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 Alma Sabatini

(Roma 1922 - 1988)

Incredibilmente assente nella toponomastica romana, Alma Sabatini è stata una figura di rilievo del femminismo italiano, insegnante, anglista e saggista. A lei dobbiamo la pubblicazione nel 1986 delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, linee guida per superare gli stereotipi di genere attraverso scelte linguistiche critiche e consapevoli. Nel 2012, il gruppo di Toponomastica femminile ha proposto al Comune di Roma una sua intitolazione nell'ex XVII municipio, attuale I municipio, con delle motivazioni consultabili all'indirizzo http://67.23.224.138/~toponoma/index.php?option=com_content&view=article&id=109&Itemid=155

Alma Sabatini e il linguaggio come strumento di percezione della realtà
di Saveria Rito

Nacque a Roma il 6 settembre 1922 e si laureò in Lettere moderne presso l'Università La Sapienza nel 1945. Le borse di studio in Inghilterra e negli Stati Uniti le permisero di perfezionare la lingua inglese che insegnò nelle scuole medie e superiori della capitale per diversi anni, prima di ritirarsi nel 1979 e dedicarsi completamente alla causa femminista. Dal 1960 militò nel Partito Radicale e nel 1971 fu tra le fondatrici, e prima presidente, del Movimento di Liberazione della Donna (MLD), che si batteva per la legalizzazione dell'aborto, contro il sessismo e il patriarcato. A metà dello stesso anno, alcune divergenze spinsero Alma e altre attiviste a staccarsi dal movimento per praticare una politica femminista separatista e organizzare un gruppo di autocoscienza, che si incontrava per discutere di sessualità, esperienze personali e rapporto tra i sessi (secondo il principio il personale è politico). Fu in una di quelle riunioni che Gabriella Parca propose di fondare una rivista, la futura Effe pubblicata dal 1973, alla quale Alma collaborò fino agli inizi del 1975. Nello stesso periodo si avvicinò al Collettivo di via Pompeo Magno, poi diventato Movimento Femminista Romano, contribuendo alla stesura di un bollettino informativo mensile e partecipando a iniziative e manifestazioni contro la prostituzione e per la legalizzazione dell'aborto: a sostegno di quest'ultima causa, nel 1973, adottò con alcune attiviste la pratica dell'autodenuncia durante il processo di Gigliola Pierobon (accusata di aver abortito ai sensi dell'art. 546 del Codice Penale del 1930, poi abrogato dalla L.194/78).  "L'oppressione, la repressione e lo sfruttamento della donna passano attraverso l'equivoco della maternità" - sosteneva Alma - "Il femminismo è anzitutto la coscienza che non esiste una possibilità di liberazione individuale al di fuori di quella di tutte le altre donne".
La fitta corrispondenza con femministe americane come Diana Russell, Marcia Keller,  Karen DeCrow e Betty Friedan, le diede occasione di ritornare negli Stati Uniti come ospite di convegni,  seminari e interviste in diverse città dal 1971 al 1972.
Numerosi furono i suoi articoli, pubblicati su Effe e Quotidiano donna, riguardanti  tematiche come aborto, maternità, pari opportunità, prostituzione, violenza, matrimonio e linguistica.
Oggi il suo nome rimane legato principalmente ad uno studio sul "sessismo insito nella lingua italiana" che, nel 1986, portò alla pubblicazione per conto della Commissione Nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana. Nell'opera, che seguiva analoghe esperienze estere ed era rivolta alle scuole e all'editoria scolastica, Sabatini elencava forme di linguaggio stereotipato che mal celavano pregiudizi di genere e proponeva delle alternative. Si partiva da un'indagine sui libri di testo e sui mass media per mettere in risalto la prevalenza del genere maschile, usato in italiano anche con doppia valenza, il cosiddetto maschile neutro, che cancella dal discorso la presenza del soggetto femminile (ad esempio, i diritti dell'umanità è da preferire all'espressione i diritti dell'uomo; le popolazioni primitive sostituisce gli uomini primitivi). Sottolineava, inoltre, la mancanza o il mancato uso di termini istituzionali e di potere declinati al femminile (ministra, sindaca, assessora), l'accezione positiva e il prestigio di un termine maschile rispetto alla sua forma femminile (il sostantivo segretario, di Stato o di un partito, è percepito diversamente dalla forma segretaria, stereotipo del lavoro femminile subordinato).
La premessa teorica alla base di questo lavoro è che la lingua non solo riflette la società che la parla, ma ne condiziona e ne limita il pensiero, l'immaginazione e lo sviluppo sociale e culturale. La lingua infatti non è un semplice strumento di comunicazione e di trasmissione di informazioni e di idee, ma è soprattutto strumento di percezione e di classificazione della realtà [...]: tendiamo a vedere soltanto ciò che ha nome e lo vediamo come quel nome stesso ci suggerisce" dichiarava Alma Sabatini nell'introduzione alle Raccomandazioni.

Il lavoro suscitò apprezzamenti e polemiche a colpi di articoli di giornale, tuttavia rimane una tappa fondamentale che ha aperto un dibattito sulla necessità di un rinnovamento linguistico nel nostro Paese, sostenuta recentemente anche dall'Accademia della Crusca.
Alma Sabatini morì a Roma in un incidente d'auto il 12 aprile 1988 assieme al marito Robert Braun. I funerali laici di entrambi vennero celebrati nel giardino del Buon Pastore, sede della Casa Internazionale delle Donne.

Fonti
Documenti d'archivio dal Fondo Alma Sabatini conservato a Roma presso Archivia - Biblioteca Archivi Centri Documentazione delle Donne. Sito internet www.archiviaabcd.it
Donnità : cronache del Movimento Femminista Romano, Roma, Centro di documentazione del Movimento Femminista Romano,  1976
Marina Ceratto, Il "Chi è?" delle donne italiane: 1945-1982, Milano, Mondadori, 1982, p. 280
Alma Sabatini, Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1986
Cecilia Robustelli in http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/femminile/Robustelli.html
 
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Maria Assunta Sabatini

(Massa Cozzile (PT), 1860 - Firenze, 1940)

Non risulta alcuna intitolazione a suo nome.

La "Marietta" e l'Artusi.
di Bruna Rossi

Maria Assunta Sabatini, meglio nota come “la Marietta”, fu la fedele domestica e collaboratrice di Pellegrino Artusi nel suo ultimo periodo di vita, proprio quello in cui scrisse e pubblicò La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, il manuale che lo incoronò come il padre indiscusso della gastronomia italiana.
Era nata  il 4 ottobre 1860 a Massa e Cozzile, un piccolo comune della Valdinievole, come possiamo ricavare dal documento di battesimo esistente nell’Archivio delle Parrocchie della Diocesi di Pescia; era figlia di Luigi e Palmira Guidi, montecatinese. Alla bambina venne imposto il nome di entrambe le nonne,  Assunta, ma nei suoi scritti (visto che lei, come il fratello, sapeva leggere e scrivere) si firmava Maria o, piuttosto, Marietta.
Forse fu proprio durante una delle sue periodiche permanenze a Montecatini (che lui stesso ci  testimonia nella Autobiografia) che Artusi conobbe quella che sarebbe divenuta la sua cameriera tuttofare, una donna giovane, ma energica e capace che, oltre a occuparsi della casa, gli avrebbe fornito sostegno e assistenza fino alla morte.  
Marietta alla fine del 1881 risultava ancora residente con la famiglia a Massa, tuttavia aveva preso servizio da Pellegrino Artusi già dal 1878. Nel 1888, ancora nubile, la si saprà ufficialmente trasferita a Firenze.  
Chi avrebbe mai potuto immaginare che proprio Maria Assunta, nata in un piccolo paese ignoto ai più, avrebbe dato un fondamentale contributo alla diffusione della cucina e della lingua italiana non solo nella nazione italiana nascente, ma addirittura nel mondo intero?  Il trattato conosciuto come L’Artusi, infatti, distaccandosi nettamente da una cucina considerata “alta” ma espressione di un gusto francese che non ci era proprio, ha restituito piena dignità nazionale e gastronomica alla cucina regionale e popolare della tradizione italiana. In esso Pellegrino ha abilmente trasferito ed esaltato le ricette locali (spesso tramandate oralmente), portandole fuori dai loro ristretti confini e campanilismi, trasformandole in piatti nazionali e proponendole al lettore con l’uso di un lessico  appropriato ma facilmente comprensibile. Ha così favorito il processo di unificazione e di  italianizzazione della classe medio-borghese, utilizzando un vocabolario volutamente privo di termini stranieri. È lo stesso Artusi ad affermare: «Dopo l’unità della patria mi sembrava logica conseguenza il pensare all’unità della lingua parlata». E quale modo migliore di farlo, se non  parlando agli Italiani (anzi, soprattutto alle Italiane!) di qualcosa con cui dovevano confrontarsi ogni  giorno, la preparazione del cibo, elevata finalmente al rango di Arte del mangiar bene!?
Va detto, a questo punto, che forse quel manuale non sarebbe mai nato se nella abitazione di Artusi non fosse capitata Marietta, una ragazzina di paese che a soli diciassette anni, lasciando la propria casa a Massa ed un sicuro ma poco ambito destino di “cucitrice”, andò come servetta presso quello scapolo quasi sessantenne, dal carattere burbero e molto diffidente verso i  domestici che, a detta sua, avevano sempre cercato di truffarlo e derubarlo...
Conosciuta da tutti come “la Marietta”, essa prese subito in mano le redini della casa con  competenza e una determinazione suggerita anche dal suo aspetto statuario e dalle forme  giunoniche. Nell’intervista pubblicata sulla rivista “La Cucina Italiana” quando era ormai settantaduenne, Rina Simonetta la descriveva ancora così: «una donna dalla figura alta, slanciata; figura giovanile nonostante i capelli bianchi; figura distinta e signorile». Nella stessa intervista Marietta parlava con affetto del padrone, ormai scomparso da molti anni, ricordando le sue passioni: «A parte la cucina gli piaceva leggere. Invecchiato però, gli si era indebolita la vista e per non farlo stancare ero io che leggevo per lui (...) leggere mi piaceva. Ma mi ci sono logorata gli occhi». La donna ricordava di essergli stata accanto fino agli ultimi momenti della sua vita: «Quando morì stavamo leggendo l’Eneide...».
Chissà se proprio a lei andrebbe attribuito il merito di aver suggerito al padrone di riunire la  passione per le lettere e quella per la buona tavola in un volume che sarebbe ben presto diventato la Bibbia per chiunque avesse osato avvicinarsi ai fornelli, dalla semplice casalinga al più famoso  gastronomo?
La prima edizione di La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene uscì soltanto nel 1891, dopo meno di tre anni dal trasferimento definitivo di Marietta in casa Artusi: Pellegrino aveva già 71 anni e da 30 l’Italia era stata unificata.
Ai fornelli, accanto a Marietta e al suo padrone, c’era il cuoco Francesco Ruffilli, il quale però mantenne sempre un tono dimesso e deferente, sottomesso anche a Marietta, la quale non fu solo la “serva” di casa, ma una presenza forte, attenta e costante, che svolgeva anche il ruolo di governante e assistente, non solo in cucina, ma in ogni incombenza, accompagnando spesso il padrone, ormai anziano, anche nei suoi viaggi di lavoro e nei soggiorni estivi. Lo faceva ancor più volentieri quando Pellegrino si recava ai Bagni di Montecatini, che rappresentavano per lei un ritorno a casa.
Ben presto “la Marietta” divenne un autentico “personaggio”: le signore, ma anche molti  uomini, pur considerando Artusi un vero maestro dell’economia domestica, si rivolgevano a lei chiedendole un aiuto competente per risolvere i più svariati problemi legati alla cucina e alla gestione della casa in generale. Essa rappresentava la migliore consulente degli amici di Pellegrino, sempre pronta a dare preziosi consigli e a suggerire non solo ricette e menù, ma anche a offrire un sostegno psicologico nei momenti di difficoltà:«Ci ricordi con affetto alla buona Marietta, la quale non cesso di ricordarmi le sue sgridate, in qualche noioso momento della mia nevrastenia».
La “bella Marietta dalle forme scultorie”, addirittura “giunonica”, come la descriveva Goffredo Corelli, era anche molto abile nello scegliere e fornire utili nominativi di virtuosi cuochi e domestiche di sua fiducia, che spesso accompagnava e presentava personalmente, guadagnandosi ulteriore simpatia e gratitudine. Ogni tanto Assunta rientrava a Massa per sistemare le faccende di famiglia, non disdegnando tuttavia una salutare e mondana sosta ai Bagni di Montecatini. In quelle occasioni la sua casa era letteralmente presa d’assalto: molte giovani speravano in lei per ottenere un impiego presso qualche casa signorile. È logico pensare che gran parte del personale che Marietta raccomandava provenisse dalla sua Valdinievole, che facesse parte della sua cerchia di familiari e amici: persone che conosceva dall’infanzia e sulla cui correttezza sapeva di poter contare anche se talvolta, purtroppo, anche la sua fiducia riceveva qualche colpo basso.
Marietta Sabatini si  potrebbe definire una vera benefattrice per la sua terra d’origine, per aver offerto a molte ragazze la possibilità di lavorare presso prestigiose residenze di Firenze e non solo, sfuggendo in tal modo ad un inesorabile futuro di lavoro nei campi, in cartiera o in una filanda...
Artusi dimostrò di apprezzare appieno le qualità della collaboratrice: non solo le dedicò la ricetta n.604 (uno speciale  panettone, «migliore assai del panettone di Milano»), ma alla morte lasciò i diritti d'autore del suo manuale a lei e al cuoco Ruffilli. Marietta del resto, rispettando il  giuramento fatto al padrone, si batté in modo risoluto perché venissero rispettate tutte le volontà testamentarie di Pellegrino che, con disappunto di alcuni parenti, vedevano la maggior parte dell'eredità destinata al Comune di Forlimpopoli e a opere benefiche. Marietta continuò a vivere a Firenze anche dopo la morte di Artusi; morì a 80 anni, di broncopolmonite, il 22 dicembre 1940, e venne sepolta nel cimitero di Trespiano.

Fonti:

Archivio Storico Comunale di Massa e Cozzile, XXXII.5, Terzo Censimento generale della popolazione del Regno da farsi alla mezzanotte del 31 dicembre 1881
Pellegrino Artusi, Autobiografia, a cura di Alberto Capatti, Bra (Cuneo), Arcigola Slow Food Editore, 2003
Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Modena, ed. La Vela, 1980
Luciana Cacciaguerra, Piero Camporesi, Laila Tentoni, Pellegrino Artusi e la sua Romagna - note d’archivio, Forlimpopoli, Casa Artusi, 2012
Bruna Rossi, Pellegrino Artusi e le Mariette di Valdinievole, in Fare le Italiane, Buggiano (PT), Vannini, 2015 (a cura dell'Istituto Storico Lucchese-Sezione Storia e Storie al Femminile)
Rina Simonetta (a cura di), Parliamo di Pellegrino Artusi, intervista a Maria Sabatini, in “La Cucina italiana. Giornale di gastronomia per le famiglie e per i buongustai”, 15 febbraio 1932

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Elena Salvestrini

Uliveto Terme (PI), 1904 - Viareggio, 1985 )

Di Elena Salvestrini non si ha traccia nella toponomastica toscana, nonostante la preziosa attività didattica (unica per l’epoca) e l’interesse suscitato dalla pubblicazione del bel libro curato da Gabriella Nocentini (nipote di quella famiglia Tonarelli che accolse la maestra in casa), presentato ripetutamente (Firenze, Pistoia, Pescia, Cutigliano,Viareggio, ecc.); insieme all'edizione del testo anche una mostra di fotografie  inedite e del quaderno  del ’29, con interventi della nipote (Isabella Pera) e dei soci della sezione “Storia e Storie al femminile” dell’Istituto Storico Lucchese.

Ritratto di una maestra
di Isabella Pera e Laura Candiani

Elena Salvestrini nasce a Uliveto Terme (Pisa) il 9 gennaio del 1904. Il padre, Arturo Salvestrini, è direttore di una fabbrica nel paese, la madre, Amelia Lavoratti, è casalinga, cura la casa e i quattro figli, due maschi e due femmine.
Nel 1918 si iscrive alle Scuole normali di Pisa, dove si diploma nel luglio 1922. Subito dopo inizia ad insegnare nelle scuole elementari, facendo supplenze nella zona di Pisa: a San Giovanni alla Vena, dove rimane fino all’aprile 1925, poi a Cucigliana, tra il 1925 e il 1926.
Dopo aver sostenuto e superato brillantemente gli esami di abilitazione ottiene la sede provvisoria a La Romola (FI), ma solo per qualche mese, dall’aprile al luglio 1926. La sua sede definitiva sarà invece la scuola “rurale” di Ponte Sestaione (PT), una piccola frazione di poche case sull’Appen-nino pistoiese, presso Cutigliano, lungo la Statale 12 che porta all’Abetone, dove arriva nel set-tembre 1926 .
Nel paese trova alloggio presso la famiglia Tonarelli e inizia il suo lavoro di insegnante in una pluriclasse dei primi tre anni della scuola elementare, ospitata in una grande e fredda stanza (ex stalla) di una colonia situata poco lontano, la colonia elioterapica “Franchetti”. Le bambine e i  bambini  erano 9 in Prima,18 in Seconda e 10 in Terza, ma non tutti e non sempre frequentavano, essendo spesso impegnati ad aiutare le famiglie (la semina, gli animali, la raccolta delle castagne, dei funghi, delle fragole) o -in inverno- bloccati in casa dalla neve. Malgrado l’ambiente poco accogliente e il variegato gruppo classe, la maestra, con un metodo originale e attento alla crescita dei suoi alunni , riesce a costruire con loro un rapporto diretto, che non si limita alla didattica consueta, ma li coinvolge in molte altre attività: escursioni, spettacoli e recite (di cui lei stessa scrive spesso i copioni e le canzoni accompagnandosi con il violino), feste in maschera durante il periodo di carnevale per le quali confeziona i costumi con pochi mezzi e molta fantasia. La scuola diventa il centro della vita della piccola frazione, proprio grazie alle molte e originali iniziative che accom-pagnano la realtà quotidiana della gente del Ponte.
Elena Salvestrini documenta questi avvenimenti, come anche i luoghi e le persone, con la sua macchina fotografica Eastman Kodak Folding Autographic Brownie n. 2, acquistata nel 1926, poco prima di partire per Ponte Sestaione, uno strumento non così consueto all’epoca, soprattutto nelle mani di una donna. Certo era una donna moderna ed emancipata, di famiglia borghese, bella, giovane e sportiva; non disdegnava l’eleganza e la moda, ma oltre a bei capi rifiniti in pelliccia indossava spesso i pantaloni (nascosti sotto una gonna); portava i capelli corti e “sembrava un’attrice”- come sottolineano i ricordi dei suoi alunni ormai anziani; riuscì in soli quattro anni a lasciare una traccia profonda nella realtà locale e a integrarsi in una comunità chiusa e tradizionale, divenendo una sorta di “mediatrice culturale” (come afferma Teresa Bertilotti ). Sapeva dipingere e disegnare benissimo, ma anche cucire, fare la calza  e ricamare, insieme alle ragazze del luogo; a sue spese fece curare alunni malati e acquistava talvolta i grembiulini per i più bisognosi o faceva “recuperi” pomeridiani a chi affrontava l’esame da privatista.
Nel 1929 gli alunni delle scuole elementari della provincia di Pistoia furono invitati a scrivere del luogo dove vivevano sotto molteplici aspetti ˗ storico, geografico, economico, artistico ˗ per celebrare l’istituzione della nuova provincia in piena epoca fascista. I numerosi quaderni, che furono esposti in mostra alla Casa del Balilla di Pistoia, vennero poi donati alla Biblioteca Forteguerriana, dove sono ancora conservati e digitalizzati. Tra le tante scuole della montagna pistoiese che parteciparono ci fu anche quella di Ponte Sestaione. Molti dei lavori sono scritti in bella grafia dalle maestre e contengono informazioni generiche, mentre quello redatto dalla scuola del Ponte (il n.141) appare ben più originale, perché sono gli stessi bambini che, sotto la guida dell’insegnante, descrivono il luogo dove vivono in maniera piuttosto spontanea e sincera, non nascondendo i problemi (l’emigrazione, la durezza delle condizioni di vita) e i desideri (la realizzazione di una nuova scuola), ma anche il legame con il territorio e con le sue tradizioni. Il quaderno è inoltre arricchito di fotografie scattate da Elena Salvestrini e costituisce un documento molto interessante, come del resto tutta la raccolta, per comprendere la vita, la condizione socio-economica e culturale di quelle zone.
La maestra Salvestrini lascia la scuola del Ponte Sestaione nel 1930,  nello stesso anno si sposa con Raffaello Sabatini e si trasferisce in Versilia, a Viareggio, insegnando per un anno a Bargecchia, poi a Corsanico (1931-1934) e Stiava (1934-1941). Nel periodo dello sfollamento si rifugia con la figlia Annamaria proprio a Stiava e, dopo la guerra, riprende la sua attività nelle scuole viareggine di Levante, del Varignano, della Darsena e infine, dal 1963, alle “R. Lambruschini”. Nel 1967 è collocata a riposo e  muore a Viareggio nel 1985.

Annotazioni e approfondimenti: La legge Gentile del ’23 allargò l’obbligo scolastico ai 14 anni, oltre quindi la scuola elementare i cui programmi furono curati da Giuseppe Lombardo Radice. Fu creato l’Istituto Magistrale per i futuri insegnanti elementari, in sostituzione delle Scuole normali.
Le maestre -che rappresentavano all’epoca circa l’80 % del corpo insegnante- in mancanza di stanze idonee nell’edificio scolastico, dovevano trovare un alloggio decoroso nelle sedi spesso disagiate e  sperdute dove erano costrette  a  trasferirsi in modo stabile. Quasi esclusivamente alle donne erano riservate le prime tre classi delle elementari, mentre gli uomini per legge dovevano insegnare nel successivo biennio e nelle classi totalmente maschili. La “moralità” delle maestre (per lo più giovani e forestiere) era tenuta sotto stretto controllo dai Direttori Didattici e dalla comunità locale; non pochi furono purtroppo i casi - con esiti drammatici - di pettegolezzi e maldicenze (vedi la vicenda della “povera, infelice Italia Donati, maestra sventurata” 1863-1886).

Il materiale realizzato dalle scuole nel ’29 e raccolto presso la Biblioteca Forteguerriana di Pistoia rimase sessant’anni in deposito e fu studiato da Teresa Dolfi e Stefania Lucarelli nel 1990; consiste in 363 pezzi. Nel 1999 tutte le pagine sono state scansionate per un totale di oltre 13.000 immagini a  cui si aggiungono gli indici e le esecuzioni di 27 canti popolari riportati nei testi.

Fonti:
Gabriella Nocentini (a cura di), Con l’aiuto della Signorina maestra. Elena Salvestrini e la scuola di Ponte Sestaione, Cutigliano (1926-1930), Firenze, Edizioni dell’Assemblea, 2014.
Biblioteca Forteguerriana, CD ROM La scuola in mostra. Pistoia, 1929, Fondazione Cassa di Risparmio Pistoia e Pescia, 1999.
Marcello Dei, Colletto bianco,grembiule nero, Bologna, Il Mulino,1994
Elena Gianini Belotti, Prima della quiete. Storia di Italia Donati, Milano, Rizzoli, 2005
 

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Maria Salviati

(Firenze, 1499 – 1543)


Non risultano intitolazioni in suo onore

 

Donna nelle dispute sagacissima
di Alessandra Rossi

 

Nella divulgazione storica la figura di Maria Salviati risulta sempre un po’ oscurata dalla fama degli uomini che hanno fatto parte della sua vita, a partire dal marito, il famigerato e intraprendente Giovanni de’ Medici conosciuto come Giovanni dalle Bande Nere, fino ad arrivare al figlio, il primo Granduca di Toscana Cosimo I. Traspare dai testi e dalle rappresentazioni pittoriche l’immagine di una Maria devota al marito sempre lontano, costantemente  immerso nelle numerose imprese di guerra e, dopo la morte di quest’ultimo, di una vedova austera e priva di qualsiasi ricerca di eleganza e di ogni forma di vanità; emerge soprattutto l’immagine di una madre, consapevole del ruolo fondamentale che il figlio viene a ricoprire nella storia della famiglia Medici.
In realtà approfondendo la conoscenza di questa donna, si comprende quanto le sue azioni e la sua tempra abbiano influito sulla fama successiva di Giovanni, di Cosimo e, in generale, della stirpe medicea.
Maria nasce a Firenze il 17 luglio del 1499 da Jacopo Salviati e Lucrezia de’ Medici, primogenita di Lorenzo il Magnifico e appartiene, quindi, al ramo principale della casata Medici: quello di Cafaggiolo.
La vicenda individuale di Maria Salviati si inserisce in un periodo denso di importanti avvenimenti per la famiglia, dall’esilio da Firenze al ritorno al potere dopo la parentesi repubblicana, dal trionfo con l’elezione di papa Leone X alla crisi politica fra Clemente VII e Carlo V: la sua vita è condizionata irreversibilmente dal repentino susseguirsi di questi eventi. 
Maria entra molto presto in contatto con quello che sarà il suo futuro sposo: nel 1509, infatti, il piccolo Giovanni de’ Medici è affidato a Jacopo Salviati quando sua madre, Caterina Sforza, è prigioniera di Cesare Borgia a Roma. Giovanni appartiene al ramo mediceo dei popolani e un futuro matrimonio tra i due ragazzi sancirebbe il ricongiungimento dei due rami della casata: Maria e Giovanni effettivamente si sposano nel 1516.
Il cospicuo epistolario di Giovanni dalle Bande Nere ci restituisce l’immagine di un uomo audace ma anche piuttosto intemperante, tanto presente e indubbiamente fondamentale per il mantenimento dello spirito di corpo sui campi di battaglia, quanto assente nella gestione dei delicati rapporti diplomatici e nelle questioni finanziarie che coinvolgono la famiglia.
Maria scrive al marito e lo informa, ma raramente riceve risposta: “io non havevo a chi commettere una faccenda et qui non capita più persona: et dalla V.S. non ho mai hauto risposta alcuna […]”, gli scrive in una lettera datata al 10 gennaio del 1521. Fin da giovane Giovanni si distingue per il suo carattere impulsivo e focoso: una delle sue tante amanti, una tale Donna Paola evidentemente da lui abbandonata, gli scrive in una lettera dell’agosto del 1526, “Hor si conoscerà quanto V.S. duri in un’affittione!”.
Maria ha in mano la situazione della sua famiglia e ci appare una donna ferma, capace di assumere ruoli decisivi in più di una occasione. Probabilmente è grazie anche a una sua minuta di supplica, del 5 dicembre 1523, se l’anno successivo il nuovo papa Clemente VII estingue i debiti di Giovanni a patto che egli, momentaneamente ingaggiato dagli imperiali, passi con i Francesi. Anche quando nel 1527 è costretta ad allontanarsi da Firenze e a vivere esule, con il piccolo Cosimo a Venezia, riesce ad amministrare il patrimonio a disposizione sua e del figlio e “a portare avanti – come spiega Bruce Edelstein – la produzione agricola e tessile della tenuta [della villa medicea di Castello N.d.R.] unico vero bene di cui avrebbe potuto disporre Cosimo”.
Maria gestisce tutto e nel frattempo impiega ogni sua energia in quello che comprende essere il compito fondamentale: l’educazione del figlio Cosimo. Non si tratta solo di istinto materno ma, più probabilmente, Maria coglie l’importanza storica del ruolo che dovrà ricoprire suo figlio.
Uno degli esempi più eclatanti della sua consapevolezza politica e della sua lungimiranza si trova nelle lettere che scambia con Pietro l’Aretino dopo la morte del marito Giovanni avvenuta nel 1526 combattendo contro i Lanzichenecchi. In una di queste missive Maria, infatti, afferma: “Sono certa che la morte sua, sì immatura ed inopinata vi duole; et se la duole a voi, che a me ella passa l’anima et il core; et fammi tanto male, che io non credo vi sia al mondo bene che lo pareggi. […] Non vi sia dunque grave per amor mio entrare in questa impresa […] et a me basta che descriviate solo ciò che havete tocco con mano de sua invitta eccellentia. Però, se mai pensate farmi cosa grata, descrivete in qualunque modo vi pare li quattordici anni che Sua Signoria ha sì francamente combattuto et li altri quattordici farò notare io, cominciando dalle fasce, da chi lo ha allevato, et visto segni in lui che pronosticavano lo invitto et magno animo suo.”

Maria è consapevole di quanto sia importate tramandare le gesta e le imprese perché queste siano conosciute e ne sia riconosciuto il valore. È ancora giovane quando rimane vedova, ha solo 27 anni, preferisce non risposarsi, anche se le sue famiglie di origine, Medici e Salviati, avrebbero preferito lo facesse. Non vuole perdere suo figlio Cosimo, che in caso di nuovo matrimonio avrebbe dovuto lasciare, e in questa sua scelta consapevole è determinata e irremovibile.

Ora è una vedova e le uniche immagini che ci rimangono di lei, in due quadri di Pontormo, ci trasmettono la dimensione di austerità in cui si chiude dopo la morte del marito. Mai come ora tutti i suoi sforzi sono proiettati verso la legittimazione del ruolo che il figlio Cosimo deve ricoprire: quello di vero erede della stirpe medicea. Cosimo riceve un’educazione non solo militare ma anche letteraria; la madre provvede a farlo viaggiare (lo invia, per esempio all’incoronazione di Carlo V a Bologna nel 1530) e lascia che soggiorni presso le corti straniere, anche per sottolineare agli occhi dei Signori e dei Principi come nel figlio sia racchiusa la risoluzione dei problemi dinastici della famiglia Medici.
Effettivamente nel 1537, quando il duca di Firenze Alessandro de’ Medici, la cui carica è piuttosto controversa per la sua ambigua condizione di erede illegittimo della famiglia, viene assassinato, è il diciassettenne Cosimo a essere nominato ufficialmente secondo Duca di Firenze e, tempo dopo, primo Granduca di Toscana. È lui a dare vita a un dominio che si estinguerà solo con l’estinguersi della dinastia.
Maria vede così compiersi il suo destino e il destino della sua famiglia, per le cui sorti tanto ha lottato. Ora può allontanarsi dalla vita pubblica di Firenze, nella villa di Castello dove era cresciuto suo marito Giovanni, e, nonostante le cattive condizioni di salute, dedicarsi alla cura e all’educazione delle/dei nipoti: Bia, che definisce “il sollazzo della corte”, la figlia naturale di Cosimo, poi Maria, la prima nata dal matrimonio di Cosimo con Eleonora di Toledo, Francesco, l’erede del potere mediceo, Isabella, la figlia prediletta del Duca, infine Giovanni, nato poco tempo prima della morte della nonna. 
Si spegne il 29 dicembre 1543 annientata dalla sifilide, la malattia che le era stata trasmessa dal marito e che l’aveva accompagnata per molto tempo della vita fino a intensificarsi terribilmente negli ultimi tre anni della sua esistenza. Il figlio Cosimo, avvertito all’ultimo momento dell’aggravarsi della madre, non fa in tempo a recarsi al suo capezzale per l’ultimo saluto. La salma viene trasportata a Firenze e sepolta nella tomba di famiglia nella chiesa di San Lorenzo a Firenze.

Quattro giorni dopo la morte, il ricordo di Maria fu rinnovato da un’orazione funebre pubblica declamata da Benedetto Varchi nell’Accademia fiorentina. Era questo un onore raramente attribuito alle donne e infatti Maria fu la prima donna fiorentina, e la prima appartenente alla casa Medici, a ottenere un simile omaggio. Le fu dedicato anche un testo biografico, composto dal Francesci e pubblicato a Roma nel 1545. La figura di Maria trovò spazio anche nella Storia fiorentina scritta da Benedetto Varchi e voluta da Cosimo I.

 

Fonti:

Benedetto Varchi, Storia fiorentina, Volume V, Milano, 1804
Dizionario biografico cronologico diviso per classi degli uomini illustri di tutti i tempi e di tutte le nazioni compilato dal professore Ambrogio Levati
, vol. III, pp. 118-119, Milano, 1822
Filippo Moisè, Lettere inedite e testamento di Giovanni de’ Medici detto delle bande nere con altre di Maria e di Jacopo Salviati, di principi, cardinali, capitani familiari e soldati, Archivio storico italiano, Firenze, 1858-1859, Documenti consultabili su 
http://www.cortedeirossi.it/letteregbn/

Cesare Marchi, Giovanni dalle Bande Nere, Rizzoli editore, 1981.

Carlo Capra, Storia moderna (1492-1848), Mondadori Education, 2004.
Bruce L. Edelstein, Eleonora di Toledo e la gestione dei beni familiari: una strategia economica? in
https://www.academia.edu/3728321/_Eleonora_di_Toledo_e_la_gestione_dei_beni_familiari_una_strategia_economica_
Maria Pia Paoli, Di madre in figlio: per una storia dell’educazione alla corte dei Medici , in https://www.academia.edu/4838459/Educazione_Medici_2008_testo_in_Annali_di_Storia_di_Firenze
Caroline P. Murphy, Isabella de’ Medici, Il Saggiatore, 2011.

Marcello Vannucci, Le donne di Casa Medici, Newton Compton editori, 2016.
https://www.jstor.org/stable/24308114?seq=1#page_scan_tab_contents

http://www.danielacavini.eu/maria-una-vita-per-cosimo/

http://www.treccani.it/enciclopedia/maria-salviati/

http://bia.medici.org/DocSources/Home.do
www.polomuseale.firenze.it/areastampa/files/.../Relazione%20FornaciariOK.pdf  

 
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Grazia Sanna Serra

(Iglesias (CI), 1915- 2000)

 

In occasione della mostra del 2016, il comune di Iglesias le ha intitolato la piazza del castello Salvaterra.

 

Una scrittrice sarda da riscoprire

 

di Laura Candiani

 

In Sardegna un'altra scrittrice di nome “Grassiedda”, oltre alla ben più nota Deledda, meriterebbe di essere ricordata: si tratta di Grazia Sanna, i cui libri tuttavia non sono usciti dall'ambito locale e attendono da molto tempo di essere ristampati e diffusi.

In vita sono comparsi tre romanzi, mentre di un quarto ci rimangono la trama e gli appunti indirizzati a uno sconosciuto “Giovanni” a cui confida le sue perplessità sui luoghi, le vicende e le tematiche trattate. Anche alcune poesie sono state ritrovate dalla figlia Maria Carmen, insieme ad un carteggio, il cui studio è stato affrontato da un'altra donna importante in questa vicenda: Laura Aru Pintus, curatrice di una bella mostra a Iglesias, in occasione della prima Fiera del Libro (22-25 aprile 2016). Dieci anni prima Iglesias l'aveva celebrata con un convegno nell'Archivio storico comunale dal titolo “La città raccontata da una donna: Iglesias nelle pagine di Grazia Sanna Serra” ; durante l'evento era nata l'idea di un concorso letterario in suo nome, che sembra però non abbia avuto seguito.

Ma veniamo a Grazietta; era figlia di una famiglia di commercianti di idee aperte; a Iglesias vivevano in una dimora storica, Casa Rodriguez, ancora oggi visibile nel centro della cittadina; poi si trasferirono a ridosso delle antiche mura in una villa circondata da piante di agrumi, dove attualmente risiede la figlia. In piena epoca fascista, la sua famiglia non si faceva troppo condizionare dal regime e la lasciava crescere libera di studiare, leggere, ascoltare musica, libera di uscire e persino di indossare il due pezzi in spiaggia, quando ancora era un indumento assai raro, per non dire proibito. Era una ragazza graziosa, dai bei capelli neri, dai lineamenti fini, come mostrano alcune fotografie in età giovanile. Aveva un carattere inquieto tanto che prima studiò presso il liceo musicale a Cagliari, che aveva deciso lei stessa di frequentare per la grande passione verso la musica e il pianoforte, poi lasciò questi studi per iniziare con altrettanta passione quelli di infermiera. Si diplomò e cominciò a lavorare presso la clinica pediatrica del prof. Giuseppe Macciotta a Cagliari. Riguardo alla vita sentimentale, si sa che aveva avuto un amore che però non si concretizzò con il matrimonio; a più di 30 anni conobbe un ufficiale dei carabinieri, Luigi Serra, che sposò nel 1950. Grazia allora smise di lavorare per dedicarsi alla famiglia e due anni dopo nacque la loro unica figlia, Maria Carmen.

Intanto cominciava saltuariamente a mostrarsi qualche sintomo del “male oscuro” che la accompagnò tutta la vita, un “male di vivere”, lo definisce la figlia, che emerse vistosamente una decina di anni dopo e tuttavia fu linfa vitale per le sue opere. Grazia infatti scrive, scrive, con entusiasmo e impegno, “febbrilmente”, come afferma lei stessa. «Togliermi di mano la penna è come togliere di mano il rosario a un santo», confessa nei suoi appunti inediti. Così prende vita il suo primo romanzo Il regno dei Pintadu, ambientato fra Nuoro e la fascia marina presso il golfo di Orosei, dove da bambina soggiornava in estate, ospite della zia; un paradiso perduto davvero perché la finzione ricalca dei fatti realmente accaduti, cioè la triste fine di alcuni terreni di proprietà della sua famiglia sommersi dalle acque della diga del fiume Cedrino. Evento da lei particolarmente sofferto e ricordato sempre con immenso dolore. La pubblicazione del romanzo non fu semplice: aveva contattato l'unico, allora, editore cagliaritano per posta e per telefono, ma era stata ignorata; non si perse d'animo e decise di andare personalmente a incontrarlo. Grazie alla cortesia della moglie, si fece ricevere e gli fece leggere qualche pagina dell'opera; l'editore si convinse immediatamente e lo stampò. Nello stesso anno della pubblicazione (1966) partecipò al Premio Deledda con un secondo romanzo inedito (I sudditi del Dio Rosso) che fu segnalato dalla giuria, ma rimase senza riconoscimento perché il premio non ricevette finanziamenti e fu sospeso. La seconda opera (pubblicata nel 1973) è ambientata nell'Iglesiente, nell'Ottocento, e descrive la comunità locale nelle sue contraddizioni sociali ed economiche. Grazia non disdegna i toni forti e qualche parola e situazione scabrosa, di cui non si scusa affatto con i lettori, anzi, nell'introduzione, afferma di non essere bigotta e di non scrivere né per i bambini né per gli imbecilli. Continuava intanto a dedicarsi anche alla poesia, tanto che alcuni suoi componimenti ricevettero il premio città di Firenze. Partecipò ad un altro concorso con una nuova stesura del secondo romanzo e lei stessa ricordava un aneddoto curioso: il concorso (dedicato alla poetessa Mercede Mundula) in realtà era per racconti e poesie, lei quindi si era sbagliata nel leggere il bando, tuttavia il suo romanzo piacque a tal punto che la giuria “inventò” un nuovo premio, assegnandole la medaglia d'argento.

Nel 1974 due eventi la segnarono profondamente: prima il matrimonio della amata figlia, poi la morte del marito; l'età avanzava e la salute non sempre la sosteneva ma Grazia, avvertendo il senso di vuoto e la solitudine, continuò a dedicarsi alle sue passioni: la lettura, la scrittura, la musica. Nel 1987 uscì la sua terza fatica, un'opera autobiografica (Tutto un mondo all'obiettivo) in cui racconta della sua famiglia, di sé e del suo ambiente; in seguito amava rivedere e rielaborare quanto già realizzato e che a lei, evidentemente, sembrava sempre non concluso.

La quarta opera era rimasta nel cassetto, forse perché non ne era convinta fino in fondo; la vicenda

era ambientata a Cagliari, nella clinica pediatrica in cui aveva lavorato in gioventù; tuttavia, essendo passato parecchio tempo, non era più sicura delle cure e della condizione di malati e medici, ma non voleva commettere errori nel testo. Ci teneva a sottolineare, nella lettera al signor “Giovanni”, che le protagoniste Benedetta e Maria Passione non erano riferibili a lei stessa e la situazione narrata non era autobiografica, anche se incentrata su un mondo che aveva ben conosciuto e amato.

Pur essendo stata apprezzata e stimata, pur avendo ottenuto lusinghieri giudizi e premi di varia natura, Grazia Sanna è rimasta una scrittrice sconosciuta ai più, anche agli stessi Sardi; nel 2016 il secondo romanzo ha avuto una piccola riedizione a uso locale, ed è un vero peccato. Anche le biblioteche pubbliche sono per lo più sfornite delle sue opere, come abbiamo potuto verificare. Probabilmente quando era il momento giusto, Grazia non trovò chi le desse fiducia e la “lanciasse” come meritava nel mercato della carta stampata. Speriamo che qualche editore sensibile e attento decida di riscoprirla.

 

Fonti:

 

Grazia Serra Sanna, Il regno dei Pintadu, Editrice sarda Fossataro, Cagliari, 1966 (con prefazione di Marcello Serra)
Grazia Serra Sanna, I sudditi del Dio Rosso, Edizioni 3t di Gianni Trois e figlio editori, Cagliari,1973

Grazia Sanna Serra, Tutto un mondo all'obiettivo, Ramagrafic editrice, Iglesias,1987

Gianmichele Lisai, Forse non tutti sanno che in Sardegna..., Newton Compton Editori, Roma, 2016

Grazia Sanna Serra, La scrittrice della città dell'argento, www.ladonnasarda.it (15-9-2016)

Una mostra ricorda Grazia Sanna Serra, www.tentazionidellapenna.com (30-4-2016)

La città sulle strade dell'arte, ricordo della scrittrice Grazia Sanna Serra, in “La nuova Sardegna” (22-4-2006)

Fiera del libro: scopriamo Grazia Sanna Serra, enricaena.blogspot.com (24-4-2016)

 

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Filiberta di Savoia

(1498 – Virieu, 1524)

Non risultano intitolazioni di strade e aree pubbliche in sua memoria

È lei la Gioconda?

di Barbara Belotti

I legami parentali intrecciati dai Medici con la famiglia Orsini, attraverso il matrimonio di Lorenzo il Magnifico con Clarice, avevano avuto lo scopo di aprire alla famiglia fiorentina le porte dello Stato della Chiesa per cominciare a tessere trame politiche anche in Vaticano. Si era trattato, inoltre, di un’unione che prometteva appoggi militari da parte degli Orsini, uomini d’arme da avere alleati al proprio fianco nei giochi dello scacchiere politico italiano. Su queste basi si era celebrato un secondo matrimonio, quello fra Piero, figlio di Lorenzo e Clarice, e Alfonsina Orsini.
Logico che a queste strategie, tutte interne alla politica italiana, si cercasse di affiancare un progetto dinastico di più ampio respiro che introducesse la famiglia Medici nelle grandi corti d’Europa.
Il primo passo fu quello delle nozze fra Filiberta di Savoia e Giuliano de’ Medici, ultimogenito di Lorenzo il Magnifico e Clarice Orsini.
Filiberta (1498 – 1524) è figlia di Filippo II di Savoia e di Claudina di Brosse. Alla nascita riceve il titolo di Marchesa del Gex, un possedimento del ducato di Savoia, al quale aggiunge in seguito quello di Signora di Fossano, Malaval, Bridiers, Thors, Fletz, Chasey, Poncin e Cerdon.
Quando sposa Giuliano, nel 1515, Filiberta ha 17 anni, lui 36, più del doppio della sua età.
Giuliano ha anche un figlio illegittimo, Ippolito, avuto da una relazione con Pacifica Brandano, una donna conosciuta alla corte di Urbino. La famiglia Medici sta risalendo la china, dopo il periodo di esilio seguito alla cacciata di Piero il Fatuo nel 1494, e l’elezione del fratello Giovanni al soglio pontificio, col nome di Leone X, rinforza le speranze di riaffermare l’antico prestigio.
Filiberta e Giuliano si incontrano in Francia il 1° gennaio 1515 per l’incoronazione di Francesco I: Filiberta è la zia del re, sorella di sua madre Luisa; Giuliano rappresenta il pontefice e sfoggia il titolo di duca di Nemours, concesso proprio da Francesco probabilmente su intercessione papale. Si sposano poco tempo dopo, prima a Parigi e poi, una seconda volta, al rientro a Firenze. La loro vita coniugale è di breve durata: Giuliano, che ha una salute cagionevole, muore nel marzo 1516 lasciando la moglie ancora molto giovane e senza un erede legittimo. Ludovico Ariosto dedica a Filiberta di Savoia la Canzone III: “Anima eletta che nel mondo folle,/ e pien d’orror, sì saggiamente quelle/ candide membra belle/ reggi, che ben l’alto disegno adempi/ del re degli elementi e delle stelle,/ che sì leggiadramente ornar ti volle/ perché ogni donna molle/ e facile a piegar nelli vizi empi,/ potesse aver da te lucidi esempi,/ che fra regal delizie in verde etade/ a questo d’ogni mal secolo infetto/ giunta esser può d’un nodo saldo e stretto/ con somma castità somma beltade:/ delle sante contrade,/ ove si vien per grazia e per virtute,/ il tuo fedel salute/ ti manda, il tuo fedel caro consorte,/ che ti levò di braccio iniqua morte.” Di Filiberta Ariosto celebra l’antico lignaggio e la grandezza del casato dei Savoia, ne canta le virtù morali e la fede religiosa. I versi si concludono con un saluto del marito Giuliano: “A queste fide parole/ a Filiberta mia scriva e rapporti:/ e prieghi per mio amor che si conforti”. Nelle annotazioni conclusive dei testi poetici viene riportato anche che la nobildonna “si diede nondimeno a vita ritirata e religiosa in un monastero da lei edificato”.
Filiberta resta ancora un po’ di tempo a Firenze, poi nel mese di luglio parte verso nord e si ferma nel castello di Carignano, ospite di Bianca Paleologa duchessa di Monferrato, che la accoglie con tutti gli onori. Ci dicono i documenti del tempo che la duchessa volle festeggiare l’arrivo della giovane vedova chiedendo ai suoi castellani di inviarle selvaggina e pescato in gran quantità per preparare raffinate portate per i banchetti. Filiberta ha intenzione di fermarsi per pochi giorni in Piemonte, ma una malattia la colpisce improvvisamente ed è costretta a fermarsi per più tempo.
In seguito i rapporti con la famiglia Medici e i contatti con la corte di Francia, sempre più intensi dopo il trasferimento nel palazzo parigino in cui vive la sorella Luisa di Savoia, permettono a Filiberta di seguire e assecondare le trattative per un altro matrimonio importante, quello fra Lorenzo, figlio di Alfonsina e Piero, e Maddalena de la Tour d'Auvergne.
Anche la vita di Filiberta di Savoia, come quella del marito Giulianbreve: muore a 26 anni in uno dei possedimenti francesi della famiglia Savoia, il castello di Virieu. È il 1524.
Nel libro Le donne di casa Medici Marcello Vannucci scrive: «Bella e saggia, ma su quelle sue qualità estetiche non tutti sono d’accordo. Troppo alta e curva nella persona; un volto dai lineamenti assai poco aggraziati: così ce la descrive qualcuno; altri però affermano il contrario: Filiberta di Savoia è una bella fanciulla». Di lei non rimangono molte immagini eppure recentemente è stata fatta un’ipotesi suggestiva. Nel 1515 Filiberta e Giuliano si trovano a Bologna, ospiti entrambi della famiglia Felicini, nota e potente casata di banchieri. A Bologna c’è anche Francesco I di Francia che ha condotto con sé un personaggio illustre, Leonardo da Vinci. Secondo alcuni storici il pittore, durante il soggiorno bolognese, avrebbe dipinto la “Gioconda” che, ma l’ipotesi è alquanto ardita, andrebbe interpretata come il ritratto di Filiberta duchessa di Nemours. 

Fonti:
Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Roma, 1999
Angelo Fraboni (a cura di), Rime e Satire di Ludovico Ariosto, tomo VIII, Firenze, 1824
https://it.wikipedia.org/wiki/Filiberta_di_Savoia
http://www.palazzo-medici.it/mediateca/it/Scheda_Giuliano_duca_di_Nemours
http://www.treccani.it/enciclopedia/giuliano-de-medici_(Dizionario-Biografico)
https://www.yumpu.com/it/document/view/42670775/filiberta-di-savoia-bresse-carignanoturismoit
http://cronologia.leonardo.it/savoia/sabdonne/donne3.htm
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/05/02/via-galliera-e-le-tracce-di-leonardo/108419/

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Caterina Scarpellini

(Foligno, 1808 - 1873)

Nello spazio celeste esiste un cratere del pianeta Venere intitolato a Caterina Scarpellini, una delle maggiori astronome italiane, e c'è una stella cometa da lei segnalata nel 1854 che è rimasta legata al suo nome. Sulla Terra, invece, sia Foligno, che le diede i natali, quanto Roma, sede della sua attività scientifica, sono ancora in forte ritardo nel rendere omaggio al suo intelletto. Il gruppo di Toponomastica femminile ha proposto al Comune di Roma un'intitolazione nell'ex XX municipio, attuale XV.

Omaggiata in cielo, dimenticata in terra
di Saveria Rito
 
"Nelle sere del 2, 3 e 6 [aprile] corrente la Cometa presentava una forte luce al centro del nucleo, il quale era circondato da larga nebulosità che ripiegandosi indietro formava la coda": così si apriva su Corrispondenza scientifica del 1854, l'articolo sull'avvistamento di una nuova stella già osservata da altri a Senftenberg, Londra e Parigi pochi giorni prima e "ravvisata il primo di aprile dalla sig. Caterina Scarpellini all'Osservatorio Astronomico della Romana Università sul Campidoglio". Quella stella, classificata come C/1854 F1, fu uno dei più importanti fenomeni astronomici documentati da Caterina Scarpellini.
Nata a Foligno il 29 ottobre 1808, si trasferì a Roma diciottenne per completare la formazione e fare da assistente allo zio Feliciano Scarpellini, nominato nel 1826 responsabile dell'Osservatorio astronomico sul Campidoglio. In quell'ambiente conobbe Erasmo Fabri, anche lui astronomo, che divenne suo marito e, caso eccezionale, aggiunse al suo cognome quello della moglie. La coppia continuò a lavorare nella sede capitolina anche sotto la guida di Ignazio Calandrelli e fondò nel 1847 la rivista "La Corrispondenza scientifica di Roma. Bullettino universale", che aveva come fine  "la propaganda della contemporaneità scientifica" e il coordinamento di istituti di ricerca degli stati italiani pre-unitari ed esteri (in modo particolare riceveva aggiornamenti dalle accademie francesi e inglesi). È su questa rivista che Caterina Scarpellini pubblicò la maggior parte dei suoi articoli: potremmo citare a mo' di esempio quelli sull'osservazione di un'altra grande cometa nel giugno 1861 e sul passaggio di Mercurio davanti al Sole nel novembre dello stesso anno, sull'eclissi totale di luna del giugno 1863, sugli sciami di stelle cadenti, ma anche su terremoti e piogge di sabbia verificatisi a Roma negli anni sessanta dell'Ottocento, che sono sicuramente tra i suoi scritti più celebri. La rivista destò anche qualche sospetto politico, che va inquadrato nel clima di un'Italia risorgimentale ancora divisa, e sul tormentato rapporto tra scienza e potere, qualche tempo dopo, Caterina Scarpellini avrebbe scritto nell'incipit della biografia di Ignazio Calandrelli:
"Una lotta perfidiosa e indomabile tra la scienza e la ignoranza, fra la sapienza e l’astuzia fu e sarà sempre perpetua in questa valle di lagrime. - Ma la sapienza, forte di luce della ragione interminabile e della coscienza del ben fare, non soccomberà giammai alle insidie della insipienza e del dispotismo, che puntellandosi a vicenda altro non sono che l’origine maledetta dei mali degli uomini”.
Nel 1856, inoltre, ebbe l'idea di istituire una stazione ozonometrica e meteorologica privata presso l'osservatorio del Campidoglio, cui seguì la pubblicazione di un "Bullettino delle osservazioni ozonometriche-meteorologiche" per divulgare i dati da lei raccolti quotidianamente, e si occupò anche di rilevazioni idrometriche e idrotermiche del fiume Tevere. Le misurazioni del livello di ozono a Roma la portarono a teorizzare, col chimico Paolo Peretti, una relazione tra l’aumento di tale gas nell'aria e la diminuzione della diffusione del colera in città nel 1867.
Per il suo alto contributo scientifico, l'astronoma Scarpellini ricevette la medaglia d'oro del Regno d'Italia nel 1872, venne accolta nell'Accademia dei Georgofili di Firenze e in quella dei Quiriti di Roma e ottenne numerosi riconoscimenti anche all'estero.
Morì a Foligno il 28 novembre 1873.

Fonti:
Caterina Scarpellini  in Dizionario biografico delle scienziate italiane (secoli 18. -20.). Volume 2: Matematiche, astronome, naturaliste, a cura di Sandra Linguerri, Bologna, Pendragon, 2012, pp. 184-187.
Elisabetta Mattei, Caterina Scarpellini, una cometa sul Tevere, in Roma. Percorsi di genere femminile, Volume 1, a cura di Maria Pia Ercolini, Pavona di Albano, Iacobelli, 2011, pp. 134-135.
Simonetta Schirru, Scarpellini Caterina in Donne del giornalismo italiano, a cura di Laura Pisano, Milano, Franco Angeli,  2009, p. 338.
La Corrispondenza scientifica di Roma. Bullettino universale, a. 1854, numeri 10-11, pp. 84-85.

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Teresa Schemmari

(Noto (SR), 1952 - 1997)

Dopo la morte le è stato intitolato il Centro Giovanile con Servizio Informagiovani da lei ideato per il Comune di Noto. Il 21 febbraio 2016 è stata intitolata a Teresa Schemmari una pianta di jacaranda del “Giardino delle Giuste e dei Giusti” dell’Istituto “Matteo Raeli”; nel maggio dello stesso anno le è stato intitolato l’asilo-nido comunale.

Una vita tra amore, antropos e agorà

di Elinpaola Murè

Teresa Schemmari è nata a Noto il 15 aprile 1952. Bambina bella, intelligente e molto vivace è la terzogenita di Carlo, medico odontoiatra, e di Lucia Basile. All’età di 5 anni una caduta evidenzia una malattia congenita (ilmorbo di Albright), una forma di osteoporosi pseudocistica che determina la frattura delle ossa, anche senza una caduta vera e propria. La fanciullezza trascorre tra gessi, interventi ortopedici e carrozzelle.

A 7 anni frequenta con la sorella minore Maria la scuola elementare ma, a seguito delle continue fratture, Teresa è costretta a rimanere in casa, continuando gli studi da autodidatta. La sua disabilità fisica non l’ha mai ostacolata nell’affrontare intrepidamente la vita.

Anni dopo, nell’anno accademico 1982-1983 consegue la Laurea in Filosofia presso l’Università di Catania con 110 e lode discutendo una tesi incentrata sulla Logique di Alphonse Gratry (1805-1872), un epistemologo francese convertitosi al cattolicesimo e studioso di scienze matematiche e logiche. Il prof. Antonio Brancaforte, suo relatore, le chiede di fargli da assistente nelle lezioni di Antropologia culturale presso la Scuola di Servizio Sociale “Santa Caterina da Siena” di Noto.

Questa esperienza le permette di appassionarsi all’Antropologia culturale e di approfondire lo studio della realtà sociale di Noto, con il misterioso mondo dei Caminanti, stabilmente presenti dal 1952.

Proprio con una ricerca su “Caminanti nomadi di Sicilia” Teresa consegue la seconda laurea in Sociologia presso l’Università di Urbino con 110 e lode e la proposta di pubblicazione della tesi.

Gli studi universitari, unitamente al cammino di fede intrapreso con i Neocatecumenali, fanno evolvere la sua nascente religiosità in fede. Da antropologa sostenuta dalla fede riesce ad andare oltre, fino a vivere l’incontro con realtà diverse come quella dei Caminanti di Noto.

Indagando a fondo sulla loro organizzazione sociale e lavorativa, sui matrimoni, sul significato della morte, sull’origine e sulla denominazione della loro lingua, la ricerca non si è limitata alla semplice osservazione, ma è stata un vero e proprio ingresso nel tessuto culturale di questa etnia. Il lavoro antropologico di Teresa lancia la sfida di rispettare la radicale alterità dell’altro cogliendone le ricchezze.

Nel 1995 entra a far parte del Centro UNESCO di Catania e forma a Noto una sezione e nello stesso anno riceve dal Sindaco di Noto l’incarico di Dirigente del settore della Solidarietà Sociale e del Servizio Scuola. Si apre per lei la possibilità di vivere, con le parole della filosofa Hannah Arendt, “accanto alla sua vita privata una sorta di seconda vita, il suo biòs politikòs”.

Teresa innova radicalmente il settore dei Servizi Sociali impostando il futuro Centro Giovanile con il Servizio Informagiovani, volto ad assicurare assistenza e guida alle giovani generazioni desiderose di avviare nuove attività lavorative con gestione imprenditoriale. Nel marzo del 1996 ha pubblicato Puisìa, una silloge di versi in dialetto netino e in italiano.

Teresa ha vissuto intensamente il reale facendo le cose ordinarie, le più ordinarie, in modo straordinario.

Durante l’anno scolastico 2013-2014, l’Istituto d’Istruzione Superiore “Matteo Raeli” di Noto ha partecipato al Concorso nazionale “Sulle vie della parità” indetto da Toponomastica Femminile presentando un lavoro dal titolo Teresa Schemmari tra Amore, Antropos e Agorà e vincendo il primo premio per la sezione digitale. L’anno scolastico successivo il progetto è stato completato attraverso l’allestimento di una mostra Per raccontare Teresa: corpi, luoghi, immagini, (articolata in tre sezioni: fotografia- installazione e pittura- video, realizzate dai ragazzi degli indirizzi Artistico, LES e Scientifico) e l’organizzazione di un Convegno, dopo il quale è stata apposta, presso l’abitazione di Teresa, una targa commemorativa in ricordo del suo impegno culturale, politico e sociale nella storia di Noto.

 

 

Pubblicazioni di Teresa Schemmari

 

Ceramica popolare, in La ceramica moderna, Faenza dicembre 1983.

Il ruolo delle donne per una società più giusta, in La vita diocesana, Noto 26/4/1987.

Essere donna oggi, in Corriere Elorino, Rosolini 1>15/4/1987.

Corrado Curcio, Netum, Noto dicembre 1981.

Noto accanto ai piccoli e agli anziani, in La vita diocesana, Noto 19/1/1986.

Natale con gli anziani, inLa vita diocesana, Noto 27/1/1985.

Artigianato femminile da riscoprire, in La vita diocesana, Noto 11/10/1987.

Pierantonio Tasca: il piccolo Bellini, in La vita diocesana, Noto 20/5/1984.

Anna Marziano, in La vita diocesana, Noto 25/11/1984.

Religione e Società, in La vita diocesana, Noto 26/7/1985.

Ho trovato il senso della croce, in La vita diocesana, Noto 31/7/1988.

Ma tu sei per l’handicap? in La vita diocesana, Noto 10/9/1989.

Chi sono e da dove vengo, in La vita diocesana, Noto 8/1/1989.

Il cambiamento dei servizi e dei valori per assicurare il diritto alla diversità, in Asteroid, Augusta marzo 1992.

Il soggetto con Handicap supera i disagi solo se la società comprende i suoi valori, Diari doc, Siracusa 21/3/1992.

La politica è anche "donna", Diario doc, Siracusa 29/2/1992.

Il mondo dei Caminanti, Zingari oggi, Torino aprile 1993.

Esperienza Estiva per i Caminanti, Zingari oggi, Torino dicembre 1992.

I Caminanti di Noto, Zingari oggi, Torino febbraio 1993.

Quando la storia diventa eternità, in La vita diocesana, Noto 3/3/1991.

Per meglio sapere come vivono i Caminanti bisogna partecipare attivamente alle loro usanze, Diario doc, Siracusa 7/2/1992.

Chi sono e da dove vengono i Caminanti che rifiutano l'appellativo di zanni, Diario doc, Siracusa 22/2/1992.

I Caminanti: realtà ed immagine, in Alveria, Noto 25/12/1989.

Dei seminomadi a Noto: problema sociale ma soprattutto etico ed antropologico, in Elorino n. 3, Rosolini 1>15/2/1990.

I Caminanti: aspetti di una cultura, Conferenza del 17/11/1990, Noto, in Lacio Drom n. 2 Roma 1991.

I Caminanti che si fermano a Noto, in La città, Noto gennaio 1991.

I Caminanti: aspetti di una cultura, in Corriere Elorino, Rosolini 1>15/2/1991.

Caminanti Siciliani, in Setteppì, Noto 19/5/1991.

Il popolo fantasma, in Cronache parlamentari siciliane, Palermo luglio 1991.

Analfabeti d'antica cultura, in La Sicilia, Catania 23/7/1991.

Caminanti Siciliani, in Zingari Oggi n. 4, Torino agosto>ottobre 1991.

Sicilia senza tempo, in Espresso Sera, Catania 12-13/12/1991.

Il popolo nomade nella nostra Noto, in La vita diocesana, Noto 3/1/1991.

Esseri, in AA.VV., Caleidoscopio, Gugnali, Rosolini 1992.

Vindicari, di G.L. Danzuso e G. Gambino, Sanfilippo, Catania 1991(collaborazione).

I Caminanti. Nomadi di Sicilia, Firenze Atheneum, Fi 1992 (saggio), Premio Medaglia d'oro  "I migliori dell'anno 1992", "Scena Illustrata" e 2° premio “Calabria '79", 1993.

Puisìa, Pungitopo, 1996.

 
Fonti

Antonio Brancaforte, Teresa Schemmari. Fides et Ratio: una sintesi felice, in Testimoni di vita cristiana del XX secolo nella chiesa di Noto, La Vita diocesana, Diocesi di Noto, gennaio 2001.

Francesca Gringieri Pantano, Teresa Schemmari in Le Siciliane, Emanuele Romeo Editore, marzo 2006.

Atti della Mostra-Convegno-Intitolazione Teresa Schemmari tra Amore, Antropos e Agorà, Istituto di Istruzione superiore “Matteo Raeli”- Noto, 2015.

 

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Maria Antonia Serra Sanna

(Nuoro, 1866 - Luogo e data di morte sconosciuti)

Non risulta alcuna intitolazione

"Sa Reina" nuorese

di Laura Candiani

A fine Ottocento il Nuorese era percorso da briganti i cui nomi evocavano puro terrore: Antonio Mulas, Giuseppe Pau, Tomaso Virdis,Vincenzo Fancello, Paolo Solinas e i temibili Serra Sanna: Giacomo, Elias e la sorella Mariantonia, detta “sa Reina”(la regina). Questi banditi, a capo di centinaia di uomini, spesso emanavano veri e propri “bandi” a cui la popolazione doveva sottostare se non voleva incorrere in punizioni tremende ed esemplari.
Nel 1899 il capitano Giuseppe Petella e il tenente Giulio Bechi si misero accanitamente sulle loro tracce, in una “caccia grossa” come quelle che si facevano ai cinghiali; il presidente del Consiglio dell'epoca Luigi Pelloux inviò in Sardegna truppe allo scopo di annientare definitivamente la piaga del brigantaggio e nei primi mesi della “caccia alcuni risultati cominciano a vedersi” con l'arresto di numerosi latitanti.

Si sa che dietro le azioni di Elias e Giacomo, fratelli amatissimi, c'era Mariantonia, la mente organizzatrice di furti, omicidi, vendette. Nella fama popolare, tramandata anche da Grazia Deledda, viene descritta molto bella, alta e robusta, dai lineamenti fini, pallida, con due grandi occhi neri e due sopracciglia folte, spietata e diabolica. Quando incedeva per le vie con il ricchissimo costume tradizionale, accompagnata dalle serve, incuteva rispetto e timore e qualcuno si inchinava come fosse una vera regina.
La famiglia aveva fatto fortuna: il padre Giuseppe detto Peppeddu, noto con il soprannome “Carta”, era stato un pastore poi diventato possidente con case, vasti terreni, animali. Il patrimonio era gestito da Mariantonia che usava metodi infallibili per incrementarlo: visitando amici e conoscenti chiedeva gentilmente a nome dei fratelli piccoli favori e doni concreti (armi, munizioni, soldi, bovini e ovini) che naturalmente non potevano essere rifiutati; lei poi rilasciava regolare ricevuta. Fra il 1897 e il '99 le visite di cortesia furono particolarmente frequenti e spesso “sa Reina” si faceva accompagnare da una amica bella, istruita e ambiziosa: Giuseppa (Peppa) Lunesu. Si racconta che si fosse innamorata di un bandito piuttosto insignificante ma che per lei avesse perso la testa un carabiniere, trasferito in breve tempo nel continente per non portare disonore all'esercito regio.

Ufficialmente Mariantonia conduceva una vita regolare, non si era data alla macchia come i fratelli proprio per avere libertà di azione e poterli supportare nella latitanza; si racconta che indossasse talvolta abiti maschili per raggiungerli a cavallo nei luoghi impervi del Supramonte dove si nascondevano. Una sola volta era stata arrestata ed era rimasta in carcere alcuni mesi, nel 1895; poi l'accusatore, terrorizzato dalle possibili conseguenze, aveva ritrattato e lei era stata rilasciata.

Nel 1899 la lotta al banditismo venne animata da vero furore: il prefetto di Sassari, il conte Giovanni Battista Nepomuceno Cassis, voleva arrestare tutti i latitanti (ma solo a Nuoro se ne contavano circa 200) e procedeva con metodi ritenuti anche all'epoca discutibili e soprattutto inefficaci. Per ritorsione e come minaccia arrestava i parenti dei ricercati, ritenuti sempre dei fiancheggiatori; le fonti informano che addirittura sul quotidiano “La nuova Sardegna” fu inserita una apposita rubrica dal titolo significativo:” Testa di Cassis”.
Si arriva ad un momento chiave: la notte fra il 14 e il 15 maggio 1899 passò alla storia come la “notte di san Bartolomeo” sarda perché portò a circa 600 arresti, proseguiti anche nei giorni successivi; tuttavia almeno la metà degli imputati furono subito messi in libertà, gran parte dei rimanenti furono prosciolti per mancanza di prove. Mariantonia, che allora aveva 33 anni, e il padre vennero catturati nella loro abitazione e portati via fra lo stupore generale.
Poco tempo dopo l'azione si spostò nelle campagne e sui monti. A Morgogliai, a circa 30 km. da Orgosolo, fra il 9 e il 10 luglio avvenne uno scontro epico in cui persero la vita sia Giacomo, di 34 anni, sia Elias che di anni ne aveva 27. Per loro si mobilitarono forze ingenti, più di 200 fra carabinieri e soldati guidati dal capitano Petella e dal brigadiere Cau.

Mariantonia seppe in carcere della morte dei fratelli e si chiuse nel suo immenso dolore. Fu condannata a 20 anni, la pena più dura fra tutte quelle comminate agli arrestati di maggio (rimasti circa 150), e ne scontò 18 nella cupa prigione la “Rotonda” di Nuoro (oggi abbattuta).
Si sa che al suo rilascio, ormai cinquantenne, si sposò con un uomo di Orgosolo, fratello di una compagna di cella, e vissero insieme per un certo periodo a Nuoro. Poi anche i familiari ne persero le tracce e non ne seppero più nulla.

 

Fonti

 

Giulio Bechi, Caccia grossa: scene e figure del banditismo sardo, Ilisso, Nuoro, 1997

Brigaglia, Mastino, Ortu, Storia della Sardegna, Laterza, Bari, 2006

Grazia Deledda, Cosima, Mondadori, Milano,1998

Franco Fresi, Le banditesse. Storie di donne fuorilegge in Sardegna, Il Maestrale, Nuoro, 2015

Giovanni Ricci, Sardegna criminale, Newton Compton editore, Roma, 2007

www.ladonnasarda.it

www.sandalyon.eu
www.rivistadonna.com

www.webalice.it

 

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Caterina Sforza

(Milano, 1463 – Firenze, 1509)

L’odonomastica italiana ricorda Caterina Sforza con una piazza a Roma e con vie nei centri di Forlì, Forlimpopoli, Imola e San Mauro Pascoli.

La virtù meravigliosa di trovare tempo per tutto e tutti
di Barbara Belotti

Ci sono molte figure femminile nei primi anni della vita di Caterina Sforza.
Prima di tutto Lucrezia Landriani, sua madre, che l’ha avuta da una relazione con Galeazzo Maria Sforza; poi la nonna Bianca Maria Visconti che si prende cura di lei, la segue amorevolmente e la educa ai doveri e agli onori del suo ruolo. Infine Bona di Savoia, la moglie del padre, che la accoglie all’età di cinque anni mostrandosi gentile e amorevole. Con lei resterà un rapporto affettuoso per tutta la vita.
Nonostante sia una figlia illegittima, riceve un’educazione accurata e Caterina si rivela un’allieva interessata, desiderosa di conoscere e comprendere e dotata di grande memoria; studia la lingua latina e conosce i classici, si appassiona alle scienze, soprattutto la botanica e la chimica. Al contrario delle altre ragazze, Caterina subisce il fascino dei combattimenti e delle armi che impara a usare forse ereditando il gusto dal padre e dalla nonna Bianca Maria.
Malgrado Galeazzo sia un uomo dispotico e prepotente, con lei sembra premuroso e attento, alla sua morte Caterina proverà un profondo dolore. Certo, lui la considera una pedina da manovrare per creare alleanze dinastiche favorevoli ai suoi progetti politici, ma questo accade in tutte le famiglie del tempo. Caterina è conscia del suo ruolo e si dimostra, a tempo debito, ubbidiente e decisa nell’accettare il proprio destino; non si dimostrerà, però, passivo strumento nelle mani altrui, anzi saprà essere protagonista di tante vicende storiche e politiche.
Uno dei primi avvenimenti pubblici a cui partecipa è il viaggio a Firenze compiuto nel 1471 insieme al padre Galeazzo e a Bona di Savoia per visitare la famiglia Medici. La corte milanese si muove con gran pompa: carri rivestiti con tessuti d’oro e d’argento, moltissimi cavalli riccamente bardati, 100 uomini armati, 500 fanti, 50 staffieri vestiti di seta e argento, 500 coppie di cani e moltissimi falconi e sparvieri per la caccia; con la famiglia ducale, inoltre, un lungo seguito di aristocratici e cortigiani. Nonostante lo sfarzo mostrato dalla corte milanese, la famiglia Medici sa dare il meglio di sé. Accoglie gli ospiti con il suo tesoro di opere e oggetti preziosi e raffinati, dimostrando uno stile e una cultura che non ha pari; anche la città è coinvolta e sono allestiti tre spettacoli di carattere religioso, ciascuno in una importante chiesa: l'Annunciazione a San Felice in Piazza, l'Ascensione in Santa Maria del Carmine, la Pentecoste in Santo Spirito; per le rappresentazioni delle prime due vengono utilizzate delle macchine (ingegni) il cui progetti sono attribuiti da Vasari a Filippo Brunelleschi. Se ospiti e invitati restano colpiti dall’eleganza di quelle giornate, è probabile che ugualmente la piccola Caterina sia affascinata da quanto visto a Firenze e nella corte medicea; d’altra parte anche lei vive in una corte immersa nel clima umanista, conosce artisti e letterati che frequentano e animano il ducato di Milano. La città e la famiglia toscana, che conosce in questa occasione, torneranno nella sua vita di donna anche se lei, ancora bambina, questo non può ancora saperlo.
Alcuni anni dopo Caterina viene data in sposa a Girolamo Riario, nipote di papa Sisto IV; il contratto di fidanzamento è firmato nel 1473, il matrimonio celebrato per procura a Milano ma solo nel 1477, quando Caterina raggiunge “un’età conveniente”, si unisce al marito.
È giovane e bella. Le vengono attribuiti molti ritratti, ma la critica è più concorde nel rintracciare le sue sembianze nel quadro La dama dei gelsomini di Lorenzo di Credi, dipinto presumibilmente tra il 1485 e il 1490. L’opera raffigura una giovane donna dai capelli biondi con alle spalle un doppio scenario: sulla destra colline e rocce dietro a uno specchio d’acqua, sulla sinistra una costruzione turrita che si specchia in un fiume. La fanciulla ha tra le dita affusolate delle mani alcuni gelsomini, forse da associare agli interessi di Caterina per la botanica, la chimica e i rimedi naturali sia nella cosmesi che in medicina. In un suo recente studio la storica dell’arte Magdalena Soest ha proposto una suggestiva ipotesi sulla base di una certa somiglianza fra questo quadro e i ritratti di Leonardo: La dama dei gelsomini di Lorenzo di Credi raffigurerebbe la contessa Sforza da giovane, mentre la Gioconda leonardesca sarebbe un successivo suo ritratto in età più matura.
In una delle prime biografie su Caterina, Pier Desiderio Pasolini racconta: “Era in lei (scrivono i contemporanei) una virtù meravigliosa per trovare tempo per tutto e per tutti. Nonostante le cure della famiglia, dei figlioli, della corte, della politica, trovava modo di leggere molto, e pare che più che altro leggesse libri storici e divoti”. E ancora: “Caterina è l’ideale della virago cantata dal Boiardo, dall’Ariosto e dai poeti romanzeschi. Caterina è l’ultimo, ma forse il perfetto tipo dell’eroina cavalleresca del medioevo. Essa è grande nella storia non già per aver iniziato tempi nuovi, ma per avervi spiccato come figura antica”.
Una figura degna di vivere tra le pagine dei grandi poemi cavallereschi: come scrive Joyce de Vries nel Caterina Sforza and the art of appearances il termine virago mette in evidenza i tratti duplici del personaggio, quelli femminili e quelli maschili che si alternano nel corso della vita.
Come moglie si mostra figura rispettabile, elegante e colta: commissiona opere, fa realizzare architetture, colleziona oggetti preziosi; a Roma, pur ancora molto giovane, è un personaggio di spicco nella corte di Sisto IV. Raffinata come è, frequenta artisti, letterati, musicisti e si trova al centro della considerazione anche del pontefice; partecipa a cerimonie pubbliche, ricevimenti, visite diplomatiche, nei territori romagnoli contribuisce a trasformare il volto dei centri urbani rafforzando la rocca di Imola, costruendo edifici difensivi, palazzi e ville secondo il gusto elegante del Rinascimento. A Milano, quando torna per mantenere vivi i legami familiari e politici con la famiglia d’origine, ha modo, presumibilmente, di conoscere e seguire i lavori e le ricerche, anche scientifiche, di Leonardo. La passione per le scienze la accompagna lungo tutta la vita e, nonostante i grandi impegni politici e militari che deve affrontare, non abbandona i suoi studi e i suoi interessi riuscendo negli anni a raggiungere un’esperienza e una conoscenza tali da potersi confrontare con medici e scienziati del tempo.
Ben diversa è, invece, l’immagine che ci tramanda la storia al momento della morte di Sisto IV, nell’estate del 1484, quando tumulti popolari e disordini terrorizzano Roma. Le biografie ricordano una Caterina audace e determinata nel raggiungere Castel Sant’Angelo e rivendicare il ruolo di governatore del marito Girolamo; la sua è la difesa estrema del potere che sembra vacillare e, a capo di un contingente di soldati, si dimostra capace di resistere dodici giorni prima di arrendersi.
Gli stessi tratti ardimentosi li mostra alla morte di Girolamo Riario, ucciso in una congiura il 14 aprile 1488: in pochi giorni riesce a passare dalla condizione di prigioniera a signora dei territori di Forlì e Imola. Il 30 dello stesso mese diventa reggente di quest’area della Romagna per conto del figlio Ottaviano, ancora troppo piccolo per poter esercitare il potere, e si trasforma ancora una volta proponendo di sé una doppia immagine, quella di vedova fedele e di reggente determinata. Vendica la morte del marito mettendo in prigione chiunque abbia appoggiato la congiura contro di lui, distrugge le abitazioni delle famiglie contrarie al suo potere e distribuisce i loro beni fra la popolazione povera. Dopo la vendetta Caterina, che ha le terre di Imola e Forlì sotto il suo diretto controllo, può dedicarsi alla politica e al governo non solo stabilendo alleanze strategiche, ma prendendo decisioni per il suo Stato: rivede il sistema fiscale, riduce o elimina alcuni dazi, controlla le spese, si dedica all’approvvigionamento delle truppe militari e al loro addestramento. Per la sicurezza dei suoi territori, situati in una posizione di passaggio obbligato fra il Nord e il Sud Italia, sa che gli apparati militari hanno una funzione strategica, anche se Caterina sceglie di rimanere neutrale in questo periodo di forti tensioni fra il regno di Napoli e il Ducato di Milano.
Terribile e indomabile si dimostra in un’altra occasione, quando nel 1495 viene ucciso in un agguato il secondo marito, Giacomo Feo, sposato con nozze segrete per non perdere la tutela del figlio e il controllo del governo. Le punizioni per chi ha tradito sono feroci, secondo le testimonianze storiche addirittura superiori per durezza alle repressioni per la morte di Riario. Caterina Sforza compie scelte e si attribuisce compiti e impegni più di quanto non sia necessario per un uomo e, scrive ancora Joyce de Vries, il suo volto pubblico sembra gestito da lei in modo tale da contrastare la disapprovazione sociale che accompagna le posizioni di comando di una donna.
La vita di Caterina Sforza ha molte fasi, tutte ugualmente importanti e dense di avvenimenti.
La “terza vita” comincia quando incontra l’ambasciatore della Repubblica di Firenze, Giovanni de’ Medici detto il Popolano, membro di un ramo collaterale della famiglia. Questo terzo matrimonio viene celebrato nel 1497, Caterina ha 34 anni, Giovanni 30, dalla loro unione nasce Ludovico. La loro storia è destinata a durare poco, Giovanni si ammala improvvisamente e a nulla servono le cure e il trasferimento a Santa Maria in Bagno, dove si spera che le acque termali possano avere un effetto benefico. Caterina è al suo capezzale e lo assiste fino alla fine, avvenuta il 14 settembre 1498; dopo la scomparsa decide di mutare in Giovanni il nome del figlio, in memoria del padre.
Sono momenti difficili per la storia d’Italia e Caterina non può far prevalere il suo dolore sul ruolo politico e militare. Prima si scontra con l’esercito di Venezia che attacca Forlì poi, nel 1499, si prepara ad affrontare le truppe di Luigi XII re di Francia: rinforza le rocche, fa scorte di viveri per sopportare l’assedio, addestra i soldati e fa nuove reclute. La minaccia è davvero fortissima, guida l’esercito francese Cesare Borgia che vuole la Romagna tutta per sé.
La più bella, la più audace e fiera, la più gloriosa donna d'Italia, pari se non superiore ai grandi condottieri del suo tempo la definisce Cecilia Brogi nel suo libro su Caterina Sforza; e così la descrivono le cronache del tempo che raccontano come, per molti giorni, riesca a contrastare con successo l’assedio dell’esercito francese, cercando di contrattaccare in ogni modo. Cesare Borgia ha la meglio solo il 12 gennaio 1500, dopo aver bombardato per sei giorni consecutivi la Rocca di Ravaldino. “Magnanima impresa” fu definita da Machiavelli la strenua difesa di Caterina Sforza; e ben le calza l’appellativo di Tygre che le cronache del tempo le assegnano.
Caterina, una volta catturata, fa l’abile mossa di dichiararsi prigioniera delle truppe francesi sapendo che una legge in vigore in Francia non consente alle donne di essere trattate come detenute di guerra. Se Cesare Borgia abbia fatto buon viso a cattivo gioco a questo guizzo di furbizia non è del tutto accertato, di fatto la donna viene presa in consegna dai suoi uomini, trattata come un’ospite ma trasferita a Roma. In un primo momento è condotta in Vaticano e alloggiata nel Palazzo del Belvedere; successivamente, incolpata di aver attentato alla vita di papa Borgia, è rinchiusa nelle prigioni di Castel Sant’Angelo. Anche in questo caso non ci sono fonti storiche unanimi, anche se mi piace pensare che l’irriducibile donna sarebbe stata realmente capace di avvelenare il pontefice pur di riconquistare la libertà e i suoi territori.
Sta di fatto che nella fortezza di Castel Sant’Angelo Caterina rimane per circa un anno, fino all’estate del 1501, liberata grazie all’intervento dell’esercito francese. Riacquistata la libertà è costretta però a firmare un documento di rinuncia a ogni pretesa di governo sui territori di Imola e Forlì.
Non le rimane che la possibilità di lasciare Roma alla volta di Firenze, dove si trovano i suoi figli e l’unica figlia Bianca. Caterina, che ai tempi in cui Giovanni de’ Medici era ambasciatore, aveva ottenuto la cittadinanza fiorentina, va a vivere nei possedimenti del suo ultimo marito, soprattutto nella Villa di Castello.
Comincia un’altra fase della sua esistenza, ancora una volta una fase di lotte. In primo luogo contro il cognato per l’affidamento del figlio più piccolo, Giovanni. Al momento dell’arresto il bambino le era stato sottratto ma, una volta riacquistata la libertà, Caterina sfodera tutta la determinazione di madre e dà battaglia legale, vedendo riconosciuti i suoi diritti. Infatti la sua detenzione non è paragonata a quella di un delitto comune e il giudice, nel 1504, le restituisce il piccolo Giovanni, destinato ad azioni “d’arme e audaci imprese” e a
dare origine alla dinastia granducale della famiglia Medici.
Mentre difende i suoi legami familiari, Caterina lotta anche per riconquistare i territori sottratti da papa Alessandro VI Borgia, scomparso nel 1503. La sua morte significa la perdita del potere per il figlio Cesare e Caterina comincia a immaginare di poter tornare a governare Imola e Forlì; anche il nuovo papa Giulio II non si oppone. È però il popolo a non volere più il governo della contessa Caterina: ora non le rimane altra possibilità che chiudere definitivamente questa fase della sua esistenza.
Si dedica unicamente alla sua famiglia, alle relazioni sociali e alle sue passioni scientifiche, alle ricerche chimiche, a quelle cosmetiche e mediche, alla scoperta di rimedi naturali. Di questi suoi interessi ci resta un libro, Experimenti della excellentissima signora Caterina da Forlì, in cui sono racchiuse 471 ricette. Ecco alcuni di quei rimedi: Aqua a fare la faccia bianchissima et bella et lucente et colorita: piglia chiara de ove et falla distillar in alambicco et con quella aqua lava la faccia che è perfectissiina a far bella et leva tutti li segni et cicatrici; […]
A guarir le mano crepate: piglia succo de ortiga et un poco de sale et nzestica insieme bene et ognete le mano dove sonno crepate; […] A fare aqua de oclmi perfectissimna: piglia aqua vida (acquavite) aqua rosada aqua de imuta aqua de finochi zucaro fino et mestica omnni cosa insieme etpoi mmzetti una goccia ne lo occhio; […]  A far li denti bianchi: piglio un maruio bianco, corallo bianco, osso di seppia, salgetnnma, incenso et mastice. Polverizza bene et metti detta polvere in un sacchetto di tela piccolo, frega i denti poi lava con buon vino et poi frega coli una pezza di panno scarlatto; A fare odorare la bocca et el fiato: piglio scorsa de cedro, noce moscata, garofoni et salvia. Fa polvere, incorpora con vino et fanne pallottole et pigliane prima ti el cibo et de poi del cibo […] A far venir capelli de color castagnaccio se prima fossero bianchi: piglio mela cruda et fanne aqua con alambicco de vetro a fuoco lento et bagna 4 o5 volte la settimana et veniranno eccellenti.
Nonostante gli interessi per il mondo medico-scientifico, nulla può la sua esperienza contro una forte polmonite che la uccide nella primavera del 1509.

Fonti
Pier Desiderio Pasolini, Caterina Sforza, Roma, 1893
Cecilia Brogi, Caterina Sforza, Arezzo, Alberti & C.Editori, 1996
Natale Graziani, Gabriella Venturelli, Caterina Sforza, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001
Joyce de Vries, Caterina Sforza and the art of appearances, New York, 2010
Marcello Vannucci, I Medici, una famiglia al potere, Newton Compton editori, 2015
Marcello Vannucci, Le donne di Casa Medici, Newton Compton editori, 2016
http://bia.medici.org/DocSources/Home.do
http://francescasandri.altervista.org/universita/arte/progetto.html
https://it.wikipedia.org/wiki/Caterina_Sforza
http://www.palazzomedici.it/mediateca/it/Scheda_1471__Visita_di_Galeazzo_Maria_Sforza_e_di_Bona_di_Savoia&id_cronologia_contenuto=2

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Nerina Maria Simi

(Firenze, 1890 - Firenze, 1987)

Nel  luglio del 2014 il comune di Stazzema ha intitolato a Nera Simi una piazza – belvedere, omaggio ad una pittrice che ha contribuito, con la sua arte e la sua presenza, ad arricchire il valore artistico del paese dell’Alta Versilia.

La migliore allieva
di Barbara Belotti
 
Chissà quante volte Nera Simi avrà contemplato lo scenario montano che oggi è possibile guardare dal belvedere che le è stato dedicato. Stazzema era per lei, e per tutta la sua famiglia, un luogo del cuore, un buen retiro dove trascorrere i giorni d’estate; ma anche un mondo dove lavorare e accogliere le allieve e gli allievi giunti da tutto il mondo per seguire i suoi corsi di pittura e di disegno.
La vita di Nera Simi è l’arte e l’arte è la sua vita.
Nata a Firenze nel 1890, si dedica allo studio della pittura seguendo le orme del padre, l’artista Filadelfo Simi, che l’accompagna e la segue fin dall’inizio. È una sua allieva, la sua “migliore”allieva.
Dopo gli studi nell’Accademia di Belle Arti di Firenze e il diploma conseguito nel 1914, ottiene anche l’abilitazione alla docenza e comincia ad insegnare  nell'Istituto delle Montalve "Alla Quiete" di Firenze, dove resterà fino al momento di andare in pensione.
Partecipa alle prime mostre insieme al padre e al fratello Renzo, esponendo nel 1917 a Firenze e l’anno seguente a Forte dei Marmi, accanto ad artisti di fama.
La sua esperienza artistica prosegue nel solco della tradizione che eredita da Filadelfo, lontana dalle sperimentazioni delle Avanguardie, ma anche dai trionfalismi dell’arte di regime; la sua ricerca pittorica conserva la pastosità delle pennellate, i morbidi accordi cromatici e la sensibilità luministica della pittura tardo ottocentesca. Privilegia i paesaggi e i ritratti, temi che mettono in risalto le caratteristiche del suo naturalismo e la freschezza della sua pittura.
Nei disegni e negli studi preparatori, realizzati con pastelli, matite colorate o carboncini, i tratti, necessariamente veloci e sommari, nulla tolgono alla resa comunicativa, segno inequivocabile di una tecnica artistica consapevole e salda.
Su questi presupposti si basa, dopo la morte del padre avvenuta nel 1923, la sua attività di insegnante di disegno e di pittura nella Scuola Internazionale di Via dei Tintori (oggi via Tripoli) a Firenze. L’istituto, fondato e diretto fino al momento della morte da Filadelfo, ha accolto giovani pittori e pittrici da tutto il mondo: ora è Nera ad occuparsene e a seguire anche i corsi nell’Istituto di Stazzema che diventa, in quegli anni, un vero e proprio cenacolo artistico internazionale.
La carriera espositiva di Nerina prosegue negli anni: nel 1927 partecipa alla 80° Esposizione Internazionale di Palazzo Pitti  e nel 1933 alla Mostra Interregionale Sindacale. Purtroppo, destino comune a molte artiste, le sue opere non sono identificate e la ricostruzione del suo percorso risulta, per questo motivo, meno lineare.
Il legame affettivo e professionale con il padre è un altro dei tratti caratteristici dell’esistenza di Nera. Anche a distanza di tanti anni, lei sente che deve rimanere fedele all’eredità culturale e professionale lasciatele. Collabora quindi, nel 1958, all'allestimento della mostra retrospettiva in onore di Filadelfo organizzata a Palazzo Strozzi dal Comune di Firenze; diversi anni dopo, nel 1985, un’altra grande mostra retrospettiva nella Villa Medicea di Seravezza la vede impegnata nel mantenere vivo il ricordo del padre.
Muore due anni dopo, nel 1987. Riposa nel cimitero di San Miniato accanto alle spoglie dei genitori.

Fonti:
Alba Tiberto Beluffi, Filadelfo Simi, un uomo, un artista, Pisa, Pacini ed., 1996
Alba Tiberto Beluffi, Nera Simi, Catalogo della mostra, Pietrasanta, Tipografia Dini, 2009
http://www.dols.it/2014/07/13/stazzema-belvedere-sulla-versilia/
http://www.lagazzettadiviareggio.it/alta-versilia/2014/07/dal-12-luglio-due-mostre-per-ricordare-nerina-simi-e-la-sua-scuola/
http://www.filadelfosimi.it/biografia/nera_simi.htm
http://www.filadelfosimi.it/opere/archivio_beluffi/nera_simi/anni_trenta.htm
http://www.prolocoseravezza.it/?p=3777
http://www.anneshingleton.com/ita/mostre-attuali.htm

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Sara Sismondi Forti

(Ginevra 1776 - Pescia 1835)

Né di Sara né di sua madre Henriette - appartenenti a un’illustre famiglia di origine pisana, legate in vario modo a uomini celebri, autrici di diari e di un’infinità di lettere - si hanno tracce nella toponomastica di Pescia e dintorni (prov. di Pistoia). Il loro prezioso patrimonio cartaceo è custodito presso l’Archivio di Stato di Pescia, all’interno del vasto fondo della famiglia Sismondi. A Francesco Forti (1806/1838- giornalista, giurista, magistrato, figlio di Sara) è dedicato l’Istituto Tecnico Commerciale di Monsummano Terme.

Henriette e Sérine, da Ginevra a Pescia, nell'Europa di fine Settecento
di Laura Candiani
 
Sara (detta Sérine) Simonde de Sismondi1  è un personaggio assai interessante per svariati motivi: parte di una famiglia così antica e illustre da essere ricordata nella “Commedia” di Dante, autrice di un diario assolutamente originale, sorella e madre di due uomini di spicco nel panorama culturale dell’epoca (difficile) in cui visse, protagonista di un’emigrazione inversa e di un atipico matrimonio d’amore.
Nel 1795 la situazione europea è critica e una coalizione internazionale ha mosso guerra alla Francia per arginare gli effetti della rivoluzione. A Ginevra – dove vivono i Simonde - si è concluso il periodo detto del Terrore, ad alcuni nuclei cittadini preferiscono espatriare.
La famiglia Sismonde, benestante, di religione protestante, dalla cultura vasta, abituata a viaggi e soggiorni all’estero, è composta dalla madre (Henriette Girodz), dal padre (Gédéon François Simonde) e da due figli: Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi (1773-1842) - celebre storico, economista, critico letterario - e Sara (nata nel 1776).
Parte della famiglia si mette in viaggio per luoghi più sicuri e tranquilli. Il padre resta in Svizzera a curare gli affari, madre, figlia e Charles lasciano Ginevra senza sapere se vi faranno mai ritorno e se metteranno radici altrove.
Henriette scrive per circa trent’anni, Sara per otto unendo lo stile del diario a quello epistolare (si rivolge spesso alla cara amica Mary rimasta in patria).  Emerge, dalle sue parole, la vivace personalità della ragazza: curiosa, brillante, osservatrice critica e accurata nel cogliere i dettagli, tanto delle persone quanto degli ambienti e della natura.
Il primo motivo di interesse verso Sara è proprio nel suo “Journal”, sopravvissuto, insieme a quello della madre, per oltre due secoli: si tratta di una raccolta di semplici quaderni, di piccole dimensioni, legati fra loro con ago e filo. Inizialmente in francese, dal 1793 vengono scritti in inglese, praticamente senza punteggiatura né maiuscole, con numerose abbreviazioni e narrano in modo avvincente il loro avventuroso viaggio: tre “fuggiaschi”, anomali per l’epoca, che non affrontano un “grand tour” né una piacevole vacanza, ma si dirigono verso luoghi sconosciuti, cercando una nuova patria e un nuovo destino. La partenza avviene l’8 ottobre, con una carrozza appositamente affittata. Henriette ha 47 anni, Jean Charles 222  e Sara 19.
Tappa dopo tappa, si ritrovano nelle pagine del Journal luoghi, fatti e sentimenti: l’attraversamento delle Alpi, il timore per il maltempo, le locande, la sosta a Milano, il trasporto su chiatta, il sequestro di libri da parte dei rigorosi doganieri asburgici. A Sara piace la rigogliosa campagna emiliana e rimane colpita dalla città di Parma, mentre è delusa dal paesaggio appenninico e talvolta tormentata dalle pulci… Con grandi speranze i tre approdano a Firenze, nel Granducato di Toscana, che dovrebbe garantire una buona accoglienza agli esuli (alcuni dati indicano 400.000 forestieri residenti in Toscana, fra il 1793 e il ’95) e da poco vanta, come ambasciatore, un lord inglese di loro conoscenza. Per oltre un mese, visitano chiese, frequentano teatri, incontrano persone del loro rango. Quasi per caso Charles, durante una sua perlustrazione del circondario, si ferma a Pescia, allora cittadina di circa 5.000 abitanti estranea ai circuiti turistici, e affitta per alcuni mesi una villa su una salita ripida e quasi impraticabile. E’ il 15 dicembre quando Sara, triste e delusa, dopo una sosta per la notte a Pistoia e un passaggio rapido da Montecatini annota: ”Qui io sono entrata nella mia prigione fino al 10 giugno prossimo.” Ma non sarà un viaggio fallimentare: la famigliola rimarrà in Toscana per sempre; dopo aver acquistato la splendida villa della “Valchiusa”, la madre vi morirà, nel 1821, e Sérine vi metterà le sue radici.
Corteggiata già dal 1796 da un nobile pesciatino (Anton Cosimo Dante Forti) amico del fratello, Sara non ne resta indifferente e inizia una fitta frequentazione, ben più moderna e libera rispetto agli usi italiani. Sembra di trovarsi in un romanzo di Jane Austen o delle Bronte: i due giovani vanno a teatro, passeggiano, osservano la natura, leggono, suonano il pianoforte, studiano l’inglese, frequentano biblioteche e salotti; soltanto dopo due anni di travagliato fidanzamento, si possono sposare. A ostacolarli è la differente fede religiosa, problema solo recentemente risolto.. Sara infatti è calvinista, Antonio cattolico e la loro visione del matrimonio è necessariamente diversa: per l’uno è un sacramento, per l’altra un impegno civile. Ci vorranno tenacia e pazienza, tentativi, incontri, fogli, pratiche, dichiarazioni, giuramenti, dispense; si penserà addirittura a un matrimonio clandestino, a un trasferimento momentaneo a Livorno o a Trieste, dove vigeva il più liberale codice asburgico di Giuseppe II. Dopo tanto penare e una nuova dispensa, Antonio dovette giurare che si sarebbe impegnato a far diventare cattolica Sara, mentre Sara avrebbe dovuto educare alla fede cattolica i figli, ma avrebbe mantenuto la propria libertà di culto e possibilità di visitare senza restrizioni i propri parenti svizzeri. Il contratto di nozze riporta la meraviglia del notaio nel constatare che le leggi di Ginevra erano più favorevoli alle donne rispetto a quelle italiane. Il 22 gennaio 1798 si celebra il matrimonio in chiesa, in forma privata e rapida, con due soli testimoni e i genitori della sposa, senza la tradizionale benedizione.
Nel diario Sara scrive: “I am Mrs. Forti. I have the best husband that can be wished for. Pray God may be a good wife.” La sua vita di sposa e madre non sarà però senza dolori, primo fra tutti la morte precoce di quattro dei suoi otto figli, mentre la fede le sarà di conforto, insieme alla lettura, alla musica, all’attenta educazione rivolta ai piccoli e al legame continuo e affettuoso con la madre e il fratello.
Muore a Pescia, a 59 anni, nel 1835, e per sua esplicita volontà viene sepolta a Livorno, nel cimitero protestante, accanto alla tomba di Henriette.

1.Il cognome italianizzato Sismondi viene adottato dopo il 1800 circa.
2.All'epoca la maggiore età si raggiungeva a 25 anni, perciò il padre firma un atto di emancipazione per il figlio

Fonti:
Vincenza Papini, From Geneva to Tuscany. Un viaggio del Settecento nel diario di Sara Sismondi, 2004, Istituto Storico Lucchese. Sezione “Storia e Storie al femminile”-Buggiano Castello
Liana Elda Funaro, Orgoglio e pregiudizio. Il matrimonio di Sara Sismondi (1798), in Andare sposa, 2012, Istituto Storico Lucchese. Sezione “Storia e Storie al femminile”, Buggiano Castello
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Maria Soderini

(Firenze, 1490 circa - ?)

Non si conoscono intitolazioni di aree pubbliche in suo onore

Il dolore di una madre
di Barbara Belotti

Nel suo libro sulle figure femminili di casa Medici, Marcello Vannucci dedica un capitolo a Maria Soderini e, intitolandolo “Mater dolorosa”, ne sottolinea la capacità di sacrificarsi: dà molto di se stessa al marito, alla famiglia, a uno dei figli in particolare, quel Lorenzino di Pierfrancesco de’ Medici che la storia ci consegna con l’appellativo di Lorenzaccio.
Maria nasce a Firenze forse intorno al 1490 e, figlia di Tommaso Soderini e Fiammetta Strozzi, appartiene per linea diretta a due importanti famiglie del tempo. È considerata una donna molto bella ed è lodata per l’onestà dei costumi e le virtù muliebri; è anche molto accorta, però, capace di gestire l’economia traballante della famiglia e di mantenerla entro i binari di una vita decorosa
Di lei si conosce poco: c’è incertezza su quando sia nata, sono sconosciuti sia il luogo che la data di morte, la ricostruzione della sua vita si basa sull’esistenza degli altri: il marito, i figli e le figlie.
Nel 1511 sposa Pierfrancesco de’ Medici, membro di un ramo collaterale che si fa chiamare “i popolani”. Sono entrambi giovani: lui, che ha 24 anni, fino al matrimonio ha avuto un’esistenza disordinata e ha fortemente intaccato il patrimonio; lei, che ha una ventina d’anni, si occupa di rimettere in sesto le risorse familiari. Donna oculata e di buon senso, decide che è meglio andare a vivere nella tenuta in Mugello, piuttosto che in città, per far fruttare quello che possiedono.
Dal loro matrimonio nascono due femmine, Laudomia e Maddalena, e due maschi, Lorenzino e Giuliano.
Maria è attenta agli sprechi, segue ogni attività agricola e casalinga, amministra al meglio ciò che possiede cercando anche che la servitù non sottragga i prodotti coltivati e i raccolti.
Non lontana da lei, nel castello del Trebbio, vive un’altra Donna Maria, Maria Salviati che, sposata a Giovanni dalle Bande Nere, sta tirando su suo figlio Cosimo destinato a diventare l’uomo più importante di Firenze e della Toscana. Le loro vicende si intrecciano perché i piccoli Cosimo e Lorenzino giocano insieme, si inerpicano per i sentieri di campagna, osservano gli animali selvatici e saldano un legame che probabilmente si allarga anche alle due madri; lo stato vedovile è un altro aspetto comune alle due donne, quando muoiono prima Pierfrancesco, nel 1525, e poi Giovanni nel 1526.
Sono anni difficili quelli della metà degli anni Venti del XVI secolo: le bande di lanzichenecchi che minacciosamente si spingono verso lo Stato pontificio sono un pericolo concreto e molto serio anche per Maria Soderini e la tenuta di Cafaggiolo, posta lungo la strada che da Firenze va verso Bologna, potrebbe rivelarsi una trappola per lei, le sue figlie e i suoi figli. Decide così di mettere in salvo se stessa e tutta la sua famiglia: accompagna in convento Laudomia e Maddalena, sperando che le mura del monastero possano proteggerle, e manda i figli Lorenzino e Giuliano a Venezia, insieme a Cosimo. I ragazzi sono accompagnati dai precettori, che badano alla loro educazione, le madri li raggiungeranno nel 1527.
L’anno successivo Maria Soderini si rende conto che, con la crisi politica fra Carlo V imperatore e papa Clemente VII, neppure Venezia è molto sicura per chi si chiama Medici; si sposta perciò in Romagna e poi a Bologna, dove giunge nel 1529. Sente anche la responsabilità del futuro dei suoi figli e, puntando tutto sul prestigioso cognome del marito, si reca a Roma per trovare un impiego per Lorenzino: anche se di un ramo cadetto, il giovane si chiama pur sempre Medici come il papa. Questo figlio ribelle e un po’ violento, appena adolescente, la preoccupa, cerca per lui e ottiene un incarico, anche se non di grande prestigio. Non avrà grandi soddisfazioni: dopo poco il ragazzo fa rientro a casa, a Roma non può più stare, Clemente VII è furioso contro di lui dopo le scorribande nei Fori e i danni provocati ad alcune statue e ai rilievi antichi dell’Arco di Costantino. Bisogna che le acque si calmino di nuovo prima di riavvicinarsi al resto della famiglia, ma nel frattempo il nome Lorenzino è stato trasformato in Lorenzaccio, appellativo con cui è tragicamente passato alla storia.
È un grosso pensiero per Maria Soderini questo figlio, arrogante e violento, ma anche fine scrittore e drammaturgo. Ora che è tornato a Firenze si lega a Alessandro, il figlio naturale del papa, che ambisce a diventare padrone di Firenze, ma che la popolazione non ama a causa delle sue prepotenze e dei suoi eccessi in tutto. Sono molto legati i due giovani Medici tanto che Lorenzino, che si diletta nello scrivere, compone la commedia Aridosia, appositamente ideata per celebrare le nozze di Alessandro con Margherita d’Austria e allestita durante i festeggiamenti per il matrimonio, nel giugno 1536.
Ma l’epilogo dell’amicizia fra i due Medici è cupo e drammatico: Lorenzino uccide con un inganno Alessandro de’ Medici, e da poco elevato al rango di Duca di Firenze. È il 6 gennaio 1537. Lorenzino è costretto a scappare verso Venezia, ma fa tappa a Cafaggiolo dove si trova la madre. È considerato un pericoloso ribelle e un traditore, su di lui viene posta una taglia di quattromila fiorini; il delitto commesso ha ripercussioni anche su Maria, sul figlio Giuliano e sulle figlie Laudomia e Maddalena. Costretti a fuggire in esilio, spogliati degli averi, riparano prima a Bologna e poi a Venezia, aiutati dalla famiglia Strozzi.
Lorenzino si sposta in continuazione, dalla corte francese di Caterina de’Medici a Costantinopoli: Maria rivedrà il figlio sono alcuni anni dopo, nel Natale del 1544. A Venezia la sua vita e quella del figlio sono in continuo pericolo: sulla sua testa pende ancora una taglia e il vecchio compagno di giochi Cosimo, ora primo granduca di Toscana, gli sguinzaglia contro alcuni sicari con l’appoggio dell’imperatore Carlo V; recenti studi rivelano, invece, che i soldati sono inviati da Carlo V per vendicare l’uccisione del genero Alessandro de’ Medici. Comunque sia andata, anche questa vicenda ha un epilogo tragico: Lorenzino viene ucciso il 26 febbraio del 1548 insieme allo zio Alessandro Soderini. La madre, accorsa immediatamente, può solo abbracciarlo e chiudergli gli occhi. 

Fonti
Giuseppe Maria Mecatti, Storia cronologica della città di Firenze, parte seconda, p.661, Napoli 1755.
J.C.L. Simondo Sismondi, Storia delle Repubbliche italiane dei secoli di mezzo, vol. II, Lugano, 1838.
Marcello Vannucci, Le donne di Casa Medici, Newton Compton editori, 2016.
http://www.treccani.it/enciclopedia/lorenzo-de-medici_res-0992fe06-dcdf-11df-9ef0-d5ce3506d72e_(Dizionario-Biografico)

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Letizia Spagnoli

(Viareggio, 1910 -  2010)

Non risulta un ricordo nella toponomastica né di Viareggio né di Lido di Camaiore né di altre località versiliesi.

Una pittrice naïf:  il fascino della semplicità
di Laura Candiani
 
Letizia Caterina Manfredi Spagnoli  è stata una affermata pittrice naïf che ha mostrato tutta la sua gentilezza d’animo e la sua sensibilità attraverso l’uso delle immagini e del colore. Nata a Viareggio il 12 marzo 1910, era la dodicesima figlia di una coppia di emigranti rientrati dal Brasile e perciò detti “gli americani”. Frequentò gli studi fino alla sesta classe per iscriversi poi ad una scuola di ricamo; dopo un anno di fidanzamento si sposò nel 1928 con Spagnolo Spagnoli. Dal felice matrimonio nacquero cinque figli: Lia, Lincoln, Onorato, Gemma e Maria Grazia. Letizia rimase presto vedova, a soli 42 anni, ma era sostenuta da una grande fede e da una forte determinazione. Iniziò quindi a mettere a frutto le sue doti naturali cucendo originali cuscini e oggetti di arredamento; dopo seri problemi di salute che la costrinsero ad una vita piuttosto sedentaria, dette il via alla sua nuova proficua carriera: quella di pittrice naïf. Letizia componeva con ingenuità e freschezza, senza aver frequentato scuole e senza maestri, con totale spontaneità. I suoi lavori erano improntati alla descrizione del quotidiano (come “La pesca delle cee”), al garbato richiamo fiabesco (“Primo ballo”), alla fede ingenua e sentita(“Notte di Natale”), ai  paesaggi, ai sogni, ai ricordi; quello che colpisce è l’uso sapiente e brillante del colore con una netta prevalenza del blu e dell’azzurro , ma anche con molto giallo, bianco, rosso (il bellissimo “Fiori per te”). Il mondo di Letizia è fatto di piccoli uomini e piccole donne, di palloncini che volano, di fiori, tanti fiori, di una natura pacifica e serena, di cieli senza nubi, di prati cosparsi di infinite macchioline, in una atmosfera rarefatta e rasserenante, di stupore e meraviglia,  che spesso  viene replicata anche in ingenue brevi poesie .
La svolta avvenne grazie ai consigli di un pittore viareggino, Giorgio Michetti,  che introdusse le opere di Letizia nel mondo culturale e artistico milanese, quando era più che sessantenne ; nel ’72  si realizzò la sua prima mostra personale a Lucca, alla Galleria dell’Associazione Commercianti di Palazzo Sani. A questo punto è il successo: Letizia (che ha scelto di firmare le sue opere con il cognome da sposata) espone in Italia (Bari, Firenze, Milano, Prato, Bologna, Padova, Roma), ma anche all’estero (Parigi e Cracovia). Ottiene rico-noscimenti e premi prestigiosi : Naifs Italia-Francia (’76),  Arte Sacra di Cracovia (’79), Accademia H.E.D.E. di Ferrara (’80  e ’81) e Romagna (’80), Guercino (’82), bozzetto della cartolina di Natale dell’Antoniano di Bologna.  Le sue opere partecipano costantemente a concorsi toscani, soprattutto in Garfagnana  e Ver-silia, e sono esposte nelle più importanti gallerie di Viareggio e Lido di Camaiore. Letizia diviene  membro  di accademie (come la San Marco di Napoli, la Tiberina e la Legion d’oro di Roma, la Homo Electus Ducati Extensis di Ferrara, l’Associazione Italiana Pittori della Versilia). Figura anche nel catalogo Bolaffi e nell’Archivio per l’arte italiana del Novecento di Firenze e proprio la città di Firenze le ha tributato il grande onore del Premio Giotto per l’arte (’80).
Il figlio Lincoln ha lasciato un bellissimo ricordo della madre in cui racconta come fosse una bambina allegra e vivace, con un vero talento per la recitazione; con i fratelli, le sorelle e i genitori  c’era un clima sereno e affettuoso, tanto che anche il precocissimo fidanzamento con un ventenne venne tollerato e accettato. Quando i due ragazzi si sposarono - ricorda  sempre il figlio -chi li vide passare in carrozza li prese per due  comunicandi, non certo per due sposi. I primi due figli nacquero in Darsena, a Viareggio, dove viveva la famigliola; Letizia, per aiutare il marito nella sua attività, partiva prestissimo la mattina in bicicletta e af-frontava un percorso lungo e disagiato. In seguito andarono a vivere in via Mazzini, nel centro cittadino,  ma il marito aveva acquistato anche  una piccola proprietà in campagna, nel paese di origine del nonno Onorato, a Montigiano di Massarosa,  dove i bambini si divertivano molto e avevano i genitori tutti per sé. Nacquero  poi gli altri figli, durante la Seconda Guerra Mondiale, e furono molto coccolati proprio perché la guerra aveva rallentato le attività economiche e la famiglia stava sempre insieme, lontana dai pericoli dei bombardamenti e dei rastrellamenti. Si erano allora trasferiti in un luogo ancora più isolato, a Monteggiori sopra Capezzano, in una antica casa medievale e, nonostante le privazioni , la presenza dei Tedeschi, la carenza di cibo, i timori di possibili deportazioni, vivevano uniti e sereni, legati dall’amore reciproco che Letizia poi riversò nelle sue opere, illuminate dalla grazia e dall’armonia.
Letizia  Manfredi Spagnoli è morta a Viareggio il 30 marzo 2010, poco dopo aver compiuto 100 anni.


Fonti:
Fabio Flego (a cura di), Letizia Spagnoli. Naïveté. Antologia pittorica e poetica, Pezzini Editore, Viareggio, 2011
M.T., Addio Letizia,pittrice naïf solare come la sua Viareggio, in "Il Tirreno", 31.3.2010

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