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Maria Luisa Palandri Reali

(Pistoia 1916 - 2011)

A seguito di un concorso nelle scuole superiori della provincia di Pistoia le è stata dedicata una sala all’interno del  palazzo della Provincia, in piazza San Leone (9-6-2014). Da più parti, in particolare dalla Diocesi, sono emerse  proposte pubbliche e veri e propri appelli (su stampa o nel corso di incontri, convegni, dibattiti) per l’intitolazione di una  via.

Una vita per gli altri
di Laura Candiani

Pistoiese, Maria Luisa Palandri rimase vedova con il figlio Umberto a soli 23 anni: aveva infatti perso il marito Giuseppe Reali, disperso in Africa nei combattimenti della Seconda  Guerra Mondiale. Dopo la Liberazione fu fra le prime donne ad impegnarsi nella politica attiva e venne eletta consigliera comunale 4 volte, dal 1951 al 1965, nelle file della DC. Intanto cresceva il figlio e proseguiva la carriera di insegnante - portata avanti con passione ed energia per circa 40 anni. Gli ex studenti della scuola elementare “Attilio Frosini” la ricordano con stima e affetto: era  piccola e minuta, con i capelli brizzolati un po’ mossi  raccolti in uno chignon, le mani espressive e in continuo movimento, vivace e decisa nell’andatura; vestiva  in modo sobrio e rigoroso, con colori scuri; era disponibile verso tutti - genitori e allievi - e praticava una didattica all’epoca assai moderna: utilizzava i lavori di gruppo, stimolava la creatività, incoraggiava alla collaborazione in classe e a casa. Portava sempre con sé  delle gustose caramelle dure ricoperte di zucchero con cui ricompensava i piccoli che ricambiavano le sue premure con mazzolini di fiori. Aveva una fede profonda  e ogni mattina iniziava le lezioni leggendo la vita del santo del giorno. Dedicava anche molte energie alla centralissima parrocchia della chiesa di San Giovanni Fuorcivitas  e  si adoperò in particolare a favore degli orfani e delle vedove di guerra tanto da fondare e presiedere  la sezione  pistoiese dell’Associazione Nazionale Famiglie caduti e dispersi in guerra; negli anni Sessanta è stata  fra le persone promotrici del pietoso compito di rimpatrio delle salme dei militari brasiliani caduti per la liberazione italiana che a Pistoia avevano il loro cimitero. Si è impegnata a favore delle donne, dei loro diritti e del loro ruolo sociale; ha fondato la sezione pistoiese del Moica (Movimento Italiano Casalinghe). Nel  2000, per le molteplici attività in tanti campi della società civile, fu ricevuta dal presidente Ciampi; nel corso delle celebrazioni per l’80° anniversario dell’istituzione della provincia di Pistoia - nel 2007 - ha ricevuto l’onorificenza di Grand’Ufficiale al merito della Repubblica. Nello stesso anno  - il 13 dicembre - nel Palazzo Comunale  ha presentato il suo libro La cappella Fioravanti in San Francesco e il Sacrario del Cimitero comunale di Pistoia, promosso dall’Associazione  Nazionale Famiglie caduti e dispersi in guerra - sezione di PT- e dal Comitato Unitario  per la difesa delle istituzioni repubblicane di Pistoia.
La commissione Pari Opportunità della Provincia ha lanciato, nel marzo 2014, di concerto con la Consulta  degli Studenti, l’iniziativa “Nome singolare femminile. Pistoia ieri e oggi: una sala nel ricordo, un ricordo nella sala” per  attribuire ad una sala del palazzo un nome di donna  esemplare e significativo a livello locale, che fosse anche modello di altruismo, di valori etici e civili, di dedizione a una causa. Gli studenti e le studenti delle scuole superiori, dopo ricerche e studi guidati dal corpo docente, proposero molte figure ma, fra tutte le biografie, fu scelta dalla Consulta - in totale autonomia - proprio quella di Maria Luisa, donna energica e coraggiosa, dall’esistenza non facile segnata, nell’ultimo anno di vita, anche dalla morte dell’amatissimo figlio, noto e apprezzato chirurgo. La cerimonia della scopertura della targa si è svolta il 9 giugno 2014 alla presenza delle autorità e dei familiari.

Fonti
Maria Luisa Palandri Reali, La cappella Fioravanti in San Francesco e il Sacrario del Cimitero comunale di Pistoia (a cura dell’Associazione Nazionale Famiglie caduti e dispersi in guerra  e del Comitato Unitario  per la difesa delle istituzioni repubblicane),Pistoia, dicembre 2007                                                                                        
s.f., Presentazione del libro di M.L.P.R., www.comunepistoia, 11.12.2007                                                                   
s.f., Il funerale di M.L.P.R., www.diocesi pistoia, 17.10.2011                                                                                              
s.f.,Il consiglio ha ricordato M.L.P.R., Il Tirreno, 19.10.2011                                                                                                    
s.f., Toponomastica rosa: non dimenticare M.L.P.R., www.quarratanews,  21.4.2013                                                     

s.f., Due sale del palazzo della provincia saranno intitolate…, www.lavocedipistoia, 6.6.2014                                   
Laura Candiani, La Provincia di Pistoia ricorda tre figure femminili,  www.il carrettino delle idee, 15.9.2014

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Luisa Palma Mansi

(Lucca 1760 - 1823)

Non esiste nella toponomastica alcuna traccia di Luisa. I suoi diari (scritti in un francese piuttosto approssimativo) sono depositati presso il fondo Arnolfini, Archivio di Stato di Lucca. Si propone la sua intitolazione a Lucca, città di nascita e di morte.

Memorie di Luisa, dama di corte lucchese
di Laura Candiani

Figlia di Girolamo Palma e Caterina Burlamacchi, Luisa Palma Mansi nacque  a Lucca il 23 febbraio 1760 in una famiglia aristocratica proveniente da Parma. Non si sa nulla dei suoi studi, ma dai diari (scritti in francese) si deduce una discreta istruzione; doveva essere anche una buona lettrice.
Nel 1783 sposò Lelio Francesco Mansi, più anziano di  18 anni, appartenente ad una famiglia prestigiosa; fu uomo politico e importante giureconsulto nel difficile periodo di transizione (dalla Repubblica alla dominazione napoleonica). Il 14 luglio 1805 a Lucca si insediarono ufficialmente i principi Baciocchi e Luisa divenne –come le altre nobildonne- dama di corte. Nel 1807 morì il marito Lelio e Luisa per cinque anni non scrisse il suo diario,  consistente in quattro piccoli quaderni scritti fittamente e rilegati in pergamena , per un totale di quasi mille pagine .                             
Assai interessanti i riferimenti alle piccole e grandi vicende dell’epoca: la principessa Elisa Bonaparte Baciocchi (sorella di Napoleone) acquista la villa di Marlia, Napoleone entra a Mosca e poi fugge dalla Russia, due rovinose piene del fiume Serchio, scontri fra navi inglesi e francesi nelle acque di  Viareggio, fino al 1814 quando i Baciocchi vengono costretti dagli Inglesi a lasciare Lucca. Luisa e i suoi concittadini sperano di riacquistare a breve l’indipendenza. I fatti si susseguono velocemente: Napoleone riorganizza le truppe, dopo la fuga dall’isola d’Elba, finché viene sconfitto definitivamente. Con il Congresso di Vienna si decide che Lucca sia governata da Maria Luisa di Borbone, mentre Luisa -avanti con gli anni- dirada le sue note di diario.
Le informazioni “private” che derivano dal diario si possono suddividere (come indica la studiosa Isabella Pera) secondo i principali temi trattati: la vita quotidiana (fidanzamenti, matrimoni, nascite, morti, monacazioni, malattie); la moda, gli abiti, i regali, il denaro; ”Trasformare la vita nel più elegante dei giochi”(salotti, spettacoli, intrattenimenti dell’aristocrazia lucchese); la religiosità ed i riti. Da queste pagine si evidenzia l’amore per i propri cagnolini (che in parte forse  sostituiscono i figli che Luisa non ha), la passione per la musica e il melodramma accompagnata da un certo gusto personale (assiste -ad esempio- ad esibizioni di Paganini e Kreutzer), il rifiuto per la figura del “cavalier servente” che reputa ridicola e superata, il gusto condiviso per le belle feste durante  il Carnevale, il rilievo dato alle celebrazioni della festa di Santa Croce, tanto cara ai Lucchesi.
“Ma oltre il contenuto, il diario della Mansi rappresenta una rara e interessante fonte di scrittura femminile autobiografica; è significativo il fatto -afferma Isabella Pera (pp.88- 89)- che una donna di fine Settecento abbia avuto il desiderio di conservare memoria di fatti pubblici e privati (anche se  la sfera dell’intimità e gli affetti rimangono solo in parte percepibili) con una lingua diversa dalla sua - il francese dei modelli culturali e sociali dominanti, ma anche degli invasori e dei tiranni che pongono fine alla secolare indipendenza lucchese - utilizzando la scrittura come uno spazio di auto legittimazione, per segnare in qualche modo le tappe più significative del proprio percorso esistenziale.”

Fonti
Isabella Pera, Scrivere per sé: Luisa Palma Mansi e la dimensione del diario, in Donne di penna, 2003, Istituto Storico Lucchese-sezione Storia e Storie al femminile-Buggiano Castello

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Paltadore

La Piazzetta “dal Paltadori”, esclusivamente pedonale, è lunga 78 metri e si trova sul lato destro di via della Manifattura Tabacchi. E’ stata aperta e intitolata nel 2013, al termine dei lavori di riqualificazione di una vasta area ai margini del centro storico di Modena, dove aveva sede il grande edificio della Manifattura Tabacchi, magnifico esempio di architettura industriale otto-novecentesca. Al centro della piazza sorge ancora la vecchia ciminiera, che però non erutta più il fumo dolciastro della lavorazione del tabacco, che impregnava i dintorni di giorno e di notte, ma il vapore acqueo del sistema di cogenerazione per la produzione di acqua calda per le eleganti residenze appena terminate.

Le "Paltadore" di Modena
di Roberta Pinelli

Paltadora è, in dialetto modenese, l’equivalente di appaltatrice, colei che era occupata nell’appalto, e identifica le operaie che lavoravano il tabacco. Fin dal Seicento la lavorazione del tabacco veniva infatti data in appalto a privati, e tale rimase fino al 1850, quando la fabbricazione di sigari e sigarette fu avocata dallo Stato. Molti vecchi modenesi chiamano ancora la ex Manifattura Tabacchi con l’espressione la pelta e il tabaccaio paltein, derivanti ambedue dalla traduzione in dialetto modenese del sostantivo “appalto” .
Le prime notizie della lavorazione del tabacco a Modena risalgono al Seicento, ma questa attività assunse importanza strategica nell’economia modenese a partire dal Settecento, quando dal primo piccolo stabilimento la fabbrica fu spostata in un ampio edificio, già sede di un soppresso monastero cappuccino. Un secondo trasferimento si ebbe nel 1850, con il passaggio allo Stato e lo spostamento nell’ex convento di S.Marco, che rimase sede della manifattura fino alla chiusura delle attività nel 2002. Nel 1898 la Manifattura Tabacchi di Modena era diventata la più grande realtà industriale modenese, con quasi mille persone impiegate, di cui il 90% erano donne; nel 1921 arrivò addirittura a superare le 1500 persone dipendenti.
L’ingresso nel mondo del lavoro consentì alle donne modenesi di rendersi conto dei propri diritti come lavoratrici, con una conseguente politicizzazione femminile più unica che rara in quel tempo. Le paltadore si avvicinarono al sindacato per combattere lo sfruttamento, in particolare la prassi (abituale allora come oggi) di riconoscere alle donne, a parità di mansioni, salari molto inferiori a quelli dei colleghi maschi, nonostante le dita femminili, più sottili, fossero le più adatte ad arrotolare sigari. Inoltre, poiché la lavorazione del tabacco avveniva a cottimo, modalità salariale che prevede una retribuzione commisurata alla quantità di prodotto lavorato, era indispensabile per le paltadore essere tutelate nella corretta applicazione di un contratto così iniquo e alienante.
Numerosi sono gli esempi della forza contrattuale delle paltadore: fu anche grazie alle loro battaglie che nella fabbrica modenese furono installati migliori impianti di illuminazione, riscaldamento e areazione, vennero aperti l’infermeria e il refettorio e fu istituito un vero e proprio “asilo aziendale” ante litteram. Nel 1905 fu anche approvata la legge che prevedeva l’assunzione di ragazze di età non inferiore ai 15 anni compiuti, anche se la presenza fra le paltadore modenesi di bambine di 10 e 11 anni è documentata fino al 1913 dal ricco archivio rinvenuto durante la ristrutturazione dell’edificio.
Le paltadore furono anche un esempio di emancipazione femminile perché, contribuendo per la prima volta con il loro salario all’economia famigliare, le donne assunsero un ruolo più attivo all’interno della famiglia patriarcale.
Note in città come “rivoluzionarie” e antifasciste, difficilmente riconducibili allo stereotipo delle donne del tempo “tutte casa e chiesa”, le paltadore parteciparono attivamente alla Resistenza modenese. Scioperi e proteste (contro gli eccidi, contro la fame, contro la guerra, contro i bombardamenti) in cui le “tabacchine” furono parte attiva sono documentati nell’agosto 1943, nell’aprile 1944, nel marzo e nell’aprile 1945.
Per amor di verità, va però detto che paltadora a Modena è anche sinonimo di pettegola, poiché durante le ore di lavoro, mentre le dita instancabilmente confezionavano sigari e sigarette, le “tabacchine” chiacchieravano e spettegolavano su tutto e su tutti.
Che quella delle paltadore sia stata una realtà molto significativa nella società modenese è testimoniato anche dal fatto che la sirena, che segnava la fine del turno mattutino alla Manifattura, indicava il mezzogiorno a tutta la città e veniva chiamata al s-cefel dla pelta (il fischio dell’appalto).
Una curiosità: presso la Manifattura Tabacchi di Modena lavorarono nello stesso periodo la madre del grande tenore Luciano Pavarotti e quella della celebre soprano Mirella Freni, che frequentarono insieme l’asilo interno della fabbrica.

Fonti
A.O.Guerrazzi-C.Silingardi, Storia del sindacato a Modena 1880-1980, Roma 2002
Ministero delle Finanze. Direzione generale delle Privative, Il Monopolio del Tabacco in Italia. Cenni storico-statistici di Tommaso Pasetti, Portici, 1906
G. Muzzioli, L'economia e la società modenese fra le due guerre (1919-1939), Modena, 1979
P. Nava, La fabbrica dell'emancipazione. Operaie della Manifattura Tabacchi di Modena. Storie di vita e di lavoro, Roma, 1986.

D.Poltronieri, Manifattura Tabacchi Modena, Modena 2009
C.Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e resistenza a Modena 1940-1945, Milano 1998
http://www.saero.archivi.beniculturali.it/fileadmin/template/allegati/pubblicazioni/inventari/ManifatturaTabacchiModena.pdf

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Sorelle Paoletti

(Petrignano d'Assisi, seconda metà del XIX sec. - Perugia, prima metà XX sec.)

A Perugia le sorelle Paoletti sono state un’istituzione, hanno  formato intere  generazioni di ricamatrici, hanno creato i corredi più belli, hanno ricamato veli nuziali di nozze principesche,  hanno contribuito a far conoscere anche all’estero il nome di Perugia e hanno istituito  un’opera  pia  per fornire  una formazione professionale e un alloggio alle ragazze più povere. Per tutti questi motivi speriamo che prima o poi la città si ricordi di loro con un’intitolazione che le faccia conoscere  alle generazioni più giovani.

Carmela e Marianna Paoletti, le "sorelle Materassi di Perugia"
di Paola Spinelli

Mia nonna faceva la ricamatrice e come tante altre ragazze dell’epoca aveva imparato a ricamare dalle Paoletti.
Sono i primi anni del Novecento: ogni mattina quattro ragazze (mia nonna e le sue tre sorelle) salgono a piedi  chiacchierando per via della Sposa e su su per via dei Priori, poi imboccano a destra via della Cupa finchè arrivano al laboratorio delle sorelle Paoletti. La zia Carmela, la  più grande delle quattro, è già maestra, cioè insegna il ricamo alle più piccole, e proprio davanti al portone delle Paoletti ha ricevuto la dichiarazione d’amore del suo futuro sposo. Ma chi sono le Paoletti, anzi le signorine Paoletti?
Le sorelle Marianna e Carmela Paoletti di Petrignano d’Assisi, si trasferiscono a Perugia proprio all’inizio del secolo scorso per mettere a frutto la sola ricchezza che possiedono: una straordinaria abilità nel ricamo. Mettono su un laboratorio che in breve tempo  procura loro la migliore clientela della città e dei dintorni. Le Paoletti sono bravissime anche nel disegno e creano esse stesse i motivi da trasferire su  tessuti leggeri e preziosi per i corredi più belli. Al loro atelier arrivano ragazze da tutte le parti della città per apprendere il mestiere e lavorare per loro.
La fama delle sorelle Paoletti cresce e i loro lavori escono dai confini dell’Umbria e anche dell’Italia. Arrivano ancora più ragazze dai paesi vicini. Intanto Carmela muore nel 1922 dopo aver disposto in testamento che parte delle sue sostanze vadano all’Opera pia Marzolini, una Colonia agricola femminile alla periferia di Perugia, o alla locale Congregazione di carità, ma né l’Opera pia né la congregazione accettano il legato. Marianna decide allora di fondare un dormitorio  - laboratorio per impartire l'insegnamento del ricamo e dei lavori femminili e di "offrire lavoro e asilo nei limiti consentiti dalla disponibilità dei locali alle ragazze povere residenti nel comune di Perugia" o eccezionalmente a quelle residenti nella Diocesi, ne  affida la presidenza all’arcivescovo e la gestione alle suore , come usava allora.
Per anni uno dei più bei negozi di corso Vannucci fu quello delle Paoletti, gestito dopo la morte delle signorine dalla nipote Bruna e poi da suo figlio Francesco. Il laboratorio-dormitorio non esisteva più, era stato trasformato in centro d’accoglienza per la gioventù, ma la produzione dei preziosi  lavori fatti a mano continuava per opera di lavoratrici a domicilio, ricamatrici che si erano formate a quella scuola. In questo negozio sono passate Maria Callas, che si fece confezionare una serie di splendide camicie da notte e un servizio da tavola in stile impero, Rossella Falk, Monica Guerritore e tante altre. Ora anche nella  biancheria la moda impone le firme, la qualità passa in secondo piano,  poche sono le persone che sanno apprezzare l’eccellenza del lavoro artigianale e della vetrina del negozio Paoletti in corso Vannucci rimane solo il ricordo dei perugini più agée.

Fonti:
Settimia Ricci, Franco Venanti, Quelle Paoletti dalle mani d’oro, in Giancarlo Scoccia, Franco Venanti, Dinastie perugine. Arte, patria, scienza, lavoro, imprenditoria, Edizioni Guerra, 1999
http://www.san.beniculturali.it/web/san/dettaglio-soggetto-produttore?id=11748 Laboratorio dormitorio Marianna Paoletti di Perugia

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Maria Teresa Parpagliolo

(Roma, 1903 - 1974)

La storia di Maria Teresa Parpagliolo, architetta del Novecento, è emblematica della scarsa attenzione che il mondo culturale e accademico nazionale rivolge alle donne di valore.
Figura importante dell’architettura di paesaggio e del garden design internazionale, in Italia è pressochè dimenticata e a suo nome non esistono intitolazioni di vie e di piazze, neanche a Roma in cui si è svolta una parte significativa della sua vita umana e professionale.

Una pioniera del paesaggio
di Barbara Belotti

In uno dei suoi tanti interventi sulle donne Mussolini affermava che la natura femminile, di per sé analitica e non sintetica, le escludeva di fatto dal campo dell’architettura. «Ha forse mai fatto dell’architettura in questi secoli? Le dica di costruirmi una capanna, non dico un tempio! Non lo può. Essa è estranea all’architettura, che è la sintesi di tutte le arti, e ciò è un simbolo del suo destino.» Quasi nello stesso periodo, nel 1928, Maria Teresa Parpagliolo cominciava ad affacciarsi nel mondo dell’architettura, in particolare in quella del paesaggio, una categoria particolare della progettazione che in Italia non aveva scuole né corsi universitari, pur avendo una antichissima tradizione di realizzazione di giardini per ville e dimore storiche.
Mancando nel nostro Paese un percorso di studi ben definito, la figura di Maria Teresa Parpagliolo appare quella di una pioniera dell’architettura di paesaggio e del garden design, discipline poco sviluppate e seguite in Italia, almeno in anni non recenti. E nonostante il suo valore, riconosciuto a livello europeo soprattutto in ambito anglosassone, da noi è pressoché sconosciuta.
Lo sguardo verso un panorama internazionale è un’ambizione che Maria Teresa ha fin dall’inizio e che la porta a studiare in Inghilterra; corrobora gli studi teorici approfondendo da sola la conoscenza di piante e specie botaniche che costituiscono gli strumenti fondamentali delle sue realizzazioni. I suoi primi lavori sono progettazioni per spazi verdi destinati a case private, perché l’organizzazione del verde pubblico si rivela prevalentemente  in mano a professionisti uomini, si dedica anche alla stesura di articoli sulla progettazione dei giardini e tiene per Domus, tra il 1930 e il 1938, una rubrica fissa dal titolo Giardino fiorito.
Nel 1939 ha l’opportunità di seguire, insieme agli architetti Raffaele De Vico e Pietro Porcinai, l’organizzazione dell’intero sistema di parchi e giardini della nuova zona di Roma destinata ad ospitare l’Esposizione Universale del 1942, l’EUR. La progettazione delle aree verdi dell’EUR voleva essere, cosa inusuale ancora oggi nel nostro Paese, di ampio respiro, non solo vista come completamento della parte urbanistica e architettonica. Come si legge nel volume Una grande casa, cui sia di tetto il cielo. Giardino nell'Italia del Novecento di Anna Maria Conforti Calcagni, il grande parco pensato per l’EUR doveva «avvolgere l’opera nella sua totalità e […] restare in stretto rapporto col “magnifico panorama della campagna romana” […], stabilire un armonioso rapporto tra le linee rigide dell’architettura e quelle più addolcite disegnate nel verde […] qualificare in modo sempre diverso il complesso intersecarsi delle strade, di cui esaltava funzioni e prerogative».
Dirige, dal 1940 al 1942, l’Ufficio Parchi e Giardini del Comune di Roma e la carriera di Maria Teresa Parpagliolo appare avviata verso traguardi di sicuro successo nell’ambito della progettazione del verde pubblico, campo che sembra riservare alle donne (non solo in Italia) ruoli di maggiore indipendenza e libertà rispetto all’architettura tradizionale.
Nell’immediato dopoguerra sposa il militare inglese Ronald Shephard e comincia ad alternare lavori e incarichi di prestigio tra l’Inghilterra e l’Italia. In una interessante fotografia del 1948 viene ritratta sul palco d’onore all’inaugurazione a Londra della prima "International Conference of Landscape Architects", accanto ai/alle maggiori architetti/e del paesaggio dell’epoca.
I nuovi contatti con la scuola anglosassone di progettazione e di garden design (entra a far parte del "British Institute of Landscape Architects"), la partecipazione al Festival of Britain del 1951, i disegni per il Regatta Restaurant Garden (1950), la risistemazione a giardino della fascia costiera di Mablethorpe nel Lincolnshire, un’area trasformata in modo sensibile durante gli anni della guerra, la lanciano in un panorama decisamente internazionale senza però recidere il legame con l’Italia.
A Roma si aggiudica, insieme all’architetta Elena Luzzatto, il concorso per la realizzazione del cimitero militare francese di Monte Mario; progetta il parco dell’Albergo Cavalieri Hilton (1963), la sistemazione di piazza Jacini a Vigna Stelluti, l’atrio e il giardino interno della sede RAI in viale Mazzini (1966), in cui propone una felice sintesi fra il giardino italiano e il giardino giapponese, ispirato da un viaggio in terra nipponica, la sistemazione dei giardini e degli spazi esterni del complesso residenziale Prato della Signora e di quello in via Nomentana 373.
Agli anni Sessanta risale anche un altro importante piano architettonico, quello relativo alla sistemazione degli spazi verdi pubblici e privati del comprensorio di Casal Palocco, affidatole dalla Società Generale Immobiliare. Si vuole ricreare, lungo la direttrice che da Roma conduce verso il litorale, non distante dalla vasta tenuta presidenziale di Castel Porziano, un nuovo complesso residenziale immerso nel verde. Il paesaggio cui si ispira l’architetta è quello della macchia mediterranea della vicina costa tirrenica, fatta di arbusti e piante che hanno il compito di creare omogeneità con l’ambiente circostante, contenere l’inquinamento acustico, valorizzare la salubrità dell’aria, caratterizzare la viabilità della zona garantendo al tempo stesso privacy e tranquillità ai proprietari delle abitazioni. Un vero esempio di integrazione fra paesaggio urbano e paesaggio naturale.
Il valore della progettazione ambientale, la valorizzazione del verde pubblico in sinergia con quello privato, la funzione estetica e ecologica dell’architettura del paesaggio e del garden design accompagnarono l’intera esperienza professionale di Maria Teresa Parpagliolo che è stata una prolifica scrittrice di articoli per riviste specializzate nazionali e internazionali.
Il ritardo italiano nel comprendere il valore dell’architettura paesaggistica la portò, insieme a Porcinai e altri colleghi, a dar vita all’AIAPP (Associazione Italiana degli Architetti del Giardino e del Paesaggio) certa che fosse necessario formare una coscienza e una specificità professionale anche in questo campo. Nonostante la ricca e antica tradizione dei giardini all’italiana, infatti, il mondo accademico nazionale ha faticato a riconoscere un valore significativo e autonomo all’architettura di paesaggio e solo alla fine degli anni Settanta è stata istituito il primo corso di specializzazione in Architettura del Paesaggio presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Genova.
Negli ultimi anni Maria Teresa Parpagliolo studia e progetta la ricostruzione del giardino storico cinquecentesco Bagh-e Babur a Kabul, voluto dall’imperatore Moghul Babur come luogo di svago e successivamente scelto per accogliere la propria tomba. L’incarico, condotto per conto dell’ISMEO (Istituto per il Medio ed Estremo Oriente), dimostra la capacità costante di Maria Teresa Parpagliolo ad aprirsi verso culture diverse, mai venuta meno nel corso di un’intera carriera.
Muore nel 1974

Fonti:
Sonja Dümpelmann, Maria Teresa Parpagliolo Shephard (1903 – 1974). Her development as a landscape architect between tradition and Modernism, in "Garden History", vol 30. N.1, 2002, pp.49-73
Paesaggi didattica, ricerche e progetti (a cura di Guido Ferrone, Giulio G. Rizzo e Mariella Zoppi), Firenze University Press, 2007
Dorothée Imbert, Between Garden and city: Jean Caneel –Claes and landscape Modernism, Pittsburg, PA, 2009
Sonja Dümpelmann, The landscape architect Maria Teresa Parpagliolo Shephard in Britain: her international career 1946-1974, in Studies in the History of gardens and design landscapes, 30, n1, 2010, pp. 94-113
Anna Maria Conforti Calcagni, Una grande casa, cui sia di tetto il cielo. Giardino nell’Italia del Novecento, Milano, Il Saggiatore, 2011
Sonja Dümpelmann, Creating new landscapes for old Europe, in Women, modernity and lanscape Architecture, a cura di  Sonja Dümpelmann e John Beardley, 2015, Oxon-New York, pp.15-37
Jennifer Bennet, Gardens and gardening, in The Oxford Encyclopedia of women in World History, vol. 4, p. 348
http://paesaggiocritico.com/2012/10/31/maria-teresa-parpagliolo-shephard-le-citta-giardinocasal-palocco-di-mauro-masullo/
http://www.itacatabloid.it/index.php?option=com_content&view=article&id=52:un-innamorato-della-bella-italia&catid=15&Itemid=106#
www.verdeepaesaggio.it
http://oxfordindex.oup.com/view/10.1093/oi/authority.20110803100307673
http://www.vivaitorsanlorenzo.it/agosto2005/agosto05.pdf
http://www.artapartofculture.net/new/wp-content/uploads/2012/03/marzo_2012.pdf
http://www.ordinearchitettivarese.it/files/EVENTI/MariaTeresa%20Parpagliolo%20Profilo.pdf

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Lia Pasqualino Noto

(Palermo, 1909 - 1998)

A Palermo, nel rione Brancaccio-Ciaculli,  le è stata intitolata una via

L'arte è una passione
di Ester Rizzo

Lia Noto nasce a Palermo nel 1909 da Antonio e Attilia Tellera.
Il suo primo approccio con la pittura risale a quando, a soli undici anni, inizia a dipingere sotto la guida del maestro e pittore Onofrio Tomaselli. Come lei stessa dichiarò, la sua passione per le matite colorate non l’abbandonò mai e crescendo, invece di dedicarsi a nuovi giochi, continuava a disegnare sui ricettari del padre medico. Quando le regalarono i primi colori ad acquarello iniziò a dipingere “con una costanza quasi maniacale”.
A vent'anni frequentava già lo studio di Pippo Rizzo, dove incontrerà Renato Guttuso. Iniziò ad esporre ed i suoi quadri rivelarono chiaramente che Lia era una "delle massime espressioni della pittura del Novecento in Sicilia". Insieme al marito, il medico Guglielmo Pasqualino, anche lui amante della pittura, accoglieva nella sua casa le personalità di spicco della cultura siciliana dell'epoca, creando così una sorta di cenacolo culturale in cui si dibattevano le nuove tendenze artistiche.
Lia mise sempre in evidenza la carenza e l’inadeguatezza in Sicilia di spazi culturali ed artistici idonei e lottò per modificare tale situazione.
E’ stata la prima donna e la prima persona ad aprire a Palazzo De Seta a Palermo la prima galleria d'arte privata della Sicilia, che dirigerà fino al 1940.
Il suo famoso dipinto "L'Attesa" riassume lo spirito e la filosofia del cosiddetto "gruppo dei quattro" (la stessa Lia, Guttuso, Franchini e Barbera) che rinnega i canoni classici del Novecento imposti dal regime e vira verso "una rappresentazione onirica e metaforica della realtà".
Il campo privilegiato della sua ricerca pittorica fu la ritrattistica.
Nel 1935, come componente della deputazione della Civica Galleria d'Arte Moderna di Palermo, fece acquistare quadri di Carrà, di Sironi, di Guttuso, di Marini, che oggi sono un vanto prezioso del Museo ma che ai tempi comportarono violente critiche a Lia.
Fa riflettere la sua testimonianza quando, divertita, raccontava che per un certo periodo alcuni critici d'arte lodarono i suoi lavori credendo però che lei fosse un uomo di nome Pasqualino e di cognome Noto. Per un po' giocò a nascondere la sua vera identità, convinta che gli apprezzamenti fossero stati palesati proprio perché ritenuti frutto di un talento maschile. Infatti  in una dichiarazione del 1937 affermò che "ad una donna è impossibile venir presa sul serio: una prevenzione razziale relega la femmina al ruolo di dilettante".
Quando negli anni ’50 e ’60 nacquero i nuovi canoni dell’arte contemporanea, iniziarono per Lia quelli che lei stessa definì “gli anni del silenzio”: le nuove strade artistiche non si addicevano alla sua ricerca figurativa. Continuò comunque a dipingere lasciandoci in eredità un notevole numero di opere.
Morì a Palermo il 25 febbraio 1998.

Fonti
Anna Maria Ruta, Siciliane (a cura di Marinella Fiume),  Emanuele Romeo Editore, 2006
Rosa Mastrandrea, Italiane, volume II, Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le Pari Opportunità
“Artedonna” Cento anni di arte femminile in Sicilia 1850-1950, (a cura di Anna Maria Ruta),  Edizioni di passaggio, 2012
Ester Rizzo,  Storie di donne siciliane – Lia Pasqualino Noto, articolo di "La Vedetta", gennaio 2015
http://www.galleriaroma.it/Bonaiuto/4/Noto.htm

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Ottavia Penna Buscemi

(Caltagirone, 1907 - 1986)

A Caltagirone c'è una lapide che la ricorda ma nessuna via è a lei intitolata

http://toponomasticafemminile.com/index.php?option=com_content&view=article&id=9221&Itemid=9328

 

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Bice Piacentini Rinaldi

(San Benedetto del Tronto (AP), 1856 - 1942)

A Bice (Beatrice) Piacentini Rinaldi sono intitolate una piazza e una scuola primaria nel Comune di San Benedetto del Tronto. In Palazzo Piacentini, dimora della famiglia nel borgo antico della cittadina marchigiana, è aperto al pubblico lo studiolo della poeta dialettale che ospita, oltre a mobili d’epoca, i libri che le appartennero, i suoi appunti e il suo piccolo archivio.

Una poeta dialettale
di Barbara Belotti
 

Beatrice, detta Bice, Piacentini Rinaldi nasce poco dopo la metà del XIX secolo a San Benedetto del Tronto, allora piccolo centro della costa meridionale adriatica dello Stato Pontificio. La sua è una famiglia in vista della società sambenedettese che alterna ai soggiorni marchigiani lunghi periodi a Roma, dove Alfredo Piacentini Rinaldi, il padre di Bice, segue gli affari del suo studio legale.
Bice cresce, quindi, fra il mondo romano e quello della provincia: San Benedetto, che rimase sempre nel cuore, e Collevecchio, in provincia di Rieti, paese da cui proviene la sua famiglia e dove conosce e frequenta Carlo, il fratello minore del padre che diventa nel 1877, non senza duri contrasti familiari, suo marito.
L’amore per San Benedetto del Tronto è profondamente radicato nell’animo di Bice che si dedica alla scrittura in lingua dialettale fin dai primi anni del Novecento, nello stesso periodo in cui Benedetto Croce, nel saggio dedicato alla poesia napoletana di Salvatore Di Giacomo (1903), libera i versi dialettali dal vincolo di essere una manifestazione letteraria minore priva di forza lirica e li innalza a espressione di “ingegno poetico e fantastico”.
A Bice Piacentini il dialetto sambenedettese consente di rimarcare il tono di autenticità e di vicinanza con il mondo che si propone di descrivere, un’apertura alla vita quotidiana del territorio che ama e che intende elevare a dignità poetica e artistica.
I suoi primi lavori sono i Sonetti in vernacolo sambenedettese del 1904, seguiti due anni dopo da una nuova edizione più ampia; del 1910 i sonetti Lu curtille e Stè Segnore; del 1915 il dramma teatrale Ballo del sospiro (1915) e, successivamente, il testo teatrale in dialetto sambenedettese Ttenella.
Nel 1926 a Roma è pubblicata un’antologia di poesie, curata dalla stessa Bice e dedicata alla madre Marianna Fiorani, dal titolo Sonetti marchigiani. Nell’introduzione all’opera Bice Piacentini si dichiara “testimone di liete e tristi scene nella famiglia e nella strada”. Attraverso i versi dialettali intende “ritrarre aspetti, sentimenti, abitudini raccogliendo dalla viva voce e, a preferenza, da labbra femminili, qualcuna tra le più schiette manifestazioni dell’anima popolare […]”.
“Raccolsi, soprattutto, ― è sempre la poeta a parlare nell’introduzione ― avidamente il linguaggio pittoresco e vezzoso delle nostre fanciulle popolane”, resoconti di vita ripetuti “alla lettera”.
L’antologia si apre con il sonetto Sammenedette, omaggio alla cittadina marchigiana, vero “luogo del cuore” di Bice Piacentini che lei stessa definisce nell’introduzionepaese che a me pare il più bello”: “Quiste jè nu paèse 'ffatturate;/ se lu sci viste 'n te lu pù scurdà/ e lu frastìre che cca capetate/ ce revè, preste u tarde, 'n ce penzà!/[…] Sammenedètte, care bbille mì,/ lu mare, tune jè lu ppiù lucènte,/ lu cìle tùne jè lu ppiu ttrecchì!
Attraverso il linguaggio dialettale “che ad altri può sembrare barbaro” Bice recupera la “suggestiva nostalgica dolcezza di ricordi” soffermandosi su differenti temi: il mare e il paese, la donna come madre e come moglie, le ragazze del luogo, i temi dell’amore, della gelosia, della morte.  
I sonetti sono schizzi veloci, brevi annotazioni sulla vita del borgo sambenedettese, sugli umori e le grida che era possibile ascoltare nelle strade o che uscivano dai portoni e dalle finestre aperte durante la bella stagione.
I suoi versi testimoniano un mondo che non esiste più, un mondo vissuto nei vicoli e agli angoli di povere abitazioni.
Nel sonetto “La megara”, per esempio, si racconta l’antica sapienza magica e misteriosa delle donne che toglievano il malocchio e le fatture; in altri la fatica e il dolore quotidiano, come quello di una madre di fronte alla morte del figlio ancora in fasce. I versi parlano anche dei mille piccoli espedienti per sopravvivere, i tanti volti di un’economia locale semplice, quella marinara, che vede nella “muccigna” la parte minima e di minor pregio che spetta alle famiglie dei marinai imbarcati e che costituisce spesso l’unica fonte di sostentamento (“Revà' le mòje de ji marenare,/ 'nche la muccigna p' ammanì la cène/ e ji frechì 'ttaccat'a lesettàne”.
Sono i pescatori a partire per la pesca, ma sono le donne a tenere in mano la trama della vita familiare, a svolgere ogni fatica casalinga cui si sommano i carichi di lavoro in appoggio alle attività di pesca maschili. Le donne, che si svegliano all’alba, rubano ore al riposo notturno per svolgere mille mansioni: sono loro a curarsi della casa, degli anziani e dell’educazione dei figli, per i quali rappresentano un centro saldo rispetto alla figura paterna spesso lontana e assente. A loro si richiedono molte attività collaterali alla pesca, quali per esempio la produzione di reti, la confezione e il rammendo di vele, la ricerca e la preparazione delle esche. Instancabili lavoratrici raccolgono la legna lungo la battigia, praticano la sciabica assieme agli uomini o girano l’argano per trarre in secco le barche.
Le vecchie fotografie d’epoca le mostrano sulla spiaggia in attesa delle barche, mentre scrutano il mare, immobili come statue di pietra, alla ricerca dei colori familiari delle vele (Stave le donne ritte pè mmarine/ parì de pietre, e reguardì llà fòre/ 'na vele e 'na lancette. Ma vecine/ zerlì j frechì, chiamì, facì rremòre.)
Negli anni in cui si dedica alla poesia dialettale, Bice Piacentini comincia a prendersi cura di Pia Ceccarelli, figlia di un marinaio, che abitava in una modesta casa non lontana dal palazzo. La compagnia di Pia la distoglie dai molti lutti familiari: la morte dei genitori, del marito Carlo nel 1911, dei due fratelli Gualtiero e Ernesto e, dolore fra i dolori, quella prematura del suo unico figlio Giuseppe.
Bice Piacentini Rinaldi muore nel 1942

Fonti

Cinzia Carboni, L’arco di Bice, 2010, in http://www.fluidbook.it/book/iluoghidellascrittura/larco_di_bice/

http://www.museodelmaresbt.it/Engine/RAServeFile.php/f//intero-ilovepdf-compressed_(2)-ilovepdf-compressed.pdf

https://it.wikipedia.org/wiki/Bice_Piacentini

http://www.edueda.net/index.php?title=Piacentini_Rinaldi_Bice

https://www.comunesbt.it/Engine/RAServeFile.php/f/a_casa_di_bice.pdf

https://bibliotecalesca.wordpress.com/page/13/

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Edmea Pirami

(Ascoli Piceno, 1889 - Bologna, 1978)

La città di Bologna ricorda con un giardino la figura di Edmea Pirami, pediatra e animatrice di attività filantropiche. Al contrario l’amministrazione di Ascoli Piceno, sua città natale, ancora non le intitolato alcuno spazio.

Matris animo curant
di Barbara Belotti

Edmea Pirami nasce ad Ascoli Piceno nel 1889 in una famiglia che crede nel valore delle sue figlie, in un’epoca in cui per le donne non era facile iscriversi all’università e seguire le proprie inclinazioni e le proprie passioni. Sia lei che le sorelle Ester e Lea intraprendono gli studi scientifici con brillanti risultati; Edmea in particolare si laurea in medicina a Bologna e diventa successivamente assistente nell’Istituto di pediatria. Si specializza in due campi fra loro vicini, in pediatria nel 1927 e in puericultura nel 1933.
La sua carriera accademica e ospedaliera si interrompe dopo il matrimonio e la nascita della figlia, ma la passione di Edmea per la medicina e per il mondo dell’infanzia è così forte che prosegue il lavoro nella pratica privata. Si prende cura dei bambini e delle bambine del brefotrofio, di tutte le mamme indigenti e delle ragazze madri che non possono accedere alle cure sanitarie per le loro creature. Dà vita a due ambulatori gratuiti nei quali assicura le terapie necessarie ai bambini spastici. Ancora più intenso è il suo impegno durante gli anni del secondo conflitto mondiale, cura le persone ferite dai bombardamenti, trova rifugio e nasconde bambini e bambine di religione ebraica.
Se la carriera medica femminile comincia a trovare sempre minori ostacoli nel corso del Novecento, meno scontato è, invece,  l’ingresso delle donne nei centri del potere. Edmea Pirami diventa la prima donna ad essere eletta nel Consiglio dell’Ordine dei Medici di Bologna.
Numerose sono le cariche che assume nel corso della sua vita. Dal 1961 diviene socia della Società e scuola medica chirurgica del capoluogo emiliano; diviene presidente dell’AIDM (Associazione italiana donne medico) di Bologna, in seguito presidente nazionale della stessa associazione; è nominata vice presidente del MWIA (Medical women’s international association) per l’Europa meridionale nel 1964. Alcuni anni prima la stessa associazione internazionale aveva adottato lo stemma con la figura di Igea e il motto Matris animo curant ideato e creato in casa di Edmea Pirami.
Il suo nome viene ricordato fra le fondatrici del Soroptimist Club di Bologna, del quale è stata presidente per due mandati.  Edmea Pirami muore a Bologna nel 1978. In suo  onore è stato istituito un premio, promosso dall’Associazione donne medico laureate e altri gruppi.

Fonti:
https://scienzaa2voci.unibo.it/biografie/106-pirami-emiliani-edmea
http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/schedaoltre.asp?ID=7011

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Ester Pirami

(Urbino, 1890 - Bologna, 1967)

Non si hanno tracce toponomastiche di Ester Pirami. Si propongono intitolazioni nella sua città natale (Urbino), nei luoghi ove visse (Pescia, Livorno, Pesaro), studiò e morì (Bologna).

Una vita spesa fra bisturi e penna
di Laura Candiani

Ester nacque a Urbino nel 1890, figlia di un pesciatino illustre e colto (Alberto) e di una romagnola amante delle arti (Virginia Amidei), primogenita di quattro figlie femmine. Successivamente la famiglia si trasferì a Livorno e poi a Pescia (oggi provincia di Pistoia); nel 1906 un nuovo trasferimento condusse i Pirami a Bologna dove le ragazze studiarono. Nel 1914 Ester si laureò brillantemente in Medicina e Chirurgia (1) e decise di  intraprendere   la carriera ospedaliera, in un’epoca in cui le poche mediche si occupavano esclusivamente di pediatria e di ginecologia;  già a settembre era a Pescia e a dicembre vinse il concorso come assistente in chirurgia.
Ottenne anche l’incarico di medica militare durante la Grande Guerra e non esitò ad andare come volontaria a curare i feriti nel terribile terremoto di Avezzano (1915), dimostrando coraggio, altruismo, determinazione.
Nel frattempo si dedicava alla scrittura con racconti e poesie, spesso ospitati su riviste a carattere locale, ma pubblicava anche opere scientifiche che  le valsero riconoscimenti dall’Università di Bologna. Era una brava medica, una chirurga attenta che non si assentava mai, le vennero addirittura attribuite guarigioni quasi miracolose e la sua dedizione al lavoro divenne proverbiale a Pescia e dintorni. Non si contano i ringraziamenti che ricevette.
A partire dal 1915 Ester si dedicò con più continuità alla narrativa e iniziò il romanzo L’estrema offerta, pubblicato nel ’24. Un punto essenziale della sua produzione è la condizione della donna che Ester non vede legata esclusivamente alla realizzazione attraverso la famiglia: anzi, crede fermamente nel ruolo del lavoro, nell’emancipazione, nell’importanza dello studio, tutti aspetti che la riguardano in prima persona, di cui è essa stessa testimonianza. Il romanzo è la storia di un amore travagliato ed ostacolato a cui fa da sfondo la situazione sociale dell’epoca con la sua ipocrisia, con le differenze sociali, con i pregiudizi, con la paura dei sovversivi e del socialismo, argomento che la Pirami non evita di trattare. Il finale del romanzo, quando la bella e infelice Grazia sceglie il suicidio al disonore,  potrebbe apparire una rinuncia e una contraddizione ma si deve comprendere il clima italiano degli  anni Venti. Una ragazza che spende i suoi soldi e si “concede" (pensiamo alla Tosca pucciniana) a fin di bene per salvare il proprio innamorato, sarebbe stata destinata all’isolamento, alla critica, al rifiuto dei suoi stessi familiari. E’ dunque una fine coerente, non certo con i principi della scrittrice, ma con quanto la società si attendeva.
Nel ’26 la Pirami si specializzò in Patologia coloniale e nel ’32 si trasferì - a seguito di concorso - a Pesaro, lavorando ancora con dedizione per parecchi anni, assistendo i feriti durante la II Guerra Mondiale e praticando la libera professione fino al 1967,  quando le precarie condizioni di salute la portarono a dimettersi dall’Ordine dei Medici. Morì il 19 settembre dello stesso anno a Bologna  dopo una vita dedicata al lavoro in un ambito ancora poco femminile, che poteva sembrare  inconciliabile con la vita familiare di moglie e madre.

1) La prima donna laureata al MONDO fu l’italiana Elena Lucrezia Corner  Piscopia (1678); negli USA la prima fu (1849) Elizabeth Blackwell, in Europa la prima fu (1867) Nadeschda Suslowa, in Italia -dopo l’Unità-  la prima laureata (proprio in medicina) fu, nel 1877, Ernestina Paper a Firenze; la celebre Maria Montessori si laureò nel 1896.

Fonti:
Francesca Giurlani, Scrivere per il pubblico: l’esperienza di Ester Pirami(1890-1967), in Donne di penna, 2003, Istituto Storico Lucchese-sezione Storia e Storie al femminile-Buggiano Castello

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Lidia Poët

(Traverse, 1885 - Diano Marina, 1949)

A lei sono dedicate la Biblioteca di Porte (TO) ed una Scuola Media Statale di Pinerolo (TO). Non è stata intitolata alcuna strada.

La prima avvocata italiana
di Loretta Junck

Sono venuta qui a Porte, un piccolo e grazioso centro a pochi chilometri dalla cittadina di Pinerolo, in provincia di Torino, a cercare la biblioteca Lidia Poët. E penso che vorrei averla sotto casa una biblioteca di genere così gradevole e ben fornita. Ma mi viene anche da riflettere che, anche quando siamo brave (e questa amministrazione femminile così attenta e presente lo è), anzi forse soprattutto allora, facciamo ancora fatica ad autolegittimarci.
Il fatto è che non la trovavo la biblioteca, perché non c’è insegna, né tanto meno un’indicazione segnaletica. Solo quando ci sei arrivata hai modo di sapere che accedi alla prima Biblioteca nazionale delle donne - http://www.comune.porte.to.it/index.php/biblioteca-donna.html - fortemente voluta dalla Sindaca e dall’ex Assessora alla cultura diventata mamma da poco, ma oggi qui a fare ”gli onori di casa”.
La scelta del nome è un altro tocco di intelligenza e sensibilità.
La biblioteca è stata dedicata a Lidia Poët, valdese della Val Germanasca (nacque a Traverse, una frazione di Perrero), prima donna a laurearsi in giurisprudenza e prima avvocata.
Quando Lidia vide la luce, nel 1855, non erano trascorsi molti anni da che l’editto di Carlo Alberto aveva liberato i valdesi dal ghetto alpino dove erano stati confinati due secoli prima, dopo la fase cruenta delle persecuzioni.
La personale persecuzione di Lidia Poët, come donna di legge, sarebbe iniziata invece un quarto di secolo dopo, quando, dopo aver discusso la tesi di laurea sulla condizione femminile nella società, superato brillantemente l’esame di abilitazione e svolto il prescritto periodo di praticantato nello studio di un collega a Pinerolo, ebbe l’ardire di chiedere l’iscrizione all’Albo degli avvocati di Torino. La storia di questa donna coraggiosa e volitiva è abbastanza nota: tra le eccellenze femminili pubblicate sul sito FIDAPA, esiste un’approfondita scheda che ne analizza il curriculum.
Maria Grazia Pellerino, assessora all’istruzione al Comune di Torino e avvocata, ci ragguaglia sull’iter legale della vicenda, che all’epoca suscitò scalpore e la stampa  diede molto spazio alla contesa tra innovatori e tradizionalisti.
«L’Ordine di Torino con decisione presa a maggioranza accolse la sua domanda. – scrive Pellerino -  I due consiglieri che si opposero appartenevano uno, Spantigati, alla sinistra, e l’altro, Chiaves, alla destra … Il provvedimento dell’Ordine di Torino destò molte censure e i due consiglieri citati si dimisero … Il Procuratore Generale del Re impugnò l’iscrizione della Poët avanti la Corte d’Appello richiamando, della donna, “l’indivisibiità della sua persona dall’eventuale portato delle sue viscere e la deficienza delle forze intellettuali e morali, fermezza, costanza e serietà”.»
In appello l’iscrizione all’Ordine fu annullata e la Corte di Cassazione confermò la sentenza di secondo grado.

Questo non impedì a Poët di seguire quella che era evidentemente una vocazione, perché «decise di dedicarsi alla difesa dei diritti non solo delle donne ma anche degli emarginati, dei minori e dei carcerati» (dal sito della Società di Studi Valdesi). Entrò a far parte stabilmente del Segretariato del Congresso Penitenziario Internazionale e nel 1922 presiedette il Comitato pro voto donne, fondato a Torino nel 1906.
Soltanto nel 1920, a sessantacinque anni, Lidia poté iscriversi all’Ordine degli Avvocati, grazie ad una legge del 1919 che aveva permesso alle donne di accedere a tutte le carriere professionali, esclusa la Magistratura.
Oltre alla biblioteca di Porte, finora nella provincia di Torino soltanto una scuola l’ha ricordata, la Scuola Media Statale Lidia Poët di Pinerolo, e nessun Comune ha ritenuto opportuno dedicarle una targa.

Credo che le amministrazioni dei luoghi dove nacque, visse e operò (Perrero, Torino e Pinerolo)  e dove avrebbe voluto poter esercitare la sua professione, dovrebbero deliberare una intitolazione stradale: un risarcimento simbolico alla memoria, una presa di coscienza istituzionale di un trascorso radicalmente discriminatorio, l’espressione concreta della  volontà di voltare veramente pagina.

Fonti:
Marino Raichich, Liceo, università, professioni: un percorso difficile, in Simonetta Soldani, ed., L'educazione delle donne: Scuole e modelli di vita femminile nell'Italia dell'Ottocento, Milano, 1989, 151-53
Clara Bounous, La toga negata. Da Lidia Poët all’attuale realtà torinese, Pinerolo, 1997
http://www.fidapa.com/index.php?option=com_content&view=article&id=387:lidia-poet&catid=904:distretto-nord-ovest&Itemid=46
http://www.senonoraquando-torino.it/2012/04/17/lidia-poet-prima-donna-iscritta-ad-un-ordine-degli-avvocati/
http://www.mariagraziapellerino.it/public/file/Foro-di-Torino-le-prime-avvocate.pdf

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Silvia Pons

(Torre Pellice 1919 - Torino 1958)

Né a Torino né a Torre Pellice esistono aree di circolazione dedicate alla memoria di Silvia Pons,  nonostante l’impegno da lei profuso durante la Resistenza e nel primo dopoguerra,  soprattutto nell’ambito dell’associazionismo femminile. La sua figura è riemersa solo recentemente dall’oblio, grazie a studi condotti su documenti dell’archivio famigliare messo a disposizione dal figlio Vittorio Diena.

Una vita incompiuta
di Loretta Junck

Di famiglia valdese, Silvia Pons discendeva per parte di madre da una dinastia di matematici, i Bernoulli. Il nonno materno Karl Emanuel Bernoulli, nativo di Basilea, si era prima radicato a Torino poi, ritiratosi dall’attività imprenditoriale di cui era stato iniziatore, si era costruito una casa a Torre Pellice, cuore del valdismo italiano, e vi si era trasferito.
Nata a Torre Pellice, in provincia di Torino, nella casa degli avi materni, Silvia passa l’infanzia prima a Ivrea, dove la famiglia si era trasferita per il lavoro del padre, e dal 1929 ad Aosta dove Enrico Pons era stato nominato direttore della filiale locale della Banca Commerciale Italiana.
Ma il ménage familiare non è dei più sereni: la vita coniugale dei genitori, a lungo attesa durante il fidanzamento negli anni della guerra, quando Enrico era al fronte,  iniziata sotto i migliori auspici, diventa presto difficile. I caratteri di Lilly Bernoulli e del marito non si amalgamano e questo segna in modo negativo l’infanzia della piccola Silvia, intelligente e sensibile. La serenità torna durante le estati a Torre Pellice, nella bella villa dei nonni Bernoulli, dove Silvia stringe una duratura amicizia con Frida Malan, che diventa la sua migliore amica, e i suoi due fratelli Roberto e Gustavo.
Alla fine degli anni ’30 tra i fratelli Malan, Silvia Pons e Giorgio Spini, che viveva a Firenze ma passava le estati a Torre Pellice, si crea un sodalizio intellettuale in cui la giovane Silvia matura una coscienza politica improntata all’antifascismo.
Nell’autunno del 1937 si iscrive all’Università a Torino scegliendo, coraggiosamente, la facoltà di Medicina e Chirurgia. La percentuale di donne che vi si iscrivono è molto bassa (341 su 9960 uomini), ma lei ostenta una grande fiducia in sé e va diritta per la sua strada.
A Torino, dove si trasferisce nel primo anno di Università, Silvia incontra Giorgio Diena e se ne innamora; la loro relazione non può sfociare nel matrimonio perché Giorgio è ebreo e le leggi razziali impediscono le unioni “miste”. Così, quando si accorge di essere incinta, nell’autunno del ’39, Silvia prende un’altra decisione coraggiosa, quella di far nascere comunque suo figlio resistendo alle pressioni della famiglia che vorrebbe convincerla a rinunciare a questa difficile maternità. Vittorio nasce nel luglio del ’40, nel piccolo appartamento nella periferia di Torino dove la giovane coppia è andata a vivere.
Intanto è iniziata la guerra e la città conosce i primi bombardamenti. Nell’agosto dello stesso anno la madre Lilly, la cui crisi matrimoniale è giunta a un punto di non ritorno, scompare durante una passeggiata in montagna lasciando una lettera inquietante. I suoi resti verranno trovati solo due anni più tardi.
Per Silvia, ovviamente provata dal dramma famigliare, inizia un periodo difficile, tra gli esami all’Università, il bambino da crescere, il compagno spesso assente per il lavoro e gli impegni politici. Dal 1940 la coppia inizia a collaborare con il gruppo torinese di Giustizia e Libertà, da cui nel ’42 nascerà il Partito d’Azione. Silvia e Giorgio vi aderiscono.
Nel 1942 si intensificano i bombardamenti su Torino e la famiglia si trasferisce a Torre Pellice, insieme ai genitori di Giorgio, che si prendono cura del bambino perché Silvia e il suo compagno sono spesso a Torino per la loro attività politica.
Nel febbraio del ‘43 Giorgio, trovato in possesso di documenti compromettenti, viene arrestato e resta in carcere per qualche mese. Intanto Silvia, nel luglio del ’43, nonostante la guerra, l’attività politica e le drammatiche vicende personali, seguendo  regolarmente i corsi di studio, riesce a laurearsi in medicina con un’ottima votazione; l’anno seguente sostiene l’esame di stato, insieme ad altre cinque donne contro 97 candidati maschi.
Dopo l’armistizio inizia per Silvia e Giorgio, uscito dal carcere nell’agosto, un periodo di intensa attività politica clandestina tra Torino e Torre Pellice, dove si è trasferito l’esecutivo del Partito d’Azione piemontese. Giorgio Diena ne fa parte insieme a Mario Andreis, Giorgio Agosti, Vittorio Foa, Franco Momigliano, Franco Venturi. Le riunioni avvengono spesso nella casa di Mario Alberto Rollier. È lì che si tiene, a fine ottobre, la riunione storica in cui si inizia a parlare della formazione di gruppi armati di GL.
Sulla partecipazione di Silvia alla Resistenza sono rimaste poche tracce: sono per lo più testimonianze indirette che documentano il suo impegno come staffetta e nell’Organizzazione Sanitaria interpartitica del CLN piemontese, in rappresentanza del PdA; l’organizzazione aveva lo scopo di curare i partigiani feriti e malati e di preparare le strutture sanitarie in vista dell’insurrezione.
Più documentato il contributo di Silvia Pons sul piano delle idee: è attiva nel Movimento femminile di GL e diventa redattrice della Nuova Realtà, il giornale del Movimento, dove collabora strettamente con Ada Gobetti Marchesini, che ne stima  la brillante intelligenza; inoltre partecipa ai Gruppi di Difesa della Donna sorti nel novembre del ’43. Il suo impegno nel PdA e nell’associazionismo femminile per la conquista delle libertà civili e politiche per le donne continua anche dopo la Liberazione. Nel partito, però, i rapporti con il gruppo dirigente non sono facili e Silvia, sul finire del 1945, viene espulsa senza che siano chiari i motivi di un provvedimento così grave che ha a che fare, forse, con la sua vita privata.
 L’attività di Silvia Pons continua però nella professione, in cui lei si impegna con la stessa energia e le stesse idee di giustizia sociale che ne hanno guidato l’azione politica. Nel ’44 le è affidato un incarico come medico scolastico; lavora poi per l’ENPI (Ente Nazionale Prevenzione Infortuni). È eletta nel Consiglio dell’Ordine dei Medici della Provincia di Torino e fa parte del gruppo delle dottoresse che si costituisce all’interno dell’Ordine per combattere la discriminazione sessuale, politica e ideologica. Lavora all’Ospedale Mauriziano, entra a far parte di uno studio medico e viene assunta con un incarico temporaneo di supplenza come medico condotto presso il Comune di Torino. Nel 1946 diventa presidente della sezione torinese della Fidapa, associazione femminile che, in contatto con l’organizzazione americana, riceve dagli USA pacchi di medicinali, vestiario ecc.
Accanto ai successi professionali, tuttavia, gli anni tra il ’46 e il ’48 registrano non solo il fallimento politico (il PdA si scioglie nel ’47, anche se sia Silvia che Giorgio se ne sono già allontanati) ma anche quello privato del rapporto di coppia. Mentre si manifesta in Silvia quella dipendenza dalla morfina che forse era iniziata subito dopo la Liberazione, parallelamente Giorgio, assunto all’Olivetti di Ivrea nel ‘49 dopo il fallimento di un progetto imprenditoriale, è costretto a lasciare il lavoro per il forte disagio psichico che esplode in deliri persecutori e che lo condanna infine al ricovero permanente in casa di cura.
Nel ’50 Silvia si innamora di Guido Loventhal, un ebreo torinese emigrato in America e tornato in Europa nel dopoguerra;  la separazione definitiva con Giorgio avviene nel ’51. Come già in precedenza è avvenuto nei momenti di crisi, il figlio della coppia, Vittorio, trova ospitalità a Torre Pellice presso una famiglia amica. Per poter essere più vicina a Guido Loventhal, dal ’51  in Francia in forze presso l’esercito americano, Silvia  intensifica la collaborazione con la rivista Minerva Medica, già iniziata nel ’48, e si propone come corrispondente da Parigi ottenendo parecchie soddisfazioni nel nuovo ruolo, tra cui un apprezzamento da parte di Padre Gemelli.
Ma un’altra delusione l’attende, la fine del rapporto con Guido, nel ’54, cui si aggiunge una nuova tribolazione per un problema giudiziario: nell’ottobre del 1955 le arriva un mandato di comparizione del tribunale di Torino per il reato di falsificazione di ricette per prescrizione di sostanze stupefacenti. È un dramma per Silvia, costretta a fare i conti con una realtà gelosamente tenuta nascosta a tutti e che ora rischia di diventare pubblica.
Nonostante tutto ora vuole ricongiungersi con il figlio, con il quale non vive da anni, dedicarsi a lui e accompagnarlo nell’adolescenza: un modo di dare senso alla sua vita, dopo tante delusioni subite. Vittorio si trasferisce a Torino e si iscrive al liceo Alfieri. La vita di Silvia, che sembrava riservare tante promesse, ora si impoverisce, segnata a fondo dalla dolorosa dipendenza che la costringe all’umiliante ricerca di denaro e a peregrinare da una farmacia all’altra, con la paura del processo e della risonanza mediatica per la vicenda giudiziaria.
La fine giunge improvvisamente il 14 aprile del 1958. L’autopsia certifica, come causa della morte, un aneurisma cerebrale, cancellando ogni dubbio su un gesto autodistruttivo. Silvia ha appena compiuto trentanove anni.

Fonti:
Maria Rosa Fabbrini, Bonsoir Madame la Lune. La vita incompiuta di Silvia Pons, Antigone.
Marta Bonsanti, Giorgio e Silvia. Due vite a Torino tra antifascismo e Resistenza, Sansoni.

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Elda Pucci

(Trapani, 1928 - Palermo, 2005)

Ad Elda Pucci non risulta intitolata alcuna via.

La forza delle idee e delle azioni
di Annarita Alescio

Nacque a Trapani il 2 febbraio 1928.  Il padre, Stefano, era avvocato ed esponente di primo piano del fascismo trapanese. Elda si laureò a Palermo in Medicina e si specializzò in Chimica Pediatrica.
Si definì la vincitrice di due grandi battaglie, nel lavoro e in politica. Come medica pediatra si fece accettare nella sua Sicilia, nonostante tanti pregiudizi; come docente e primaria si affermò nell'università e in ospedale, quando ancora le donne venivano chiamate indistintamente “signora” e mai “professoressa” o “dottoressa”. I suoi interventi nel Consiglio Nazionale della Federazione dell'Ordine dei Medici furono sempre improntati ad una rigorosa aderenza ai principi deontologici della professione.
L'altra vittoria la conseguì in politica, pur non entrando mai in sintonia con le donne di Palermo e schierandosi contro il divorzio e contro l'aborto. Si ricorda però la sua determinazione nella lotta contro la mafia degli appalti che gestiva il Comune, determinazione che le fece acquisire il soprannome di “Lady di ferro”.
Esponente della DC, fu la prima sindaca di Palermo nel 1983, incarico avuto in un momento drammatico per la città, insanguinata dagli omicidi mafiosi. Durante la sua candidatura, per la prima volta, il comune di Palermo si costituì “parte civile” in un processo di mafia.
Fu rimproverata di aver parlato bene dei più discussi protagonisti della DC, dimenticando però che Elda, accortasi del suo errore, pian piano si ricredette, arrivando a comprendere che l'avevano eletta pensando fosse solo un’ingenua da manovrare. Dichiarò: "Nessuno, quando sono stata eletta, pensava che fossi capace di scelte autonome, ispirate solo dall'interesse della città".
Lavorando in solitudine, resistette nel difendere l'utilizzo del denaro pubblico per la città e per l'interesse generale, non per i partiti o loschi individui. Non fidandosi, studiava con pignoleria le delibere portate in Giunta dai vari assessori, bloccandole appena capiva che erano state "confezionate" per elargire soldi pubblici a parenti e clientele.
Tutto ciò le costò l'aggressione del mondo mafioso e l'allontanamento dal mondo politico. Ad un certo punto la DC, comprendendo che Elda non era più disposta a sottostare "alla disciplina di partito",  la mise definitivamente da parte. Restò sindaca solo un anno, poi fu sfiduciata dal partito e da coloro che l'avevano eletta. Combatté uno scontro durissimo su un appalto di manutenzione, istituendo una gara pubblica dopo aver scoperto che i prezzi fissati fino ad allora erano dieci volte superiori a quelli di mercato. La risposta della mafia non si fece attendere e la sua villa a Piana degli Albanesi fu fatta saltare. Parecchi anni prima della battaglia contro il crimine che costò la vita a Giovanni Falcone, Elda Pucci, testimone dei mali della sua Sicilia, rimasta viva forse perché donna e forse perché pediatra dei figli di famiglie mafiose, aveva anticipato la necessità di internazionalizzare, con mezzi moderni e informatici, la lotta al crimine e a tutte le mafie. E per questo fu definita una “mina vagante”.
Fu in seguito eletta al Parlamento Europeo con il Partito Repubblicano.
Elda Pucci si è spenta a Palermo il 4 ottobre 2005.
“Ho un grande rimpianto – dichiarò negli ultimi anni della sua vita – la scarsa presenza delle donne nelle istituzioni, una presenza che col tempo diminuisce invece che aumentare. E ciò rende più povera la politica perché più donne in politica ne migliorerebbero la qualità”.
Coerente con i principi di libertà in cui visse, Elda si permise di dare giudizi taglienti non solo sui partiti ma anche sulla cosiddetta società civile: “Da persona che vive a Palermo assisto ad una scarsa capacità di dare il meglio da parte della classe politica; che però viene scelta dalla società civile più per interessi opportunistici, per motivi affaristici o privati che in base a forti valori condivisi. È quindi colpa anche della società civile se si hanno i politici che oggi abbiamo”.
Ad Elda Pucci, che è stata Presidente Nazionale del Soroptimist International, fra gli altri è andato il Premio “Coraggio” dell'Ande (Associazione nazionale donne elettrici) la cui prima edizione si svolse nel 1983.

Fonti:
Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia (a cura di), Italiane, volume II,  Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le Pari Opportunità
Amelia Crisantino, Siciliane, (a cura di Marinella Fiume) , Emanuele Romeo Editore, 2006
http://www.150anni.it/webi/index.php?s=60&wid=2012
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/10/15/la-scomparsa-di-elda-pucci.html
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2000/09/17/elda-pucci-orfana-di-politica.html
http://www.larisaccamensiletrapanese.it/wp/?p=1236

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