Calendaria 2025 - Maria Montoya Martinez

Maria Montoya Martinez
Livia Capasso

Caori Murata

 

La sperimentazione artistica con gli stili e le tecniche tradizionali dell’antica ceramica Pueblo operata da Maria Montoya Martinez ha contribuito a preservare l'arte culturale della sua gente e l’ha portata a realizzare ceramiche di fama internazionale. Maria Poveka Montoya è nata il 1887 (secondo alcuni invece il 1885) a San Ildefonso Pueblo, nel Nuovo Messico, in una comunità di nativi americani, situata a poco più di venti miglia a nord-ovest di Santa Fe. In tenera età apprese l'arte della ceramica da sua zia Nicolasa, che le insegnò a lavorare l'argilla, e lei imparò osservando sua zia, sua nonna e il cugino del padre lavorare la ceramica. Maria e tutte e quattro le sue sorelle, Maximiliana (Ana), Juanita, Desideria e Clara, impararono e producevano ceramiche. Inizialmente, Maria realizzò la tradizionale ceramica policroma del suo villaggio, con il nero e altri colori su uno sfondo bianco o marrone chiaro. Modellava i vasi arrotolando con cura l'argilla, quindi levigandola con raschietti. I suoi vasi erano riconosciuti come i più sottili e dalla forma più bella. Suo marito, Julian Martinez, un artista affermato a pieno titolo, li decorava. 

Ciotola, 1914/15 - Maria Montoya Martinez

In questa ciotola un serpente cornuto, l’Avanyu, divinità Tewa, circonda la superficie centrale del vaso e con la lingua tocca quasi la punta della coda, muovendo il corpo tanto da sembrare vivo. Il popolo Pueblo ha un metodo particolare per lavorare l’argilla, non usa il tornio per modellare i vasi, che risultano da stratificazioni di materiale, aggiunte a spirale una sopra l’altra.

Lavorazione a mano, a spirale

Ogni pueblo poi ha una sua sottocultura, proprie tradizioni, mitologia, storia, rituali. Anche i simboli che decorano i vasi sono diversi, e non sempre è possibile individuarne il significato. Un’altra differenza consiste nel fatto che ogni pueblo ha il suo luogo segreto per la ricerca di argilla, quindi, anche le proprietà fisiche dei vasi prodotti da vari pueblos sono diverse. I nativi americani hanno tradizioni ceramiche da molti millenni. Sono stati trovati vasi di terracotta risalenti a 30.000 anni fa. Durante uno scavo nel 1908 condotto da Edgar Lee Hewett, professore di archeologia e fondatore e direttore del Museo del New Mexico a Santa Fe, furono scoperti nella terra sabbiosa e l'argilla rossa del terreno desertico del New Mexico pezzi rotti di ceramiche preistoriche dei Pueblo, con originali decorazioni nere su fondo nero. Hewett cercava tra i pueblo chi potesse ricreare vasi di questa tipologia, cioè nero su nero, con l’intenzione di preservare così l'antica forma d'arte. Maria Montoya Martinez era conosciuta nel pueblo Tewa di San Ildefonso per la produzione di vasi pregiati; pertanto, Hewett individuò in lei l’artista che poteva dare vita alla sua idea. Dopo molti tentativi ed errori, Maria cominciò a produrre vasi di ceramica nera. I primi vasi per un museo furono cotti intorno al 1913. Questi pezzi non erano decorati, non firmati e di qualità generalmente rozza. La sua abilità migliorava, però, con ogni vaso e la sua arte iniziò a suscitare molto scalpore tra i collezionisti e si trasformò in un business, che portò nel 1918 alla prima creazione di pezzi nero su nero di elevata qualità. La prima testimonianza di questa ceramica risale a una mostra del luglio 1920 tenutasi al Museo d'arte del New Mexico.

Nero su nero con disegni geometrici - Maria e Julian Martinez, c. 1920

È stato necessario un lungo processo di sperimentazione e di superamento delle sfide per ricreare con successo lo stile della ceramica nera su nero e soddisfare gli standard rigorosi di Maria. Una sfida specifica è stata quella di trovare un modo per far assumere all'argilla il colore nero desiderato.

Vaso nuziale di Maria e Julian Martinez in ceramica nera, 1929

Il processo lungo consiste in molti passaggi che richiedono pazienza e abilità. Il primo passo è raccogliere l'argilla, operazione che viene effettuata una volta all'anno, solitamente nel mese di ottobre quando è asciutta. L'argilla viene quindi conservata in una struttura di mattoni dove la temperatura rimane costante. Il passo successivo è iniziare a modellare l'argilla impastata insieme a sabbia e acqua. L'impasto viene lasciato asciugare leggermente per un giorno o due. Si lavora poi utilizzando solo le mani, con una costruzione a spirale: lunghe bobine a forma di serpente costruiscono gradualmente le pareti dei vasi; con movimenti incrociati la parete viene levigata e resa sottile e uniforme, mentre il vaso aumenta di altezza. Finita la lavorazione, si passa all’essiccazione e alla cottura.Maria ha utilizzato una tecnica di cottura chiamata "cottura di riduzione". Un'atmosfera riducente si verifica quando l'aria che circonda il vaso non contiene abbastanza ossigeno per alimentare le fiamme. Ciò provoca una reazione chimica che scurisce l’argilla, conferendole quel colore nero, o a volte canna di fucile. I vasi posti nel focolare venivano ricoperti con cura con pezzi rotti di ceramica e fogli di alluminio o rottami metallici per evitare che la fiamma toccandoli bruciasse la ceramica, facendole assumere un colore rosso-marrone. Dopo che il forno si era raffreddato abbastanza, i vasi venivano infine rimossi con cura.

Due vasi in ceramica nero su nero di Maria Montoya Martinez, 1939 (sin), 1945 (dex)

Vaso alto, 1934 - Maria Montoya Martinez
Firme alla base dei vasi

Maria e Julian furono riconosciuti per aver rivitalizzato un’antica tradizione della ceramica, e vinsero riconoscimenti internazionali, quando Julian morì nel 1943. La popolarità di Maria come artista la portò a ricoprire un ruolo importante nella sua comunità, e a favorire rapporti amichevoli con i soldati e gli scienziati del Progetto Manhattan quando arrivarono a Los Alamos. I militari occupavano il terreno per stabilirvi laboratori scientifici e impianti di produzione industriale, sottraendo ai nativi americani i loro tradizionali terreni di caccia, pesca e campeggio o i siti sacri ancestrali. La mediazione di Maria creò un’opportunità, perché il progetto favorì l’attività di lavorazione della ceramica con la creazione di un laboratorio che divenne una realtà permanente per la regione. Senza contare che, avendo il progetto un notevole bisogno di personale addetto alla manutenzione e alla custodia, molti nativi americani furono assunti, generalmente impiegati come camionisti, operai edili, falegnami e giardinieri, il figlio stesso di Maria fu assunto come macchinista, mentre le donne, attratte dagli alti salari, venivano reclutate come cameriere e assistenti all'infanzia. Si diffuse tra gli occupanti una “mania del collezionista” che rese molto richieste le ceramiche, soprattutto quelle di Maria Montoya Martinez. Tuttavia, per stare al passo con la domanda, si iniziò la produzione in serie dei vasi, annullando la tradizione secolare che prevedeva la realizzazione degli oggetti uno alla volta.

Ciotole in ceramica nera, 1950-59 - Maria Montoya Martinez

Maria espose la sua ceramica in ogni fiera mondiale fino alla Seconda guerra mondiale e formò tre generazioni di giovani della sua famiglia. Con la crescente domanda, si rese conto che il suo lavoro poteva arricchire artisticamente ed economicamente la vita dell'intero pueblo, e generosamente condivise le sue tecniche. In questa foto, scattata da Susan Peterson nel 1975, Maria è seduta, a destra con la sua famiglia a San Ildefonso. Cinque generazioni hanno continuato questa ricca tradizione di abilità artistica e design innovativo, ultima la pronipote, Barbara Gonzales, nella foto in piedi, maglietta gialla, con i suoi figli, Cavan e Aaron.

La famiglia Martinez - Foto di Susan Peterson, 1975

Vaso policromo con disegno di serpente Avanyu, 1960 - Maria Montoya Martinez

Ritorna su questo vaso l’Avanyu, divinità Tewa, guardiana dell'acqua, rappresentata come un serpente cornuto o piumato con curve che suggeriscono il flusso dell'acqua o lo zig-zag dei fulmini. Le opere di Maria Montoya Martinez, e in particolare le sue ceramiche nere, sono nelle collezioni di molti musei, tra cui lo Smithsonian, il Metropolitan Museum of Art a New York, il Denver Art Museum, il Penn Museum di Filadelfia e altri ancora. È morta il 20 luglio del 1980 a San Ildefonso Pueblo. Maria Montoya Martinez ha ricevuto dottorati onorari durante la sua vita all'Università del Colorado e all'Università del New Mexico. Malvina Hoffman, una pregevole scultrice americana, realizzò il suo ritratto. Nel 1978 tenne un'importante mostra personale alla Renwick Gallery della Smithsonian Institution. Nel 2022 è stata inclusa in un libro sul lavoro delle donne di Ferren Gipson: Women's Work: From feminine arts to feminist art.


Traduzione francese

Lucrezia Pratesi

L’expérimentation artistique menée par Maria Montoya Martinez à partir des styles et des techniques traditionnelles de la céramique ancestrale Pueblo a permis de préserver l’art culturel de son peuple, tout en lui offrant une renommée internationale grâce à ses œuvres en céramique. Maria Poveka Montoya est née en 1887 (selon certaines sources en 1885) à San Ildefonso Pueblo, au Nouveau-Mexique, dans une communauté amérindienne située à un peu plus de vingt milles au nord-ouest de Santa Fe. Dès son plus jeune âge, elle apprit l’art de la poterie auprès de sa tante Nicolasa, qui lui enseigna le travail de l’argile. Elle observait aussi sa grand-mère et le cousin de son père façonner la terre. Maria et ses quatre sœurs — Maximiliana (Ana), Juanita, Desideria et Clara — apprirent également la poterie et en produisirent. Au départ, Maria créait de la céramique polychrome traditionnelle de son village, utilisant le noir et d’autres couleurs sur un fond blanc ou brun clair. Elle modelait ses pots en enroulant soigneusement l’argile, qu’elle polissait ensuite à l’aide de grattoirs. Ses pièces étaient reconnues pour leur finesse et leur élégance. Son mari, Julian Martinez, artiste à part entière, les décorait.

Bol, 1914/15 – Maria Montoya Martinez

Sur ce bol, un serpent cornu, l’Avanyu — divinité Tewa — entoure le centre du vase et effleure presque le bout de sa queue avec sa langue, dans un mouvement si fluide qu’il semble vivant. Le peuple Pueblo utilise une méthode particulière pour travailler l’argile, sans tour de potier : les pots sont formés à partir de couches superposées en spirale.

Travail à la main, en spirale

Chaque pueblo possède sa propre sous-culture, ses traditions, sa mythologie, son histoire et ses rituels. Les symboles décorant les vases varient donc et leur signification n’est pas toujours identifiable. Une autre différence réside dans le fait que chaque pueblo garde secret l’emplacement où il recueille son argile ; ainsi, les propriétés physiques des céramiques varient d’un village à l’autre. Les traditions céramiques des peuples amérindiens remontent à plusieurs millénaires : des vases en terre cuite datant de 30 000 ans ont été découverts. Lors de fouilles menées en 1908 par Edgar Lee Hewett, professeur d’archéologie et fondateur du Musée du Nouveau-Mexique à Santa Fe, des fragments de poteries préhistoriques Pueblo, à décor noir sur fond noir, furent mis au jour dans la terre sablonneuse et l’argile rouge du désert. Hewett rechercha alors parmi les Pueblo un·e artiste capable de recréer ce type de poterie, dans le but de préserver cet art ancien. Maria Montoya Martinez, déjà connue à San Ildefonso pour la qualité de ses vases, fut choisie pour cette mission. Après de nombreux essais et erreurs, Maria parvint à créer de la poterie noire. Les premiers vases destinés à un musée furent cuits vers 1913. Ils étaient alors bruts, non signés et de qualité rudimentaire. Mais ses compétences s’amélioraient avec chaque pièce, suscitant l’intérêt des collectionneurs. Son travail devint une véritable entreprise, et dès 1918 elle produisit les premiers objets noir sur noir de grande qualité. Une première exposition de cette céramique eut lieu au Musée des beaux-arts du Nouveau-Mexique en juillet 1920.

Noir sur noir aux motifs géométriques – Maria et Julian Martinez, v. 1920

Il fallut un long processus d’expérimentation et de dépassement des obstacles pour recréer avec succès le style noir sur noir tout en répondant aux exigences rigoureuses de Maria. Une difficulté particulière consistait à obtenir la teinte noire souhaitée pour l’argile.

Vase nuptial noir – Maria et Julian Martinez, 1929

Le procédé est long et comprend de nombreuses étapes nécessitant patience et habileté. La première consiste à recueillir l’argile, ce qui a lieu une fois par an, en octobre généralement, lorsque la terre est sèche. L’argile est ensuite stockée dans une structure en briques où la température reste constante. Elle est ensuite mélangée avec du sable et de l’eau pour former une pâte qui repose un ou deux jours avant d’être modelée. La poterie se fait à la main selon une construction en spirale : de longs boudins d’argile construisent progressivement les parois des vases. Celles-ci sont ensuite lissées à l’aide de mouvements croisés afin d’en affiner l’épaisseur. Une fois modelé, le vase est séché puis cuit. Maria utilisait une technique appelée « cuisson en réduction ». Elle consiste à créer une atmosphère pauvre en oxygène autour du vase, ce qui provoque une réaction chimique assombrissant l’argile, lui donnant une teinte noire ou parfois gris fusil. Les vases étaient placés dans un foyer, recouverts soigneusement de tessons, de feuilles d’aluminium ou de déchets métalliques pour les protéger de la flamme, évitant ainsi qu’ils ne deviennent rougeâtres. Une fois le four refroidi, les vases étaient retirés avec précaution.

Deux vases noir sur noir – Maria Montoya Martinez, 1939 (gauche), 1945 (droite)

Vase haut, 1934 – Maria Montoya Martinez
Signatures au revers des vases

Maria et Julian furent reconnus pour avoir revitalisé une tradition céramique ancienne et reçurent des prix à l’échelle internationale. Julian mourut en 1943. La notoriété de Maria lui conféra un rôle important dans sa communauté. Elle facilita les relations entre les siens et les soldats ou scientifiques du projet Manhattan, arrivés à Los Alamos. Ce projet militaire occupait des terres ancestrales utilisées par les Amérindiens pour la chasse, la pêche, le camping ou les rituels sacrés. Grâce à Maria, un atelier de céramique vit le jour, devenant par la suite une institution régionale durable. Le projet requérant une main-d’œuvre importante, de nombreux Amérindiens furent employés comme chauffeurs, ouvriers, menuisiers, jardiniers. Le fils de Maria travailla comme machiniste. Attirées par des salaires élevés, des femmes furent recrutées comme domestiques ou nourrices. Une véritable fièvre du collectionneur gagna les nouveaux venus, et les céramiques — surtout celles de Maria — furent très prisées. Pour répondre à la demande, une production en série fut lancée, rompant avec la tradition séculaire du travail pièce par pièce.

Bols en céramique noire, 1950–59 – Maria Montoya Martinez

Maria expose ses œuvres à toutes les expositions universelles jusqu’à la Seconde Guerre mondiale. Elle forme trois générations de jeunes de sa famille. Face à la demande croissante, elle comprit que son savoir-faire pouvait enrichir toute la communauté de San Ildefonso, tant sur le plan artistique qu’économique, et elle partagea généreusement ses techniques. Sur cette photo prise par Susan Peterson en 1975, Maria est assise à droite, entourée de sa famille à San Ildefonso. Cinq générations ont perpétué cette riche tradition d’habileté et d’innovation, jusqu’à son arrière-petite-fille Barbara Gonzales, debout au centre en t-shirt jaune, avec ses fils Cavan et Aaron.

La famille Martinez – Photo de Susan Peterson, 1975

Vase polychrome avec motif de serpent Avanyu, 1960 – Maria Montoya Martinez

Le motif de l’Avanyu réapparaît ici : divinité Tewa, gardienne des eaux, elle est représentée sous la forme d’un serpent cornu ou emplumé aux courbes évoquant le courant de l’eau ou l’éclair en zigzag. Les œuvres de Maria Montoya Martinez, notamment ses poteries noires, font partie des collections de nombreux musées : le Smithsonian, le Metropolitan Museum of Art à New York, le Denver Art Museum, le Penn Museum de Philadelphie, entre autres. Elle est décédée le 20 juillet 1980 à San Ildefonso Pueblo. Elle reçut plusieurs doctorats honorifiques au cours de sa vie, notamment de l’Université du Colorado et de l’Université du Nouveau-Mexique. La sculptrice américaine Malvina Hoffman réalise son portrait. En 1978, une importante exposition personnelle lui fut consacrée à la Renwick Gallery de la Smithsonian Institution. En 2022, elle a été incluse dans l’ouvrage de Ferren Gipson Women’s Work: From Feminine Arts to Feminist Art.


Traduzione spagnola

Graziana Santoro

 La experimentación artística con estilos y técnicas tradicionales de la antigua cerámica ‘Pueblo’ por María Montoya Martínez, contribuyó a proteger el arte cultural de su gente y la llevó a realizar cerámicas de fama internacional. María Poveka Montoya nació en 1887 (algunos piensan en 1885) en San Idelfonso Pueblos, en Nuevo México, en una comunidad de nativos americanos situada a poco más de veinte millas al noroeste de Santa Fe. A una edad temprana aprendió el arte de la cerámica de su tía Nicolasa, que le enseñó a trabajar la arcilla; ella aprendió observando a su tía, su abuela y un primo de su padre trabajando la cerámica. María y sus cuatros hermanas, Maximiliana (Ana), Juanita, Desideria y Clara, aprendieron y empezaron a producir cerámicas. Inicialmente, María realizó la tradicional cerámica policroma de su pueblo, con negro y otros colores sobre un fondo blanco o marrón claro. Modelaba las vasijas enrollando con cuidado la arcilla, y luego alisándola con espátulas. Sus vasijas eran reconocidas como las más delgadas y de la forma más linda. Su marido, Julián Martínez, un artista consolidado con todos los méritos, las decoraba.

Cuenco, 1914/15 - Maria Montoya Martinez

En este cuenco hay una serpiente cornuda, el Avanyu, divinidad Tewa, que rodea la superficie central de la vasija y con la lengua casi se toca la punta de la cola, moviendo el cuerpo hasta el punto que parece vivo. La población Pueblo tiene un método único para trabajar la arcilla: no utiliza el torno para modelar las vasijas, que resultan de estratificaciones de material, añadidas en espiral una sobre otra.

Modelado a mano en espiral

Cada pueblo tiene su propia subcultura, propias tradiciones, mitología, historia, rituales. Los símbolos que adornan las vasijas también son diferentes, y no es posible identificar su significado cada vez. Otra diferencia consiste en que cada pueblo tiene su propio lugar secreto para buscar arcilla y, por lo tanto, también las propiedades físicas de las vasijas producidas por los distintos pueblos son diferentes. Los nativos americanos tienen unas tradiciones cerámicas milenarias. Se han encontrado vasijas de terracota que se remontan a 30.000 años atrás. Durante una excavación en 1908 dirigida por Edgar Lee Hewett, profesor de arqueología y fundador y director del Museo de Nuevo México en Santa Fe, se descubrieron en la tierra arenosa y en la arcilla roja del terreno desértico de Nuevo México fragmentos rotos de cerámica prehistórica de los Pueblo, con auténticas decoraciones negras sobre fondo negro. Hewett buscaba entre los Pueblo quien pudiese reproducir vasijas de este tipo, o sea negro sobre negro, con la intención de proteger esta antigua forma de arte. María Montoya Martínez se conocía en el pueblo Tewa de San Idelfonso por la producción de vasijas preciadas; por esta razón, Hewett identificó en ella la artista capaz de materializar su idea. Tras muchos intentos y errores, María empezó a crear vasijas de cerámica negra. Las primeras vasijas destinadas a un museo fueron cocidas alrededor de 1913. Estas piezas no eran adornadas, ni firmadas y de calidad generalmente rudimentaria. Su destreza mejoraba con cada jarrón, y su arte empezó a causar gran revuelo entre los coleccionistas y se convirtió en un negocio, lo que llevó en 1918 a la creación de las primeras piezas negro sobre negro de alta calidad. El primer testimonio de esta cerámica se remonta a una exhibición en julio 1920 que tuvo lugar en el Museo de Arte de Nuevo México.

Negro sobre negro con dibujos geométricos – María e Julián Martínez, c. 1920

Fue necesario un largo proceso de experimentación y de superación de desafíos, para recrear con éxito el estilo de la cerámica negro sobre negro y así satisfacer los estándares exigentes de María. Un desafío específico fue encontrar una manera de lograr que la arcilla adquiriera el color negro deseado.

Vasija nupcial de María y Julián Martínez en cerámica negra, 1929

El largo proceso consiste en muchos pasos que exigen paciencia y destreza. El primer paso es recoger la arcilla, operación que se realiza una vez al año, típicamente durante el mes de octubre cuando es seca. La arcilla, luego, se guarda en una estructura de ladrillos, donde la temperatura se mantiene constante. El paso siguiente es empezar a modelar la arcilla amasada junto con arena y agua. La mezcla se deja secar ligeramente por uno o dos días. Luego se moldea utilizando solo las manos, con una construcción en espiral: largas bobinas en forma de serpiente van formando gradualmente las paredes de las vasijas; con movimientos cruzados, la superficie se alisa y se vuelve delgada y uniforme, mientras el cuenco o jarrón crece en altura. Terminada la elaboración, se pasa al secado y a la cocción. María utilizó una técnica de cocción llamada “cocción de reducción”. Se obtiene una atmósfera reductora cuando el aire que rodea la vasija no contiene suficiente oxígeno para alimentar las llamas. Esto provoca una reacción química que oscurece la arcilla, dándole ese color negro, o a veces gris metálico. Las vasijas colocadas en el hogar se cubrían cuidadosamente con pedazos rotos de cerámica y hojas de aluminio o restos metálicos, para evitar que la llama las tocara y quemara la cerámica, haciendo que tomara un color marrón rojizo. Una vez que el horno se había enfriado lo suficiente, por último las vasijas se retiraban con cuidado.

Dos vasijas en cerámica negro sobre negro de María Montoya Martínez, 1939 (izq.), 1945 (dcha.)

Vasija alta, 1934 - María Montoya Martínez  Firmas en la base de las vasijas

A María y Julián le fue reconocido haber revitalizado una antigua tradición cerámica, y recibieron reconocimientos internacionales, cuando Julián falleció en 1943. La popularidad de María como artista le permitió desempeñar un papel importante en su comunidad, y fomentar relaciones amistosas con los soldados y científicos del Proyecto Manhattan cuando llegaron a Los Álamos. El ejército ocupaba el terreno para establecer laboratorios científicos e instalaciones de producción industrial, quitándoles a los nativos americanos sus tradicionales tierras de caza, pesca y acampada o sus sitios sagrados ancestrales. La mediación de María creó una oportunidad, ya que el proyecto fomentó la actividad de elaboración de cerámica mediante la creación de un taller que se convirtió en una realidad duradera para la región. Sin mencionar que, debido a las amplias necesidades de personal de mantenimiento y vigilancia que presentaba el proyecto, muchos nativos americanos fueron contratados, generalmente empleados como camioneros, obreros de la construcción, carpinteros y jardineros, incluso el propio hijo de María fue contratado como maquinista; mientras que las mujeres, atraídas por los altos salarios, eran reclutadas como camareras y asistentes a la infancia. Entre los ocupantes se difundió una 'fiebre de coleccionismo', la que hizo que la cerámica fuera muy solicitada, especialmente la de María Montoya Martínez. Sin embargo, para mantener el ritmo de la demanda, se comenzó con la producción en serie de las vasijas, anulando la tradición secular que consistía en elaborar las piezas una por una.

Cuencos en cerámica negra, 1950-59 - María Montoya Martínez

María exhibió su cerámica en cada feria mundial hasta la Segunda Guerra Mundial y formó a tres generaciones de jóvenes de su familia. Con la creciente demanda, se dio cuenta de que su trabajo podía enriquecer la vida artística y económica de todo el pueblo, y compartió generosamente sus técnicas. En esta foto, tomada por Susan Peterson en 1975, María está sentada, a la derecha, con su familia en San Ildefonso. Cinco generaciones han seguido con esta rica tradición de habilidad artística y diseño innovador; la última fue su bisnieta, Bárbara Gonzales, quien aparece de pie en la foto con una camiseta amarilla, junto a sus hijos, Cavan y Aaron.

La familia Martínez - Fotografía de Susan Peterson, 1975

Vasija policromática con dibujo de serpiente Avanyu, 1960 – María Montoya Martínez

En esta vasija vuelve el Avanyu, deidad Tewa, guardiana del agua, representada como una serpiente con cuernos o plumas, cuyas curvas evocan el flujo del agua o el zigzag de los relámpagos. Las obras de María Montoya Martínez, y sobre todo sus cerámicas negras, se hallan en las colecciones de muchos museos, incluyendo el Smithsonian, el Museo de Arte Moderno de Nueva York, el Museo de Arte de Denver, el Museo Penn de Philadelphia y otros más. Falleció el 20 de julio de 1980 en el Pueblo de San Ildefonso. María Montoya Martínez recibió un doctorados honorarios por parte de la Universidad de Colorado y otro de la Universidad de Nuevo México. Malvina Hoffman, destacada escultora estadounidense, realizó su retrato. En 1978, presentó una importante exposición individual en la Renwick Gallery de la Smithsonian Institution. En 2022 fue incluida en un libro de Ferren Gipson sobre el trabajo de las mujeres: Women's Work: From Feminine Arts to Feminist Art.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Maria Montoya Martinez's artistic experimentation with the traditional styles and techniques of ancient Pueblo pottery has helped to preserve the cultural art of her people and has led her to create internationally renowned ceramics. Maria Poveka Montoya was born in 1887 (some say 1885 instead) in San Ildefonso Pueblo, New Mexico, in a Native American community located just over twenty miles northwest of Santa Fe. At an early age she learned the art of pottery from her Aunt Nicolasa, who taught her how to work with clay, and she learned by watching her aunt, her grandmother, and her father's cousin work pottery. Maria and all four of her sisters, Maximiliana (Ana), Juanita, Desideria and Clara, learned and made pottery. Initially, Maria made the traditional polychrome pottery of her village, with black and other colors on a white or light brown background. She shaped the pots by carefully rolling the clay, then smoothing it with scrapers. Her pots were recognized as the thinnest and most beautifully shaped. Her husband, Julian Martinez, an accomplished artist in his own right, decorated them.

Bowl, 1914/15 - Maria Montoya Martinez

In this bowl a horned snake, the Avanyu, Tewa deity, encircles the central surface of the bowl and with its tongue almost touches the tip of the tail, moving its body enough to look alive. The Pueblo people have a particular method of working with clay - they do not use a potter's wheel to shape the pots, which result from layers of material, added spirally one on top of the other.

Handworked, spiral work.

Each pueblo then has its own subculture, its own traditions, mythology, history, rituals. The symbols that decorate the vessels are also different, and it is not always possible to identify their meaning. Another difference lies in the fact that each pueblo has its own secret place for finding clay, therefore, the physical properties of pots produced by various pueblos are also different. Native Americans have had pottery traditions for many millennia. Clay pots have been found dating back 30,000 years. During an excavation in 1908 conducted by Edgar Lee Hewett, professor of archaeology and founder and director of the New Mexico Museum in Santa Fe, broken pieces of prehistoric Pueblo pottery, with original black decoration on a black background, were discovered in the sandy soil and red clay of the New Mexico desert terrain. Hewett sought among the Pueblo people who could recreate pots of this type, that is, black on black, with the intention of thus preserving the ancient art form. Maria Montoya Martinez was known in the Tewa pueblo of San Ildefonso for making fine vessels, therefore, Hewett identified her as the artist who could bring his idea to life. After much trial and error, Maria began to produce black ceramic vases. The first vases for a museum were fired around 1913. These pieces were undecorated, unsigned and of generally crude quality. Her skill improved, however, with each vase, and her art began to cause quite a stir among collectors and turned into a business, leading to the first creation of high quality black-on-black pieces in 1918. The first evidence of this pottery was in a July 1920 exhibition held at the New Mexico Museum of Art.

Black on black with geometric designs - Maria and Julian Martinez, c. 1920

It took a long process of experimentation and overcoming challenges to successfully recreate the style of black on black ceramics and meet Maria's exacting standards. One specific challenge was to find a way to make the clay take on the desired black color.

Maria and Julian Martinez's black ceramic wedding vase, 1929

The lengthy process consists of many steps that require patience and skill. The first step is to collect the clay, an operation that is done once a year, usually in October when it is dry. The clay is then stored in a brick structure where the temperature remains constant. The next step is to start shaping the kneaded clay together with sand and water. The dough is allowed to dry slightly for a day or two. It is then worked using only the hands, with a spiral construction: long, snake-shaped coils gradually build the walls of the pots; with crisscrossing movements, the wall is smoothed and made thin and even as the pot increases in height. Once the workmanship is finished, it is dried and fired. Maria used a firing technique called "reduction firing." A reducing atmosphere occurs when the air surrounding the pot does not contain enough oxygen to feed the flames. This causes a chemical reaction that darkens the clay, giving it that black, or sometimes gunmetal, color. Pots placed in the hearth were carefully covered with broken pieces of pottery and aluminum foil or scrap metal to prevent the flame touching them from burning the pottery, causing it to turn a red-brown color. After the kiln had cooled enough, the pots were finally carefully removed.

Two black-on-black ceramic vases by Maria Montoya Martinez, 1939 (sin), 1945 (dex)

Tall vase, 1934 - Maria Montoya Martinez  Signatures on the base of the vases

Maria and Julian were recognized for revitalizing an ancient tradition of ceramics, and won international recognition when Julian died in 1943. Maria's popularity as an artist led her to play an important role in her community, and to foster friendly relations with Manhattan Project soldiers and scientists when they arrived at Los Alamos. The military occupied the land to establish science laboratories and industrial production facilities there, taking away from Native Americans their traditional hunting, fishing and camping grounds or ancestral sacred sites. Mary's mediation created an opportunity, because the project fostered pottery making with the establishment of a workshop that became a permanent fixture for the region. Not to mention that because the project had a significant need for maintenance and custodial staff, many Native Americans were hired, generally employed as truck drivers, construction workers, carpenters and gardeners, Mary's own son was hired as a machinist, while women, attracted by the high wages, were recruited as maids and childcare workers. A "collector's craze" spread among the occupants, making ceramics, especially those by Maria Montoya Martinez, in high demand. However, in order to keep up with demand, mass production of the pots began, undoing the centuries-old tradition of making the objects one at a time.

Black ceramic bowls, 1950-59 - Maria Montoya Martinez

Maria exhibited her pottery at every world fair until World War II and trained three generations of young people in her family. As demand grew, she realized that her work could artistically and economically enrich the lives of the entire pueblo, and she generously shared her techniques. In this photo, taken by Susan Peterson in 1975, Maria is seated, right with her family in San Ildefonso. Five generations have continued this rich tradition of artistry and innovative design, last the great-granddaughter, Barbara Gonzales, pictured standing, yellow T-shirt, with her sons, Cavan and Aaron.

The Martinez family - Photo by Susan Peterson, 1975

Polychrome vase with Avanyu snake design, 1960 - Maria Montoya Martinez

Returning on this vase is the Avanyu, Tewa deity, guardian of water, depicted as a horned or feathered serpent with curves suggesting the flow of water or the zig-zag of lightning. Maria Montoya Martinez's works, particularly her black ceramics, are in the collections of many museums, including the Smithsonian, the Metropolitan Museum of Art in New York, the Denver Art Museum, the Penn Museum in Philadelphia, and others. She died on July 20, 1980, in San Ildefonso Pueblo. Maria Montoya Martinez received honorary doctorates during her lifetime at the University of Colorado and the University of New Mexico. Malvina Hoffman, a fine American sculptor, created portrait of her. In 1978 she held a major solo exhibition at the Smithsonian Institution's Renwick Gallery. In 2022 she was included in a book on the work of women by Ferren Gipson: Women's Work: From feminine arts to feminist art.