ITALIA – A Lecce con la Scuola di Carol Cordella per festeggiare i 110 anni di Dior

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La sala consiliare della provincia di Lecce, si riempie di vita. Ragazzi e ragazze vocianti e con gli occhi freschi di meraviglia entrano e cercano di accaparrarsi i primi posti. Al centro della sala 4 manichini prestano umilmente sostegno a 4 splendidi abiti di DIOR, provenienti dalla Scuola‒Museo della Moda del Maestro Sartore Pino Cordella. La preziosità e l’armonia che subito colpisce lo sguardo fa silenzio e si percepisce che l’immaginazione di tutti i presenti sta facendo un volo pindarico, oltre il presente, e ognuno sta riportando alla mente ricordi, sensazioni, promesse, sogni. È in questa atmosfera di attesa creata dalla “Bellezza” che entrano le parole di benvenuto di Carol Cordella, figlia d’arte è il caso di dire.

Si festeggiano i 110 anni dalla nascita di uno stilista, un grande della Moda, un settore che ‒ per chi lo ritenesse il luogo della futilità ‒ trascina il PIL del Paese più dello stesso Turismo.

Ma non è certo questo quello che ha affascinato e zittito i presenti, sia gli alunni delle Scuole di settore del circondario, sia tutti i numerosi ospiti.

La relatrice ci ha preso per mano e ci ha fatto ripercorrere gli anni di vita dello stilista di Dior intrecciando, come si conviene a tutti i comuni mortali, gli episodi di vita personali con quelli della storia nella quale siamo inseriti. Solo che per i più gli eventi personali muoiono con loro, per altri, che si incanalano sulla via del”eternità”, i piccoli episodi di vita diventano straordinari e anzi segnano il tempo nel quale sono inseriti. La storia personale di Dior non ha influenzato solo la gente intorno a lui, ma ha influenzato i fatti sociali e di costume, uscendo dal tempo contestuale per viaggiare oltre. Molto oltre e arrivare fino a noi.

Certo si tratta di un artista eccezionale, il cui nome, come qualcuno disse, ha messo insieme la parola Dio e la parola oro. Il che è un bell’inizio. Carol ci ha raccontato che la famiglia fu la guida ispiratrice di Dior, la madre in primis. Fu lei ad aiutarlo a mettere su una galleria, sapendo che l’arte aiuta a vivere bene. Ma nel ’29 la crisi economica portò grosse perdite nella famiglia benestante del giovane Dior, che senza remore andò a lavorare la terra con suo padre per risollevarsi. E intanto disegnava e mandava in giro senza stancarsi le sue opere alle varie Maison francesi. Venne accolto presso uno stilista di Parigi, dove rimase fino al ’39, quando costretto ad andare in guerra, fino al ’41. Intanto disegna, soprattutto come via di fuga dalle miserie presenti, miseria che, dopo il razionamento dei tessuti, lo costringono di nuovo a tornare a lavorare la terra per riscattare la casa paterna. Finalmente incontra un mecenate, Marcel Boussac, il re del cotone lo chiamavano, che gli dette un credito illimitato. Si attribuisce a lui la frase: “Questo ragazzo farà resuscitare i morti della seconda guerra mondiale”.

 

Gli intrecci tra Dior e il femminismo

Seguirono anni di intenso lavoro, in cui, senza abbandonare mai le consultazioni con una sua amica cartomante Madame Delahaye (anche il genio vuole conforto sul futuro), cerca di disegnare modelli che esprimessero il suo ideale di donna, convinto che una donna veste bene solo quando con l’abito è come se apparisse nuda. Le nuove mode non gli piacevano: donne con capelli corti, braccia scoperte, una donna generata dalla guerra mondiale, una donna forte, mascolinizzata. Sappiamo tutti che le donne avevano sostituito mariti e fratelli nelle fabbriche e nei lavori pesanti, e certo questa era stata una grande conquista per uscire fuori dalla “prigione “domestica, ma Dior cercava una donna diversa, pur valutando una certa indipendenza estetica acquisita dalle nuove donne (per es. abolendo il galateo che richiedeva un abito per le varie circostanze della giornata). Dior cercava u’altra donna ispiratrice. Tornò ancora una volta a casa e si dilettò ad osservare i fiori che sua madre coltivava nel giardino della loro casa di Granville, con tanto amore. Da qui nasce ancora una volta l’aiuto, dalla Natura e da sua madre. Ecco viene fuori la “donna fiore”e la sua prima collezione, il   12 Febbraio 1947: al 30 di Avenue Montaigne a Parigi, Christian Dior presentò la sua prima sfilata. Una grande sfilata ispirata ai fiori e ai loro colori. La stampa francese la boicottò. Fu seguita solo dai giornali americani che la osannarono e parlarono di Dior come di un Alessandro Magno, di un imperatore della moda. La donna si allontanava dalla immagina di donna teutonica della guerra, per sostituirla con l’immagine di una donna “clessidra” (tipo Ingrid Bergman, Sofia Loren, Gina Lollobrigida, Grace Kelly). Di nuovo il bustino che segnava la vita e gli abiti che mettono in luce fianchi e seno. Il tailleur Bar con la giacca e le gonne lunghe di nuovo e plissettate. Tutto questo fu contestato dalle femministe, alle quali sembrò un voler tornare indietro rispetto alle conquiste già fatte e scesero in piazza anche contro di lui.

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Le idee portanti dello stile Dior furono interpretate come un messaggio di chiusura alla modernità : non più donne indipendenti, ma donne che tornano in cucina. Infatti anche la pubblicità ricomincia a insistere su questo e ricorda alle donne che sono prima di tutto mogli. Gli slogan e le immagini di quegli anni del dopoguerra parlano di una donna casalinga e anche spesso stupida.

Dior andò avanti e portò sulla scena mondiale l’importanza della giacca e del tailleur e l’immagine di una ragazza giovane. Le sue modelle erano appunto giovani studentesse con lo stemma d’appartenenza sulla giacca, di alta moralità, e dette così spazio a quella generazione che era stata spazzata via dalla guerra.

Dopo 10 anni di successi la carriera e la vita di Dior si spensero nell’ottobre del 1957 a Montecatini.

Questo il cammino di Dior alla pari dei grandi letterati, scienziati, artisti del nostro tempo.

Le conclusioni dell’incontro le ha espresse, col giusto orgoglio per il lavoro che la Scuola di Formazione Cordella esprime sul territorio ( e non solo) la Consigliera provinciale di Parità Filomena Dantini, ma soprattutto un’ospite d’eccezione: la madre dello stilista Ennio Capasa, con la dolce determinazione delle sue parole e delle sue esperienze. Ha accennato ai sacrifici che si fanno in questo campo della moda, alle scelte coraggiose di Ennio tornato da Parigi a lavorare qui in Italia ‒ dove spesso l’ingegno non trova il giusto spazio ‒ per amor patrio e ha invitato i giovani a rimanere qui. La passione ‒ ha detto ‒ deve essere nutrita di sacrificio e il successo si può ottenere in ogni segmento del lavoro di uno stilista, perché intorno all’ideatore bisogna che ci sia professionalità alta per far sì che l’idea si perfezioni e si concretizzi in un abito. Un abito che può diventare un capolavoro e che può parlare di bellezza. Bellezza che, in qualunque campo, è ragione e scopo di quel Bene che ci salverà.