'azione dei neutroni (Vol. 49, 1941)

 

Corso di spettroscopia, Vallerini, Pisa, 1941

Lezioni di spettroscopia, Vallerini, Pisa, 1947

Introduzione allo studio della fisica atomica e molecolare, Vallerini, Pisa, 1953

Nozioni di spettroscopia delle microonde, Vallerini, Pisa, 1954

 

Fonti:

Le fonti principali della biografia di Maria Anna Ciccone sono gli studi, ancora in gran parte inediti, del prof. Corrado Spataro e del prof. Marco Piccolino.

Corrado Spataro, Mariannina Ciccone: la “tigre” che salvò il laboratorio di fisica dell’Università di Pisa, “Il Nuovo Saggiatore” Bollettino della Società Italiana di Fisica, vol.32, 2016, numero 1-2

Marco Piccolino, Mariannina, la “tigre” che fermò i nazisti, in La Nazione, 25 aprile 2015

Edoardo Semmola, “Andate via o uccidete anche me”. La prof che salvò Fisica dai nazisti, in “Corriere Fiorentino”, 25 aprile 2015

Vincenzo Greco, Il gesto coraggioso della netina Ciccone davanti ai tedeschi, in “La Sicilia”, 25 aprile 2015

 

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Angela Maria Cingolani Guidi

(Roma, 1896 – 1991)

Solo a Porto Fuori, frazione del comune di Ravenna, c’è una via intitolata ad Angela Maria Cingolani Guidi.

Contro i pregiudizi sulle donne

di Annarita Alescio

Nacque a Roma il 31 ottobre 1896 da Eugenio Guidi e Anna Casini, entrambi appartenenti a famiglie della borghesia cattolica romana.
Decisivo nella sua formazione fu l'incontro con don Luigi Sturzo, che le diede l’incarico di organizzare il lavoro femminile nell'ambito dell'Opera per l'assistenza civile e religiosa per gli orfani di guerra, da lui fondata.
Nel 1919 fu la prima tesserata femminile del Partito Popolare Italiano e questo costituisce un altro suo primato. Inoltre fu tra le prime giovani cattoliche a partecipare al "Movimento Nazionale Pro Suffragio Femminile".
Fu una convinta sostenitrice del cooperativismo e nell'immediato dopoguerra ricevette il diploma di benemerenza del Ministero delle Terre liberate per aver contribuito alla fondazione di cooperative di lavoratrici, in particolare nel Veneto.
Nel 1921 fondò il Comitato Nazionale  per il lavoro e la cooperazione femminile, legato all'Azione cattolica.
In questa veste raccolse le adesioni di più di cinquecento scuole di avviamento al lavoro, laboratori e cooperative. In particolar modo si occupò delle scuole di lavoro femminile per le orfane di guerra, della Federazione delle lavoratrici dell'ago e della cooperazione femminile di lavoro a Caserta e nel Veneto ed ebbe l'incarico di fondare cooperative di produzione e di lavoro nel Friuli-Venezia Giulia. Del Comitato Nazionale rimase segretaria generale fino alla liquidazione, avvenuta nel 1926, e in questo ruolo intraprese numerosi viaggi di studio.
Svolse anche un'intensa attività giornalistica e collaborò con il Corriere d'Italia, Il Popolo, Avvenire d'Italia, con il settimanale L'Ago, la rivista Il Solco e vari altri periodici.
Dal 1924 al 1925 assunse la direzione del settimanale Il Lavoro femminile.
Intensa in questo periodo fu anche la sua azione in ambito sindacale: si interessò di evidenziare la necessità di regolamentazione dell’artigianato e del lavoro a domicilio.
Quando vinse il concorso all'Ispettorato del lavoro di Roma riprese l'opera di assistenza alle mondine; si occupò della lavorazione dei tabacchi e di lavori stagionali, cercando di tener viva un'attività sindacale di orientamento cristiano.
Nel 1929 Angela Maria contribuì alla nascita dell’Associazione Nazionale Donne Professioniste e Artiste, che fu poi assorbita dalle organizzazioni fasciste, con conseguente obbligo di tesseramento. Così nel 1931 si trasferì a Ginevra.
A trentanove anni sposò Mario Cingolani, parlamentare popolare, autorevole esponente dell'Azione cattolica e figura di spicco della futura Democrazia Cristiana. Da lui ebbe un unico figlio, Mario. Insieme al marito Angela Maria fu punto di riferimento per gli antifascisti cattolici romani. I due coniugi parteciparono all'attività di direzione clandestina della DC, ospitando nella loro casa il Comitato di liberazione nazionale e, nella fase di ricostruzione del partito, lei fu incaricata di seguire la sezione femminile. In questo periodo riprese anche gli studi, iscrivendosi all'Istituto orientale di Napoli e laureandosi in Lingue e letterature slave.
Non cessò comunque di interessarsi al lavoro femminile. Nel 1944 fu eletta consigliera nazionale della DC e delegata nazionale del movimento femminile; l’anno dopo, in qualità di membro della Consulta nazionale, partecipò ai lavori della Commissione lavoro e previdenza e alle assemblee plenarie. Nel 1946 fu una delle 21 donne elette alla Costituente. Sostenne fermamente la necessità che l'associazione femminile rimanesse autonoma nell'ambito del partito.
Fu eletta deputata per la DC nel 1948; dal luglio 1951 al luglio 1953 fu Sottosegretaria per l'Artigianato nel Ministero dell'Industria e del Commercio, divenendo così la prima donna in Italia  a ricoprire tale carica. Era stata anche la prima donna a parlare nell'aula di Montecitorio, con queste parole: "Vi invitiamo a considerarci non come rappresentanti del solito sesso debole e gentile, oggetto di formali galanterie e di cavalleria di altri tempi ma pregandovi di valutarci come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che... con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale ed elevazione morale".
Nel ruolo di Sottosegretaria si dedicò particolarmente al piccolo artigianato e alla cooperazione, convinta che la ricchezza italiana stesse nella piccola impresa e si impegnò per far ottenere alla categoria una migliore legislazione e sostegni creditizi e promozionali.
Nel 1952 Angela Maria, eletta sindaca di Palestrina, abbandonò l'impegno politico nazionale per dedicarsi all'amministrazione del comune laziale. Ne avviò il rinnovamento, valorizzando i beni archeologici e attirando l'attenzione nazionale sulla vita culturale della città.
A partire dagli anni Settanta un forte abbassamento della vista condizionò la sua attività.
Ricordiamo che nel 1986 ricevette una medaglia d'oro al merito per la sua attività politica.
Angela Maria Cingolani Guidi morì a Roma l'11 luglio 1991.

Fonti
http://www.cittadinanze.it/angela_maria_guidi_cingolani
http://www.treccani.it/enciclopedia/angela-maria-guidi_
http://www.allapari.regione.emilia-romagna.it/vie-en-rose/vie_donne_ra/guidi-cingolani-angela-maria
http://www.romagnaoggi.it/cronaca/ravenna-vie-e-piazze-nuovi-nomi-nel-segno-delle-pari-opportunita.html

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Adelasia Cocco

(Sassari, 1885 – Nuoro, 1983)

A Nuoro, vicinissimo alla Cattedrale di Santa Maria della Neve, c’è una piccola strada in salita, è difficile individuarla e in molte mappe non è neppure segnata, ma resta l’unica in tutta la Sardegna a ricordare Adelasia Cocco. È una scalinata percorribile soltanto a piedi e da chi è in buona salute e sarebbe piacevole trovare, dopo l’ultimo gradino sommitale, una targa esplicativa, per conoscere questa donna straordinaria e, con l’occasione, riprendere fiato.

Una vita per la medicina

di Teresa Spano

Adelasia Cocco Floris, nata a Sassari nel 1885, è figlia del poeta e narratore Salvatore Cocco Solinas, collaboratore del giornale “Sassari” e della “Rivista delle tradizioni popolari italiane”.
Una donna fuori dal comune fin dal nome, Adelasia, che tradisce echi storici importanti, da giudicessa di Torres, forse non a caso, ma per un presagio paterno.
Fu una delle prime donne sarde a  laurearsi in medicina e la prima in Italia a ricoprire l’incarico di medica condotta.
In molte fonti viene indicata come la prima medica della Sardegna, ma in realtà  la prima laurea femminile in medicina fu di Paola Satta, nel 1902, rilasciata dall’Università di Cagliari. Adelasia fu però la prima medica sarda ad esercitare la professione, superando l’ostracismo della corporazione maschile, la diffidenza di una parte dell’opinione pubblica e la resistenza delle autorità locali.
Iscritta in medicina a Pisa nel 1907, si laureò nel 1913 a Sassari con Luigi Zoja (1866-1959), direttore dell'Istituto di patologia e clinica medica, discutendo una tesi sul potere autolitico del siero di sangue come contributo alle reazioni immunitarie.
Appena titolata, chiese la condotta medica e la ottenne nel 1914, vinte le resistenze del prefetto di Nuoro che esitò a lungo ma, non trovando alcun cavillo legale che ne impedisse l’assegnazione, dovette firmare il decreto di nomina. Esercitò nel popolare rione di Seuna e, quando nel 1915 il medico Andrea Romagna fu ucciso in un agguato, accettò anche di prendersi cura dei malati di Lollove, il luogo in cui Grazia Deledda ambientò il romanzo La Madre.
Alle pochissime mediche, allora, erano minimi gli ambiti concessi nei quali potevano esprimersi, ginecologia o tutt’al più pediatria, seguendo il filo rosso del pudore e della morale che vedeva con meno difficoltà una donna a visitare le donne. Ma lei era medica di tutti, e facilmente si guadagnò la stima dei suoi assistiti.
Oggi Lollove è una frazione di Nuoro che dista 15 km dalla città e ospita una trentina di abitanti, per lo più anziani, ma nei primi anni del secolo scorso contava poco meno di 400 cittadini, prevalentemente contadini e pastori. A Lollove Adelasia  in quei primi anni venne “accompagnata” nell’esercizio della sua professione da un assessore a cavallo ma, prima fra le donne sarde, nel 1919, ottenne la patente automobilistica e con essa l’autonomia e la libertà di movimento.
Adelasia fu medica curante di Attilio Deffenu e di altre figure di spicco della Nuoro del primo Novecento. Fu amica personale di Grazia Deledda, del poeta Sebastiano Satta, del pittore Antonio Ballero.
Dal 1928 Adelasia fu ufficiale sanitaria a Nuoro: c’è una vecchia fotografia risalente a quel periodo, che la ritrae davanti al suo tavolo di lavoro tra microscopio, carte, penne e un vaso colmo di fiori (è diventata la locandina di apertura dell’anno sanitario 2006, a essa dedicato). In questo ruolo si occupò di prevenzione e svolse un’incessante opera di educazione sanitaria. Vinse tante battaglie, ma subì la più dolorosa delle sconfitte: la scarlattina la privò del suo unico figlio maschio di tre anni.
  Nel 1935 divenne direttrice dell’ Istituto  provinciale di Igiene e Profilassi e negli anni successivi il suo lavoro la vide protagonista di studi microbiologici: rabbia, malaria, enteriti causate da batteri patogeni.
Fu collocata a riposo nel 1955.
 Tra i suoi impegni professionali, fu anche attiva nell’Associazione Nazionale Italiana delle Dottoresse in Medicina e Chirurgia, fondata nel 1921 e ora chiamata più brevemente Associazione Donne Medico.
Ci ha lasciato nel 1983, a 98 anni, e la sua terra l’ha quasi dimenticata.

Fonti:
Francesco Floris, Enciclopedia della Sardegna, volume 3 pag 44
Eugenia Tognotti,  Era sarda la prima donna che nel novecento divenne medico condotto,“ Il messaggero sardo”,luglio 2001 p. 30
M. Giovanna Vicarelli, Donne di Medicina. Il percorso professionale delle donne medico in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008 pag 54
Teresa Spano http://www.sardegnademocratica.it/culture/adelasia-un-vuoto-di-memoria-1.28693
http://pacs.unica.it/biblio/storia8.htm

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Mariannina Coffa

(Noto, 1841 – 1878)

Alla poetessa sono intitolate strade in alcune città siciliane. Una via si trova nella sua città natale, Noto (Sr), e una a Ragusa, città del marito Giorgio Morana, dove lei visse da sposata; strade le sono state dedicate anche a  Palermo, a Catania e a Giarre (Ct), località cui è legata  per le relazioni epistolari col giarrese Giuseppe Macherione.

Una poetessa siciliana "nel prestigio del Magnetismo"

di Marinella Fiume

La poetessa siciliana, definita “la capinera di Noto” per alcune somiglianze con le vicende biografiche dell’eroina dell’omonimo romanzo verghiano, fu una bambina sensitiva e precocemente ispirata. Il padre, noto avvocato e patriota frammassone impegnato in ruoli di primo piano nelle rivoluzioni del 1848 e del 1860, si compiaceva di farla esibire nei salotti e nelle accademie con le sue poesie improvvisate su temi dettati in modo estemporaneo.
Dopo qualche anno in un collegio laico per signorine, nel quale imparò versificazione e un po’ di francese mentre – com’ebbe a lagnarsi in seguito - solo ai suoi fratelli fu insegnato seriamente anche il Latino, le fu messo accanto come precettore un canonico dotto e zelante, Corrado Sbano, allo scopo di istruirla e insieme disciplinarne gli slanci del carattere malinconico e dell’estro focoso. A quattordici anni cominciò a prendere lezioni di piano dal venticinquenne Ascenso Mauceri, diplomato al Conservatorio di Napoli, vicino all’ambiente del Ministro Matteo Raeli - l’estensore della Legge sulle Guarentigie - e autore di drammi storici che saranno rappresentati alla Fenice di Venezia. Fu subito innamoramento tra queste due giovani promesse del Campanile già Capovalle della Sicilia borbonica, questi due figli del secolo ammalato di byronismo. Malgrado la differenza di età e anche di status il bell’Ascenso, alto, biondo, dai modi aristocratici, l’aria sofferta da bohémien, era un intellettuale di sicuro avvenire, pupillo del Ministro e cicisbeo delle donne di casa Raeli, salotto esclusivo della città. Se in un primo momento la famiglia Coffa acconsentì al fidanzamento, sottoscrivendo la promessa di matrimonio, successivamente impose alla figlia di troncare la relazione e sposare, a diciotto anni, un partito più vantaggioso, Giorgio Morana, ricco proprietario terriero di Ragusa. Sarà lui a recluderla nella casa del padre, un vecchio, rozzo e avaro despota il quale le impedirà persino di scrivere, ritenendo che “lo scrivere rende le donne disoneste1. Sarà costretta a scrivere le sue poesie di notte, nella sua camera da letto, alla flebile luce di una candela, mentre il suocero aprirà e distruggerà gran parte della corrispondenza a lei indirizzata. Intanto, tra le continue gravidanze che tormentano il suo gracile corpo, il dolore per la morte di due figlie in tenerissima età, la cura dei figli e i pesanti lavori di casa, la malmariée intreccerà una relazione epistolare con l’orgoglioso fidanzato di un tempo che non le perdonerà mai la supina resa al volere dei genitori e il rifiuto della “fuitina” (la fuga a scopo di matrimonio) da lui proposta a suo tempo; non si presenterà nemmeno all’appuntamento che lei, già donna sposata e più volte madre, gli darà, disposta a tutto.
Mariannina sarà così costretta a vivere una vita sdoppiata, iscrivendosi di nascosto ad associazioni e accademie italiane e straniere e pubblicando, a volte con uno pseudonimo, per riviste nazionali come La donna e la famiglia di Genova. L’amicizia con un dotto e geniale medico siciliano, Giuseppe Migneco, detto dai seguaci “Sapiente Maestro”, dai nemici “Cagliostro il piccolo”, originario di Augusta e poi residente a Catania, omeopata e magnetista, famoso per le efficaci cure prestate in occasione delle epidemie di colera, più volte esiliato per “esercizio di arte diabolica” e “spiritismo”, la introdurrà agli arcani del sonnambulismo e del magnetismo animale o messmerismo, anatemizzati dal Papa e coltivati all’interno di élites massoniche democratiche. Saranno questi i sistemi, prodromi della successiva psicanalisi, ai quali la poetessa ricorrerà per cercare di curare le malattie e i disagi del suo corpo e della sua psiche. Mariannina si iscriverà a diverse Società occultiste e teosofiche italiane e straniere e, attraverso lo stesso Migneco e un suo discepolo netino, il dott. Lucio Bonfanti, medico omeopata e democratico del 1860, sarà introdotta, con ruoli probabilmente di primo piano, in logge massoniche swedenborghiane, mistico-teosofiche e magnetiste. Ne nascerà l’ultima straordinaria, purtroppo breve, stagione poetica, fitta di riferimenti simbolici al “gran concetto” e improntata alla “protesta metafisica”, dopo la prima giovanile poesia patriottica di maniera e l’intermedia fase intimista tardo-romantica. Prostrata dalle emorragie, probabile conseguenza di fibromi all’utero, abbandonerà la casa ragusana del suocero rifugiandosi a Noto, nella casa dei genitori, che non esiteranno a cacciarla via perché non ricada su di loro il disonore della separazione dal marito e dai figli. Finirà i suoi giorni tra la fame e gli stenti, assistita solo dall’anziano medico: nessun familiare vorrà pagare le prestazioni di un chirurgo catanese il cui intervento avrebbe potuto probabilmente salvarle la vita. Pochi mesi prima di morire, quando la famiglia ragusana le porta via il figlio che alleviava la sua solitudine e confortava i suoi ultimi giorni di vita, grida in alcune lettere la sua ferma volontà di divorziare, mentre quello del divorzio è un istituto ancora molto di là da venire. La sua rassegnazione si trasforma in odio verso i genitori, i cui voleri ha supinamente eseguito, la sua obbedienza filiale si tramuta in desiderio di vendetta; giunge a invocare Dio perché le conceda ancora qualche giorno di vita per rendere pubbliche le violenze, le manomissioni, le subornazioni, le umiliazioni subite che la conducono alla morte. Tra le sue ultime volontà, affidate al medico curante, c’è che si ordinino le sue poesie secondo “l’immortal concetto”, tenuto avvolto in una serie di allegorie e di simboli, non oscuri solo agli iniziati e fraintesi da una critica per lo più locale, incapace di scorgere al di là della facile chiave di lettura di stampo tardo-romantico. Malgrado la fama di “pazza”, spiritista e sonnambula diffusasi negli ultimi tempi della sua vita, la sua città, memore di quanto da lei fatto quando fu tolto a Noto il capovallato in favore di Siracusa, dichiarò il lutto cittadino. Il Comune si assunse le spese dei solenni funerali e le fece erigere la statua in marmo di Carrara ancora oggi in Piazzetta d’Ercole, mentre i “fratelli” dell’Elorina, che parteciparono al funerale della poetessa portando le insegne solenni, si  prendevano cura di farne imbalsamare il corpo. Nessuno della famiglia seguì il feretro, ma una folla di autorità e gente comune, accorsa a rendere l’estremo commosso omaggio alla “Saffo netina”, che sfilava per l’ultima volta tra le strade e i monumenti del “giardino di pietra”, la sua città barocca.
1 Lettera di Mariannina a Ascenso, Ragusa 17-I-1870

Fonti:
In memoria della poetessa M. C. C. in Morana, Prose e poesie, pubblicate a cura e spese del Municipio di Ragusa, Ragusa, Piccitto e Antoci, 1878
Filippo Pennavaria, Sopra un caso d’isterismo acuto con estasi e sognazione spontanea accaduto in persona della insigne poetessa M. C. C. in Morana – Considerazioni medico filosofiche, Ragusa, Tip. Piccitto e Antoci, 1878
Vincenzo Coffa, Lamento dell’anima a mia sorella M. C., versi, Noto, Zammit, 1879
Corrado Sbano, Memorie e giudizi intorno alla poetessa M. C. in Morana di Noto, Noto, Tip. Zammit, 1879
Vincenzo Coffa Caruso, Rimembranze (Iuvenilia), Noto, Tip. Zammit, 1890
F. Genovesi Caruso, Storia d’una martire (M. C. C.), con prefazione di Giuseppe Sergi, Napoli, Chiurazzi, 1900
Giuseppe Leanti, Una poetessa della patria e del dolore – M. C. C., Noto, Zammit, 1923
Carmelo Sgroi, Lettere di M. C. C. a Mario Rapisardi, estratto dall’ “Archivio storico per la Sicilia orientale”, Catania, Tip. Zuccarello e Izzi, 1931
Carmelo Sgroi, M. C. C. e Giuseppe Macherione (con documenti inediti), Siracusa, Tip. Littoriale, 1934
Benedetto Croce, Pagine sparse, Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1943, vol. III
Gino Raya, M. C., Lettere ad Ascenso, Siracusa, Ciranna, 1957
Francesco Lombardo, M. C. e C. Sammartino in Fileti, ed altri riflessi di vita d’arte e d’ambiente della poetessa netina, Noto, Tip. dell’Autore, 1959
Gioacchino Santocono Russo, Ottocento netino: nel primo centenario della morte di Mariannina Coffa, “Netum”, febbraio-marzo 1977
Teresa Carpinteri, L’eringio (Romanzo), Palermo, Flaccovio, 1978
Biagio Iacono (a cura di), M. C., Poesie scelte, con Introduzione di G. Raya, Noto, Sicula Editrice – Netum, 1987
Rita Verdirame, Finzione rassegnazione e rivolta. L’immagine femminile nella letteratura dell’Ottocento, Papiro, Enna, 1990
Miriam Di Stefano (a cura di), Scritti inediti e rari di M. C., Noto, Arti Grafiche San Corrado, 1996
Marinella Fiume, Sibilla arcana. Mariannina Coffa (1841 – 1878), Edizioni Lussografica, Caltanissetta, 2000

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Laura Conti

(Udine, 1921 – Milano, 1983)

Chissà se a Laura Conti sarebbero piaciute le vie che le sono state intitolate. A Bolzano la strada corre parallelamente a campi con alberi da frutta e vigneti, mentre a Corsico, nell’interland milanese, la striscia di asfalto della strada si allunga fra radure verdi affiancata dalla pista ciclabile. Infine Sorso, in provincia di Sassari, le ha dedicato una via sulla quale si affacciano abitazioni private che lasciano poco spazio alla natura. A Udine, sua città natale, non esistono intitolazioni.

"Guardate! Aiutatemi a vedere."

di Laura Biffi

 “Non risiedo nella cittadella della scienza, sono soltanto un mendicante straccione che si aggira all’ esterno, e si sforza di guardar dentro dalle finestre, e non vede bene, e strizza gli occhi, e con le mani si fa visiera per eliminare i riflessi e discernere qualcosa. Perciò, mentre vi dico “guardate!” vi dico anche “aiutatemi a vedere!”

Partigiana, medica, scrittrice e divulgatrice, politica, ambientalista. E forse non basta per raccontare appieno questa donna del Novecento.

Laura Conti nasce a Udine il 31 marzo 1921. Ragazza, si trasferisce a Milano dove, studentessa di medicina, prende parte alla Resistenza. Nell’agosto del ‘44 viene catturata dai tedeschi e finisce nel carcere di San Vittore, quindi internata nel campo nazista di transito di Bolzano in attesa di venire deportata in Germania. Tornata libera, si laurea in Medicina nel 1949; in Austria si specializza in ortopedia e a Milano svolge la sua attività di medica.

Dal campo scientifico a quello pedagogico, da quello storico a quello ambientalista, è presenza e voce autorevole nelle battaglie civili e culturali del secolo scorso. Dal 1960 al 1970 è Consigliera alla Provincia di Milano; dal 1970 al 1980 è Consigliera alla Regione Lombardia.

Nel 1976 il suo nome sale alla ribalta nazionale: dall’Icmesa di Meda si sprigiona una nube di diossina che contamina decine di chilometri quadrati di hinterland milanese e semina il panico. E’ l’incidente di Seveso. Laura Conti con coraggio e profonda umanità conduce una durissima campagna contro quanti intendono minimizzare il disastro ed eludere le responsabilità politiche e civili, assiste la popolazione spaventata e disinformata sulle conseguenze della nube tossica. Da questa esperienza nascono i libri Visto da Seveso e Una lepre con la faccia di bambina.

A Milano fa parte del direttivo della Casa della Cultura, fonda e dirige l'Associazione Gramsci.

Nella convinzione che la cultura ambientalista debba tradursi in pratica politica, lavora alla fondazione della Lega per l'Ambiente di cui è anche presidente del Comitato scientifico.

Il suo libro Che cos'è l'ecologia è una pietra miliare per il nascente ambientalismo italiano. Ci ha lasciato oltre venti libri e migliaia di articoli pubblicati su riviste scientifiche e quotidiani.

Dal 1987 al 1992 è deputato nazionale nelle liste del Partito comunista italiano.

Scompare a Milano il 25 maggio del 1993.

Nel 2006 il Comune di Milano la riconosce “cittadina benemerita” e il suo nome viene iscritto sulle lapidi del Famedio al Cimitero Monumentale, dove oggi è sepolta.
Fonti:
Laura Conti, Visto da Seveso, Feltrinelli, Milano, 1977
Laura Conti, Che cosa è l’ecologia, Mazzotta, 1977
Laura Conti, Una lepre con la faccia di bambina, Editori Riuniti, 1978
Chiara Certomà, Laura Conti, La Biblioteca del cigno, 2012
http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=8&tipo_articolo=d_documenti&id=30
http://www.xxdonne.net/wordpress/wp-content/uploads/2011/06/conti.pdf
http://scienzaa2voci.unibo.it/biografie/914-conti-laura
http://www.enciclopediadelledonne.it/index.php?azione=pagina&id=1311
http://www.deportati.it/bolzano_canale/default.html
http://www.anpi.it/donne-e-uomini/laura-conti/

 

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