Ancora frutti da una vita strappata

Michela Fioretti è stata uccisa dall'ex marito sulla rampa di un viadotto che porta il nome di una brillante archeologa americana: Zelia Nuttal. Pochi giorni prima del delitto, avevamo fotografato la targa del cavalcavia per inserirla nella mostra di Toponomastica femminile realizzata per la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Quando la vita di Michela è fuggita da quel ponte, il 18 aprile, si è portata via il colore della nostra foto.

Michela è l’ultima vittima della sottocultura della differenza, della disattenzione e della inadeguatezza delle istituzioni preposte alla tutela e alla sicurezza delle donne. Eppure aveva chiesto aiuto, aveva denunciato minacce e persecuzioni, aveva detto di avere paura.

Si ritorna drammaticamente al già sentito. I dati relativi ai casi di femminicidio continuano a essere allarmanti: la cronaca li registra con agghiacciante ripetitività, caso dopo caso, e arriva a 125 donne nel 2012. Una donna ogni tre giorni. Questo bollettino di guerra, che non accenna a fermarsi, denuncia una questione culturale e giuridica che non può essere differita, che non può lasciarci aprire sconsolati le braccia, mentre altri frutti criminali della sottocultura di genere maturano, invisibili, indisturbati, quasi fossero inevitabili.

Partiamo da un dato: il femminicidio è consumato nel 95% dei casi in ambiente domestico, ad opera di chi dice di amare la vittima. Il suo movente primo risiede nell'incapacità del partner di accettare la differenza che la compagna esprime rispetto al modello che lui le attribuisce: è indipendente, ha, desidera o cerca spazi altri. Non rispetta, dunque, il codice di comportamenti e regole segnate dalla sottocultura della dispari relazione uomo-donna alimentata da una tradizione di potere maschile. Un paradigma si ripete tragicamente: lui la ama e non può accettare di perderla. Lei non è come lui vuole che sia e questo fa paura. Fanno paura l’autonomia e la libertà di scelta, o anche soltanto l’aspirazione alla libertà, la distanza dal modello\stereotipo culturale che lui eredita dalla cultura patriarcale e impone. Dietro la violenza c’è sempre la fragilità dell’uomo che elimina il problema, afferma la sua forza e il suo diritto\potere di ristabilire comportamenti rassicuranti, punendo la donna che si sottrae alle sue leggi non scritte, fino a toglierle la vita.

Perché la violenza contro le donne sia riconosciuta, denunciata, sconfitta, perché non continui a mietere vittime, è necessaria un’alleanza tra soggetti diversi – delle amministrazioni, della scuola, della polizia, dei centri antiviolenza, dei tribunali - preposti alla educazione, alla sicurezza e alla tutela fisica e giuridica delle persone. Servono interventi visibili, chiari, continuativi, coordinati, che diano evidenza alla gravità e urgenza del problema. Serve parlarne, perché il femminicidio ha un retroterra subdolo e sotterraneo, invisibile.

È necessario far emergere questo sottobosco mascherato di normalità parlandone a scuola, educando i\le giovani alla relazione, scoperchiando stereotipi, insegnando a riconoscere segni di amore malato, incoraggiando le donne a chiedere aiuto, rispondendo in modo fermo e sicuro alle denunce. È altrettanto necessario non dimenticare, dare memoria alle donne uccise da chi diceva di amarle, affinché le loro storie scuotano la coscienza collettiva. Da questa riflessione nasce la campagna di Toponomastica femminile già presentata a Catania e a Napoli: un albero da frutta e una panchina per ogni donna vittima di femminicidio. Una panchina per ricordare, meditare, incontrarsi e progettare vie diverse da percorrere insieme, donne e uomini, perché non ci siano più vittime del femminicidio e un albero generoso per raccogliere ancora vita e nutrimento dalle tante donne soppresse. È una campagna rivolta innanzitutto alle scuole: studenti guidate/i a scoprire che storia, mitologia e letterature sono depositarie di discriminazione e violenza di genere; chiamate\i a riflettere\leggere\scrivere sulla relazione uomo-donna e sugli stereotipi linguistici e culturali. Ancora una volta si tratterà di un progetto in rete che coinvolgerà su tutto il territorio nazionale, insieme alle scuole, università, amministrazioni, centri antiviolenza, Assessorati alle P.O., Uffici della Guardia Forestale.

Saranno le ragazze e i ragazzi a chiedere, infine, l’intervento rigoroso della Legge: che in futuro siano i rei a pagare alberi e panchine con la targa intitolata alla vittima, come sanzione aggiuntiva alla pena. Un simbolico risarcimento alla collettività, privata di una vita e dei suoi preziosi frutti. L’iniziativa di Toponomastica femminile va oltre e propone un progetto europeo che allarghi le collaborazioni, faccia incontrare giovani delle scuole di Paesi diversi nella riflessione su un problema comune che ha le stesse radici di sottocultura, la stessa diffusione tentacolare e persistente. Anche in Spagna, Francia, in Germania, in Grecia, in Ungheria vorremmo piantare alberi da frutto dedicati alle donne vittime di violenza.

Ora, nello smarrimento e nel dolore di fronte alla tragedia di Michela, chiediamo alla nostra amministrazione di anticipare i tempi: a Dragoncello, dove Michela viveva, c'è un grande parco senza nome, un'area verde poco curata ma intensamente vissuta, con una bella pista ciclabile e un piccolo spazio di gioco; vi si incontrano sportivi in azione, coppiette sognanti, ragazze chiassose, cani e padroni a passeggio, famiglie in bicicletta.


Poche panchine malmesse. È qui che vorremmo ritrovare Michela: il suo nome su una panchina all’ombra di un melograno dai fiori rossi, simbolo di maternità e fecondità, o di un ciliegio gentile, o di un pesco delicato, in un luogo vivo, luminoso e colorato, a pochi passi da casa.

 

 di Pina Arena e Maria Pia Ercolini