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Giovanna Zangrandi

(Galliera (BO), 1910 - Borca di Cadore, 1988)

Una via le è stata dedicata a Borca di Cadore, il paese dove visse per molti anni.

Storia di una donna e di un rifugio
di Paola Gardin
 
Giovanna Zangrandi nasce a Galliera, nella pianura bolognese, col nome di Alma Bevilacqua. Niente fa pensare che una ragazza, nata lì nel 1910, aspirasse ad altro che ad una vita “normale”, matrimonio e maternità, simile a quella di tutte le altre donne. Al massimo maestra, l’unico “mestiere” che, conciliando casa e lavoro, è ritenuto adatto ad una donna; ma “scrittrice e montanara”, mai!
Il padre Gaetano  è veterinario, la madre, Maria Ebe Tardini, casalinga: sarebbe una famiglia normale, benestante, se  il marchio della pazzia, che serpeggia tra i numerosi fratelli del padre, non gettasse un’ombra cupa sull’infanzia della piccola Alma. Da allora forse comincia il suo desiderio di nascondersi, di fuggire dal pericolo, di tramutarsi in qualcosa d’altro, il più lontano possibile dalla nevrosi e dalla schizofrenia.  Forse le spetterebbe un altro destino se non avesse una madre  dal carattere forte. A lei, in ossequio alla legge del tempo, che privilegiava i maschi rispetto alle femmine, era stato impedito di continuare negli studi , ma proprio per questo trasmetterà alla figlia l’amore per la lettura e le permetterà di studiare fino alla laurea.  Il padre ben presto manifesta i sintomi della malattia, inutilmente la famiglia si trasferisce a Desenzano del Garda per cercare di sollevarlo dalla depressione.  Qui, dove  Alma prosegue gli studi con ottimi voti, il clima è mite, il paesaggio sereno, ma l’ombra non scompare: nel 1923 il padre si suicida. Nello stesso anno Alma con la madre si trasferisce a Bologna: pur non amando la città, l’ambiente familiare e quello scolastico prosegue i suoi studi fino alla laurea in Chimica, cui segue l’abilitazione professionale in Chimica e Farmacia e  l’assistentato volontario in Geologia.
Nel 1937, con la morte della madre, l’ultimo legame si spezza. Una vita nuova può iniziare: insegnante di Scienze a Cortina,  dove nessuno conosce il marchio dei Bevilacqua. Lì tra le montagne che già  aveva apprezzato durante  le vacanze, può respirare libera. Prova l’arrampicata, diventa  maestra di sci, guida alpina e  scrittrice. Non ha ancora idee politiche precise, ha frequentato solo scuole fasciste respirandone la retorica ma, come sua madre, condanna le imposizioni, la propaganda, le manifestazioni roboanti del regime. Si fa i primi nemici fra le persone che aderiscono o che simpatizzano per il Partito fascista. Nel settembre del 1943 entra nella  Resistenza e fa parte della Brigata Garibaldina “Pier Fortunato Calvi”. Prende il nome di “Anna” ed è il primo vero cambio di pelle. C’è un comandante, Severino Rizzardi, che le piace, ma non è solo per amore che sfida il pericolo: ce ne vuole di coraggio per passare il confine stabilito a Dogana, prima di Cortina, portando informazioni e documenti falsi che nasconde tra carte di insegnante. Trasporta anche armi e come  staffetta sa di rischiare la vita, né più né meno dei suoi compagni. E’ un’insegnante, non dovrebbe destare sospetti , ed  è autorizzata ad andare e venire, alla fine capisce di essere tenuta d’occhio. Per mesi si nasconde in montagna, di cui conosce i boschi, le rocce ed anche gli spartani ricoveri. Fame e paura spesso le mordono lo stomaco.
La guerra finisce ma è destino che non tutto vada bene: il comandante partigiano di cui si è innamorata muore poco prima della Liberazione. Il sogno abbozzato insieme, quello di gestire un rifugio alpino, sembra sfumare.
 Alma-Anna non assomiglia al padre, ha la forza della madre: non si arrende.
Dopo la guerra tante cose sono cambiate, anche lei ricostruisce la sua nuova vita piena di attività.
Fonda  e dirige un giornale, il Val Boite, che ha il nome del torrente che da Campo Croce, a 1800 m, scende impetuoso fino al Piave.  Come un torrente  corrono le sue parole su quei fogli: non si limita ad informare, spesso attacca e critica i “voltagabbana” e quanti vogliono nascondere il passato fascista indossando nuovi panni. Si impegna nelle istituzioni pubbliche locali. E’ il momento di cambiare una seconda volta la pelle: rinuncia all’insegnamento dedicandosi  solo alla scrittura e al suo sogno “impossibile”: gestire un rifugio. Poiché non ce n’è uno disponibile lo costruisce, dirigendo i lavori e partecipando attivamente alla costruzione. Non è uno di quei rifugi su un passo o un colle raggiunti da una strada carrabile, ma un vero rifugio alpino a 1796 metri, sulla sella di Pradonego, ai piedi del gigantesco Antelao. E con quel nome lo chiama, il nome del Monte, del Re delle Dolomiti, la temibile piramide di roccia con la cima, a più di tremila metri, quasi perennemente immersa nelle nuvole. Sale al Rifugio, passo dopo passo, dal paese fino alla sella col suo zaino stracarico, il piede pesante ma sicuro,  quasi sempre sola. Col suo fisico tozzo, i grossi fianchi, le gambe robuste, è guardata un po’ con rispetto e un po’ con circospezione. E’ un mondo maschile quello in cui si è inserita e anche se alcune idee sono mutate il posto di una donna - seppur quello di una donna originale, scrittrice, insegnate, partigiana - è ancora a casa accanto al focolare, a disposizione di marito e figli, e non certo su e giù per i sentieri a portar mattoni e calce. Indossa i calzoni, come un uomo, quando perfino le sportive, se proprio devono usare i pantaloni, li nascondono sotto ampie gonne.
 Ha un cane, Attila, che condivide le sue fatiche e i rari  momenti di  pace con  gioiosità, accompagnandola nelle lunghe escursioni. Con Attila può mostrare la sua tenerezza: Alma è’ solitaria e poco affabile, ama i  monti, la gente delle “terre alte” più chiusa e rude di quella di pianura o di città,  ma allo stesso tempo solidale e tenace, in lotta e in simbiosi con la natura parca di comodità.  E’ affascinata dalla grande solitudine, dai panorami  superbi,austeri, dalla gente  sincera e autentica, tanto da legarsi al Cadore per tutta la vita. Per i cadorini, per quanto possano in fondo ammirare il suo impegno e i suoi meriti, resta pur sempre una forestiera, una che “viene da fuori” in un paese di persone accumunate da salde parentele, da una lingua propria, da abitudini e stili di vita che la fanno apparire un corpo  estraneo.
Del resto non si è mai piaciuta: il fisico robusto le è servito ad affrontare le fatiche, le alzate mattutine, i pesi da portare da valle  in montagna, le giornate sugli sci e quelle sulle rocce.   È  intelligente e forte, ma non certo graziosa.  Nelle fotografie  in cui è molto giovane, tutte in bianco e nero, si vede una ragazza con lunghi capelli scuri, il viso con la freschezza dell’età.  In quelle successive non concede nulla alla femminilità, alla moda: piccola,  robusta, in  pantaloni  larghi e con l’“eterna” giacca scura, (che sarà la protagonista di un suo racconto), il volto già segnato da rughe, lo sguardo indomito, a volte  ironico e a volte dolce come nella foto che la ritrae col suo cane.  
Gestisce il rifugio per circa quindici anni con molta determinazione anche se i suoi  atteggiamenti, la poca cura per se stessa, il suo fisico e il suo carattere così poco “femminili” non le accattivano la simpatia altrui, tranne fra le poche persone che sanno vedere la sua anima generosa oltre la rude “scorza”.
 Scrivere  è la sua passione  che la porta al successo  nel 1951 con le Leggende delle Dolomiti. Adotta diversi pseudonimi: “Ada”, poi “Anna” il suo nome da partigiana, e infine Giovanna; già che c’è cambia anche il suo cognome che evoca troppa acqua e prende quello più “montano” di Zangrandi.
Come Giovanna Zangrandi  la zona d’ombra della sua giovinezza è alle spalle, ora è una scrittrice. Nel 1954 ottiene il premio Deledda con il libro I Brusaz,  romanzo  con  personaggi  inventati ma vivi e veri, soprattutto quello forte e indimenticabile di Sabina.  Scrivi tanti altri testi, una  guida di Borca di Cadore, articoli, saggi, racconti. Nel 1959 Il Campo Rosso,  la storia della costruzione del suo Rifugio, riceve il premio “Bagutta”. Narra la tua esperienza nella Resistenza, quei giorni esaltanti, intensi e pericolosi ne I Giorni Veri pubblicato nel 1960. L’anno dopo deve riconoscere che gestire il rifugio non è stata un’attività remunerativa  e lo cede al Cai. Non è la prima volta che si deve arrangiare, si improvvisa  affittacamere, trasportatrice e anche bracconiera. Si sposta da Cortina  a Borca di Cadore, ma non dentro al paese che, se pur piccolo, è per lei troppo affollato:  si sistema in una  casa vicino al bosco. Non hai mai fatto parte di circoli letterari, ha fama di essere più burbera di quel che è. Si isola, ha pochissimi amici, cominciano i giorni tristi della malattia, il morbo di Parkinson a causa del quale perderà progressivamente l’autonomia e la capacità di scrivere. Forse   trova consolazione nel bere, ma continua a lottare.  Adesso la lotta è contro qualcosa che la minaccia da dentro, qualcosa che sta tradendo il suo forte fisico; ma la  volontà è ancora intatta e dal 1966 al 1970 scrive ancora molto: Anni con Attila, Racconti partigiani e no, Il Diario di Chiara ambientato in Trentino nel 1848. Forse si riconcilia anche col suo passato, con la giovane Alma e i suoi fantasmi attraverso Gente alla Palua, il libro di racconti di vita emiliana.
Viene anche il tempo della resa: per ritegno non chiede volontariamente aiuti ad estranei, ma deve accettare una donna che venga in casa, tocchi le tue cose senza sapere il valore che hanno per lei le sue carte. Alla fine ad assisterla e vegliarla le rimane un solo amico, il partigiano “Volpe” del suo libro I Giorni veri: Arturo Fornasier le starà vicino, con rispetto, amicizia e lealtà in quei lunghi anni della malattia.
Alma lascia questa vita il 20 gennaio del 1988. All’ex-partigiano restano  le sue carte in disordine, i suoi racconti inediti, le bozze, gli appunti, la corrispondenza, tutto l’archivio di una vita. La sua famiglia lo custodisce ancora nella casa di Pieve di Cadore. Una studiosa,  Myriam Trevisan , sistema con cura tutto il materiale, inventariando carte e appunti.
Per suo volere è sepolta a Galliera, nella tomba di famiglia. Lì Giovanna torna Alma e riposa in pace.
Lo spirito è ancora lassù, in alto, sopra le montagne. Il rifugio, cui hai voluto dare il nome del grande Antelao, è ancora lì sulla sella di Pradonego  e questo, insieme ai suoi libri, è il suo lascito più bello.


Opere Principali:

Leggende delle Dolomiti, Milano, L’Eroica, 1951
I Brusaz, Milano, Mondadori, ‘La Medusa degli italiani’(Premio Deledda), 1954
Orsola nelle Stagioni,  Mondadori, ‘La Medusa degli italiani’, 1957
Il Campo Rosso, Editore  Ceschina, ( Premio Bagutta),  1959
I Giorni Veri (1943 – 1945), Milano, Mondadori, ‘Il Tornasole’, 1963   
Anni con Attila,  Milano, Mondadori, ‘Il Tornasole’, 1966  
Borca di Cadore. Cenno storico e turistico, Belluno, Tip. Piave, 1970
Il diario di Chiara, Milano, Mursia, 1972
Racconti partigiani, Belluno, Nuovi sentieri, 1975
Gente della Palua. Racconti, Belluno, Nuovi sentieri, 1976

Fonti
Myriam Trevisan, Giovanna Zangrandi. Una biografia intellettuale, Carocci Editore, 2011
L’Archivio di Giovanna Zangrandi,  a cura di Myriam Trevisan, Pubblicazione degli Archivi di Stato- Quaderni della Rassegna degli Archivi di Stato- n. 107
L’Archivio di Giovanna Zangrandi,  a cura di Myriam Trevisan, Carocci Editore, 2005
http://www.dols.it/2014/12/15/giovanna-storia-di-una-donna-e-di-un-rifugio/
http://archivi.beniculturali.it/dga/uploads/documents/Quaderno_107.pdf
http://www.comune.galliera.bo.it/upload/galliera_ecm8/gestionedocumentale/GIOVANNA%20ZANGRANDI_784_2428.pdf http://www.museogalvani.eu/galvani-resistenza/scrittrici-partigiane/giovanna-zangrandi

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