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Sophie Taeuber - Arp

(Davos, Svizzera, 1889 - Zurigo, 1943)

Le sono state intitolate strade a Zurigo, Strasburgo e Berlino

 

Alexandrine Tinne

(L'Aja 1835 - Deserto Libico 1869)
 

Una piazza è a lei intitolata a Leida, in Olanda , ed un edificio la ricorda ad Amsterdam.
Un piccolo “indicatore” sul Nilo, tra gli altri esploratori, porta il suo nome ed una targa la ricorda a Tangeri, in Marocco.

Una viaggiatrice in Africa
di Ester Rizzo
 

Alexandrine Petronella Francina Tinne è stata la prima donna europea, nel 1869, ad organizzare una spedizione e ad esplorare il deserto del Sahara.
Figlia di Filippo Frederik Tinne, mercante e ricco imprenditore olandese, e della baronessa Henriette van Capellen, entrambi colti e di spirito avventuroso, non fu allevata ascoltando favole per bambini ma resoconti di viaggi.
Quando suo padre morì, ella diventò una delle ereditiere più ricche degli interi Paesi Bassi.
Fu fidanzata ma decise di vivere la sua vita viaggiando, voleva a tutti i costi diventare esploratrice, non era fatta per il matrimonio.
In molti viaggi fu accompagnata dalla madre e dalla zia: donne molto intraprendenti che però trovarono entrambe la morte in una spedizione.
Alexandrine visitò l’Egitto, l’Algeria, il Congo, la Tunisia, il Sudan… esplorando con coraggio territori inospitali e cercando di scoprire le sorgenti del Nilo.
In Europa i giornali la definirono una "giovane e bella cavallerizza temeraria, che padroneggiava molte lingue tra cui l'arabo". Questa notorietà le fu utile, quando, stabilendosi nel Maghreb, iniziò a denunciare le condizioni disumane in cui versavano gli schiavi ed ottenne di edificare un "ritrovo" per schiavi liberati, proprio vicino alla sua abitazione.
Viene anche descritta da Mario Tobino nel suo "Il deserto della Libia".
Fu assassinata durante un viaggio nel deserto libico: raccontarono che morì dissanguata e il suo corpo non fu mai ritrovato. Né si ebbe certezza del motivo del suo omicidio, anche se in tanti dissero che si trattò di un tentativo di rapina degenerato.
Durante le sue spedizioni fu anche una ricercatrice, infatti scoprì varie piante introducendo ventiquattro nuove specie di cui diciannove della famiglia della menta.
Purtroppo la sua collezione di reperti etnografici, che era conservata a Liverpool, fu distrutta dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, così come una Chiesa costruita per ricordarla a L’Aia, sua città natia.
Fu una donna temeraria e coraggiosa che sfidò la mentalità vittoriana del tempo che assegnava alle donne solo il ruolo di angeli del focolare.

Fonti
Rita Ferrauto, In viaggio da sole, Ed. Sperling & Kupfer 2008
http://it.wikipedia.org/wiki/Alexandrine_Tinnè
http://www.treccani.it/enciclopedia/alexandrine-tinne/
http://www.arablit.it/rivista_arablit/numero1_2011/10_Diana.pdf

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Massimilla Baldo Ceolin

(Legnago, 1924 – Padova, 2011)


La scomparsa ancora recente della scienziata non consente di avere intitolazioni di strade in suo nome, assegnate in genere a 10 anni dalla morte. L’Università di Padova, la stessa in cui insegnò Galileo Galilei, ha voluto però dedicarle la Sala Riunioni della Facoltà, un tempo lo studio in cui
Massimilla Baldo Ceolin lavorava.

Il meraviglioso mondo di Milla

di Virginia Mariani

 

 

Scienziata, fisica e animatrice di incontri e workshop, è stata sensibile al mondo della cultura nella sua totalità: dunque una donna poliedrica che si è dedicata a varie attività, dalla letteratura alla poesia, dalla musica alle arti figurative, facendo parte di numerose Accademie e coniugando questo al suo impegno civile.

Massimilla Baldo Ceolin, o Milla come la chiamavano gli amici e le amiche, è stata la prima donna a ricoprire nel 1963 la cattedra prima di Fisica Generale e poi di Fisica Superiore nell’Università di Padova che è pure la stessa Università nella quale si era laureata nel 1952.

Determinata e autorevole negli ambienti universitari sia italiani che internazionali, inizialmente si è rivolta alla comprensione delle “particelle strane” affermando l’idea dell’esperimento e il calcolo di fattibilità che la condussero all’interpretazione del primo evento di antilambda rinvenuto nel 1958 nelle lastre fotografiche in mostra al Bevatron di Berkley.

Ciò che l’ha appassionata da subito e a cui ha dedicato tutta la vita è stata la fisica sperimentale delle alte energie e in particolare le “interazioni deboli”, studi a cui si era in precedenza dedicato anche Enrico Fermi; questi e scienziati come Conversi, Occhialini e Pontecorvo, per i quali la “globalità” del pensare fisico e la creatività nel disegnare soluzioni e apparati sperimentali si univano a una grande sensibilità culturale e umanità, sono stati i suoi riferimenti fondamentali.

Dopo l’iniziale studio delle proprietà dei mesoni K (o kaoni) nei raggi cosmici, ha sviluppato le sue ricerche sui kaoni, sui neutrini e sulla stabilità della materia agli acceleratori del CERN di Ginevra, nonché a quelli dell’ILL di Grenoble, di Berkley e di Argonne negli USA. Ricerche che hanno contribuito di certo nel 2012 a confermare l’esistenza della “particella di Dio”.

Chissà se suo padre, piccolo proprietario di un’officina meccanica, avrebbe potuto immaginare che sua figlia sarebbe diventata una scienziata di successo e pluripremiata: “Premio Feltrinelli” dell’Accademia dei Lincei (1976), Medaglia d’Oro ai “Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte” (1980), Medaglia d’Oro ai “Benemeriti della Scienza e Cultura” (1993), soltanto per citarne qualcuno.

 

Nel febbraio 2016, per ricordarla, l’Università degli Studi di Padova ha bandito un concorso allo scopo di assegnare un premio di studio per attività di ricerca, riservato a donne che lavorano nell’Ateneo e la cui attività si contraddistingue per eccellenza e innovazione. Un premio per ricordare una grande personalità come quella di Milla, dunque, che si è formata grazie alla ricerca e alla sperimentazione costante in quell’universo della conoscenza il più delle volte declinato al maschile ma in continua crescita ed espansione. Grazie anche a donne come lei.

Fonti:

http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/milla-baldo-ceolin-signora-dei-neutrini
http://www.sif.it/attivita/saggiatore/ricordo/baldoceolin
http://www.scienzainrete.it/italia150/massimilla-baldo-ceolin

http://www.dfa.unipd.it/index.php?id=1417

 
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Le balie della Valdinievole

di Laura Candiani


Riferimenti toponomastici: via delle Balie si trova a Brindisi e aTricase (LE).

Con il riordino e l’apertura al pubblico degli Archivi storici della provincia di Pistoia, nel 1995, è riemersa una realtà a lungo tempo dimenticata, quella delle balie che dalla Valdinievole emigravano per vendere l’unica cosa preziosa che possedevano: il loro latte. Cominciarono studi, ricerche, interviste alle superstiti e da qui numerose pubblicazioni e una mostra che ha percorso buona parte della Toscana.
Ma perché c’è stato questo oblio? Perché il baliatico è una questione esclusivamente femminile, quindi “marginale” nell’interesse degli storici (non  a caso le studiose del fenomeno sono praticamente tutte donne); perché è un lavoro “sommerso”, talvolta ignorato dagli stessi discendenti delle protagoniste; perché le donne ne parlavano malvolentieri trattandosi di un evidente segno di miseria, ma anche una fase di doloroso distacco dal proprio figlio neonato; perché esistono poche tracce e documenti, relegati nei cassetti delle case e spesso dimenticati; infine perché era un mestiere anomalo, di breve durata, legato alla quantità e qualità del latte prodotto. Tuttavia, una volta iniziata la ricerca, i documenti sono riemersi: lettere, passaporti, permessi di espatrio, fogli di rimpatrio, fotografie, autorizzazioni del marito (che doveva dare il suo assenso); sono riapparsi oggetti come grembiuli, cuffie, colletti ricamati, vestaglie, scialli, piccoli doni come spille e orecchini, spesso ornati con il corallo porta fortuna. Il fenomeno si può circoscrivere in un periodo abbastanza preciso: dalla seconda metà dell’Ottocento (con scarsa documentazione) agli anni Trenta del XX secolo, in qualche caso anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, presso famiglie italiane nobili o particolarmente agiate. I luoghi di espatrio erano essenzialmente la Francia del Sud e la Corsica, talvolta anche la Tunisia, l’Algeria, la Svizzera, la Germania (ma allora si trattava più di domestiche, cuoche, cameriere, governanti, guardarobiere, bambinaie). Le donne che partivano erano casalinghe e lasciavano a casa un bambino appena nato che veniva quindi allattato da una vicina o una conoscente; erano ovviamente condizionate dal bisogno di dare un contributo economico alla famiglia, per un periodo relativamente breve (da alcuni mesi a un anno e mezzo), anche  se in qualche caso rimanevano poi a servizio come balie “asciutte”. Certamente le donne dovevano affrontare prima il grande sacrificio di separarsi dai figli e dal neonato, poi il viaggio verso un luogo sconosciuto dove avrebbero trovato una nuova lingua e un ambiente ben diverso dal proprio, considerando che spesso erano analfabete, semplici contadine mai uscite dal paese.
Tuttavia l’esperienza poteva rivelarsi utile da vari punti di vista: intanto le balie erano ben nutrite e ben vestite, si occupavano esclusivamente del bambino loro affidato, mangiavano a tavola con i padroni, in estate si trasferivano in bellissime luoghi di villeggiatura, ricevevano un regolare salario dopo un regolare contratto e una visita medica, potevano avere dei doni e vivevano una esperienza di emancipazione e di autonomia economica, instauravano rapporti anche belli e duraturi con i loro “figli di latte”, frequentavano ambienti che mai più nella vita avrebbero conosciuto. Facendo qualche esempio, troviamo fra le balie di Ponte Buggianese Maria Annunziata Lenzi che lavorava a Parigi presso la famiglia di un ministro, Candida Camerini a Tunisi in casa del console, Rita Carrara dai marchesi Bourbon di Petrella, Clelia Martini dal console a Cannes, Damara Neri assunta dalla contessa Maria Sole di Campello, sorella di Gianni Agnelli, per allattare la piccola Argenta. Perché le balie partivano proprio dalla Valdinievole, provincia di Lucca fino al 1928? Il fenomeno del baliatico riguarda varie regioni e realtà geografiche italiane, ma in quest’area specifica alcuni comuni erano relativamente giovani (Ponte Buggianese nasce nel 1883), mancavano le industrie, si viveva di agricoltura e di quello che offriva il limitrofo Padule di Fucecchio (caccia, pesca, erbe palustri): il latte appariva una risorsa da sfruttare, preferibile a una vera e propria emigrazione familiare. Scriveva da Chicago un marito: “Vai volentieri a Marsiglia e cerca con buon giudizio di avanzare più moneta che tu puoi (…) perché anche quaggiù l’America non è quella che si crede di costà”. E’ importante anche il fatto che le donne locali avevano fama di essere pulite e attente all’igiene, diventavano madri in età giovanile, molte sapevano leggere e scrivere e parlavano un buon italiano, dato essenziale per famiglie altolocate che volevano insegnare la lingua ai piccoli pur vivendo all’estero. Come venivano assunte queste donne? Esistevano sul posto delle “procaccine” che curavano il rapporto domanda-offerta, verificavano lo stato di salute delle future partorienti e le prenotavano per i propri clienti; dopo il parto veniva controllata l’abbondanza di latte, si firmava il contratto e si partiva verso l’ignoto, di solito con un accompagnatore di fiducia, con il treno o con la nave. Ma chi allattava i figli delle balie? Delle conoscenti, delle vicine, delle parenti; è tuttavia da notare che la mortalità infantile dei figli delle balie era più alta della norma perché erano privati del latte materno e affidati a donne non sempre sane o attente alla cura e all’igiene propria e dei piccoli. Va ricordato che per tutto l’Ottocento e oltre, in assenza di latte artificiale, il baliatico al proprio domicilio non era affatto raro e si praticava pure negli ospedali. In Toscana due casi emblematici sono stati l’Ospedale degli Innocenti di Firenze e l’Ospedale di Santa Maria della Scala di Siena dove molte donne - di solito madri nubili o vedove o madri a cui era morto il figlio neonato, legate con regolare contratto - allattavano i trovatelli (fino a 5 ognuna), per un periodo che poteva arrivare fino a 18 mesi; dopo iniziava lo svezzamento per cui erano impiegate le balie “asciutte”.  

Fonti:
Laura Candiani, Dall’emigrazione all’immigrazione femminile dal XIX al XXI secolo. Il caso delle balie di Ponte Buggianese, pubblicazione in proprio per uso didattico interno, progetto PIA  a. s. 2005-6 presso Istituto Tecnico Commerciale “F. Forti” - Monsummano Terme                                                                                
Adriana Dadà, Il lavoro di balia in Valdinievole, in Il lavoro delle donne - Attività femminili in Valdinievole tra Ottocento e Novecento, a cura dell’Istituto Storico Lucchese-Sezione “Storia e Storie al Femminile”, Buggiano(PT), Vannini, 2004                          

Adriana Dadà, Partire per un figlio altrui: racconti delle balie nel Novecento, in Altrove. Viaggi di donne dall’antichità al Novecento, Roma, Viella, 1999                                                                                                             
Adriana Dadà (a cura di), Il lavoro di balia. Memoria e storia dell’emigrazione femminile da Ponte Buggianese nel ‘900, Pisa, Pacini editore , 1999                                                                                                                       
Adriana Dadà (a cura di), Balie da latte. Istituzioni assistenziali e Privati in Toscana tra XVII e XX secolo, Firenze, Morgana edizioni, 2002                                                                                                                                            
Nicoletta Franchi, Donne emigranti: il caso di Ponte Buggianese,  in ”Farestoria” , 28, 1996                                 
Rossano Pazzagli- Alberto Maria Onori (a cura di), Il passato e il presente. Itinerari didattici  negli archivi storici della Valdinievole, Pisa, Pacini editore,1995

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Giuseppa Eleonora Barbapiccola

(Salerno, 1700 - Napoli, 1740)
 
Il nome di Giuseppa Eleonora Barbapiccola, per ora, non risulta comparire nella toponomastica locale, nonostante abbia apportato un gran contributo alla cultura filosofica europea del’700: né a Salerno, sua città natale, né a Napoli dove visse e operò,  risulta comparire una strada a suo nome.
 
Giuseppa Eleonora Barbapiccola: la voce delle donne nella cultura
di Luca Basile e Carmen De Cocinis
 
Giuseppa Eleonora Barbapiccola è stata una filosofa e traduttrice italiana, esponente intellettuale dell'illuminismo italiano.  Era nipote del teologo predicatore domenicano Tommaso Alfani, che fondò l'Accademia degli Arcadi nel 1690 per promuovere lo studio della matematica. Frequentatrice del circolo intellettuale del filosofo Giambattista  Vico, fu amica di sua figlia Luisa, con la quale condivise la passione della poesia. Coltivò inoltre il disegno e le scienze. Nell’Accademia degli Arcadi fu accolta nel 1728, unico e non piccolo riconoscimento ufficiale riconosciutole in vita. La fama di Giuseppa Eleonora, nota come la bella cartesiana di Napoli, è legata alla traduzione che fece dei Principia Philosophiae di Cartesio, che diede alle stampe nel 1722. La traduzione italiana di Barbapiccola non fu soltanto una traduzione di alto livello, bensì un manifesto dei diritti delle donne all'educazione. Non a caso la filosofa fece incidere nel volume anche un suo ritratto emblematico: in esso  fissa negli occhi gli eventuali osservatori tenendo nella mano destra un libro; sullo sfondo compare una scaffalatura riccamente intagliata e ingombra di volumi, secondo le regole iconografiche del tempo.
La scelta di tradurre i Principia era stata determinata dalla volontà di condividere l’opera soprattutto con le donne, alle quali  si ripromise di impartire il metodo chiaro e coerente della filosofia cartesiana. Le donne, secondo Barbapiccola, sono più adatte alla filosofia degli uomini, come lo stesso Cartesio affermava nella sua famosa lettera in cui dedicava i Principia alla principessa Elisabetta di Boemia, con cui il filosofo trattenne un lungo carteggio. La Barbapiccola sosteneva che la debolezza intellettuale delle donne era dovuta non certo alla natura, ma a una cattiva educazione: ella polemizzava infatti contro il pregiudizio sulla presunta inferiorità della mente femminile e denunciava il tipo di educazione che veniva impartito alle donne, tenute lontane dai testi originali, perché era loro negato l’insegnamento del greco e del latino, e dall’insegnamento delle materie scientifiche, storiche e giuridiche. Per rafforzare la sua tesi, in questa bella Introduzione, passa  in rassegna tutte le donne che ebbero l’opportunità di segnalarsi nella storia, a partire dall’antica Grecia, terra della poetessa Saffo ma anche della filosofa Ipazia, per arrivare a Vittoria Colonna e alle non poche donne accolte insieme a lei  nell’Accademia dell’Arcadia: Angiola Cimmino, Aurora Sanseverino,Laura Capuano, Margherita Caracciolo. Dopo aver passato in rassegna queste donne famose, afferma: “Dall'esempio di queste chiare Donne io fortemente animata, dandomi a credere di poter vincere un giorno il debole del mio sesso, che fa tutto lo studio in saper giuocare, e in parlar bene degli abiti alla moda e de' nastri, difetto a cui non già la natura, ma la cattiva educazione contribuisce, mi posi a coltivar prima le Lingue, e poi, quanto l’abilità ha permesso, le Scienze [...] Fra queste ultime io studiai la Filosofia perché la sua parte morale ci rende civili, la metafisica perché ci illumina, e la fisica perché ci informa della bella e stupefacente architettura di questo grande palazzo del mondo che Dio ci ha dato come casa. Io sentì dire che la filosofia cartesiana era fondata su solido ragionamento ed esperienze certe, che procedeva con un metodo chiaro facendo derivare una cosa dalle altre [...]. Per queste ragioni, io fui più incline a questa filosofia che a ogni altra» [Barbapiccola, 1722, p. 8]. (Dall’Introduzione ai Principia)
La Barbapiccola, quindi, afferma di aver tratto dall’esempio delle donne illustri, nominate nei passi precedenti della sua Introduzione, non solo la consapevolezza e la speranza che le donne possano liberarsi dalla loro condizione di “minorità” dovuta alla cattiva educazione a cui erano costrette, ma anche l’entusiasmo e la voglia di dedicarsi a discipline fino ad allora  riservate unicamente agli uomini, dalle quali le donne erano costantemente allontanate in quanto l’opinione comune riteneva  che l’intelletto femminile fosse strutturalmente inadeguato a pensare secondo i principi della Ragione. Pertanto la Barbapiccola dimostra, attraverso l’esempio sia di donne famose sia della sua vicenda personale, che la donna non è in grado solamente di badare alla casa e di occuparsi dei figli, ma può perfettamente dedicarsi a materie che richiedono un grande sforzo intellettuale e apportarvi un illustre contributo, esattamente allo stesso modo di come possono farlo gli uomini.
Di Barbapiccola ci è giunto anche uno scambio di sonetti con Luisa Vico, figlia di Giambattista, contenuto nel libro di Vico Componimenti in lode del padre Michelangelo da Reggio di Lombardia. A lei fu anche dedicato un sonetto dal poeta salernitano Gherardo De Angelis in cui il poeta esagerò sul "tanto splendore" che ella avrebbe aggiunto a Cartesio, ma, paragonandola alla greca Aspasia moglie di Pericle, intuì bene il motivo espresso dalla stessa Barbapiccola di volere vincere il pregiudizio sulla vanità e superficialità dell’intelligenza  femminile.

Fonti:

Manuela Sanna, Un' amicizia alla luce del cartesianesimo.  Giuseppa Eleonora Barbapiccola e Luisa Vico,  in Donne  filosofia  e cultura nel Seicento, CNR, Roma 1999.
I principi della filosofia di Renato Des Cartes. Tradotti dal Francese col confronto del Latino in  cui l' Autore gli scrisse da  Giuseppa Eleonora Barbapiccola , tra gli Arcadi  Mirista, Torino 1722.
G. De Martino M. Bruzzesi, Le Filosofe, Liguori
Decartes, Le passioni dell’anima, Lettere sulla morale, Laterza, Bari 1966

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Felicia Bartolotta Impastato

(Cinisi, (PA), 1916 - 2004)

Le è stata intitolata una via a Terrasini, in provincia di Palermo.

La forza di una mamma
di Ester Rizzo

Una donna che non si è mai arresa alla rassegnazione e che incondizionatamente ha sposato gli ideali del figlio trasmettendoli fino all’ultimo giorno della sua vita.
Felicia Bartolotta Impastato nacque a Cinisi, in provincia di Palermo, il 24 maggio1916
La famiglia in cui nacque era piccolo-borghese, il padre impiegato e la madre casalinga.
Nel 1947 si sposò con Luigi Impastato che faceva parte di un clan locale mafioso e addirittura un cognato era il capomafia di Cinisi.
Il suo non fu un matrimonio felice, lei stessa dichiarava che la sua vita coniugale era un inferno e ripeteva continuamente al marito che non avrebbe mai accettato che sotto il suo stesso tetto si fosse nascosto qualche latitante.
Appena il figlio Peppino crebbe e iniziò la sua lotta contro la mafia, la vita di Felicia diventò un tormento nel tentativo di difenderlo, sia dal padre che lo aveva cacciato di casa, sia da quella società intrisa di mafia in cui viveva.
Visse ogni giorno con la paura che potessero uccidere Peppino, cosa che purtroppo avvenne il 9 maggio 1978.
Piccola, minuta, gonfia di dolore e smarrita, decise di costituirsi parte civile. A Giovanni, il figlio che le era rimasto, diceva “Tu non devi parlare. Fai parlare me”, nel disperato tentativo di proteggerlo. E Felicia iniziò a parlare, con la gente, con i magistrati, con i giornalisti: aprì la sua casa a tutti quelli che volevano conoscere la storia di Peppino Impastato, una storia di ribellione alla mafia e di sete di giustizia; una storia che lei raccontava ogni giorno, come ha dichiarato la nipote Luisa Impastato, forse per tentare di esorcizzare il dolore, per ricordarne la memoria sia agli estranei che ai familiari.
Felicia ha sempre ripetuto che per il figlio ucciso voleva giustizia, non vendetta, un figlio adorato che sin da piccolo aveva difeso dalle grinfie del padre e dello zio che volevano portarlo con loro nella cosca malavitosa.
A questa madre non è restato neanche un corpo su cui piangere: Peppino fu letteralmente sbriciolato da una carica di tritolo nel vile tentativo di farlo passare per un terrorista.
Tra i messaggi scritti dalla gente il giorno in cui questa piccola donna morì, il 7 dicembre 2004, ci piace ricordare: “Ciao signora Felicia, che sei andata al di là degli alberi per pulirlo dal fango, per salvare il suo nome. A noi ora, a noi il compito di cantare la storia di Peppino ma anche della donna che per oltre vent’anni ha lottato per lui e con lui per tutti noi”.
“La forza di una mamma che ha saputo combattere con le armi della giustizia senza cadere nella stupida “vendetta mafiosa”; è questa la grande lezione che ci ha trasmesso questa meravigliosa donna siciliana.

Fonti:
http://www.scuola.rai.it/articoli/le-idee-che-restano-di-felicia-impastato/15155/default.aspx
http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/felicia-bartolotta-impastato/
http://livesicilia.it/2009/05/09/lo-scoop-di-mario-francesemio-figlio-e-stato-assassinato_4976/
http://www.pourfemme.it/articolo/felicia-bartolotta-impastato-ovvero-cosa-vuol-dire-essere-la-mamma-di-un-eroe-dell-antimafia/40975/
Guido Orlando e Salvo Vitale (a cura di), Felicia (tributo alla madre di Peppino Impastato),  Navarra Editore, Palermo, 2010
Anna Puglisi e Umberto Santino (a cura di), Cara Felicia, Centro Siciliano di Documentazione G. Impastato, Palermo, 2005
Ester Rizzo, Donne per le Donne: Felicia Bartolotta Impastato, “La Vedetta” Febbraio 2015

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Angela Basarocco

(Racalmuto, 1914 - Niscemi, 1986)
 
A Racalmuto, in provincia di Agrigento, è stata intitolata una via a Suor Cecilia Basarocco, che nacque proprio nel paese di Leonardo Sciascia; a Niscemi le è stato intitolato l'ospedale in cui lavorò.

L'eroina di Niscemi
di Ester Rizzo

Possiamo definirla un'antesignana di "Medici senza Frontiere".
Nata il 15 novembre del 1914, a ventuno anni Angela diventò Suor Cecilia e si trasferì a Niscemi per lavorare nell'ospedale locale: lì resterà per oltre cinquant'anni.
Era pronta a correre in aiuto di tutti, senza alcuna discriminazione di persona, confessò addirittura di essere stata costretta di notte a seguire dei banditi per curare clandestinamente un loro compagno ferito in un agguato.
Aveva un'impressionante forza fisica e prendeva gli ammalati in braccio trasportandoli al primo piano, spesso sostituiva il medico collaborando attivamente in chirurgia.
Di lei così hanno scritto: "Suor Cecilia assomigliava a quelle sculture tratteggiate quasi a colpi d'ascia, lasciate apposta grezze, perché l'artista potesse esprimere in modo più efficace le sue intuizioni. L'età del suo volto era indefinita, quasi il tempo non fosse capace di intaccarne i tratti e indebolirne l'energia."
Nel 1943, durante lo sbarco anglo-americano a Gela, Suor Cecilia si ritrovò sola in ospedale a curare i feriti, sia siciliani che tedeschi, che lì si erano rifugiati. Il personale non aveva avuto lo stesso coraggio e si era dato alla fuga. Quando si presentarono le avanguardie americane, lei iniziò ad avviare delle trattative ottenendo che i soldati siciliani potessero allontanarsi per raggiungere le loro case. Il problema erano i militari tedeschi che, essendo considerati spie, furono condannati all'immediata fucilazione. Questi ultimi furono schierati al muro dell'ospedale con il plotone d'esecuzione pronto a dar fuoco. Suor Cecilia, a questo punto, iniziò a correre "come una forsennata, con le braccia aperte davanti ai dodici condannati". "Sparate", gridava agli americani, "sparate anche su di me, Iddio vi perdoni".
Alla vista dell'intrepida donna tutto si fermò e nessuno ebbe il coraggio di sparare. I soldati tedeschi furono portati a Caltagirone, mentre i feriti vennero trasportati a Gela ed imbarcati per raggiungere i luoghi di prigionia.
Per questo gesto altamente significativo ed eroico, nel 1974 le venne consegnata una medaglia d'oro al valore civile. In quell'occasione assistettero alla cerimonia due cittadini tedeschi che lei aveva sottratto alla morte.
Un altro episodio che si ricorda è quello relativo ad una ragazza usata ed abusata come prostituta, che venne ricoverata in ospedale. Suor Cecilia, con mille stratagemmi e pretesti, prolungava di giorno in giorno il suo ricovero, per sottrarla agli sfruttatori ed al loro iniquo disegno.
Nel 1985, malata di un cancro ai polmoni, celebrò i cinquant'anni di professione religiosa portando all'offertorio i ferri chirurgici che la dovevano operare.
Morì a settantadue anni, nel 1986, avendo dissimulato la sua malattia per essere sempre presente in reparto.
E' passata alla storia come "l'angelo bianco" e "l'eroina di Niscemi".

Fonti:
Maria Triglia, Angela Basarocco, in Siciliane. Dizionario illustrato, a cura di M. Fiume, Emanuele Romeo Editore, Siracusa, 2006, pp. 416-418

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Ada Bellucci Ragnotti

 (Perugia, 1879 - 1971)

Ada Bellucci Ragnotti ha dato tanto alla sua città, ma a Perugia non c’è nessuna via o targa che la ricordi, mentre il comune di Corciano (PG) le ha intitolato una via al Castello di Mantignana, cioè nella parte più antica del paese, tutta ristrutturata. Il posto è incantevole, la strada anche, c’è solo un appunto da fare: ci voleva tanto a scrivere Ada (invece che A.) Bellucci?

Ada: una donna, tante passioni
di Paola Spinelli

È difficile chiudere in una definizione una donna come Ada Bellucci, che ha indirizzato la sua curiosità e la sua intelligenza in tanti campi diversi, raggiungendo in tutti l’eccellenza.
Nata a Perugia nel 1879, Ada era una dei cinque figli del professor Giuseppe Bellucci, chimico, antropologo, docente e rettore dell’Università degli Studi e tanto altro ancora. Fin dalla giovinezza Ada collaborò col padre, grande ricercatore e collezionista. La raccolta del professor Bellucci, di oltre ventimila pezzi di reperti preistorici, si trova al Museo archeologico dell’Umbria dove è esposta un’altra sua strepitosa collezione, quella degli amuleti. Preziosa è anche la collezione di monete umbre che vanno dal XII  al XVIII secolo, iniziata dal padre, continuata da Ada e poi dal nipote Mario. Vi sono in pratica rappresentate tutte, o quasi, le produzioni umbre e del capoluogo, sia del periodo comunale che della dominazione pontificia, compresi i quattrini coniati durante Guerra del Sale del 1540, quando Perugia si ribellò a papa Paolo III, monete rarissime perché, dopo la riconquista papalina, l’uso o il possesso di questi quattrini comportava la pena di morte o la confisca dei beni. Aveva solo 14 anni Ada quando selezionò con l’aiuto del padre una serie di monete eugubine da esporre a Città di Castello e diede alle stampe Notizie sulla zecca di Gubbio. È la prima di una serie di pubblicazioni di un certo rilievo  nel panorama della numismatica italiana, che ci danno l’immagine di una ricercatrice e divulgatrice moderna, ma ancora oggi poco studiata.
Ada fu anche una studiosa di storia locale e un’ottima traduttrice dal francese; insieme al padre raccolse centinaia di oggetti di uso quotidiano della società contadina a cavallo tra Ottocento e Novecento. La collezione è oggi conservata negli ambienti destinati a laboratorio didattico della Galleria Nazionale dell’Umbria. Molti di questi oggetti erano utilizzati per il lavoro nei campi, per le attività artigianali e per le occupazioni prettamente femminili. Ci sono pettini per la cardatura della lana, fusi, arcolai, filatoi a ruota, telai e utensili per il ricamo e la conseguente raccolta di imparaticci.
Ancora nella Galleria Nazionale, nella sala del Delegato, è conservata una delle più importanti raccolte di tovaglie umbre, donate dai collezionisti Ada Bellucci e Mariano Rocchi.
La Bellucci fu anche imprenditrice tessile. Fondò la società Arte Paesana Umbra, un laboratorio in cui si producevano tessuti a metraggio e capi di corredo ricamati, soprattutto lenzuola e tovaglie, e diresse il laboratorio di tessitura e ricamo del Carcere Femminile di Perugia. Ada era amica di Alice Hallgarten Franchetti che, nei pressi di Città di Castello, nel 1901 aveva fondato per i figli dei contadini due scuole gratuite basate, tra le prime al mondo, sul metodo Montessori e che nel 1908 aveva istituito il Laboratorio di Tela Umbra, allo scopo di migliorare il livello di vita dei suoi contadini attraverso l’istruzione e il lavoro qualificato. La Bellucci collaborò con Alice e, dopo la morte di questa, diresse personalmente il laboratorio e contribuì al suo rilancio negli anni Trenta fornendo idee e allicciature per la creazione di nuovi disegni  (i licci costituiscono  quella parte del telaio che serve a muovere i fili di ordito).
Ada aveva sposato nel 1902 il medico Giuseppe Ragnotti e ne aveva avuto due figli: Ercole, nel 1903, e Nerina nel 1912. Fu un matrimonio riuscito ma, dopo un primo periodo felice, la famiglia fu colpita da dolorosi lutti. La figlia Nerina morì nel 1938 per complicazioni dovute al parto, il marito di lei, ufficiale sommergibilista, morì in un campo di prigionia nell’immediato dopoguerra. Il figlio Ercole, docente di Patologia chirurgica all’Università e ufficiale medico dell’esercito italiano, perse la vita in Nord Africa, sotto un bombardamento nel 1941 mentre prestava soccorso ai feriti in un piccolo ospedale da campo. Fu poi decorato di medaglia d’argento al valor militare alla memoria. Ada rimase vedova nel 1960, ma continuò a coltivare i propri interessi fino alla fine.
In un’intervista rilasciata al giornalista Italo Moretti nel 1960 Ada Bellucci dichiarò: “Non parlate di me ma delle mie piccole cose in cui trovo la pace […]. Dite soltanto, sul vostro giornale, che la mia  storia non dev’essere seppellita.”.

Fonti
Roberto Ganganelli,  Ada Bellucci Ragnotti. Ritratto numismatico di signora, Perugia, Volumnia Editrice, 2014
Maria Luciana Buseghin, Cara Marietta. Lettere di Alice Hallgarten Franchetti (1901-1911), Città di Castello, Tela Umbra ed., 2002
http://www.artiumbria.beniculturali.it/ Galleria Nazionale dell’Umbria
http://www.artidecorativeitaliane.it/laboratorio_ragnotti_bellucci.htmhttp://www.jstor.org/discover/10.2307/1479518?uid=3738296&uid=2129&uid=2&uid=70&uid=4&sid=21104529636083
Fiorella Giacalone, L’oggetto, il tempo, il segno. Su alcuni oggetti di arte popolare della collezione Ada Ragnotti Bellucci, 1988.

Mimmo Coletti, Le grandi famiglie umbre. Storia passata e contemporanea di generazioni che hanno fatto grande questa terra, La Nazione, 1991.
http://www.archeopg.arti.beniculturali.it/index.php?it/97/la-collezione-di-amuleti
 

Giuliana Benzoni

(Padova, 1895 - Roma, 1981)
 
L’odonomastica di Monsummano Terme ricorda il nome di Giuliana Benzoni , nipote prediletta  di Ferdinando Martini, ricco possidente toscano, scrittore e giornalista, docente universitario, deputato per 43 anni e poi senatore, che morì a  Monsummano Terme. Qui la famiglia aveva la bella villa  Renatico-Martini, oggi museo di arte contemporanea  Mac,n.
 
La vita appassionata di una nobildonna antifascista e partigiana
di Laura Candiani

Nata a Padova il 1 giugno 1895, prima di tre fratelli,  da bambina fu allevata dai genitori, dalla nonna Giacinta e dalla zia Teresa in un ambiente aperto  e stimolante, mentre il nonno  materno Ferdinando Martini  era impegnato come governatore in Eritrea (fino al 1907). Nella loro casa erano ospiti i più bei nomi della politica (la nonna era una fervente repubblicana e titolare di una delle prime tessere socialiste di Roma) e della cultura italiana e francese: loro ospite abituale era Anatole France.
Alla vigilia della Grande Guerra, Giuliana ebbe la sua formazione a Firenze e riuscì ad iniziare l’apprendistato come crocerossina. Dopo un breve soggiorno inglese rientrò in Italia, a Roma, dove operò attivamente come staffetta di notizie riservate fra le ambasciate francese e inglese, per assumere poi un ruolo più attivo a fianco degli interventisti democratici.                                                                                                                                                                                    
Nella primavera  del 1916 incontrò - in modo assai romantico, rifugiandosi da conoscenti  a causa di un improvviso acquazzone - l’amore della sua vita: il colonnello slovacco Milan Stefànik che lottava per  l’indipendenza del suo Paese dall’impero Austro-Ungarico, allora solo un miraggio o un lontano sogno. Era un uomo colto e brillante, scienziato ed astronomo, arruolato nell’esercito francese, dai sorprendenti occhi chiari; il giorno successivo regalò a Giuliana - ancora praticamente sconosciuta - una preziosa perla come pegno destinato alla donna della sua vita. Da allora  Milan fu introdotto negli ambienti frequentati da Giuliana e poté così nascere una sorta di “governo ombra” in esilio, mentre sempre più numerosi reparti militari slovacchi disertavano; nell’estate del ’18 la Cecoslovacchia fu riconosciuta Stato sovrano e belligerante. Proprio quando il matrimonio si avvicinava, il 4 maggio del ’19 Milan - convocato con urgenza in patria -  precipitò  con il bombardiere italiano su cui era salito, morendo con gli altri tre uomini dell’equipaggio: aveva con sé una lettera per Giuliana in cui le chiedeva di rimanere sempre fedele a se stessa.
Così fu. (1)
Giuliana, nonostante l’immenso  dolore, rinvigorì il proprio impegno e pensò di rivolgere al Meridione le sue cure, facendo capo alla villa materna presso Sorrento, chiamata ”La Rufola”, e utilizzando una istituzione esistente ma inattiva: l’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno.
Nelle terre del Sud  scoprì un’umanità povera, disperata, ma semplice e dignitosa che ripagò ricostruendo scuole abbandonate, organizzando corsi per adulti, lottando contro pregiudizi e privilegi, collaborando con associazioni come l’Unione per l’assistenza dei malarici in Sardegna. All’affermazione del fascismo, Giuliana non poté che allontanarsi da Roma, viaggiando moltissimo con il fratello Giorgio (diplomatico) e soggiornando spesso  a Praga, dove tutto le ricordava Milan, fino al drammatico momento dell’occupazione nazista. “Non capirono, soprattutto i politici inglesi fautori dell’appeasement a tutti i costi, che Monaco e la fine della Cecoslovacchia erano la fine dell’Europa” - affermò Giuliana con una acutezza politica  non comune nella sua autobiografia (2). La sua abitazione presso Sorrento  diventò il porto sicuro in cui ritornare  e il rifugio accogliente aperto agli esponenti dell’antifascismo italiano ed europeo: da Salvemini a Giorgio Amendola, da Gorki a Croce.                                                                
Nel novembre ’34 avvenne il secondo incontro destinato a segnarle la vita: conobbe la principessa Maria José, da sempre ostile  al fascismo, di cui divenne amica e complice  tanto che le due ordirono insieme una trama di incontri ad altissimo livello (con il Vaticano, con la Casa reale, con i politici più influenti) per far sganciare il re dal Duce. Il momento arrivò finalmente, dopo Stalingrado e lo sbarco in Sicilia, mentre Giuliana aveva già preso contatti con Badoglio. Con la fuga del re a Brindisi, Giuliana si rese conto che la situazione a Roma era sempre più rischiosa e con naturalezza fece l’unica scelta possibile: la clandestinità e la Resistenza, come Amendola, Pertini e tanti altri amici. E’ certo che, grazie al suo intervento,  almeno due ragazzi scamparono al rastrellamento del ghetto il 16 ottobre ’43. Operò attivamente per portare cibo, fornire mezzi e denaro, diffondere informazioni, dare nuove identità ai militari in fuga e facilitare i rapporti fra la popolazione e gli Alleati, grazie anche al suo bilinguismo e alle sue conoscenze aristocratiche.  Per l’ elevato spirito di patriottismo dimostrato di fronte ai gravi rischi e alle pericolose missioni ricevette dal “Fronte della Resistenza-Comando civile  e militare della città di Roma”  la Croce di guerra al valor militare “sul campo” (5 giugno 1944) (3).                                 
Alla fine del conflitto mondiale si mise di nuovo in moto verso il Sud, dove verificò le condizioni drammatiche lasciate dalla guerra e riuscì a fondare una colonia per orfani in Abruzzo. Una nuova missione la portò ad affrontare  la situazione dei reduci, ma fu colpita soprattutto dal problema più grande: la fame. Il referendum e la nascita della Repubblica videro di nuovo unite Giuliana e Maria José:  l’una pronta a riprendere con energia le sue attività contro l’analfabetismo e per la ricostruzione dell’amato  Sud, l’altra  decisa a rompere un matrimonio già finito e a prendere con dignità la via dell’esilio.  

Nella maturità Giuliana Benzoni ha continuato il suo impegno attraverso la SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo  dell’industria del  Mezzogiorno), collaborando con varie associazioni internazionali (come il  “Centre for Human Rights and Responsabilities” di Londra); negli anni Cinquanta  ha ospitato a villa “La Rufola” Gaetano Salvemini e lo ha assistito amorevolmente fino alla morte (1957); sappiamo anche che, pur risiedendo a Roma con il fratello e la cognata, amava  frequentare  la Toscana, Monsummano, le Terme Giusti, il podere di Peppignolo e ricordava con molto spirito le avventure giovanili con Maria José, quando portava messaggi segreti persino nelle scarpe!   
Giuliana  Benzoni  è morta a Roma l’8 agosto 1981 e riposa a Monsummano Terme. Ha sfiorato la storia con dolce distrazione”ha scritto di lei, con una bellissima metafora, Giorgio Manganelli (4).

1) in Massimo Nardini e Tania Pasquinelli  (a cura di),  Ferdinando Martini  e  Giuliana Benzoni - tessere contatti, intrecciare culture (atti dell’incontro di  studi  tenutosi  a Monsummano T. il 28.3.2009 ), ed. Polistampa, Firenze 2009, pp. 90-93 è riportata la copia dell’ultima lettera inviata da Milan prima di partire per il volo fatale in cui più volte la saluta con “Adieu” e la chiama “ma femme unique  et adorée”
2) Viva Tedesco (a cura di), Giuliana Benzoni, la vita ribelle. Memorie di un’aristocratica italiana fra Belle Epoque e Repubblica, ed.  Il Mulino, Bologna 1985, p.139
3)in “Ferdinando Martini e Giuliana Benzoni”,op.cit.,p.103
4) in “Ferdinando Martini e Giuliana Benzoni”,op. cit., articolo a stampa senza indicazione della testata -datato  12 ottobre 1981,p.107        

Fonti
Viva Tedesco (a cura di), Giuliana Benzoni, la vita ribelle. Memorie di un’aristocratica italiana fra Belle Epoque e Repubblica, ed.  Il Mulino, Bologna 1985                                                                                                                                                                                   
Massimo Nardini e Tania Pasquinelli  (a cura di), Ferdinando Martini  e  Giuliana Benzoni - tessere contatti, intrecciare culture (atti dell’incontro di  studi  tenutosi  a Monsummano T. il 28.3.2009 ), ed. Polistampa, Firenze 2009                                                                        
Iris Origo, Ritratto di Giuliana Benzoni, in “Nuova Antologia”, luglio-settembre 1986                                                                                         
Iris Origo, Un’amica. Ritratto di Elsa Dallolio, Passigli editore, Firenze, 1988
 

 Adelaide Bernardini Capuana

(Narni (TR) 1872- Catania, 1944)

 

Le è stata intitolata una via a Catania

Dalla parte delle donne

di Ester Rizzo

 

Adelaide era la moglie del ben più noto Luigi Capuana. Nacque in Umbria, a Narni, nel 1872 da Napolione, “guardiano carcerario” e da Filomena Tei, ma visse la maggior parte della sua vita a Catania.

Già da giovanissima scriveva poesie e novelle e, in seguito, si cimentò anche nei romanzi. Fra i scuoi scritti ricordiamo: Colei che tradiva, Barca nova, La vita urge, L'altro dissidio, La signora Vita e la signora Morte.

Fu collaboratrice di varie testate giornalistiche tra le quali Fanfulla della Domenica, Giornale d'Italia, Ora e giornali che ponevano l'attenzione al mondo femminile come Cordelia e La Donna.

Appena ventenne lasciò Narni per andare in Turchia e da lì si trasferì in seguito a Roma. Nella capitale, dopo una delusione d’amore, tentò il suicidio. La stampa del tempo riportò questo fatto di cronaca e Luigi Capuana, colpito dalla vicenda, volle incontrare Adelaide proponendole di diventare la sua segretaria. Iniziò per lei così una nuova vita, con un trasferimento in Sicilia e con una cospicua produzione letteraria.

Nel 1908 il famoso scrittore e la meno nota scrittrice si sposarono, ma la fama di lei iniziò a crescere e crebbe anche l’ostilità nei suoi confronti.

Molti di coloro che hanno tracciato il suo profilo non sono stati benevoli nei suoi confronti, l'accusarono di aver utilizzato per la sua carriera il nome e la fama del marito. In particolare un critico palermitano, Francesco Biondolillo, stroncò impietosamente le sue fatiche letterarie. Anche Verga e Pirandello non l'apprezzarono.

Oggi invece che i suoi scritti sono riconsiderati e ritenuti degni di nota, si denuncia la caduta nell'oblio della sua memoria.
Adelaide, quando scriveva, era di parte e, precisamente, stava dalla parte delle donne, soprattutto di quelle che trovavano il coraggio di ribellarsi. Non si limitava a raccontare le ribellioni ma metteva in risalto la trasformazione che era avvenuta nella mentalità femminile. Per lei ribellarsi era giusto. «Andar via con l'uomo che si ama è giusto, è giusto ribellarsi ad un marito che tradisce, ad una famiglia che si disprezza, è giusto respingere un concetto di perdono che può diventare catena e umiliazione».

Di lei si può affermare che non seguì le scelte letterarie del marito né quelle degli altri "veristi contemporanei", fu donna e artista autonoma, determinata nel tentare di ribaltare i ruoli e i valori assegnati al mondo femminile dell'epoca. Come le altre scrittrici sue contemporanee, compì una piccola rivoluzione in seno alla tradizione letteraria maschile. Le vicende familiari piene di omicidi, passioni, tradimenti messi in risalto nei suoi scritti evidenziavano come nella realtà (e non solo nella sua narrazione letteraria) il marito "padre padrone" non fosse accettato da tantissime donne.

Dopo la scomparsa di Capuana, avvenuta nel 1915, aumentarono i diverbi fra lei e Pirandello; nel 1922, alla morte di Verga, Adelaide prese la decisione di mettere all’asta il manoscritto originale de I Malavoglia, scatenando le ire dello scrittore. Adelaide non si curò di questi attacchi e continuò a scrivere soprattutto opere teatrali che affidava per la trasposizione in scena ad Angelo Musco.

Tra Pirandello e Adelaide Bernardini ci fu anche una famosa "querelle": la moglie di Capuana accusò il grande drammaturgo di plagio riguardo al primo atto di Vestire gli ignudi, che aveva come trama un racconto di Capuana. In effetti, le vicende narrate nelle due opere coincidono, anche perché il racconto di Capuana era ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1895 e i cui protagonisti erano proprio Luigi Capuana e Adelaide Bernardini. Pirandello ammise sulle pagine del giornale L'Epoca del 22 novembre 1922 di essersi ispirato a "un documento umano", ma il polverone suscitato da quella accusa finì per travolgere solo Adelaide.

Restò isolata nella sua residenza catanese fin quando morì il 2 novembre del 1944.

 

Fonti

Adelaide Bernardini Capuana, Sottovoce Poesie, Giannotta Editore, 1911

Adelaide Bernardini Capuana, La signora Vita e la signora Morte, Treves Editore, 1920

Marinella Fiume (a cura di), Siciliane dizionario biografico, Emanuele Romeo Editore, 2006

http://www.classiciitaliani.it/pirandel/drammi/24_pira_Vestire_ignudi.htm

http://www.cronache24.it/la-finestra/item/11550-narni-nella-storia-adelaide-bernardini-e-gli-incontri-con-verga-d%E2%80%99%annunzio-e-pirandello

http://www.malgradotuttoweb.it/malgrado-narni-si-coalizzano-onorare-la-memoria-adelaide-bernardini-capuana/

 

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Violante Bertoni

(Molazzana (Lu), 1891 – Stazzema, (Lu), 1969)

L’amministrazione comunale di Molazzana (Lucca) nel 2016 ha intitolato a Violante Bertoni il piazzale di fronte alla chiesa di Piglionico; a Cardoso - dove Violante si trasferì in vecchiaia – sarà a breve affissa una targa in suo ricordo nella piazzetta con cui si chiude via Monte Forato,dove abita la nipote Miriam, vicina al Monumento alle vittime dell’alluvione del 1996. La scelta del luogo non è stata casuale: il Monumento è ricordo di un evento tragico di fronte al quale, però, le persone si sono unite per riprendere a vivere. Come ha insegnato Violante.

Mamma Viola

di Carla Guidi e Maria Amelia Mannella

 

Violante Bertoni, classe 1891, è originaria di Casa Trescala (o Trescola), un paesino della provincia di Lucca, in località Monte Rovaio, nel comune di Molazzana. Un luogo piccolissimo che le carte geografiche nemmeno riportano. Viene al mondo in una grotta perché sua madre, Isola Tognocchi, è colta così all’improvviso dalle doglie che non riesce ad arrivare a casa. Come se nascere in quel luogo le avesse temprato il carattere, Violante viene su forte, capace di adattarsi alle molteplici situazioni e di fronteggiare le difficoltà della vita. Cresce anche responsabile e svolge diligentemente i “doveri” che il suo ruolo di figlia imponeva: fin da bambina si prende cura della sua famiglia aiutando i genitori con le faccende di casa e con i lavori della campagna, trascorre i pomeriggi a zappare nei campi con il padre, Raffaello, o a filare e a tessere con la madre.

Ci sono delle rigide regole da rispettare in casa, svegliarsi presto al mattino per lavarsi e per fare le faccende, per pulire se stessi e l’ambiente in cui si vive; è la madre a trasmetterle la grande dedizione per le pulizie, tanto che negli anni del fascismo, ormai adulta e sposata, Violante vince persino un premio per la pulizia della casa, una pergamena andata purtroppo in cenere nell’incendio che distrusse la sua abitazione nel 1944.

Poi si innamora; conosce Francesco Mori e a diciassette anni lo sposa nella chiesa di Sant’Antonio la notte di Natale del 1908.Dalla loro unione nascono ben otto tra figli e figlie: Maria Domenica (1911), Luigi (1913), Giorgina (1915), Nella (1920), Alfredo (1921), Anna (1923), Alda (1926) e Alfreda (1929).

A casa della famiglia Mori non si sta male: ci sono galline, vacche, maiali, pecore, capre e conigli; si produce il necessario per vivere e addirittura Mamma Viola – come Violante sarà chiamata a partire dal ’43- riesce a vendere una parte dei propri prodotti: patate, mele, agnelli e burro, non solo ai compaesani ma anche in altri paesini più distanti: piccoli introiti che permettono alla famiglia Mori di acquistare qualche bene di prima necessità. Una vita di duro lavoro, intrisa di quella faticosa tranquillità di una volta, quando momenti dolorosi e sereni si rimescolavano quotidianamente. Poi, però, arriva la guerra, una guerra diversa da quella che Violante ha conosciuto poco più che ventenne. Questa guerra, la Seconda guerra mondiale, si porterà via i suoi due figli maschi: Alfredo, vittima di una mina vicino a Monte Forato nel dicembre 1944, e Luigi, morto nel giugno 1945 deportato nel campo di prigionia Reservelazarett Stalag IV B Zeithain in Germania. Forse anche perché i suoi figli rischiavano la vita come partigiani, Violante ad un certo punto decide che la sua casa, con il fienile e le stalle, sarebbero diventati luoghi di salvezza e di riparo per i partigiani del Gruppo Valanga.

Fuori, sulle montagne di Molazzana, c’è la guerra combattuta nei tanti luoghi della Linea Gotica, dopo l’8 settembre 1943, la furia dei soldati tedeschi sfocia nelle rappresaglie e nelle esecuzioni sommarie contro i civili, Viola Bertoni, con l’appoggio del marito Francesco, accoglie i ragazzi della formazione partigiana: un gesto nobile e audace di una donna che le vale la Medaglia d’Oro al Merito Civile.

Molti di loro sono travolti dalle azioni repressive tedesche tra il 27 e il 29 agosto 1944: è l’olocausto del Gruppo Valanga, come Liborio Guccione lo ha definito.
Fortunatamente i civili riescono a scampare alla morte, anche se perdono case, stalle e animali. Anche Violante subisce danni materiali: la sua abitazione viene prima incendiata e poi fatta saltare con la dinamite, e solamente la piccola casetta del formaggio - come lei la chiamava - rimane in piedi. L’intera famiglia Bertoni-Mori è costretta a trovare rifugio in alcune grotte vicine. Ricorda Pietro Petrocchi, anche lui nel Gruppo Valanga: «Quante sofferenze, quanti disagi materiali e soprattutto morali! Ma mai ho sentito dalle labbra di Viola una parola di recriminazione, di rimprovero: l’unico suo grande dolore fu la morte di tanti giovani patrioti, che accomunava nel ricordo e nel rimpianto ai suoi figli Luigi e Alfredo: per questo Viola divenne più che mai, per i superstiti del Gruppo Valanga, la Mamma dell’Alpe».

Mamma Viola considera i partigiani come figli suoi. Vede nei loro occhi gli occhi di Luigi, il figlio partito per la guerra in Russia, e quelli di Alfredo, militante nella fila delle brigate partigiane. Ha dato loro una casa, un riparo, nutrimento; ha diviso con loro le provviste della propria famiglia senza pensare ai gravi e grandi problemi cui sarebbe andata incontro. Dietro il suo dolce aspetto si nascondeva una persona “granitica” che non si faceva scalfire dalle dure prove della vita.

Sono state proprio le sue azioni e la grande umanità dimostrata nei confronti di quei giovani che hanno spinto la Repubblica italiana ad assegnarle la Medaglia d’Oro al Merito Civile. In realtà Mamma Viola respinse questa onorificenza motivando il suo rifiuto con l’assenza irrimediabile dei figli: avrebbe, infatti, preferito che Luigi e Alfredo fossero ancora in vita e vicino a lei, piuttosto che ricevere quel tributo.
Nel 1969 Mamma Viola, gravemente malata, muore nel paese di Cardoso, nel comune di Stazzema, dove si era trasferita con la famiglia nel 1961. Nel 1981 l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, con l’appoggio di Maria Eletta Martini, a quel tempo vice Presidente della Camera dei Deputati e delle Deputate, decide di assegnare alle figlie il riconoscimento al Merito civile di Violante, con la seguente motivazione: «Umile donna di fragile aspetto ma dal carattere forte e deciso, con grave rischio della vita ed esponendosi alle feroci rappresaglie delle truppe nazifasciste non esitava, nel momento in cui la lotta clandestina aveva assunto caratteri di estrema durezza, ad accogliere nella sua casa una intera formazione partigiana, offrendo assistenza e cure premurose. Con la perdita di tutti i suoi beni in un cruento combattimento in cui perivano molti dei giovani da lei assistiti, offriva magnifico esempio di non comune coraggio e incrollabile fede nei più alti ideali di libertà. Molazzana, fraz. Alpe S. Antonio (Lucca), 1944».
Nei borghi montani delle Apuane, Mamma Viola è diventata leggendaria. È’ stata una delle tante donne della Resistenza italiana; la sua storia è stato un esempio di coraggio e di umanità per molte persone che cominciarono a schierarsi dalla parte dei partigiani. La sua azione è purtroppo conosciuta solamente a livello locale: quando i/le familiari e i/le superstiti di queste vicende non ci saranno più, che cosa accadrà?


Fonti:

Le notizie relative alla vita di Violante Bertoni, conosciuta come Mamma Viola o la Mamma dell’Alpe, sono state raccolte tramite interviste rivolte alla figlia e alle nipoti.

 

Pietro Petrocchi, Silvano Valiensi, L’’altra faccia del mito Diario di guerra del Gruppo Valanga Garfagnana 1944, Tra le righe libri.
Liborio Guccione, Il Gruppo Valanga e la Resistenza in Garfagnana, 1978, Lucca, Pacini Fazzi Editore.
https://liberacronacachenonce.wordpress.com/2015/08/28/libera-cronaca-da-italia-bene-comune-di-pochi-1626-del-28-e-29-agosto-2015/
http://www.paesiapuani.it/Monte%20Rovaio%20cima%20del%20gesu%20dall'alpe%20di%20S.antonio.htm
http://www.anpi.it/donne-e-uomini/914/
http://www.isreclucca.it/luoghi-della-memoria/viola-bertoni-la-mamma-dellalpe/
http://paolomarzi.blogspot.it/2015/08/la-storia-del-gruppo-valanga-battaglie.html

http://www.lanazione.it/lucca/cronaca/a-molazzana-intitolata-piazza-a-mamma-viola-foto-1.2473478

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Bianca Bianchi

(Vicchio (FI), 1914 - 2000)

A Bianca Bianchi è intitolata una via nel suo paese natale, Vicchio, in provincia di Firenze.
Una strada porta il suo nome a Sidney, in Australia.
 
Una donna alla Assemblea Costituente
di Annarita Alescio

Bianca Bianchi nasce a Vicchio  il 31 luglio 1914. Viene educata alla politica nell’ambiente familiare: il padre Adolfo, fabbro e segretario della federazione socialista del paese, le insegna che socialismo vuol dire “amare i più poveri e fare qualcosa per loro”.
Dopo la morte prematura del padre, all’età di sette anni, Bianca si trasferisce, insieme alla madre e alla sorella maggiore, nell’abitazione dei nonni materni. Ha un rapporto conflittuale con la madre, ripiegata sul modello domestico, ma trova un valido appoggio nel nonno, contadino antifascista, figura fondamentale nella sua formazione intellettuale.
Bianca dimostra presto il suo interesse per lo studio e, grazie all’appoggio del nonno, abbandona la campagna e si trasferisce a Firenze, per frequentare la Scuola Magistrale prima e la Facoltà di Magistero poi. Nel 1939 consegue la laurea e inizia  subito ad insegnare. Le viene offerta una cattedra a Genova, ma non rispetta i programmi, che prevedevano l’esclusione di argomenti sulla civiltà ebraica, tenendo lezioni proprio su quest’argomento. Questo comportamento le vale l’allontanamento dall’istituto genovese e le viene affidato un nuovo incarico a Cremona.  Anche qui viene presto licenziata, perchè per il primo compito in classe propone ai suoi studenti di riflettere sui caratteri della società moderna e sui progetti per il futuro.
Bianca viene allora assegnata all’Istituto italiano di cultura in Bulgaria e il soggiorno a Sofia, dove intrattiene anche una prima relazione amorosa, le permette di imparare una nuova lingua e di insegnare liberamente, senza le limitazioni politiche del regime.
Nel giugno 1942 torna in Italia, per aiutare la madre e la sorella in difficoltà a causa della guerra.
Dopo la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio, Bianca si impegna nell’opera di soccorso dei soldati e partecipa alle riunioni del Partito d’Azione, contribuendo attivamente alla Resistenza con la distribuzione di volantini antifascisti. Questo periodo le consente il passaggio alla vita politica attiva. Durante il comizio del democristiano Gianfranco Zoli nella primavera del 1945,  Bianca prende la parola e invita a realizzare una politica diversa, che si faccia portavoce della volontà di cambiamento e di speranza degli italiani.
In seguito inizia a frequentare il partito socialista per poi iscriversi: organizza iniziative culturali, dibattiti, ed è subito protagonista della campagna elettorale, riuscendo ad acquisire molti consensi anche grazie alle sue abilità oratorie.
Al Congresso provinciale della primavera del 1946, per la formazione della lista dei candidati per la Costituente, viene votata quasi all’unanimità come capolista. I compagni di partito però, diffidando delle donne in politica e della sua giovane età, la sostituiscono con un esponente di spicco e di consolidata militanza nel partito. Nonostante la delusione, Bianca continua la sua appassionata e frenetica campagna elettorale e, alle elezioni del 2 giugno, raggiunge un successo personale inaspettato, riuscendo ad accaparrarsi il doppio dei voti del capolista ed entrando così di diritto tra le 21 donne elette all’Assemblea Costituente. Ha all'epoca 32 anni.
Il 25 giugno 1946, quando si aprono i lavori dell'Assemblea Costituente, è per tutte e tutti un giorno importantissimo. Con il fascismo e la guerra ormai alle spalle, la Repubblica inizia il suo cammino: “mezzo migliaio di uomini, tra cui una ventina di donne, avrebbero stabilito in legge le regole della nostra umana esistenza, le regole della esistenza di più di quaranta milioni di persone”.
Si ricorda in seno alla discussione della Costituente l’impegno di Bianca a favore della scuola pubblica e l'opposizione ferma alla parificazione tra la scuola pubblica e quella privata.
Rieletta nel 1948, combatte per una legislazione meno discriminatoria nei confronti dei figli illegittimi, battaglia iniziata con la sua partecipazione al Congresso dell’Alleanza femminile internazionale di Amsterdam del 1948 e conclusa con l’approvazione della legge nel 1953.
Nel 1970 è eletta consigliera comunale a Firenze nelle liste del PSDI e ricopre la carica di Vicesindaca.
A triste dimostrazione di quanto il rapporto tra le donne e i partiti sia sempre stato difficile in Italia, a distanza di anni Bianca Bianchi ha raccontato che ai tempi della Costituente le fu chiesto “di firmare una lettera di dimissioni, preparata in antecedenza, per cedere il posto a un socialista che ci sventolava sempre davanti al naso la tessera di anzianità di iscrizione al partito, come se l'anzianità fosse sinonimo di intelligenza”.
Bianca Bianchi si è spenta a Vicchio il 9 luglio 2000.


Fonti
http://www.toscananovecento.it/custom_type/bianca-bianchi-dallantifascismo-esistenziale-al-virus-della-politica /http://www.150anni.it/webi/index.php?s=60&wid=1937 http://www.ilreporter.it/articolo/91809-una-strada-per-bianca-bianchi http://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg17/file/repository/relazioni/biblioteca/emeroteca/Donnedellacostituente.pdf http://www.iperbole.bologna.it/iperbole/cif-bo/Pdf/madricostituenti1.pdf

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Giulia Bigolina

(1518 circa -  1569 circa)
 
A Giulia Bigolina sono intitolate una via a Cittadella (PD) ed una a Santa Croce Bigolina (PD).
A Padova esiste una via Giulia Bigolino che sicuramente si riferisce a lei.
 
Il primo romanzo
di Ester Rizzo
 
Nata verosimilmente nel 1518, fu un’esponente della vita intellettuale padovana, ebbe contatti con Pietro Aretino e molti intellettuali del tempo la definirono la “nova Saffo”, anche se nessuna sua poesia è a noi pervenuta. Invece siamo in possesso del suo romanzo Urania che è la storia di un amore contrastato.
Urania, la protagonista, è una donna forte, determinata ed è anche un’artista, una poetessa sensibile e brillante, il cui innamorato si invaghisce di un’altra donna: Clorina. Urania non vuole cadere nel tranello stereotipato dell’inimicizia e della rivalità fra donne e preferisce fuggire dalla sua città, Salerno, travestita da uomo. Ma al di là della trama, dobbiamo sottolineare “l’orgoglio e la modernità della protagonista. L’autrice mette in evidenza che le donne rivolgono molta attenzione alle vicende amorose perché è a loro negato di dedicarsi a letteratura e scienze”.
Giulia Bigolina lamenta il fatto che “gli uomini ricordano solo esempi deplorevoli di donne come Elena, Medea e Progne, Urania invece ricorda Pentesilea, Saffo, Giuditta, Ester, Veturia…”.
Nel romanzo troviamo delle affermazioni “femministe” certamente inusuali per l’epoca: innanzitutto la rivendicazione dell’uguaglianza fra i sessi e poi l’importanza dell’istruzione per le donne, che significa permettere loro di raggiungere gli stessi traguardi professionali degli uomini. Giulia scrive: “E perciò conchiudiamo, vi prego, che se le donne non sono di noi uomini migliori almeno non siano peggiori di quello che siamo noi”.
Gli altri amori descritti nell’opera sono sia felici che tristi e vengono raccontati prevalentemente dai personaggi femminili che comunque rompono gli schemi della tradizione, si mettono in gioco in prima persona e non restano irretiti dallo stereotipo dell’ “amor cortese”.
Questa scrittrice è precipitata nell’oblio perché nel XX secolo autori e critici letterari uomini hanno scelto di escluderla dai cataloghi e dai trattati letterari ed è grazie ad una ricerca di Valeria Finucci, docente di letteratura italiana alla Duke University nel North Carolina, che la sua figura e la sua opera sono riemerse. La studiosa, infatti, ha riportato alla luce il manoscritto autografo di Giulia Bigolina che sin dal XVI secolo giaceva nella Biblioteca Trivulziana di Milano.

Fonti:
Giulia Bigolina, Urania, a cura di Valeria Finucci, University of Chicago Pr (Tx), 2005
Antonietta Sangregorio, Giulia Bigolina: una madre dall’oblio, in “Leggere Donna”, gennaio-febbraio 2010
Nadia Cario,
Tracciati femminili nella toponomastica patavina, in “Dols Magazine” 03.12.2012

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Bice Bisordi

(Pescia (PT), 1905 -  1998)

 Non risulta alcun ricordo nella toponomastica di Pescia né di Montecatini - dove operò tutta la vita.

Una scultrice pesciatina : l’arte del ritratto  nel XX secolo

di Laura Candiani

Bice Bisordi, nata l’11 marzo 1905 a Pescia, è stata secondo la critica una delle più importanti scultrici italiane del XX secolo, specializzata nell’arte nobilissima del ritratto, eseguito di preferenza in bronzo o in terracotta.  Sicuramente - come racconta lei stessa nelle memorie - fu influenzata dall’attività del padre che aveva un laboratorio dove scolpiva il marmo e lavorava la creta; i tre fratelli (Carlo, Enzo e Tito) presto entrarono nell’azienda di famiglia, mentre la sorella Nella si occupava della casa e faceva la sarta; le due maggiori (Norina e Teresa) si erano diplomate maestre. Quest’ultima, sposandosi, andò a vivere a Montecatini  dove la giovanissima Bice la seguì e aprì un piccolo studio in cui faceva ritratti a matita e iniziava a utilizzare la creta. La sua abilità non passò inosservata : i turisti, i villeggianti, specie americani, e alcune personalità di spicco (come la marchesa Ines Mauri Badò di Roma  e Carla Balduzzi di Milano) cominciarono a credere in lei e a incoraggiarla. Fu così che Bice si impegnò per essere ammessa alla prestigiosa Accademia d’arte di Firenze, che raggiungeva ogni giorno con il treno. Si diplomò nel 1932 e nel ’35 poté esporre nella sua città, in una saletta presso il Caffè Pult , dove all’epoca si tenevano tre concerti  al giorno. Il giornalista Vittorio Taddei fu il primo a scoprire ufficialmente il talento della scultrice e ne scrisse sul “Telegrafo”. Già si delineavano le  caratteristiche che emergeranno e matureranno in seguito: la finezza psicologica (“La nipotina Licia”), la fusione fra aspetto fisico e spiritualità (“Adolescente”), il gusto per il minimo dettaglio (“Dorso di donna”), la sensibilità nel tratteggiare i volti dei bambini (“Putto”,”La Vita”, ”Primi vagiti”,”Sorriso di bimba”,”Il Poema”), la delicatezza nei ritratti di madri (“Maternità”), il realismo non disgiunto dalla poesia (“Scugnizzo” in cui è evidente il richiamo all’arte di Vincenzo Gemito).
Iniziò quindi una carriera prestigiosa, fitta di mostre, concorsi, riconoscimenti  in Italia e all’estero; intanto Bice aveva allestito il suo studio all’interno dello stabilimento termale Torretta nel cui parco, durante la stagione estiva, suonava il pomeriggio un’orchestra e si esibivano i più noti cantanti. Qui ebbe l’occasione  di conoscere e ritrarre Angelo Motta (l’industriale del panettone), Eduardo De Filippo, Angelo Borghi (proprietario dell’azienda di lane B.B.B.), il console generale Shard di Zurigo, mentre proseguiva l’attività dei ritratti “a memoria”, come il busto di Kennedy e i bassorilievi di papa Giovanni XXIII e  di Paolo VI, oggi in Vaticano, per cui ottenne la medaglia d’argento del Pontificato.  Critici, esperti, artisti parlano di lei e acquistano sue opere:  Griselli,  Mannucci, P. Annigoni, L. Cascella, C. Basini, P. Scarpa, P. Catalano, V. Mariani, G. Valori;  anche personaggi dello spettacolo come Renato Rascel e Walter Chiari - di passaggio a Montecatini - le rivolgono apprezzamenti  lusinghieri.
Bice in seguito aprì un nuovo studio sotto i portici del cinema - teatro Kursaal  dove, passando, la si poteva vedere all’opera attraverso i vetri , spesso davanti a qualche modello in posa per un ritratto; intanto collezionava nuove mostre (Bologna, Roma, Milano, Forte dei Marmi, Lucca, anche a Lugano), era ammessa in prestigiose accademie (Internazionale “L. da Vinci”, ”Artes Templum”, ”Tiberina”), veniva segnalata nel catalogo Bolaffi ed era iscritta all’Album Europeo (1977). Il suo nome uscì dai confini italiani grazie al premio francese S. Raphael  (medaglia d’oro per un ritratto di Padre Pio del ’73) e al riconoscimento del Parlamento USA (’74).  Bice realizza opere di varia ispirazione, anche per farne dono a istituzioni; due ritratti di vescovi (Angelo Simonetti e Dino Luigi Romoli) si trovano nel Duomo di Pescia, mentre un bassorilievo che raffigura i coniugi e benefattori Alcide e Matilde Nucci viene donato all’ospedale cittadino. Nonostante una certa dispersione, inevitabile per una ritrattista, un discreto nucleo di 27 opere si può oggi  ammirare nel Palagio di Pescia per avere una visione complessiva dell’artista, ”libera interprete delle forme moderne, nel suo linguaggio realistico”(A. Corsetti), ”una delle poche eredi del purismo e del romanticismo plastico”, di “acutezza penetrante” e “spiritualità vibrante”(G. Valori).
Quasi novantenne viene convinta a scrivere le sue memorie in cui racconta, con umiltà e gratitudine, la sua lunga carriera e il dono prezioso dell’arte; il piccolo libro - ricco di documentazione fotografica - viene presentato a Pescia nella sala consiliare del Comune nell’ottobre del  1993.
Bice Bisordi è morta a Pescia  il 5 maggio 1998.


Sintesi dei premi ricevuti (medaglie d’oro): Vallombrosa 1957, Soc. Belle  Arti Firenze 1969, Accad. S. Andrea Roma 1970, Accad. Burchard Roma 1971, La donna nell’arte Firenze 1972 (scultura “Santa Apollonia”), prof. Dino Scalabrino Montecatini T. 1973, Accad. S. Andrea Roma 1974.                                                  
Il citato  bassorilievo di Paolo VI è stato inserito da Piero Bargellini nella sua opera  sull’Anno Santo.

Fonti
Bice Bisordi, La mia carriera di scultrice. Brevi memorie, Stamperia Benedetti,Pescia,1993
s.f., Una carriera di scultrice raccontata da Bice Bisordi, in "La Nazione", 28.10.1993  
s.f., si dà notizia di una conferenza (a Pescia) della prof.ssa Elsa Bartolini dedicata all’opera di B.B. , in "Il Tirreno", 10.4.2006    
s.f., I love Pescia, 15.1.2015

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 Antonia Bolognesi

(Ferrara, 1896 -  1976)

 Non risulta alcuna intitolazione.

La Musa ferrarese di De Chirico
 
di Laura Candiani

Antonietta (Antonia) Bolognesi, nata il 6 gennaio 1896 a Ferrara e qui vissuta tutta la vita, padre telegrafista, madre casalinga, ha trascorso un’esistenza tranquilla e appartata, stimata dai colleghi e amata dai parenti, ma sconosciuta ai più.
Dopo aver abitato in via  Mentana 27 fino al ’40, si trasferì con la famiglia in corso Isonzo 14, nelle case del “complesso Garibaldi”; alla sua morte fu sepolta nella tomba di famiglia nella Certosa ferrarese e i beni furono divisi fra i nipoti. In un comò in stile impero fu trovato un pacchettino avvolto in carta velina ingiallita che fu lasciato in disparte finché il pronipote Eugenio Bolognesi  e Giovanni Resca (genero della sorella Maria) decisero finalmente di aprirlo. Era il 2012. La sorpresa fu grande, per alcuni versi eccezionale e rivoluzionaria - almeno per la storia dell’arte del XX secolo.

Si scoprì infatti che era conservato da quasi un secolo un prezioso carteggio, in totale 125 pezzi: 104  lettere, cartoline, biglietti postali di Giorgio De Chirico ad Antonia (dal gennaio al 23 dicembre ’19) e 8 bozze di lettere di Antonia a Giorgio; ci sono poi ritagli di giornali e copie di lettere di Antonia ad altre persone o Enti.
La scoperta ha dato un contributo essenziale alla conoscenza del periodo ferrarese di De Chirico, ma anche svelato un amore concluso tristemente alla fine del ’19, rimasto però nel cuore di Antonia tutta la vita. Ha poi dato finalmente un nome in modo chiaro e definitivo alla donna ritratta nel dipinto “Alceste” per cui si erano sprecate le ipotesi più fantasiose.
Ma veniamo alla storia, così come è stato possibile ricostruirla grazie al carteggio, pubblicato nel 2014 .
De Chirico, nato in Grecia, intellettuale, appassionato delle varie arti, aveva vissuto dal 1911 al ’15  a Parigi; allo scoppio della guerra, con il fratello Andrea (noto come Alberto Savinio) si era arruolato volontario, per pentirsene ben presto. Entrambi però furono destinati a mansioni di ufficio, per presunti problemi di salute; dal distretto militare di Firenze furono inviati a giugno del ’15 a Ferrara; Giorgio, divenuto caporale, faceva lo scritturale e risiedeva con la madre e il fratello  in case di affitto, nei pressi di via Mentana. Stava al caldo, lavorava ben poco e  aveva tutto il tempo per studiare, scrivere, dipingere e scoprire la magia della città, dove rimase fino a tutto il 1918. Sappiamo che fu molto influenzato dall’atmosfera “metafisica” e le passeggiate per l’antico ghetto, le alte ciminiere ora scomparse e, soprattutto, il castello furono elementi essenziali della sua maturazione e della sua arte, immortalati nel celeberrimo “Le Muse inquietanti”(1917).
Come i due giovani si siano conosciuti non è noto: Antonia era impiegata contabile nell’ufficio del Patronato Provinciale per gli Orfani dei Contadini Ferraresi morti  in guerra, con sede presso il castello Estense, dove Giorgio si recava spesso nell’Osservatorio Astronomico a trovare un amico; erano inoltre vicini di casa. Giorgio poi fu ricoverato nell’ospedale militare per una “nevrosi di guerra” e Antonia avrebbe potuto incontrarlo anche casualmente; certo è che fra loro inizia una relazione nell’autunno del 1917. Il 1° gennaio ’19 De Chirico viene mandato a Roma e da questo momento inizia a scrivere assiduamente alla fidanzata. Le sue sono lettere di un giovane innamorato, deciso a portare avanti la relazione con i migliori sentimenti, ma in evidenti  difficoltà economiche. “Conto i giorni che passano e che mi sembrano tanto lunghi; ma il momento che ci rivedremo approssima, cara Antonia, e questo periodo di separazione  lo passeremo pensando  intensamente al nostro amore elevando e purificando i nostri animi in una reciproca comprensione, in una reciproca stima”(13 marzo ’19). Si comprende dalle lettere che Giorgio aveva frequentato casa Bolognesi, conosceva bene i genitori e i fratelli Carlo e Maria, ma non era molto stimato: non sembrava un buon partito, era uno che faceva dipinti e si dava arie da “pittore”. Curioso anche il fatto che in tutta questa frequentazione non abbia mai donato ad Antonia un disegno, un abbozzo, un piccolo quadro, quasi lui stesso non desse troppa importanza al proprio lavoro. Eppure realizzò grazie ad Antonia un dipinto oggi presente in tutti i libri di storia dell’arte e in molte mostre; si tratta  di “Alceste” , l’altro motivo di interesse di Antonia. Il ritratto di giovane donna (1918) è un “pendant” con l’autoritratto di De Chirico: sono entrambi a mezzo busto, in una stanza, inquadrati nella finestra; hanno lo stesso atteggiamento e la medesima  posizione della mano; sono entrambi vestiti di scuro, ma nello sfondo compare un cielo azzurro luminoso; assorti nei loro pensieri, la ragazza  guarda in alto verso destra e ha dietro una torre stilizzata (il castello di Ferrara?), Giorgio  guarda verso l’esterno e forse ha in mano un libro.
L’opera fu esposta a Roma (Galleria d’arte Bragaglia) dal 2 al 21 febbraio ’19; scrive Giorgio all’amata: “vedresti il tuo ritratto troneggiare in mezzo le altre opere…” - “il tuo ritratto ammiratissimo; l’ho intitolato “Alceste”. (…) Aspetto con impazienza il momento di rivederti, tu che amo tanto e che tanto rispondi ai miei ideali di bontà, gentilezza e di bellezza”. Alcesti, infatti, è la creatura mitologica simbolo della fedeltà coniugale e della nobiltà d’animo e in varie lettere Giorgio chiama proprio così Antonia (nella forma che lui preferisce, Alceste). Il ritratto fu acquistato dal  dott. Angelo Signorelli: fu l’unica opera venduta alla mostra e la prima acquistata da un collezionista italiano; oggi si trova in un’altra collezione privata, quella di Chiara e Francesco Carraro.
Durante tutto il 1919 il carteggio rivela che Giorgio varie volte ritornò a Ferrara, rinnovando i suoi intenti di matrimonio, addirittura previsto verso la fine dell’anno o la primavera del ’20;  tuttavia ci tiene ad una posizione economica solida, elemento  che si rivelerà determinante. “Quindi cade  per me la speranza di poterti unire alla mia sorte il prossimo autunno come ardentemente desideravo e desidero. La situazione si chiarirà per forza di cose e per volontà mia ma non potrei assolutamente fissare un tempo (…)” (6 maggio ’19).
Durante l’estate  le lettere cominciano ad evidenziare qualche malumore, qualche inquietudine, piccoli battibecchi e lamentele reciproche, forse causate dalla lontananza. Mai però si accenna ad una possibile visita di Antonia a Roma, forse perché è da poco finita la guerra, perché l’Europa è percorsa dalla terribile epidemia di spagnola o perché all’epoca sarebbe sembrato un viaggio “sconveniente” per una signorina perbene. Nel settembre però Antonia fa un gesto audace e rischioso: all’insaputa del fidanzato scrive a sua madre Gemma, nobildonna di origini genovesi, chiedendole con il dovuto garbo di favorire la loro unione; non ha risposta, ma le scrive Giorgio. È decisamente arrabbiato e  proibisce sia a lei sia a suo padre simili iniziative in futuro. A novembre Antonia cerca di avere sue notizie da conoscenti comuni. Probabilmente De Chirico in dicembre scrive un biglietto a Giuseppe, padre di Antonia, come si faceva un tempo, per chiarire i propri intendimenti (ma non ne abbiamo documentazione).
Veniamo al momento conclusivo della vicenda: il 23 dicembre Giorgio invia l’ultima lettera ad Antonia: “Io però ti assicuro che non ti ho dimenticata e che spero sempre di potermi un giorno unire a te”. Si inserisce a questo punto il padre di lei (24 dicembre) con una dura replica in cui praticamente gli vieta la relazione se non ci saranno cambiamenti nella sua situazione economica (“È sempre nostro parere di non opporre difficoltà qualora Ella dimostrasse chiaramente di essersi creata una posizione solida da permetterLe il formarsi una famiglia tenendo presenti le odierne esigenze della vita. Ritengo quindi inopportuna la sua insistenza prima di aver raggiunto le condizioni su esposte.”). Abbiamo la brutta copia, ma evidentemente giunse a destinazione perché De Chirico non si fece più vivo e il rapporto finì.
Antonia, riservata e dignitosa, non si sposerà mai, ma lo cercherà e seguirà sempre, come testimoniano gli articoli ritagliati e conservati. Nel ’22 scrive ripetutamente a vari uffici per sapere l’indirizzo di De Chirico, prima a Milano, poi a Firenze, a Roma, infine a Parigi, sfruttando la sua posizione professionale  e usando addirittura la carta intestata del Patronato. Gli scrive in modo commovente il 7 dicembre ‘22 dopo che varie lettere sono state respinte, ma non sapremo mai se questa fu letta o no. Nel ’50 lo vede a Roma, insieme a una “Persona”, durante il Giubileo e gli invia gli auguri natalizi: abbiamo la brutta copia, ma non sappiamo se poi davvero la spedì e se mai arrivò. Ed è l’ultima testimonianza rimasta di questo lungo, lunghissimo amore.
La vita di Antonia trascorse tranquilla, dedita al lavoro e alla famiglia; quando il fratello Carlo e la moglie Idelme morirono a Lucca sotto il bombardamento del 6 gennaio ’44, si occupò dei due nipoti sopravvissuti e da quel giorno non festeggiò mai più il suo compleanno.
De Chirico e Savinio, intanto, presero altre strade, divenendo celebri; nelle “Memorie della mia vita” (1945) De Chirico non fa cenno ad Antonia né alla prima moglie Raissa Gourevitch (conosciuta nel ’24 e sposata nel ’30), forse per riguardo alla nuova compagna e poi moglie Isabella Pakszwer Far (conosciuta nel ’30 e  sposata nel ’46).
Il silenzio su Antonia è stato dunque totale e se non si fossero lette e studiate quelle lettere, il suo nome non sarebbe riemerso dall’ombra e la sua gentile figura non avrebbe ripreso vita.

Fonti:
Eugenio Bolognesi, Alceste: una storia d’amore ferrarese. Giorgio De Chirico e Antonia Bolognesi. San Marino, Maretti editore, 2014 (a cura della Fondazione Giorgio e Isa De Chirico, con  saggi di Fabio Benzi, Paolo Picozza, Victoria Noel-Johnson (“Giorgio De Chirico e “Alceste”: storia di un ritratto”)  Eugenio Bolognesi è nipote di Carlo, il fratello di Antonia morto a Lucca nel ’44.
Giorgio De Chirico, Memorie della mia vita, Milano, Bompiani, 2008
Micaela Torboli, De Chirico,tutte le tracce del suo passaggio,in  lanuovaferrara.gelocal.it (4.10.15)
www.fondazionedechirico.org

www.museoferrara.it
www.nuoviargomenti.it
www.palazzodiamanti.it (mostra dal 14 novembre 2015 al 28 febbraio 2016: “De Chirico a Ferrara. Metafisica e avanguardie.”)
www.telestense.it/tag/alcesti (9.12.15)

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Julie Bonaparte

(Roma, 1830 - Roma, 1900)
 
A Mandela nella Valle dell’Aniene, Torre Giulia e via Principessa Giulia Bonaparte rievocano Julie, andata in sposa giovanissima al Marchese Alessandro del Gallo di Roccagiovine. La località, dominata da un castello suggestivamente denominato “della Procella”, era originariamente di pertinenza papale;  successivamente, con il nome di  Cantalupo-Bardella, passerà nelle mani di famiglie nobili fino ad arrivare  nel 1832 ai marchesi Del Gallo di Roccagiovine i cui discendenti oggi continuano a mantenere  la proprietà del castello. E’ del 1870 l’attuale toponimo Mandela scelto in ricordo del poeta Orazio.
 
La gribouilleuse
di Rossana Laterza
 
Del Castello di Cantalupo,  Julie , moglie del Marchese Alessandro del Gallo di Roccagiovine, solitamente brillante ed arguta salonnière, apprezzava la possibilità di rifugiarsi in un quieto asilo, lontano dalla superficiale mondanità di certa nobiltà romana. La pace campestre giovava al suo stato d’animo, soprattutto durante le gravidanze e favoriva la sua attitudine alla riflessione.
Cantalupo, 16 Settembre 1853 :
“Ho sempre avuto il desiderio di scrivere per me sola, ma non le mie memorie, non ho questa pretesa , ma solo quello che mi è successo nella vita e di continuare finchè ne avrò la pazienza. (…) Mi trovo molto bene qui in campagna: l’occupazione mi piace e così mi perdo dietro le tracce dei ricordi della mia infanzia”.
Questo, a un dipresso, l’incipit delle memorie di Julie che si dipanano tra Francia e Italia  e si intrecciano inestricabilmente nella storia della sua famiglia culminata nello strappo del 1870 quando, caduto Napoleone III, Julie tornerà definitivamente da Parigi a Roma, e del resto come avrebbe potuto una Bonaparte vivere in Francia in un regime diverso da quello napoleonico?
Nata nel 1830 a Roma a Villa Paolina, Julie è figlia di Carlo Luciano e Zenaide, entrambi Bonaparte in quanto figli di due fratelli di Napoleone. Appartenente al ramo romano dei Bonaparte, cresce fra Roma e Firenze  precocemente consapevole del  ruolo politico giocato dalla sua famiglia .
Fin da bambina rimane  affascinata dai racconti materni  concernenti le glorie familiari e i fasti del Primo impero.  Nella Sala Paolina Bonaparte del Museo Napoleonico,  un acquerello da interno (1836 ca.) attribuito ad  Abeele, artista belga legato ai Bonaparte, rappresenta una scena familiare in un salotto di Villa Paolina a Roma. In un ambiente lussuoso e raffinato, arredato secondo il gusto francese, la principessa Zenaide seduta sul divano, intrattiene il figlio maggiore Giuseppe e le piccole Julie, Charlotte e Maria, mentre la principessa Charlotte sua sorella è alla finestra accanto  agli altri nipoti Léonie di poco più giovane di Julie, Luigi Luciano e la neonata Augusta nella culla.
Le immagini di Zenaide pacatamente seduta e Carlotta alla finestra sembrano sovrapporsi coerentemente alle vite e ai temperamenti diversi delle sorelle: una-  sarà madre di dodici figli-  attende alle cure materne e alle attività riservate alla sfera femminile mentre l’altra, raffinata pittrice, viaggiatrice inquieta e colta, andrà incontro ad un destino romanticamente tragico.
Anche il padre di Julie, Carlo Luciano, principe di Canino, ha un ruolo primario nella formazione dei figli della cui educazione ama occuparsi personalmente.
Interessato alle scienze ed esperto zoologo, Carlo Luciano compie numerosi viaggi di studio ed approfondimento, in politica è liberale al punto di difendere la sovranità popolare nei difficili giorni dell’Allocuzione di Pio IX. Diventato vice presidente dell’Assemblea Costituente, partecipa alla difesa della Repubblica Romana contro i francesi. Restaurato il Papa, grazie a suo cugino Luigi Napoleone (futuro Napoleone III) ottiene asilo a Parigi a patto di non occuparsi di politica. Tuttavia quando vi si trasferisce accompagnato da Julie, continua ad avere contatti con esuli italiani e sarà tra i pochi Bonaparte che disapproveranno la nascita del Secondo Impero.
Intanto Julie sviluppa ben presto una predilezione per la letteratura e la scrittura al punto che i familiari la chiameranno scherzosamente “la gribouilleuse” (la scribacchina) ed ella stessa sembra averne coscienza quando, in certe ore di solitudine, nella sua stanza confida ai suoi piccoli quaderni le sue idee, le sue pene, le sue speranze: “Io scrivo o tento bene o male, poco importa, ma scrivo, in libertà, sotto l’impressione del momento”.
A sedici anni sposa il Marchese di Roccagiovine con cui avrà cinque figli. Appassionata lettrice delle scrittrici contemporanee (George Sand, Madame d’Agoult, Madame Cornu, Georgiana Fullerton ecc), nella sua prima giovinezza traduce in italiano alcune poesie di Lamartine e scrive due tragedie, ma è alla stesura del suo Journal, nato più per il piacere di una dama che per un impegno memorialistico, che si dedicherà costantemente.
Arriva per la prima volta a Parigi in luna di miele, successivamente vi accompagna il padre esule, stabilendovisi con tutta la sua famiglia e vi risiederà a fasi alterne fino al 1855 per rimanervi quasi ininterrottamente fino al 1870 .
Qui, sulla scorta di sua cugina Mathilde - animatrice di uno dei salotti più colti ed eleganti della città, nonché intima di Luigi Napoleone al punto di essere considerata, almeno fino alle nozze di lui avvenute nel 1853, una  vera e propria “prèmiere dame” di Francia- dà vita in via De Grenelle ad un salotto dal carattere più intimo e riservato, “frondeur” perchè più aperto anche agli oppositori del regime bonapartista, in consonanza con il suo spirito più semplice e moderato e con le convinzioni politiche paterne, se pure temperate da un certo conformismo e da un assoluto rispetto per il ruolo e la funzione del papa.
Per lei la risoluzione della questione nazionale italiana e il potere temporale della Chiesa sono entrambe questioni imprescindibili al punto da farle apparire l’Unità un sogno del tutto irrealizzabile.
Amica e confidente di Thiers, oppositore di Napoleone III, arriva a fare da tramite fra i due: se l’Imperatore tiene a conoscere il consiglio e il punto di vista del suo nemico in questioni di politica internazionale, Thiers puntualmente risponde attraverso Julie.
Così opinioni, eventi, stralci di conversazione, osservazioni, giudizi personali, brevi ritratti di personaggi protagonisti della vita politica, culturale ed artistica del tempo sembrano trovare posto paritariamente nel  Journal.
Tra i tanti frequentatori del suo salotto troviamo Billault (che si premura in una lettera di sconsigliarle la lettura di George Sand molto ammirata dalla principessa), Lacordaire, Flaubert, i fratelli Goncourt, Mérimée, Renan, Thiers, Malvina D’Albufera, il conte Primoli, figlio della sorella minore Charlotte, che educato in Francia  e cresciuto nei salotti delle zie e alla corte dell’Eliseo diventerà un raffinato collezionista e bibliofilo, destinando in seguito il suo patrimonio alla Fondazione di un Museo Napoleonico a Roma.
Tornata in Italia, Julie si stabilisce a Roma nel palazzo Bonaparte Del Gallo di Roccagiovine di  piazza del Foro Traiano.
Qui dà vita ad un altro salotto, se pure di tono minore, in cui riceve esponenti della nobiltà romana, politici italiani filofrancesi  ed amici francesi come lo storico Duchesne, direttore dell’Ecole Francaise, che la definisce una “veritable reprèsentant de la France”. Pur non condividendo i giudizi conservatori e moralistici della sua ospite contro l’eccessivo realismo delle opere dei romanzieri naturalisti francesi, né la sua condanna dell’azione politica di Zola, processato per J’Accuse, o l’appellativo di “crapule littèraire” dato a D’Annunzio, il direttore le mostra sempre la sua bonaria condiscendenza.
Julie Bonaparte  muore nel 1900. Attraverso il suo Journal, dall’indubbio valore documentario, ci ha consegnato in uno stile leggero e misurato, da cui traspare una delicata emotività, le cronache minuziose e i retroscena della vita  politica e modana del Secondo Impero e della Roma di Pio IX.

Fonti
Isa Dardano Basso, La Princesse Julie Bonaparte, Marquise de Roccagiovine et son Temps,Mémoires inédits (1853-1870) , Ed. di storia e letteratura Roma 1975
Marcello Spaziani,  La corrispondenza tra Duchesne e il Conte Primoli in Persee,  1975
http://www.persee.fr/web/ouvrages/home/prescript/article/efr_0000-0000_1975_ant_23_1_1738
Antonietta Angelica Zucconi, Les salons de Mathilde et Julie Bonaparte sous le second empire, pp. 151-182, paru dans la Revue Napoleonica, 2011/2 (N° 11).
 
 

Costanza Bruno

(Siracusa, 1915 - Nicosia (En), 1943)
 
A Siracusa c’è una via intitolata a Costanza Bruno. Inoltre, sempre nella stessa città, sono a lei dedicati il Salone di Rappresentanza della Provincia Regionale e la Sala Conferenze della Provincia.
Anche ad un albero di ulivo del “Viale degli eroi” sito in via Asbesta, all’interno dell’Istituto Comprensivo Archìa, è stato dato il suo nome.
A Palermo la ricordano una stele ed una lapide poste in una piazza di un quartiere popolare.
A Nicosia c’è via Costanza Bruno.
A Licata è stata chiesta l’intitolazione.
 
Una donna nel Pantheon di Siracusa
di Ester Rizzo

Costanza Bruno è nata a Siracusa il 31 gennaio 1915 ed è morta a Nicosia il 23 luglio 1943.
Era figlia di un generale di brigata, Francesco, e di una baronessa, Concettina Salamone.
Chi l'ha conosciuta ricorda uno sguardo fermo, deciso, che palesava un carattere forte. La sua breve vita, tra le due guerre mondiali, trascorse tra i militari ed al seguito del padre. A vent’anni entrò nella CRI come infermiera ed iniziò a lavorare negli ospedali di Siracusa, Palermo e Catania.
Costanza fu una donna coraggiosa, intraprendente, arguta, una donna di cultura che parlava diverse lingue e scriveva poesie. Infinitamente generosa aiutava tutti coloro che non potevano permettersi un medico mettendo a disposizione il suo patrimonio personale.
Il 22 luglio 1943 Costanza si trovava a Nicosia nella casa dei nonni materni e già da tempo, per rendersi utile, operava nell’ospedale della cittadina, un piccolo ospedale, scarsamente attrezzato, con un solo medico, un’altra crocerossina, Maria Cirino, e un gruppo di donne del paese che collaboravano volontariamente. La mattina di quel giorno corse verso l'ospedale, dove confluivano i soldati feriti dai bombardamenti, per dare aiuto e donare il sangue. Il padre l’aveva supplicata di restare al sicuro in un ricovero, ma lei con un sorriso si era fermamente opposta.
Iniziò a lavorare tra quei corpi mutilati senza un minuto di sosta. Ad un tratto, con un'incursione aerea, scoppiò l'inferno, una mitragliata di colpi la ferì ma lei imperterrita continuò il suo lavoro. Arrivato il padre, a forza la trasportò al posto di medicamento di una divisione dove le vennero amputate tre dita della mano sinistra. Ci si rese conto che doveva essere operata immediatamente ed il padre decise di portarla all'ospedale da campo di Mistretta. Costanza sapeva che stava per morire ma sorrideva e consolava il padre senza lasciarsi sfuggire un lamento. Non si trovò nessun chirurgo, allora il padre la riportò a Nicosia per farle riabbracciare la sua famiglia. E lì, tra i suoi cari, Costanza esalò l'ultimo respiro. Finì così la sua giovane vita.
Fu insignita della medaglia Florence Nightingale il 12 maggio 1947 ed anche della medaglia d'oro della CRI e della medaglia di bronzo al valor militare.
Le sue spoglie riposarono per cinque anni nel piccolo cimitero di Nicosia e, in seguito, furono traslate nella Chiesa del Pantheon a Siracusa, dove riposano a fianco di altri eroi di guerra.

Fonti
Angela Barbagallo, Costanza Bruno,  in Siciliane a cura di Marinella Fiume, Emanuele Romeo Editore 2006, pp. 447-448       
Ester Rizzo, Siciliane Illustri: le crocerossine Teresa De Caprio e Costanza Bruno, in La Vedetta, maggio 2013
 
 

Burchi Maria Teresa (Teresina)

(Sestola (MO), 1877 – 1963)

 

A Modena c’è una via “T.Burchi” ma naturalmente, poiché la targa porta solo l’iniziale del nome, nessuno si rende conto che è una strada dedicata ad una donna, e che donna! Anche il Comune di Sestola le ha intitolato una via

 

Che voce! E che carattere!

di Roberta Pinelli

Famosa soprano, una delle cantanti liriche italiane più famose della sua generazione, la cui voce di estensione amplissima e la versatilità, oltre che il temperamento, la resero la più rappresentativa cantante lirica dei primi trent’anni del Novecento.
Diede prova del suo temperamento anche nella vita privata: ragazza madre, nel 1894, a 17 anni, partorì una figlia, a cui diede nome Domitilla e che allevò da sola.
Nacque a Sestola (MO) il 1 maggio 1877.
Studiò a Roma e a Modena, poi si perfezionò a Milano con il maestro Carlo Vallini, allora insegnante anche al Conservatorio di Boston. Debuttò nel 1903 al Teatro Duse di Bologna in Gioconda (che poi riprese nel maggio del 1904 al Teatro Storchi di Modena) e nel 1906 a Genova in Andrea Chenier di Giordano. Negli anni successivi ebbe notevole successo presso i più importanti teatri italiani in ruoli drammatici, come Gioconda, Aida, San Valentino e negli Ugonotti di Meyerbeer. Fu considerata la migliore Santuzza di Cavalleria Rusticana e per questo furichiesta molte volte dallo stesso Mascagni. Si esibì anche nei più importanti teatri europei (Corfù, S.Pietroburgo, Barcellona, Valencia e Madrid) e nel 1917 andò in tournée in America del Sud (Rio de Janeiro e S.Paolo) con Enrico Caruso, riscuotendo enorme successo. Si dedicò poi alle opere di Wagner, di cui fu considerata la maggiore interprete italiana, soprattutto di Tristano e Isotta. Al termine della carriera (nel 1928) si dedicò all’insegnamento del canto a Milano e nel 1933 sposò Lotario, fratello della grande attrice modenese Virginia Reiter. Nel castello di Sestola, in due salette usate fino al secondo dopoguerra come cucine, è stata allestita una mostra permanente in suo onore: “La stanza dei ricordi di Teresina Burchi”, dove sono esposti documenti, fotografie, abiti e oggetti di scena a lei appartenuti. Morì a Milano il 12 marzo 1963 e fu sepolta a Sestola
Della sua straordinaria voce restano tre incisioni: la scena del suicidio dalla Gioconda di Ponchielli, Casta diva dalla Norma di Bellini e O sommo Carlo dall’Ernani di Verdi.

Fonti:
Burchi Marisa (a cura di), Teresina Burchi in Reiter. Una voce sestolese nel mondo (1877-1963), Modena, Edizioni Il Fiorino, 2001, 195 pp. + cd audio
http://www.lavoceantica.it
http://parita.regione.emilia-romagna.i

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 Angela Nardo Cibele

(Venezia, 1850-1938)

Non risulta esserle stato intitolato nulla.

Una “scienziata” delle tradizioni

di Gina Duse

Angela Nardo fa parte della schiera di studiosi delle tradizioni locali che dopo l’Unità raccolsero dalla viva voce del popolo ogni tipo di testimonianza su usi, costumi e linguaggi prima che con la modernizzazione del paese andassero perduti.
Angela nasce a Venezia il giorno 1 novembre 1850, dall’unione del medico e naturalista Giandomenico Nardo con la pittrice Chiara Rizzi. La madre muore nel darla alla luce. Viene allevata con affetto dal padre. La casa paterna a Venezia è un cenacolo di studiosi. Angela ne assorbe gli ideali e lo stile di pensiero, il metodo. Insieme ai due figli, segue il marito, Francesco Cibele, negli spostamenti richiesti dalla sua professione d’ingegnere.
Angela non è vissuta all’ombra né del padre né del marito. Con discrezione, ha saputo ritagliarsi un proprio spazio. Per le sue capacità di studiosa è stata apprezzata dalla comunità scientifica maschile del suo tempo. Alla morte, avvenuta a Venezia il 10 agosto 1938, Michelangelo Minio le dedica un elogio sulla rivista Ateneo Veneto. In contatto con altri folcloristi italiani, pubblica i suoi lavori nel periodico Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, fondato dal medico siciliano Giuseppe Pitrè, che fu l’iniziatore in Italia della “demopsicologia”. Dobbiamo a lei, la conservazione di buona parte del patrimonio culturale popolare che caratterizza l’area del Bellunese nel Veneto, dove trascorre alcuni anni al seguito del marito.
Nonostante l’estrazione borghese, Angela abbandona ogni tanto il salotto ed entra nelle stalle, passeggia lungo le rive di fiumi e torrenti, chiacchiera con i montanari. Va incontro al popolo con semplicità, mossa oltre che da interessi scientifici anche da una profonda sensibilità sociale. Una donna pratica, la Zanze, così amava farsi chiamare, capace di sopportare “ la fitta polvere sparsa nell’aria che mi stringeva come un nodo la gola”, pur di ascoltare il pittoresco linguaggio di un canepino di Thiene. Ci pare di vederla prendere appunti, come racconta lei stessa, seduta nella bottega “tra innumerevoli bellissimi mazzi di canapa lucente”.     
Con la Nardo si rivive il fervore attorno a una disciplina in costruzione. La ricerca iniziava ad essere condotta sul campo secondo criteri rigorosi, in linea con i principi del positivismo. Tanto doveva essere oggettiva, nelle intenzioni di chi la praticava, da meritarsi la qualifica di “scienza delle tradizioni”. I dati raccolti attraverso interviste e osservazioni venivano comparati con quelli provenienti da altre aree geografiche. In Angela, tuttavia, protocolli e procedure non impediscono l’emergere di aspetti soggettivi. Con misura, lascia trasparire la sua partecipazione umana, risultato della formazione e dell’impegno giovanili.
Prima di dedicarsi alla ricerca aveva, infatti, pubblicato articoli e racconti su giornali - L’Archivio Domestico, La Donna - intervenendo su temi sociali, economici, politici. Nel loro insieme, questi testi rivelano il bagaglio di concetti, valori e categorie che Angela porta con sé nel momento in cui entra in contatto con una cultura che non le appartiene. Le reazioni sono interessanti. La derivazione ideologica fa emergere la natura storica della sua rappresentazione di popolo. Angela è una liberale riformista, crede nel progresso, nella modernità, nella mobilità sociale. L’istruzione e il lavoro sono gli strumenti per migliorare la condizione del popolo, e della donna in particolare. I più meritevoli possono aspirare a diventare piccola e media borghesia. Non ha tentazioni socialiste, mantiene una visione interclassista.
In quest’ottica, il suo interesse per la tradizione non è mosso dalla nostalgia del passato. La cultura popolare, in generale, è considerata una variante semplificata della cultura alta e come tale di ausilio per spiegare i meccanismi più complessi di elaborazione culturale. Lo studio comparativo dei dialetti, ad esempio, può farci risalire ad una radice linguistica comune.

Fonti:
M. MINIO, Angela Nardo Cibele, in “Ateneo Veneto”, anno CXXIX, vol. 124, n. 4-5, (ottobre-novembre 1938), pp.161-163.
ULDERICO BERNARDI, Gli studi sul costume e le tradizioni popolari nell’Ottocento, in “Storia della cultura veneta” diretta da G. ARNALDI e M.P. STOCCHI, Vicenza 1986, Vol.VI.
N. M. FILIPPINI, Figure, fatti e percorsi di emancipazione femminile (1797-1880) in  S. WOLF – M. ISNENGHI (a cura di), Storia di Venezia. L’Ottocento e il Novecento. Roma 2002, Vol. I, pp.453-488;
T. PLEBANI (a cura di), Storia di Venezia città delle donne, Venezia 2008, p. 155.  

D. PERCO, Dialetto e folklore bellunese, in “Francesco Pellegrini. Storico, educatore, sacerdote  (1826-1903). Atti del Convegno Belluno, 27 novembre 2003”, Belluno 2004. Della stessa autrice: La corrispondenza tra Angela Nardo Cibele e Giuseppe Pitrè, in L. MORBIATO- I. PACCAGNELLA (a cura di), Tra filologia, storia e tradizioni popolari. Per Marisa Milani,  Padova 2010.
G. DUSE (a cura di),  Angela Nardo (Venezia 1850-1938). Scene di Chioggia e altri scritti, Chioggia (VE), 20015.

Per l’elenco completo delle pubblicazioni della Nardo si rinvia al sito : OPAC SBN- Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche. Per i manoscritti al sito: Nuova Biblioteca Manoscritta. Catalogo dei manoscritti delle biblioteche del Veneto. Interessanti documenti sono conservati presso la Biblioteca civica di Belluno e la Biblioteca del Museo di Storia Naturale di Venezia. Il ritratto fotografico della Nardo, reperibile nel web, è conservato presso la Biblioteca dell’Orto Botanico di Padova.

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 Barbara Nativi

(Grosseto, 1951 - Firenze, 2005)

Non risultano intitolazioni a suo nome.

Una protagonista toscana del teatro di ricerca

di Laura Candiani

È stata attrice, regista, drammaturga, traduttrice, insegnante e direttrice del Teatro Laboratorio Nove e del festival Intercity di Sesto Fiorentino; punto di riferimento del teatro di ricerca, originale e instancabile sperimentatrice.
Dopo aver studiato a Firenze ed essersi laureata in Storia moderna, si dedica al teatro intorno ai 28 anni collaborando con attori toscani come David Riondino e Daniele Trambusti e allestendo spettacoli all’Humor Side (ora Teatro di Rifredi) con Paolo Hendel e Renata Palminiello. Fondamentale l’incontro con Silvano Panichi che la convoca come attrice alla fine degli anni Settanta, iniziando un sodalizio mai più interrotto; nell’ ‘82 fondano il Laboratorio Nove, centro di sperimentazione e ricerca, che diventa cinque anni dopo l’omonima compagnia. Si unisce ai due lo scenografo Dimitri Milopulos (che diventerà suo compagno di vita e di lavoro) e insieme  fondano nell’ ‘88 il teatro della Limonaia. Barbara inizia la lunga serie di allestimenti (una cinquantina) che hanno fatto epoca, come Woyzeck (1988), Io è un altro, dedicato a Rimbaud, Non solo per me (1995); scrive monologhi e testi  (Dracula), ma anche  traduce e porta in scena autori stranieri che fa conoscere al pubblico toscano e non solo. Con la nascita del  festival Intercity (giunto nel 2015 alla 28° edizione) si avvicina alla drammaturgia contemporanea e dà un contributo fondamentale alla scoperta e alla divulgazione di opere di autrici e autori russi, canadesi, brasiliani, inglesi. Vanno ricordate le messe in scena di Shopping & fucking, di due testi di Sarah Kane (Blasted-Dannati nel 1997 e Fame/Crave nel 2001), di varie opere di Michel Marc Bouchard, di Muoio come un paese (2003). L’ultimo suo lavoro è stato Twins- Primi passi (2005). Nel frattempo ha seguito da vicino gli esordi di giovani italiani promettenti , curando fra l’altro la regia di Noccioline di Fausto Paravidino nel 2002.  Nel ’96 ottiene il premio della critica dall'Associazione nazionale critici teatrali, l'anno seguente il premio Ubu, nel 2000 il premio Fiesole, nel 2002 di nuovo il premio Ubu (per la regia di Crave). Nel 2015  è stato ripreso un suo spettacolo di culto, che esordì nel ’92 con successi strepitosi  in tutta Europa e oltre trecento repliche solo in Italia; si tratta de Le cognate, testo del 1968 del canadese Michel Trembley che fotografa la quotidianità di un gruppo di 15 donne, anzi 15 casalinghe ben oltre la crisi di nervi, che si  frequentano, ma si detestano quando si tratta di un concorso a premi che darà alla fortunata vincitrice elettrodomestici, abiti, mobili, intesi più che come simboli di benessere, come mezzi per evadere dalla piattezza quotidiana. La messa in scena lasciò entusiasta l’autore che la volle portare a Montréal. Racconta oggi Milopulos: «Fu un trionfo, recitavamo in italiano, ma il pubblico sapeva a memoria il testo perché in Canada Trembly è un classico, lo si studia a scuola». A dieci anni dalla prematura scomparsa di Barbara è stato deciso di riprendere lo spettacolo perché rappresenta una realtà universale ricca di ritmo, divertimento, cattiveria; diceva  Nativi: «Le cognate sono i miei amati mostri. Il testo sembra semplice, ma in fondo è una tragedia moderna, il coro sono le casalinghe intorno». Le attrici - dopo oltre venti anni dal debutto -  sono cambiate o hanno altri ruoli perché l’età è diversa; fra le interpreti  figura questa volta anche  la figlia Greta Milopulos. Lo spirito della regia è però rimasto lo stesso:  la scena è nuda, con qualche sedia messa in cerchio, in compenso  i costumi sono una coloratissima “galleria degli orrori”, come  le ciabatte ai piedi, le labbra troppo rosse, i profumi troppo forti. Una fusione feroce di  crudeltà e di comicità.

Fonti:
Barbara Nativi,Teatro, con prefazione di Franco Quadri, Milano, Ubulibri, 2006
Chiara Alessi, A Barbara Nativi, www.altrevelocità.it
Roberto Incerti, Son tornate le Cognate, in “la Repubblica”, 27.09.2015
Beatrice Manetti, E’ morta Barbara Nativi, in “la Repubblica”, 04.06.2005
Sonia Renzini, Con Barbara Nativi, Firenze perde una pioniera del teatro di ricerca, in “L’Unità”(edizione di Firenze), 04.06.2005
www.mentelocale.it
www.treccani.it/biografie

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Anna Nicolosi Grasso

(Lercara Friddi (Pa), 1913 - Palermo, 1986)
 
Ad Anna Nicolosi Grasso sono intitolate la biblioteca e l’archivio dell’UDI di Palermo ed anche una via della città. A Lercara Friddi, invece,  non risulta intitolata a lei alcuna via.

Una donna nell'Assemblea Regionale Siciliana

di Ester Rizzo

Anna Nicolosi Grasso nacque a Lercara Friddi il primo novembre 1913.
Nel 1944, a guerra finita, tra le macerie di una Palermo bombardata, povera e degradata, si staglia nitida la sua figura. Si aggira tra le case sventrate e la miseria dilagante per parlare con le donne, ascoltarle, raccogliere le loro richieste. Si fa portavoce, insieme ad altre, di chiedere alle autorità competenti cibo, assistenza sanitaria, case, istruzione e, nel frattempo, distribuisce pacchi di viveri e di vestiario.
I suoi primi contatti con i gruppi antifascisti risalgono al periodo in cui era studentessa nella Facoltà di Lettere e, proprio in quegli anni, collabora all’organizzazione clandestina dei comunisti in Sicilia. Tra gli studenti attivisti anche Franco Grasso, con cui Anna si sposa nel 1939.
E', in Sicilia, tra i fondatori del Partito Comunista e dell'UDI.
Così viene descritta da Simona Mafai: "Una donna forte, sicura di sé, ben determinata e rapida nelle scelte, emanava un'autorevolezza che anche gli uomini le riconoscevano".
Nel 1947 Anna organizza una manifestazione finalizzata all’istituzione di colonie estive per bambini. Lo scopo è quello di regalare un soggiorno salutare, una alimentazione decente e un ambiente di gioco sicuro a bambini che abitualmente vivono in condizioni di degrado. Viene eletta alla Camera dei Deputati nel 1953, viene poi rieletta e rimane in carica fino al 1963. E’ sua, nel 1960, la proposta di legge per l’istituzione della Scuola Materna Statale.
Anna promuove la battaglia delle lavoratrici contro i “temperamenti salariali” in Sicilia. Infatti,  sia le donne che i giovani dell’Isola percepivano salari minori sia rispetto a quelli degli uomini, sia  rispetto a quelli dei lavoratori delle altre regioni d’Italia.
Nel 1962, la troviamo di nuovo insieme alle donne siciliane contadine nella battaglia contro il “coefficiente Serpieri”. Questo coefficiente fissava il valore del lavoro della donna contadina al 40% in meno di quello dell’uomo. Nello stesso periodo si mobilita anche per fare ottenere una pensione alle casalinghe.
Il suo impegno per la “Graduatoria unica magistrale” la coinvolge per un lungo periodo, negli anni che vanno dal 1956 al 1965; infatti, fino ad allora, le graduatorie dei docenti elementari venivano stilate in base al sesso dei docenti ed erano tre: una per i maestri, una per le maestre e una mista. I maestri maschi, che rappresentavano circa il 20% del corpo insegnante, avevano a disposizione un numero di posti  maggiore rispetto alle maestre. Anna Grasso inizia una protesta che vede aderire migliaia di donne.
Negli anni successivi continua  il suo impegno nelle istituzioni: è deputata regionale e prima donna Vice Presidente dell’ARS (Assemblea Regionale Siciliana); consigliera comunale a Palermo, a Lercara Friddi e a Palma di Montechiaro; consigliera provinciale a Palermo e capogruppo del PCI. Troviamo Anna Nicolosi Grasso presente nelle battaglie degli anni settanta per l’emancipazione e la liberazione delle donne. Si impegna, con tutta se stessa, per la riforma del diritto di famiglia, per gli asili nido, per la legge contro la violenza sessuale, nelle campagne per il divorzio, per la depenalizzazione dell’aborto. Riguardo a quest’ultimo argomento, fu una sostenitrice del fatto che la decisione ultima spettasse alla donna e non al medico.
Anna Grasso, antifascista e comunista, è stata  una donna esemplare di impegno civile, politico, culturale, ed era soprattutto consapevole della terribile condizione in cui versavano tante donne che subivano pesanti discriminazioni e violenze. E lei le incitava a non sottostare, a denunziare, a ribellarsi.
E’ morta il 2 giugno 1986. La biblioteca e l'archivio dell'UDI di Palermo sono a lei intitolati ed anche una via del capoluogo di Regione porta il suo nome.
Ha scritto di lei, sempre Simona Mafai: "Seppe e volle mettersi sempre – ogni qual volta parve profilarsi uno scontro tra movimento delle donne e partito comunista – dalla parte delle donne".


Fonti:
Natalia Milan, Anna Nicolosi Grasso, in Siciliane. Dizionario illustrato, a cura di M. Fiume, Emanuele Romeo Editore, Siracusa, 2006, pp. 763-765
Ester Rizzo, Storie di donne siciliane: Anna Nicolosi Grasso, in La vedetta, dicembre 2013
http://www.enciclopediadelledonne.it/index.php?azione=pagina&id=152
http://danilocaruso.blogspot.it/2011/05/anna-nicolosi.html

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 Eva Mameli Calvino

 (Sassari, 1886 - Sanremo, 1978)

Ad Eva Mameli non risulta intitolata alcuna via. Un Istituto Tecnico Commerciale di Cagliari porta il suo nome.

http://toponomasticafemminile.com/index.php?option=com_content&view=article&id=9225&Itemid=9339

 
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Gianna Manzini

(Pistoia, 1896 - Roma, 1974)

Le sono state intitolate una via a San Benedetto del Tronto (AP) ed una a Pistoia, sua città natale.
La Fidapa di Pistoia ha intitolato a Gianna Manzini la sala della Biblioteca “San Giorgio” che ospita la narrativa italiana e straniera.

Un mondo di ricordi e di sogni
di Ester Rizzo

Anche Gianna Manzini fa parte di quella folta schiera di scrittrici ingiustamente precipitate nell’oblio. E il destino ha voluto che Joyce, che avrebbe voluto leggere un suo racconto spinto da una recensione entusiastica, nel suo epistolario sbagliasse il nome della scrittrice, indicando quello di Deledda: un errore che non è stato mai più rettificato.
Gianna nasce a Pistoia il 24 marzo 1896. Nel 1914 si trasferisce con la madre a Firenze per completare gli studi. Quando sta per ultimare la sua tesi di laurea, conosce Bruno Fallaci, giornalista della Nazione. I due si innamorano e nel 1920 convolano a nozze. Gianna proprio su quel quotidiano inizia a pubblicare i primi racconti.
Dopo ben otto anni esordisce con la sua prima opera Tempo innamorato. La critica è molto favorevole e il libro viene definito una “ventata di novità” nel panorama letterario di quei tempi.
Le figure del padre e della madre ricorrono spesso nei libri di Gianna Manzini, soprattutto il primo che era stato un anarchico rivoluzionario, morto in un agguato fascista. Questa morte prematura fu sempre vissuta dalla scrittrice come una sorta di “rimorso della memoria”. Quel padre fiero, immolatosi per la libertà, lo ritroviamo nel romanzo Ritratto in piedi pubblicato nel 1971 dove “sul filo di una rievocazione teneramente affettuosa” vengono ricostruiti i momenti più importanti della sua famiglia: l’ambiente anarchico con i compagni di fede del padre, la separazione dei suoi genitori voluta fortemente da sua madre che riteneva pericolosamente utopistiche le idee del marito e quei tanti momenti di incomprensione tra padre e figlia pacificati solo con la morte: “Ma rimasta sola, senza la tua guida, io sbando, finisco col cercare altro, o cerco male. Sola: ho freddo, babbo”.
Questo suo romanzo ottenne nel 1971 il Premio Campiello e lei fu la prima donna a vincerlo.
Un suo precedente romanzo edito nel 1956, La Sparviera, con il quale vinse il Premio Viareggio nello stesso anno e che era scritto con “una sottile analisi psicologica e sentimentale ed uno stile molto raffinato”, fece dichiarare a Giuseppe Ungaretti: “una delle pochissime opere di cui parlerà la gente di domani”. La gente di oggi, invece, neanche sa che è esistita una scrittrice che si chiamava Gianna Manzini.
Tra gli altri suoi scritti: Tempo innamorato, Venti racconti, Incontro col falco, Un filo di brezza, Allegro con disperazione, Cara prigione, Il valzer del diavolo, Sulla Soglia. In quest’ultimo la scrittrice rievoca il rapporto con la madre. L’opera racconta un colloquio tra due donne che avviene nello scompartimento di un treno. Durante l’avanzare del treno sui binari, che in fondo sono quelli della vita, si materializzano, nello spazio angusto e ristretto del vagone, la madre e quattro viaggiatori senza bagagli che, come un coro della tragedia greca, discutono i ricordi che hanno condizionato la vita della madre. Quest’ultima era “l’ascolto passivo”, “l’attesa rassegnazione” in contrapposizione a suo padre che rappresentava la fierezza, la libertà da difendere. In fondo le immagini dei suoi genitori altro non rappresentano che i due simboli della condizione umana.
Anche Montale ebbe parole lusinghiere per lei: “Gianna Manzini ha fatto già molto e molto ancora può fare per il romanzo italiano”.
Nel 1930 fu l’unica donna scelta da Elio Vittorini e da Enrico Falqui per l’antologia Scrittori Nuovi.
E proprio con Falqui nel 1934 iniziò una nuova relazione e si trasferì a Roma, dove si spense il 31 agosto 1974.
Nella città eterna Gianna venne forse contagiata dalla frivolezza degli ambienti e si cimentò come cronista di moda. Diventò inoltre collaboratrice del Giornale d’Italia, di Oggi e di Fiera letteraria, curando anche rubriche fisse ma firmandosi con due pseudonimi: Pamela e Vanessa.
Margherita Ghilardi, tracciando il suo profilo, così scrive: “Fu la sola distrazione concessa ad un impegno che fu tirannico e assoluto”. Un impegno che la portò con le sue opere a fuggire nel mondo dei ricordi e dei sogni per tentare di sottrarsi alla solitudine umana.

Fonti:
Margherita Ghilardi, Italiane, volume III, pag. 169-171, Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le Pari Opportunità
http://www.treccani.it/enciclopedia/tag/gianna-manzini/
http://www.sangiorgio.comune.pistoia.it/gianna-manzini-una-grande-scrittrice-contemporanea-2/#.VIq4B9KG-So
http://www.sangiorgio.comune.pistoia.it/sala-gianna-manzini/#.VIq4GtKG-So
http://www.900letterario.it/scrittori/gianna-manzini-intellettuale-lirica/
http://www.italiadonna.it/public/percorsi/biografie/f104.htm

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Egle Marini

(Pistoia, 1901 - Viareggio, 1983)

Non risulta alcuna intitolazione né a Pistoia né aViareggio, le città toscane  in cui visse.

Un'artista nell'ombra
di Laura Candiani

Sorella gemella del grande scultore Marino Marini, a cui Pistoia e Firenze hanno dedicato due importanti musei, porta il nome di una ninfa ed è accomunata al fratello nel “destino acquatico”, come ebbe a scrivere la figlia. I genitori Guido Marini (disegnatore autodidatta) e Bianca Bonacchi erano entrambi benestanti, vivevano nel  palazzo Baldinotti e crebbero i figli in un ambiente agiato, con permanenze estive nella villa di Collegigliato del nonno paterno.  A partire dal ’17  i due giovani iniziano a frequentare il Regio Istituto di Belle Arti di Firenze, mentre infuria la guerra; le aule in cui studiano sono ambienti di fortuna e al piano superiore un ospedale ospita i militari feriti. Qui seguono  le lezioni di  Galileo  Chini, ma dal ’22 Marino sceglierà i corsi di scultura di Domenico Trentecoste, mentre Egle predilige la pittura a olio. Sono entrambi belli, eleganti, ammirati, affascinanti, fortunati  - e le fotografie che abbiamo lo testimoniano; da bambini paffuti si sono trasformati in adolescenti vestiti alla marinara e poi in adulti longilinei; lei indossa  abiti alla moda, cappellini vezzosi, spiritosi kimono; è ancora bella da anziana, con il foulard al collo, i capelli bianchi, pochi semplici gioielli. Nel ’24 - quando Marino ritorna dal servizio militare - allestiscono uno studio a Firenze, insieme all’amico pittore Alberto Giuntoli. Insegnante molto amata nel convento delle monache di Pistoia, nel ’28 - con dieci  opere - Egle partecipa alla prima mostra provinciale di pittura insieme agli artisti pistoiesi emergenti: Marino, ovviamente, ma anche Cappellini, Bugiani, Mariotti e altri. Nel ’31 il suo dipinto Figura in bianco viene acquistato dalla Galleria di Arte Moderna di Palazzo Pitti e questo rappresenta una vera consacrazione. Dopo un fidanzamento “interminabile”(come afferma la figlia), nel ’32 sposa Alberto Giuntoli; la coppia va a vivere a Firenze in una casa-studio confinante con lo studio del pittore Vagnetti,  ma a Egle la sistemazione piace poco, così  i due rientrano a Pistoia, nello stesso palazzo dove vivono ancora i genitori. Nel  ’36 arriva la fama: Egle partecipa con un olio su cartone (Giovane donna con tralcio fiorito di caprifoglio) alla XX Biennale di Venezia e potrebbe aspirare a grandi successi. Dipinge soprattutto paesaggi, delicati ritratti femminili e di bambini, qualche significativo autoritratto (come quello con la casacca blu), nature morte dai colori brillanti (bellissimi i cesti di limoni, la frutta, i fiori, gli oggetti quotidiani come un bricco e le tazzine). Intanto il gemello ha lasciato Firenze per vivere a Parigi e poi stabilmente a Milano, dove insegna scultura ma, quanto lui è proiettato verso l’Europa e la fama internazionale, Egle resta appartata, riservata, discreta.  Oltre  i 40 anni, quasi una sorpresa inaspettata, arriva la figlia Donatella, forse “troppo amata” (come scrive lei stessa), futura  pittrice (1941-2005). Scoppia  la Seconda Guerra Mondiale e, terminato questo periodo doloroso, Egle accoglie in casa il padre rimasto vedovo (morirà nel ’47). Intanto si è maturato un inevitabile distacco con il gemello Marino che era riparato in Svizzera; questi eventi coincidono con una svolta nella vita dell’artista che decide di abbandonare la pittura, per la quale era pure tanto dotata. Comincia a scrivere brevi composizioni in prosa, per passare poi alla poesia. Il legame con Marino tuttavia rimane così stretto che Egle riprende con i suoi versi i temi trattati dal celebre fratello, come i cavalli e i cavalieri, la Pomona, il mondo del circo e i giocolieri oppure ne commenta e trasfigura  le opere, come avviene nel libro Commenti poetici ispirati dalle opere di Marino che contiene 48 poesie di Egle e 16 disegni di Marino. Di fatto si crea un rapporto fra il “materiale” della scultura (pietra, bronzo, marmo) e la  parola  che di per sé è immateriale, ma rimane sulla pagina stampata, anzi “scolpita”, come nelle poesie Giocoliere, Danzatrici, Pomone, Cavalli, Circo, Le pietre mute. Il suo stile è asciutto, spezzato, fatto di frasi brevi talvolta prive di verbo, il lessico è  spesso aspro, duro, antiretorico, i versi lunghi, anche lunghissimi. 
Negli anni Sessanta  appaiono alcune rare opere grafiche,  in cui Egle “graffia” con il pennino la pagina, imprimendo segni neri su fondo bianco. Occasionalmente, durante le passeggiate con la figlia nelle campagne fuori Pistoia, porta con sé i colori e dipinge all’aperto i paesaggi sereni che la circondano. Marino è ormai uno scultore di fama internazionale e conduce una vita brillante con la moglie che lui ha scelto di chiamare “Marina”;  Egle talvolta  ha l’opportunità  di accompagnarlo in occasione di mostre e di incontri con la critica, eventi che per sé ha rifuggito; li troviamo  insieme a Parigi  e a Rotterdam. Rimasta vedova, Egle lascia Pistoia e va a vivere a Viareggio vicino al mare, continuando a scrivere poesie su temi come la vecchiaia, la morte, i limiti inevitabili dell’essere umano, la separazione definitiva da “Lui” (scomparso nel 1980) trattati anche con un certo distacco, con ironia quasi, ma con la consueta riflessione sul  valore etico del linguaggio.  “Quando vedrò l’altra/faccia della luna/potrò finalmente sapere/su che  cosa essa guarda /e per chi  splende silenziosa:/di là, come di qua, sotto/al coperchio di stelle,/in docile scontroso trapasso/e   inalterabile concessione.”(25-1-1983)

Nel 1990 il Comune di Pistoia ha organizzato una mostra antologica nel Palazzo Comunale (dicembre 1990-gennaio ’91) facendo omaggio all’artista le cui opere si trovano per lo più in collezioni private; a partire dal  2006,  grazie a  una nuova consistente acquisizione, a Palazzo Pitti di Firenze, nella Galleria di Arte Moderna, sono conservate cinque pitture a olio di Egle Marini, fra cui il ritratto femminile presentato alla Biennale del ’36.

Fonti:
Luana Cappugi (a cura di ), Egle Marini 1924-68, Electa, Milano, 1990 (catalogo della mostra tenutasi nel Palazzo Comunale di  Pistoia)                                                                                                                                                         
Marco di Memmo, Marino Marini e la sorella gemella Egle, sito I fiori del male. it, 6-2-2015 (interessante riflessione sul tema del “doppio”)                                                                                                                                       
Paolo Gestro, A Palazzo Pitti  dipinti di Egle Marini, Il Tirreno, 31-1-2006                                                                                   
Egle Marini, 20 Poesie, edizioni del Milione, Milano, 1957 ( con 6 disegni di Marino Marini)                                                                      
Egle Marini, Commenti poetici ispirati dalle opere di Marino,Graphis Arte -Livorno Toninelli Arte Moderna, Milano, 1975 (48 poesie di Egle e 16 disegni di Marino)
Egle Marini, La parola scolpita (a cura di Maura Del Serra), Artout, Pistoia, 2001 (contiene un saggio di M. Del Serra, molte foto commentate e un interessante scritto della figlia Donatella Giuntoli)
 

Camilla Martelli

(Firenze, 1545 – 1590)

Non esistono intitolazioni in suo onore

Una moglie morganatica

di Livia Cruciani

La storia di Camilla Martelli ha inizio nel 1567 quando conosce Cosimo de’ Medici, il futuro primo Granduca di Toscana. Nata nel 1547, è figlia di Antonio Martelli e della sua seconda moglie, Elisabetta Soderini: entrambi i genitori provengono da illustri casate aristocratiche pur non godendo di una posizione sociale elevata, anzi il padre è ricordato, nelle cronache dell’epoca, come povero e miserabile. Tutte le loro speranze sono riposte in questa figlia dal piacevole aspetto. Elisabetta Soderini, la madre, è la zia di Leonora degli Albizi, la dama che ha conquistato il cuore di Cosimo dopo la prematura scomparsa della prima moglie Eleonora di Toledo ed è proprio a lei che Antonio si rivolge per combinare alla ragazza un matrimonio vantaggioso. Cammilla entra così in contatto con la corte.
Cosimo sta iniziando a perdere interesse per la sua amante Leonora e presto su di lei cala il sipario: osteggiata dai legittimi discendenti Medici, è data in sposa forzatamente al nobiluomo Carlo Panciatichi, appositamente graziato da una condanna a morte. Cosimo è così libero di intrecciare una relazione con Camilla, a sua volta estremamente lusingata da tale privilegio. Il 28 maggio del 1568 nasce da questa unione una bambina, Virginia. Ma mentre la famiglia Martelli gioisce per questo illustre legame, non altrettanto succede per le persone di casa Medici, che anzi si affrettano ad allontanare la neonata e a consegnarla al cameriere ducale che la fa passare passare per sua nipote. I figli di Cosimo si preoccupano della vita privata del padre: questi sono gli anni in cui si sta trattando con papa Pio V per ottenere il titolo di granducato e accrescere così la potenza dinastica e l’ambizione politica della famiglia. Non si può certo perdere l’occasione a causa di una ragazza della nobiltà decaduta! Il legame non può essere ben visto dal pontefice che, infatti, chiede la fine della relazione come contropartita per l’ambito titolo, ma Cosimo inaspettatamente rifiuta, colto da rimorsi di coscienza e dubbi morali. Non rimane che legalizzare l’unione: così nel marzo 1570, dopo aver lasciato il governo nelle mani del figlio Francesco e aver ricevuto il titolo di Granduca, sposa in gran segreto l’amata Camilla. A quel tempo lei ha ventitré anni, mentre lui cinquantanove: la giovane crede di aver scalato tutte le gerarchie sociali e di poter godere di ogni privilegio che spetta alla moglie di un principe; ben presto si rende conto che i nobili hanno tanti privilegi quanti doveri. E non solo: Camilla è la seconda moglie di Cosimo. Francesco, figlio di Cosimo, e sua moglie Giovanna d’Austria, figlia dell’imperatore Ferdinando I, venuti a conoscenza delle nozze solo due giorni dopo, protestano vivacemente, tanto che il padre dovrà rispondere per lettera: “Sono un privato e ho preso in moglie una gentildonna fiorentina, e di buona famiglia”. Camilla non lo sa ancora, ma il nuovo signore di Firenze sarà la sua spina nel fianco fino alla morte. A nulla serve la rassicurazione che si tratta di un matrimonio morganatico, ovvero senza alcun passaggio di titoli e beni alla moglie, Francesco le sarà sempre avverso. Camilla non si accorge subito di tutto questo, sente solamente la gioia di essere la legittima consorte di uno degli uomini più potenti di Firenze e d’Italia. Gaetano Pieraccini, senatore della Repubblica Italiana e autore di un fortunato testo sulla famiglia Medici, ce la descrive come una donna di scarsa cultura e intelligenza “
capricciosa, irrequieta, vana, poco affettuosa, noiosissima.
La figlia Virginia viene legittimata e torna a vivere con i genitori. Camilla inizia a dispensare favori alla propria famiglia, facendo nominare il padre cavaliere dell’Ordine di S. Stefano e ottenendo una cospicua dote per le nuove nozze della sorella Maria. Comincia a spendere ingenti somme in abiti e gioielli, ostentando quel lusso da lei sempre ritenuto proprio di chi appartiene alle alte sfere sociali: questo suo atteggiamento le aliena le simpatie della corte e Cosimo è costretto a tenerla lontana dalle feste e dai banchetti, pur di evitare scandali. Il sogno di ricchezza e potere di Camilla dura però pochi anni. La salute del capofamiglia Medici declina sempre di più fino al gennaio del 1573, quando viene colto da un colpo apoplettico che lo costringe paralizzato a letto senza più facoltà di parola. La sua morte avviene l’anno successivo e questo è il punto di non ritorno per la donna. Solamente poche ore dopo la scomparsa del padre, il granduca Francesco I la manda, insieme alle donne di servizio, nel convento delle Murate, quello stesso che pochi anni prima aveva accolto per un periodo Caterina de’ Medici. La doppia morale del nuovo sovrano è emblematica del suo cinismo e della sua prepotenza: non ha scrupoli a sacrificare la vita di Camilla, proprio lui che vive senza mistero e senza compromessi la relazione con la veneziana Bianca Cappello.
La seconda moglie di Cosimo I ha solo ventinove anni, qualsiasi lascito, beneficio, donazione o privilegio concessole da Cosimo viene impugnato dal figlio primogenito. Camilla non può immaginare di passare il resto della vita chiusa tra le mura di un convento, lei che è ancora giovane e ha prospettive di successivi matrimoni. Non vuole, a ragione, arrendersi a questo suo triste destino. Sue uniche compagne sono le monache, taciturne e schive: con loro si lamenta notte e giorno, in continuazione, senza tregua. Le lamentele sono così intense che le stesse consorelle chiedono al granduca di trasferirla in una nuova dimora. Viene mandata nel monastero di Santa Monica dove le viene concessa maggiore libertà, se non proprio di uscire e divagarsi, almeno con la possibilità di ricevere visite. Questa prigionia mina senza via di scampo la sua salute mentale, portandola in breve tempo a una febbrile follia. Nel 1586, grazie alla seconda moglie di Francesco I, Bianca Cappello, le viene concesso di lasciare il convento per partecipare alle nozze della figlia Virginia con Cesare D’Este. Inoltre si fanno sempre più stretti i rapporti tra Camilla e il cardinale Ferdinando de’ Medici, altro figlio di Cosimo, che cerca di aiutarla intercedendo presso papa Gregorio IX e ridurle le restrizione imposte.
Ma questo bagliore di speranza viene pagato a caro prezzo: solo qualche mese dopo, a maggio, Francesco I scrive a Francesco Gerini: “R. nostro carissimo, Il Cardinale de’ Medici ottenne da Papa Gregorio senza alcuna mia partecipazione, che la signora Camilla Martelli moglie gi
del Gran Duca buona memoria potessi introdurre nel monasterio di santa Monaca, dove ella si trova, certa quantità di donne vedove maritate et fanciulle, con facultà di uscirne et rientrarvi a ogni sua posta, et con tante altre larghezze, di stanze, et altre comodità, che di monasterio ben stretto, e venerando, si è ridotto con questo concorso di donne, et con questi abusi, a uno scandolo pubblico della città. Onde noi che conosciamo in quanto pericolo stia non solo quella signora che pur fu moglie di nostro padre, ma anco molte fanciulle che ella tiene in sua compagnia, per evitare maggiori scandali ci siamo risoluti di supplicare Sua Santità a farci gratia non solo di revocare, et annullare tutte le gratie et brevi concessi da papa Gregorio alla signora Camilla, et ad altre donne et huomini, fuor dell’ordine della clausura, ma ancora a ordinare al cardinale di Fiorenza, che se bene questo monasterio sotto la custodia de frati di S. Spirito, lo visiti lui stesso, et ponga remedio a tutti quelli abusi et inconvenienti, che giudicherà necessarij secondo la sua conscientia, et honore di quel monasterio, dicendo a Sua Santità che ci moviamo a domandarle questa gratia et per il zelo dell’honor di Dio, et conservatione di questo venerando luogo, ma anco per quel che con questa larghezza, potessi toccare lo scandolo della buona memoria di nostro padre”.

Tornata ad un maggior rigore monastico la sua salute peggiora sempre di più, soggetta ad attacchi di depressione e a crisi isteriche. Alla morte del granduca Francesco, a poco vale la salita al potere del fratello Ferdinando che le concede di soggiornare presso la villa di Lappeggi: dopo solo un anno Camilla ritorna nel monastero di Santa Monica dove muore il 30 maggio del 1590, circondata unicamente dalle cure devote delle sorelle del convento e seppellita in forma privata nella chiesa di San Lorenzo. Gli autori della Biblioteca Italiana chiosano così la fine della sua vita: “Nei matrimonj di questo genere le donne se non sono maltrattate dal marito lo sono poi da’ suoi parenti”.

Fonti

http://www.treccani.it/enciclopedia/camilla-martelli_(Dizionario-Biografico)/

http://www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/cartedidonne/cdd_02_arrivo.pdf

Pompeo Litta, Famiglie celebri italiane, in Biblioteca Italiana Parte I, tomo LXXVIII, 1835

Gaetano Pieraccini, La stirpe de' Medici di Cafaggiolo, 2° vol, Firenze, 1996
Eleonora Mori, L'onore perduto di Isabella de' Medici, Milano, 2011
Caroline P. Murphy, Isabella de' Medici, Il Saggiatore, 2011
K.M Comerford, Jesuit Foundations and Medici Power, 1532-1621, Brill, 2016

Marcello Vannucci, Le donne di Casa Medici, Newton Compton editori, 2016

Sarah Bercusson, Woman at the court of Medici, in Gender and Political Culture in Early Modern Europe 1400-1800 a cura di James Dybell e Svante Norrhem, 2017

 

 


Paola Masino

(Pisa, 1908 - Roma, 1989)

Nessuna strada le è stata intitolata; la ricorda solo una targa commemorativa nella casa in cui visse a Roma insieme a Massimo Bontempelli.

L'ambizione di essere un'artista, il destino di essere donna
di Ester Rizzo

Paola Masino fa parte di quella folta schiera di autrici dimenticate. La possiamo definire un’intellettuale eclettica: la sua produzione letteraria comprende racconti, romanzi, poesie, libretti d’opera, articoli per riviste e giornali. Condusse anche programmi radiofonici.
Figlia di Enrico Masino, funzionario del Ministero dell’Agricoltura, e dell’aristocratica Luisa Sforza era cresciuta in un ambiente familiare intriso dalla passione per la musica e la letteratura. Così, sin da giovanissima, Paola si accostò alla lettura della Bibbia, del Corano, delle opere di Dostoevskij e di Shakespeare, ascoltando inoltre la musica di Beethoven, Mozart e Wagner.
Aveva solo 16 anni quando scrisse Le tre Marie, un dramma di tre donne: una madre, una sorella e una moglie di un “grand’uomo”, un genio che però le tiene soggiogate.
Paola non fu una brava studentessa, infatti al secondo anno di liceo venne rimandata in fisica ed in matematica. Decise così di interrompere gli studi, ma non la sua preparazione culturale autonoma e la sua opera di scrittrice.
Quando nel 1927 incontrò Massimo Bontempelli, più grande di lei di ben 30 anni, la sua famiglia cercò inutilmente di ostacolare questa relazione. Ma Paola iniziò a convivere con il compagno e a collaborare con lui alla rivista “900”.
Intensi furono i rapporti con quasi tutte le scrittrici italiane del suo tempo: Sibilla Aleramo, Alba De Cespedes, Ada Negri, Anna Maria Ortese, Luce d’Eramo, Maria Bellonci, Anna Banti, Natalia Ginzburg e Gianna Manzini.
Quando nel 1933 Paola si classificò al secondo posto nel Premio Viareggio con il romanzo Periferia, la critica fascista la definì “una scribacchina” e i suoi scritti spesso vennero censurati.
Le sue opere migliori videro la luce fra gli anni ‘30 e ’40 e le principali furono: Decadenza della morte, raccolte di poesie e prose del 1931; Monte Ignoso (dello stesso anno) un romanzo in parte autobiografico stroncato nel giudizio, in particolare da Gadda, e subito liquidato dalla critica fascista; Periferia (1933); Racconto grosso ed altri (1941);
Nascita e morte della massaia (1945);  Memoria di Irene (1945), Poesie (1947).
Insieme ad altre persone fondò, nel 1944, il settimanale “Città” su cui aveva una rubrica fissa, Dragon, e in cui scriveva anche di politica con interventi a favore della Repubblica; sosteva la mobilità civile degli intellettuali dichiarando al contempo che a loro doveva essere lasciata ampia autonomia di espressione, ponendosi in contrasto con la “politica culturale” di quel periodo.
Dagli anni cinquanta in poi su di lei si spensero i riflettori: il suo nome non compare in alcuna storia della letteratura se non come curatrice delle opere di Bontempelli.
L’archivio di Paola Masino, oggi custodito presso l’Università La Sapienza di Roma, costituisce un patrimonio letterario di notevole importanza. Lei stessa lo aveva ordinato e diviso in fascicoli quasi come se avesse voluto tramandare ai posteri la sua figura di donna, di scrittrice, di intellettuale. Aveva sicuramente avuto la consapevolezza di appartenere alla categoria delle autrici “difficili, che vendono poco”, di essere stata una persona imbrigliata in un eterno conflitto: l’ambizione di essere un’artista e il destino di essere una donna.
Proprio questo conflitto è quello che chiaramente traspare nel suo romanzo Nascita e morte della massaia. La storia è quella di una ragazzina che, per sfuggire alla quotidianità, si rifugia in un baule “pieno di brandelli di coperte, di tozzi di pane, di libri e di relitti di funerali” per uscirne al raggiungimento della maggiore età, sposarsi e dedicarsi alla cura della casa, affrontando il duro lavoro di massaia.
La Massaia non ha nome, non ha tempo né luogo, si “forma” da sola in un baule e appena ne esce viene fagocitata dagli obblighi di una perfetta donna di casa. Tra fatiche e impegni sente sempre il richiamo del baule dove da sola era riuscita a crescere spiritualmente. Una donna che rifiuta la maternità per non sentirsi solo corpo, “materia che genera materia”. La massaia con la morte ritrova il suo riscatto. La fine della sua vita terrena è anche l’unico modo che le consentirà di staccarsi dalla promiscuità dell’esistenza e tornare, finalmente libera, alla dimensione spirituale. In questo libro, che è “un’allegoria sulla condizione femminile”, c’è lei, Paola Masino, scrittrice ed intellettuale ma anche donna che governa la sua grande casa veneziana e che si dedica al suo uomo.
Ancora oggi, risuona attualissima la rabbia della Massaia che rivolgendosi a Dio così l’apostrofa: “Dovevi dimostrarmi che anche nel rammendare una calza si può trovare un universo, non farmi intendere che ho lasciato l’universo per rammendare calze!”.

Fonti:
Paola Masino, Nascita e morte della massaia, Isbn edizioni, 2009
L’archivio di Paola Masino - Inventario,  a cura di Francesca Bernardini Napoletano, Ministero per i beni e le attività culturali Direzione Generale per gli Archivi 2004 – Pubblicazioni degli Archivi di Stato Quaderni della Rassegna degli Archivi di Stato 105
Marinella Galateria, Italiane, volume II pag. 103-104,  Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le Pari Opportunità
http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/paola-masino-2/
http://www.radiosapienza.net/2013/news/libri/672-paola-masino-scrittrice-d-altri-tempi.html
http://www.letteraturaalfemminile.it/paola_masino.htm
http://www.treccani.it/enciclopedia/paola-masino_%28Dizionario-Biografico%29/
http://www.edscuola.it/archivio/antologia/recensioni/masino.htm

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Fausta Massolo

(Arquata Scrivia (AL), 1935 - Modena, 1999)

La strada a lei intitolata è lunga poco più di 300 metri e corre in periferia, parallela ad una delle arterie principali di Modena, perdendosi poi senza sbocco nei campi. Quasi una metafora del suo lavoro, dato che Fausta Massolo ha sempre lavorato con piccoli e piccole ammalati/e di oncologia e il suo lavoro, da lei svolto in modo appassionato, non ha avuto sempre un esito positivo.

La dottoressa dei bambini e delle bambine
di Roberta Pinelli

Fausta Massolo nacque ad Arquata Scrivia (AL) il 4 luglio 1935. Dopo il diploma di Liceo Classico, si iscrisse alla Facoltà di Medicina di Genova, dove si laureò nel 1958 con 110 e lode. Dopo un breve periodo presso la Clinica Chirurgica dell’Ospedale di Firenze, nel 1966 si trasferì a Modena, dove sarebbe rimasta poi per tutta la vita.
A Modena insegnò sia alla Facoltà di Medicina sia alla Scuola per Infermieri Professionali e per Capo-Sala del Policlinico, curando la docenza soprattutto delle discipline pediatriche.
Si specializzò in Pediatria, Malattie del Sangue e Oncologia tra il 1969 e il 1975, sempre con il massimo dei voti e la lode, poi nel 1977 ottenne l’idoneità nazionale come Primaria di Pediatria. Nel 1980 si specializzò anche in Neonatologia, ancora una volta con il massimo dei voti.
E’ stata autrice di oltre 300 pubblicazioni sia in Italia che all’estero, inerenti soprattutto l’Ematologia e l’Oncologia pediatrica.
Nel 1984 diventò Direttrice della nuova Divisione di Oncoematologia Pediatrica del Policlinico di Modena, da lei fortemente voluta e che avrebbe diretto fino al 1999. Nel 1988, insieme ad un gruppo di genitori di bambini e bambine con patologie oncoematologiche, fondò ASEOP, l’Associazione di volontariato a sostegno dell’ematologia e oncologia pediatrica. Con il contributo di ASEOP e di ADMO (l’Associazione Donatori di Midollo), l’appassionata tenacia della dottoressa Massolo portò al completamento del nuovo edificio destinato all’Oncoematologia Pediatrica fra il 1993 e il 1994.
Questa inedita alleanza fra la medicina e le famiglie dei piccoli e delle piccole pazienti fu una vera rivoluzione per l’ambiente medico di quegli anni, quando ancora non si parlava dell’importanza di un “patto terapeutico” fra la struttura di cura, paziente e la sua famiglia.
La dottoressa Massolo infatti lottò tutta la vita sia per ottenere cure migliori sia per rendere il reparto adatto a quell’umanizzazione della cura che oggi è un concetto assodato, ma che all’epoca era ancora una conquista da ottenere con grandi sforzi. Pioniera non solo nelle cure mediche (fu una delle prime oncologhe pediatriche a sperimentare cure allora pionieristiche), Fausta Massolo sostenne e incoraggiò anche la presenza in ospedale di diverse figure professionali: maestre, insegnanti, psicologhe, che fornissero ai bambini e alle bambine ricoverati/e una accoglienza completa.
Scomparsa prematuramente il 7 settembre 1999, Fausta Massolo ha lasciato un segno indelebile nella storia della medicina modenese.
Nel 2005 il suo amato reparto è stato ingrandito, sempre con il contributo di ASEOP, con l’aggiunta di stanze di degenza e camere sterili per  bambini e bambine sottoposti/e a trapianto. I nuovi locali sono stati a lei dedicati.
Nel maggio 2014, un accordo fra Comune e Provincia di Modena, ASEOP, Policlinico e Acer (Azienda Casa Emilia Romagna) ha dato il via alla costruzione di una “casa lontano da casa”, una palazzina di 15 appartamenti da destinare ai  bambini e alle bambine che necessitano di lunghi periodi di cura e alle loro famiglie. La casa sarà dotata di biblioteca, spazio ludico interno, giardino, palestra per la riabilitazione, uffici e magazzino. Il costo complessivo del progetto, arredi inclusi, è di 2 milioni di euro. Questa struttura, che sorgerà nei pressi del Policlinico di Modena e dovrebbe essere terminata entro il 2015, è stata chiamata “La casa di Fausta”.
Ci piace concludere la biografia di Fausta Massolo con il ricordo scritto da uno dei suoi allievi: “In questi giorni che vedono le corsie della Clinica Pediatrica “invase” dagli studenti del 6° anno, ancor più è vivo il ricordo della Prof. e della sua passione per l’insegnamento. Passione vera, innata, che ha lasciato sbalorditi e coinvolti generazioni di studenti e anche noi, che dopo poco, “sedotti”, ci siamo ritrovati davanti alla sua porta per chiederle la tesi, la chiave per entrare in quella disciplina particolare che è la Pediatria e in quella, ancor più particolare, dell’Oncoematologia pediatrica, che segna in maniera indelebile chiunque vi si avvicini. C’era sempre lei, la Prof., in prima fila, instancabile, entusiasta, ad insegnare l’ematologia pediatrica sia in aula con i suoi mitici lucidi sia in corsia al letto del bambino malato. Cara Prof., a noi piace ricordarla così”.

Naturalmente a Modena pochissimi conoscono Fausta Massolo e quello ha fatto e nessuno sa nemmeno dove si trovi la via a lei dedicata.

Fonti
http://www.allapari.regione.emilia-romagna.it/vie-en-rose/vie-donne-modena/massolo-fausta
http://www.policlinico.mo.it/pubblicazioniemedia/inaugurazioni/oncoematologiapediatrica.pdf
http://247.libero.it/dsearch/fausta+massolo/
 
 

 

Angelina Mauro

 

(1925?, 1926? – Crotone, 1949)

A lei sono intitolate strade a Crotone, San Costantino Calabro, Rombiolo, Polistena, ma anche a Ciampino, nel Lazio, e a Marsciano, in Umbria. Angelina Mauro ha dato anche il nome a una frazione del Comune di Spezzano Albanese, in provincia di Cosenza, a quattro chilometri dal centro cittadino.

Un tragico giorno a Melissa
di Maria Pia Ercolini

La Calabria ha fame ed è stanca di attendere promesse non mantenute.

Il 29 ottobre 1949 la popolazione di Melissa, Comune oggi in provincia di Crotone, marcia nottetempo, compatta e disarmata, per occupare il feudo di Fragalà, proprietà del marchese Berlingeri: la legislazione napoleonica ne aveva assegnato una metà al Comune, ma la famiglia in questione, nel tempo, lo aveva occupato interamente.

Non si tratta di un’operazione di partito, ma di un’azione di massa, che include minori, donne, uomini, persone del partito Comunista, reduci di guerra e persino missini, uniti da uno slogan comune: “la terra a chi la lavora”.
Camminando nel buio lungo la mulattiera argillosa, le donne avanzano senza un lamento: Onna Cuncia e Grazia Palà, con i bimbi in grembo, Maria Ferraro, Angelina Mauro e tante altre, con ceste di viveri e barili d’acqua in equilibrio sulle loro teste. Arrivano all’alba sulla terra e imbracciano vanghe, zappe e rastrelli per rimuovere gli arbusti e dare aria al terreno. A mezzogiorno le donne scoperchiano il pranzo portato da casa e lo consumano con canne intagliate a mo’ di forchette. Alla ripresa del lavoro ecco apparire la Celere, accolta dai saluti di benvenuto, presto azzittiti dal rumore degli spari, dal tonfo dei corpi: stramazzano per primi Francesco Nigro e Giovanni Zito, cade Angelina Mauro, colpita a un rene mentre solleva la sua bandiera verso il sole.

Angelina non era un’attivista politica, ma solo una giovane donna della campagna meridionale che muore, da lì a pochi giorni, senza mai avere giustizia.

Povera, come tutte le altre, lascia tuttavia una grande eredità: per la sua Calabria, diventa il simbolo di una nuova identità femminile e il suo nome travalicherà i confini regionali.

Fonti:

https://books.google.it/books?id=PE-XBAAAQBAJ&pg=PT51&lpg=PT51&dq=Angelina+Mauro&source=bl&ots=FYX-uspGkf&sig=uPpW_5lSv8AC-VcIT3N_6CWTteg&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjEmZydn-LSAhVGJ8AKHQTkDFIQ6AEIeTAU#v=onepage&q=Angelina%20Mauro&f=false

http://archivio.sinistraecologialiberta.it/articoli/angelina-mauro-le-lotte-contadine-e-la-calabria-di-oggi/

http://www.olioofficina.it/societa/cultura/la-strage-di-contadini.htm

 
 

(Firenze, 1569 – 1584)

Non esistono intitolazioni in suo onore

Una principessa malata

di Barbara Belotti

Questa è la breve storia di una bambina, una Medici, morta adolescente, che non ha fatto in tempo ad affacciarsi completamente alla vita. Molte le difficoltà per rintracciare qualche frammento di questa esistenza. Sono state proprio queste difficoltà ad avermi convinta che di Anna bisognava parlare, che bisognava seguire le poche tracce e cercare di costruire, se pur sbiadita, una piccola storia. Perché Anna de’ Medici non venga del tutto dimenticata.
Per le donne nobili le tappe esistenziali da ricordare e celebrare sono prevalentemente due, esclusa la nascita che di rado viene salutata con enfasi, gioia e festeggiamenti: la prima è il giorno delle nozze, quando cominciano il compito di “fattrici” di eredi, possibilmente maschi; la seconda è quella della morte, quando il compianto si arricchisce di cerimonie funebri, orazioni e panegirici. Su di Anna quindi sono scarsissime le notizie: la sua è stata una vita breve, appartata, trascorsa soprattutto fra le mura delle dimore medicee a causa della salute cagionevole che l’ha uccisa quando era ancora un’adolescente. Sono le lettere dei suoi congiunti a nominarla, a permetterci di dare un po’ di luce a quella esistenza.
Anna de’ Medici nasce il 31 dicembre 1569, è la terzogenita di Francesco I de’ Medici e di Giovanna d’Austria. Prima di lei erano venute al mondo le sorelline Eleonora e Romola, morta dopo pochi giorni; dopo di lei Isabella e Lucrezia, entrambe scomparse a pochi mesi, poi Maria, futura regina di Francia. Solo femmine sembra mettere al mondo l’arciduchessa d’Austria Giovanna d’Asburgo, “incapace” per undici anni di procreare l’atteso erede maschio.
La nascita della piccola Anna lascia la puerpera a letto per un po’, “fresca di parto et assai travagliata dal latte” come Giovanna d’Austria stessa scrive in una lettera indirizzata a Guidobaldo della Rovere. Forse nell’animo della giovane madre si insinua anche una vena di malinconia mista a delusione per questo terzo parto di bambina: sa bene qual è il suo compito e non può ignorare che tutti intorno a lei, primo fra tutti il marito Francesco, aspettano impazienti la nascita di un futuro granduca.
Nel settembre del 1570 le prime preoccupazioni. La piccola, insieme alla sorellina più grande Eleonora, è a Firenze con il nonno Cosimo I; la madre Giovanna, lontana, scrive per sapere le condizioni di salute delle figlie, ha saputo che Eleonora è ammalata, si parla forse di vaiolo o di rosolia. Cosimo I, che è stato un buon padre, affettuoso e presente con figlie e figli, è ora anche un buon nonno: “l'Alt.za V. può stare con l'animo quieto, che non si lasserà opera o diligentia alcuna per la sua buona cura et si farà tutto quelloche sarà possibile con il medesimo amore che farebbe lei stessa se fusse presente”. Anna viene separata dalla sorellina per paura del contagio e per un po’ di tempo viene affidata a una certa donna Isabella perché non si ammali. Cosimo è sempre presente e attento, scrive alla nuora: “la picina sta bene et è in casa donna Isabella e da domane in lá la potrò visitare poi che sino a hora per buon rispetto mene sono astenuto”. Ora che il pericolo è passato (“Già siamo chiari il mal della Leonora non esser né vaiolo né rosolia perché è passato il termine che di ragion si doverria scoprire”) le giornate sembrano trascorrere più serene.
Anna, pur nell’ambito della corte, viene allevata e accudita dalla balia Emilia, moglie di uno dei servitori di Cosimo I, Bastiano. La donna serve con fedeltà la famiglia e, come testimonia Giovanna d’Austria in una lettera al suocero, “in questa nurritura di quella figliuolina s'è portata con quella vigilanza, diligenza,et amorevolezza possibile, da restarne molto satisfatta”; la granduchessa sente di dover aiutare la sua balia chiedendo a Cosimo di dare alla donna la porzione di un’abitazione perché possa avere una dimora sicura: ”Alt.za m'haverà per iscusata, s'io la prego a farle questa mercede et gratia, della quale sentirei nondimeno molto piacere, per la voluntà ch'io porto alla detta Emilia , com'io penso ancora che faccia v. Alt.za per esser moglie di Bastiano suo buon serv.re, et propostami nel principio da lei per balia”.
Fino ad ora i documenti hanno visto come protagonisti la mamma, il nonno della bambina e qualche esponente di spicco della corte fiorentina. La figura del padre, Francesco I, è piuttosto assente: il matrimonio con Giovanna non è un matrimonio felice, lui preferisce trovarsi lontano dalla famiglia, immerso nei suoi doveri istituzionali, negli interessi culturali e nella storia amorosa con Bianca Cappello. Appare, fra i documenti d’archivio che riguardano sua figlia Anna, soprattutto quando si tratta di decidere del suo futuro e stabilire alleanze matrimoniali.
La prima proposta viene fatta alla corte d’Asburgo con la quale la famiglia Medici ha già stretti vincoli di parentela. Nel novembre del 1578 Francesco I scrive a Belisario Vinta, suo primo segretario, perché faccia recapitare alla corte austriaca un ritratto di Anna, che ancora non ha compiuto otto anni. Da pochi mesi è morta la moglie Giovanna, il desiderio del granduca è che i legami con la famiglia imperiale vengano ulteriormente rinsaldati dalle nozze fra sua figlia e Carlo, erede di Ferdinando arciduca d’Austria e conte del Tirolo. Nella lettera Francesco I intende rassicurare sulla salute di Anna: “ella non ha male alcuno alli occhi, ne li lagrimano altrimenti, ma perché son molti mesi che cascò, et si percosse il naso, et se li enfiò un poco, che per non esser' curato da principio bene come cosa di poca importanzia quando è guarito, et quando è ritornato un poco enfiato, et ultimamente che hebbe la rosolia, et la febbre se li asciugò quella poco di materia che vi cadeva, et ritornò come prima, et perché ella non ha maculato il viso, ne altro”. Per far giungere a buon fine le trattative è necessario che arrivi il consenso del re di Spagna. Non si sa se il re abbia negato il suo assenso, sta di fatto che i negoziati si concludono con un nulla di fatto visto che, poco meno di tre anni dopo nel febbraio 1581, Francesco cerca di far sposare la ragazza a un altro partito coronato, Carlo Emanuele I da poco nominato duca di Savoia. Anche in questo caso la trattativa non raggiunge gli esiti sperati.
Di Anna rimane una sola lettera, datata febbraio 1583, inviata al padre in cui si scusa per non aver scritto di suo pugno il testo: “né si maravigli V.A.S. s'io non gli scrivo di mia mano, il che fo a fine, che non mi si muova il sangue dal naso”. È malata la ragazzina e i documenti successivi testimoniano della sua salute precaria. Esattamente un anno dopo il padre Francesco I scrive al fratello cardinale Ferdinando: “Otto o dieci giorni prima che io partissi di Fiorenza si aperse alla Principessa Anna la vena del naso et ne uscì circa tre libre di sangue il quale si fermò et stette otto o x giorni benissimo, talchè noi ce ne venimmo a Pisa et in capo a tre giorni gli si aperse un'altra volta et ne uscì circa cinque libre con lassarla assai stracca, et gli sopragiunse un poco di febre la quale per la debolezza in che l'ha lassata ci da tremere un poco”. È l’11 febbraio 1584, meno di una settimana prima della morte di Anna. Il 17 febbraio Bianca Cappello scrive al cognato Ferdinando annunciando un certo miglioramento nello stato di salute della ragazza. Ciò rende meno angosciante la lontananza sua e di Francesco I che da Pisa, dove si trovano, si spostano verso Livorno. Due giorni dopo, il 19 febbraio, la sorella Eleonora scrive al padre preoccupata e implorante: “Deve havere inteso V.A. per una di mastro Piero in nel male termine che si trova la Sig.ra P. Anna, ora sipinta da e' pregi suoi vengo in nome suo a preghar V.A. si contenti innanzi che lei muoia di darli satisfatione di lasciarsi rivedere, e questo gli scrivo per parte sua”. Anna non riesce a scrivere, è in fin di vita e chiede di poter vedere un’ultima volta il padre. Da corte giungono nella stessa giornata messaggi contraddittori. Si afferma che la giovane sta meglio “La Principessa Anna va tutta via migliorando”, salvo poi smentire tutto in un altro foglio e annunciarne la morte improvvisa: “Doppo l'haver scritto è venuto l'aviso della morte della Principessa Anna che ha dato grandissimo travalgio a lor Altezze et particularmente alla Granduchessa [Bianca Cappello] che non travoa luogo perchè son molti giorni che sarebbe voluta andare a Fiorenza, ma il male pareva leggeri fin all'ultimo”. Il giorno successivo è proprio la granduchessa Bianca a scrivere al cognato cardinale:”
Io mi trovo così occupta dal dolore, che io sento infinito della perdita c'habbiamo fatto della S.ra Principessa Anna, ch'io non ho parole da narrare a V. S. Ill.ma questo ultimo suo accidente, il quale a me è giunto tanto nuovo, quanto che [...] li medici ci havevan data speranza della sua salute.”
Anche il padre Francesco scrive al fratello: “ella è andata sempre migliorando con esser le febre sempre scemate, et variate l'hore et pure hieri i medici mi scrissono, che il miglioramento seguitava, et che la febre era minore, ma in un subito quell'humore se li gettò al cuore, et in questo punto mi scrivono che ella morì hieri alle 20 hore con tutti i sacramenti della chiesa. Il dispiacere che io n'ho sentito è infinito, ma bisognaaccommodarsi al voler di Dio”.
Anna è morta senza aver rivisto suo padre.

Fonti:
http://bia.medici.org/DocSources/Home.do

 

 

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Bianca de' Medici

(Firenze, 1455 - ? 1488)

Non si hanno intitolazioni in suo onore

Una sorella sfortunata

di Lucrezia Ramacci

Se la vita di Lucrezia Tornabuoni fu un’importante eccezione nella condizione femminile del suo tempo, la biografia di sua figlia Bianca è invece significativa al contrario, perché rappresenta perfettamente le limitazioni delle donne del 1400 anche nelle famiglie altolocate. Il suo ruolo è quello di una pedina in una partita che non sceglie e non può giocare liberamente, che si piega ai voleri delle famiglie, quella d’origine e quella che la accoglie dopo il matrimonio.
Molto ci dice il fatto che le notizie su di lei siano scarsissime e che, sorella maggiore dei ben più famosi Lorenzo il Magnifico e Giuliano de’ Medici, pochi sappiano anche solo della sua esistenza.

Bianca nasce il dieci settembre del 1445, bambina intelligente ma piuttosto mansueta; studia insieme ai fratelli e alle sorelle le basi della cultura umanistica, seguita principalmente dalla madre che la introduce alla cultura latina svelandole la bellezza di autori come Ovidio e Orazio.

Il destino di Bianca si palesa già dalla prima adolescenza, quando i suoi genitori la scelgono per contrarre un matrimonio di importanza fondamentale non solo per i Medici ma per tutta Firenze: quello con Guglielmo de' Pazzi.

Nel XV secolo i Pazzi e i Medici sono le due più potenti famiglie di banchieri della città, tra di loro da tempo è in corso una guerra per il primato economico che significa anche potere politico e sociale. Nelle strategie interne fiorentine comincia a diventare centrale l’idea di unire, tramite alleanze, le due casate per preservare la tranquillità cittadina. E quale patto migliore se non quello di stendere un contratto matrimoniale e legarle con vincoli parentali? I prescelti dalle famiglie sono giovani, Bianca ha solo 13 anni, è appena entrata nell’adolescenza, ma su quel legame si fondano le speranze della futura stabilità cittadina.
Eppure è proprio questo matrimonio a permettere l’organizzazione, dieci anni dopo, di quella che sarà ricordata nella storia come la Congiura de' Pazzi, in cui rimane ucciso il più piccolo dei figli di Lucrezia Tornabuoni, Giuliano de’ Medici. Infatti i nuovi legami parentali e la vicinanza creatasi tra le due famiglie, che comporta la loro compresenza in varie occasioni di ritrovo e di festa, lasciano campo libero alla progettazione dell’agguato e aiutano lo zio e il cugino di Guglielmo, sostenuti da papa Sisto IV e da Siena, nella sua realizzazione. Il primo tentativo, l’avvelenamento di Lorenzo e Giuliano il 25 aprile nella villa a Fiesole, fallisce per puro caso; il giorno dopo, invece, nel Duomo di Firenze la congiura trova il suo tragico epilogo. Giuliano viene pugnalato a morte, Lorenzo rimane solamente ferito.
I colpevoli sono puniti in modo esemplare con la pena di morte e la condanna ricade anche su Guglielmo pur estraneo ai fatti; Lorenzo lo costringe all'esilio con tutta la famiglia, che comprende anche Bianca, ormai legata in maniera indissolubile al destino del marito; forse la pena si limita all’esilio proprio perché lei è sua sorella.

Da allora le notizie sulla sfortunata donna si fanno pressoché inesistenti: sappiamo che ebbe altri nove tra figlie e figli oltre i sette che già le erano nati prima della congiura; di questi sedici ben quattordici sopravvissero. Anche di loro si conosce molto poco.
Bianca muore nel 1488, a soli 43 anni, lontana da Firenze e da quella famiglia che forse non sentì mai sua.

 

Fonti

https://it.wikipedia.org/wiki/Bianca_de'_Medici

Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Roma, 1999

 

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Clarice de' Medici


(Firenze, 1489 – 1528)

Non risultano intitolazioni di strade in suo onore

Una vera Medici

di Carolina Germini

La vita di Clarice si inserisce all'interno di un periodo molto burrascoso, per la storia fiorentina in generale e per la famiglia Medici in particolare.
Alla sua nascita, il casato gode ancora dello splendore legato a Lorenzo il Magnifico, a lei spetta il merito di aver combattuto, per tutta la vita, cercando di mantenerne alto il prestigio.
È ricordata soprattutto per il coraggio che l'ha sostenuta e accompagnata in alcune delle vicende più importanti della famiglia; la sua tenacia l'ha portata a difendere il casato dagli errori del papa mediceo Clemente VII e se di suo padre Piero si ricorda la poca propensione al comando e lo scarso carisma, di Clarice si riconosce la determinazione, l’intelligenza politica, la forza d’animo.
Il nome lo eredita dalla nonna paterna, Clarice Orsini. Nasce a Firenze nel 1489 da Alfonsina, anche lei una Orsini, e da Piero, figlio di Lorenzo De Medici; alla morte di quest’ultimo, è proprio Piero a prendere le redini della famiglia e della città. Sono tempi difficili, carichi di tensione soprattutto dopo la morte del Magnifico. Sono gli anni delle prediche di Savonarola, delle controverse scelte politiche di Piero e delle contrastate alleanze da lui volute. Sono gli anni che culminano con la cacciata della famiglia da Firenze.

Clarice è ancora piccola quando, insieme al padre e al fratello Lorenzo, viene esiliata. Nonostante la lontananza forzata e senza aver conosciuto realmente la città, questa le resterà semprenel cuore e sempre lei resterà legata alle sue radici. Quando il padre Piero muore, la ragazza ha solo dieci anni e a occuparsi della sua educazione è lo zio, il cardinale Giovanni de Medici, futuro papa Leone X. Per lei, fin dalla prima adolescenza, si cominciano a tessere le trame di un matrimonio degno di una Medici: ci pensano la madre Alfonsina e lo zio cardinale. Inizialmente ci si orienta verso Baldassar Castiglione, poi le trattative si spostano su Filippo Strozzi, rampollo di una delle casate fiorentine più influenti dell'epoca. La scelta non è casuale, la famiglia Strozzi è molto ricca, potente e soprattutto contraria a Pier Soderini, gonfaloniere di Firenze dal 1502; si comincia a preparare il ritorno dei Medici, il capo designato a riprendere il potere è il fratello di Clarice, Lorenzo. Anche la zia Lucrezia e il marito Jacopo Salviati assecondano le trattative matrimoniali, decisi e fermi nelle loro idee antirepubblicane. Lo zio cardinale si impegna perché anche il papa, Giulio II, intervenga presso il governo fiorentino per chiedere il perdono per la famiglia in esilio e, per Filippo Strozzi, la possibilità di contrarre matrimonio con una Medici: su Clarice pesa infatti la condanna all’esilio e il futuro marito, sposandola, rischia la stessa sorte. Ma la posta in gioco è troppo grande: da una parte la famiglia Medici vede concretamente la possibilità di tornare al vertice di Firenze e riprendere quel potere sottratto anni prima; dall’altra Filippo Strozzi è conscio che quelle nozze rappresentano l’ulteriore consolidamento del proprio potere politico ed economico.
Il patto matrimoniale è firmato a Roma nell’estate del 1508, Clarice ha quindici anni quando sposa Filippo. Per loro si apre la strada dell’esilio a Napoli, ma la condanna è di breve durata e, dopo solo un anno e il pagamento di un'ammenda, gli sposi possono rientrare a Firenze.
La loro unione è caratterizzata da una grande intesa e da un solido legame. Hanno dieci tra figli e figlie ed è Clarice a occuparsi della loro educazione. Non accudisce solo loro, ma cresce anche i figli illegittimi del casato, Ippolito e Alessandro: il primo è figlio di Giuliano Duca di Nemours, il secondo di Giulio de Medici, futuro papa Clemente VII.La decisione di Clarice di occuparsi di loro rientra in quel forte senso di appartenenza alla famiglia che la donna prova; con lo stesso spirito prende sotto la sua protezione anche la nipote Caterina, unica erede del fratello Lorenzo e di sua moglie Maddalena de La Tour d’Auvergne, rimasta orfana poco dopo la nascita.
Il senso di appartenenza e l’orgoglio del nome Medici: sono questi i sentimenti che la spingono a prendere decisioni orientate a salvaguardare l’onore e il prestigio del casato.
A contrastare le sue intenzioni è però Giulio de’ Medici, papa Clemente VII. Clarice prova da sempre un forte astio verso di lui, rinfocolato dalla scelta di individuare in Ippolito e Alessandro gli eredi del potere fiorentino a discapito della piccola Caterina, di fatto l’unica discendente legittima e diretta di Lorenzo il Magnifico. Clemente VII ha sempre cercato di essere l’unico burattinaio delle vicende familiari e fiorentine e lo scontro con la donna è inevitabile. Clarice lo accusa, riferisce Benedetto Varchi nella sua Storia fiorentina, di avergli sottratto i beni che avrebbe dovuto ereditare alla morte del fratello Lorenzo; inoltre il papa si oppone alla carica cardinalizia per suo figlio Piero e affida l’educazione dei due rampolli illegittimi al cardinale Passerini, uomo di fiducia del pontefice e reggente di Firenze, indicando chiaramente la volontà di interrompere i legami tra i ragazzi e Clarice. In ultimo nel 1526, dopo il saccheggio di Roma e del Vaticano da parte delle truppe armate di Pompeo Colonna, Clemente VII lascia in ostaggio Filippo Strozzi a garanzia delle clausole di armistizio firmate, mettendolo realmente in pericolo quando non rispetta quanto firmato Appena Clarice viene a sapere della minaccia che incombe sul capo del marito, corre in suo aiuto e riesce a ottenerne la liberazione pagando il riscatto, forse con soldi sottratti al Vaticano.
Mancano poche settimane al Sacco di Roma: Clarice e il marito cercano una via di fuga, nonostante i divieti imposti dal papa; si imbarcano da Ostia per Civitavecchia e da qui giungono a Pisa e poi a Firenze. Anche qui la situazione è complessa e pericolosa, ci sono nuove ribellioni da parte del popolo fiorentino contro la famiglia Medici e in particolare contro l’operato di Alessandro e Ippolito che hanno affiancato il cardinale Passerini nel governo della città. Incombe nuovamente lo spettro dell’esilio. Clarice non si perde d'animo e grazie al suo acume politico, all’audacia e alla determinazione convince il marito a parteggiare per la Repubblica. Benedetto Varchi la descrive “altiera, così animosa donna”, tanto audace da sfidare la folla e recarsi a palazzo Medici dove il cardinale, Ippolito e Alessandro sono rinserrati. Nel libro The girlhood of Catherina De' Medici Thomas Adolphus Trollope racconta come Clarice affronti da sola la situazione, incolpando il cardinale di aver privilegiato solo i suoi affari e i suoi interessi e il papa, insieme ai due giovani rampolli illegittimi, di non essere degni del nome della casata: «Entrando nella stanza con passo maestoso e con gli occhi fiammeggianti, piena di indignazione, alzando la voce tanto da essere udita dalla folla assiepata nella strada, rimproverò acerbamente al cardinale, che l'ascoltava tremante, di aver condotto a quel passo i suoi affari e quelli del suo padrone, affermando che i suoi antenati, veri Medici, si erano condotti in modo molto diverso, e con la loro cortesia e la loro benevolenza avevano conquistato l'amore dei Fiorentini. Ma voi - voltandosi verso Ippolito e Alessandro - che avete convinto il mondo intero che non siete del sangue dei Medici, e non soltanto voi ma anche Clemente, papa indegno, perché vi stupite se oggi sono tutti contro di voi? Partite dalla casa nella quale non avete diritto di rimanere, e da una città che non ha nessuna affezione per voi. Perché in quest'ora triste incombe su di ME di sostenere l'onore della famiglia».
Intensa ma breve la vita di Clarice de’ Medici caratterizzata, ci dicono gli storici, da salute cagionevole. L’anno successivo, nel 1528, muore a trentanove anni.

Fonti:
Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Roma, 1999
Benedetto Varchi, Storia fiorentina, libro III, Firenze 1843
http://bia.medici.org/DocSources/Home.do

http://www.treccani.it/enciclopedia/clarice-de-medici_(Dizionario-Biografico)/

http://www.paginedistoria.it/clarice_medici.html
http://cipriaemerletti.blogspot.it/2011/06/una-donna-degna-della-sua-casata.html 

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Contessina de’ Medici Ridolfi

(Pistoia, 1478 – Roma, 1515)

Non esistono intitolazioni di strade in sua memoria

Una donna tra storia e romanzo

di Barbara Belotti

Molte fonti storiche la definiscono la figlia prediletta di Lorenzo il Magnifico, la quarta femmina nata dal matrimonio con Clarice Orsini. Prima di lei erano venute al mondo Lucrezia, Maddalena e Luisa (o Luigia), che morì a soli 11 anni quando già era stata promessa sposa a un lontano parente, Giovanni di Pierfrancesco de' Medici detto Il popolano.
Contessina nacque il 16 gennaio 1478 a Pistoia dove Lorenzo il Magnifico aveva fatto trasferire moglie, figlie e figli per tenerli al sicuro dal clima irrequieto di Firenze dopo la congiura dei Pazzi. Alla piccola nata venne dato il nome della bisnonna paterna ma il suo nome completo fu Contessina Antonia Romola.
Su di lei si hanno poche notizie, tutte legate alla sfera privata. C’è da credere che, come i fratelli e le sorelle, abbia conosciuto la cultura umanista voluta dal Magnifico.
Contessina è una figura poco conosciuta nella storia del casato fiorentino, almeno fino alla metà del XIX secolo quando cominciarono a essere divulgate notizie su un presunto innamoramento adolescenziale fra lei e il giovane Michelangelo Buonarroti. Nessun documento prova questa passione amorosa, si tratta probabilmente di una leggenda sorta in epoca romantica, ma questa storia è entrata a pieno diritto nel romanzo biografico Il tormento e l’estasi scritto da Irving Stone sulla vita dello scultore toscano.
Lo scrittore statunitense traccia con tocchi lievi e gentili sia il ritratto di Contessina sia gli incontri con Michelangelo che, accolto da Lorenzo de’ Medici nel palazzo di Via Larga a Firenze, studia e disegna nel giardino dell’elegante dimora. ll Magnifico ha un profondo amore per la cultura e ha riconosciuto nel giovane artista la fiamma del genio. Lo protegge, lo accoglie come un figlio e gli dà la possibilità di studiare le sculture antiche acquistate.
Il primo incontro fra Contessina e Michelangelo avviene, nel romanzo, al cospetto di Lorenzo: «Ora il Magnifico si fermò a chiacchierare con gli apprendisti. Michelangelo volse lo sguardo alla ragazzina che gli camminava accanto. Era una cosina smilza, più giovane di lui; indossava una veste di lana rosa dalle maniche lunghe, con la gonna fluente in ampie e morbide pieghe; sotto il corpetto strettamente allacciato sul davanti spiccava la camicetta di un giallo molto chiaro, dal colletto alto. Pianelle gialle di broccato; sui capelli scuri e folti un berretto di raso incrostato di perle. Era così pallida che nemmeno il rosa della veste e del berretto riusciva ad avvivare di riflesso il visino sottile. […] a un tratto gli occhi di Michelangelo incontrarono quelli della fanciulla. S’interruppe nel suo lavoro. Ella ristette un momento. Il giovane apprendista non poteva staccare lo sguardo da questa esile ragazzina dalla fisionomia intensamente viva; ella a sua volta fu colpita dalla quasi furiosa tensione che egli ancora serbava nel viso, staccandosi per un attimo dal disegno nel quale stava profondendo tutte le sue energie, e una piccola vampata di colore le salì alle guance eburnee. Michelangelo avvertì con un intimo sussulto destarsi tra loro qualcosa».
Michelangelo e Contessina sono quasi coetanei, lui è più vecchio di soli tre anni. La conoscenza sarà sicuramente avvenuta, visto che vivevano entrambi sotto lo stesso tetto, ma appare poco probabile che sia stato vissuto il sentimento d’amore raccontato nel romanzo; sicuramente non c’è alcuna traccia negli scritti lasciati dallo scultore. Irving Stone immagina un secondo incontro dopo poco tempo, questa volta di sera: «[Michelangelo] prese l’abitudine di indugiarsi nel giardino la sera, senza che nessuno se ne accorgesse; impugnava lo scalpello e lavorava su frammenti di pietra abbandonati qua e là […] Era per lui la più bella ora della giornata: solo nel giardino, con l’unica compagnia delle statue. […] Come era inevitabile, venne tuttavia scoperto: ma proprio dalla persona che meno avrebbe immaginato potesse coglierlo sul fatto. Contessina de’ Medici veniva ora nel giardino quasi ogni giorno, accompagnata, se non dal padre, dal Poliziano o da Marsilio Ficino o da Pico della Mirandola, i platonizzanti amici di Lorenzo. Si tratteneva a discorrere con il Granacci, il Sansovino e il Rustici, che evidentemente conosceva da parecchio tempo; ma nessuno pensò a presentarle Michelangelo ed ella non gli rivolgeva mai la parola. Il ragazzo sentiva immediatamente, pur senza scorgere la sua vivace figurina né vedere la sua faccia dai grandi occhi, quando ella varcava il cancello ed entrava nel giardino. […] Ella non si soffermava mai a veder Michelangelo lavorare. Andava a collocarsi all’estremità del tavolo del Torrigiani, con il viso rivolto verso di lui, in modo che egli poteva osservare ogni suo movimento e sentirla ridere alle frasi scherzose del compagno». Solo al terzo incontro, d’estate sempre nel giardino, Contessina gli rivolge la parola: «Perché lavori così furiosamente? Non ti stanchi? Io mi sentirei subito sfinita. La fanciulla conosceva la propria fragilità, sapeva del suo male di famiglia: quella consunzione che nello spazio di un anno le aveva portato via la madre e la sorella».
La giovane venne destinata a sposare il Conte Palatino Piero Ridolfi e le nozze furono celebrate nel maggio del 1494, due anni dopo la morte di Lorenzo. I destini delle donne Medici sono tracciati da volontà più grandi di loro e Contessina non è diversa dalle sorelle. Così Irving Stone immagina il dialogo fra la ragazza e Michelangelo sulle future nozze con Ridolfi: «Contessina lo trovò nella biblioteca, dove stava copiando alcune illustrazioni di un antico manoscritto. Era stata lontana parecchie settimane. e aveva sul volto un pallore cinereo. Egli balzò in piedi.
-Contessina! Siete stata malata? Sedetevi qui.
-Debbo dirti una cosa... – Si lasciò cadere sulla sedia e si protese verso il caminetto spento, come per scaldarsi le mani.
-È stato steso il contratto.
-Quale contratto?
-Per le mie nozze… con Piero Ridolfi. Non volevo che la notizia ti fosse data da altri.
Michelangelo tacque un istante. – Perché dovrei esserne colpito? – domandò bruscamente. – tutti sanno che le figlie dei Medici sono destinate a fare matrimoni politici: Maddalena con Franceschetto Cybo, il figlio del papa; Lucrezia con Jacopo Salviati…
-Non capisco perché tu debba agitarti più di me. 
Egli le piantò francamente gli occhi in faccia, per la prima volta. -Questa decisione vi addolora? – le domandò.
-Come sarebbe possibile? Tutti sanno che le figlie dei Medici sono destinate a fare matrimoni politici.
-Perdonatemi, Contessina. La notizia mi ha fatto soffrire.
-Non hai bisogno di scusarti – ella rispose con un malinconico sorriso. – Ormai ti conosco.
-E… quando il matrimonio?
-Oh, ci vorrà ancora un po’ di tempo: sono troppo giovane. Ho chiesto che si lasci passare un anno.
-Comunque tutto è cambiato.
-Non per noi. Restiamo amici.
Un intervallo di silenzio; poi Michelangelo domandò: - Piero Ridolfi non vi renderà infelice? È innamorato di voi?
Contessina, a testa bassa, alzò lo sguardo verso di lui. - Di queste cose non parliamo nemmeno. Io farò tutto il mio dovere. Ma i miei sentimenti sono affar mio»
.

La giovane donna ebbe due figlie e tre figli e in seguito all’elezione papale di Giovanni de’ Medici, si trasferì a Roma, nuovo centro di potere della famiglia. Anche lei ottenne appoggi e favori da Leone X, come le sorelle Lucrezia e Maddalena, e forse non mancarono fra loro attriti, invidie e gelosie su chi beneficiava maggiormente dell’appoggio e della benevolenza del pontefice. Di sicuro la nomina papale consentì al figlio Niccolò Ridolfi una brillante e rapida carriera ecclesiastica, seguita alla nomina cardinalizia ottenuta nel 1517 a soli 16 anni. «La prima volta ch’egli [Michelangelo N.d.R.] partecipò a un pranzo da lei offerto in onore del papa e della Corte pontificia (Contessina era infatti decisa a diventare la “padrona di casa” ufficiale del vaticano), ella lo condusse in un piccolo studio […] Era sempre la Contessina della sua fanciullezza e della sua gioventù: ma quanto mutata, nello stesso tempo, dal giorno dell’elezione pontificia del fratello! Adesso era “la grande contessa”: non tollerava interferenze da parte delle sorelle maggiori, Lucrezia Salviati e Maddalena Cibo, anch’esse trasferitesi a Roma con le rispettive famiglie; brigava, lottava per procacciare cariche e benefici ai Ridolfi; lavorava in stretto accordo con il cugino Giulio, che controllava gli affari e la politica del Vaticano. Nei suoi spaziosi giardini aveva fatto erigere un palcoscenico per offrire spettacoli e concerti alla nobiltà romana e agli ospiti provenienti da altre città. Sempre più ci si rivolgeva a lei per ottenere uffici e favori».
Contessina morì a 37 anni a Roma, il 29 giugno 1515. Venne sepolta nella chiesa di Sant’Agostino in Campo Marzio. 

Fonti
William Roscoe, Lorenzo de Medici detto il Magnifico, p. 167, Pisa, 1816
Irving Stone, Il tormento e l’estasi, Milano, 1996
http://bia.medici.org/DocSources/Home.do
https://it.wikipedia.org/wiki/Contessina_de'_Medici

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Giulia, Bia e Porzia de' Medici

(Firenze, 1534 – 1588), (Firenze, 1536 – 1542), (Firenze, 1538-1575)

Non esistono intitolazioni a loro nome

Figlie naturali

di Barbara Belotti

Le storie di Giulia, Bia e Porzia de’ Medici si intrecciano nei primi anni delle loro esistenze.
Sono tutte e tre figlie illegittime: la prima e la terza di Alessandro de’ Medici, duca di Firenze, la seconda erede naturale di Cosimo I che la ebbe a soli 16 anni. Conosciamo il nome della madre di Giulia, Taddea Malaspina, sorella del marchese di Massa e a lungo amante di Alessandro; le altre due bambine non conobbero le madri e, soprattutto nel caso di Bia, il padre e la nonna materna Maria Salviati custodirono gelosamente questo segreto.
Come spesso succedeva nella casata Medici, Giulia e Bia, figlie naturali, furono accolte nella famiglia e crebbero insieme alla prole legittima di Cosimo I, ricevendo cure, attenzioni ed educazione simili alle figlie e ai figli nati dal matrimonio con Eleonora di Toledo. Vissero entrambe nella villa di Castello accudite dalle balie ma attentamente seguite da Maria Salviati.
Bia, diminutivo di Bianca, era la luce degli occhi di Cosimo, legato alla piccola da un amore profondo e sincero; la bambina era benvoluta e la nonna Maria arrivò a definirla “il sollazzo della corte […] sendo tanto amorevole”. Giocavano insieme Giulia e Bia e insieme si ammalarono improvvisamente nel febbraio del 1542. Cosimo si informava tutti i giorni, preoccupato, dello stato di salute della sua bimba e ogni giorno riceveva notizie poco rassicuranti. La piccola si spense il 1 marzo e venne sepolta nella cripta della chiesa medicea di San Lorenzo. Il dolore di Cosimo fu intenso: dopo la morte della figlioletta commissionò a Bronzino un ritratto che potesse eternarne le fattezze. Il quadro riproduce una bambina paffuta, con i capelli biondo rossastri e gli occhi castani, seduta diligentemente con un fiore stretto in una mano. Non tutta la critica lo considera il ritratto di Bia, ma la storica dell’arte Gabrielle Langdon sostiene l’ipotesi adducendo che l’abito chiaro e il girocollo di perle rimanderebbero, in senso metaforico, al nome Bianca.
Anche Giulia, che sopravvisse alla malattia, è protagonista di un ritratto. Il dipinto, conservato nel Walters Art Museum di Baltimora, fu realizzato verso la fine degli anni ’30 del XVI secolo da Pontormo, pittore protetto da Cosimo e autore di alcuni affreschi per la Villa di Castello. Raffigura Maria Salviati e una bambina che sempre Gabrielle Langdon ritiene sia proprio Giulia. Il committente, probabilmente Cosimo I, voleva esaltare la figura e il ruolo di sua madre che aveva accolto con generosità la piccola orfana di Alessandro de’ Medici. Il gesto di Giulia che afferra con la manina le dita affusolate di Maria non racconta solo l’attaccamento fra la donna e la bambina, ma va oltre la sfera privata dei sentimenti e si fa atto politico, espressione visibile dei saldi legami presenti all’interno della famiglia medicea e dichiarazione iconografica della continuità temporale della dinastia.
Dopo i primi anni di vita, durante i quali visse in convento insieme alla sorella Porzia, Giulia crebbe nella corte di Cosimo e imparò come gli altri a sentirsi una vera Medici, a portare con orgoglio e senso di appartenenza quell’illustre cognome. Come per le altre figlie, anche per lei fu combinato, nel 1550, un matrimonio di prestigio con Francesco Cantelmo, conte di Popoli e di Alvito. Rimasta vedova presto, Giulia tornò per diversi periodi a soggiornare nel convento di San Clemente a Firenze, dove la sorella Porzia aveva preso il velo. Insieme le figlie naturali di Alessandro de’ Medici promossero una sorta di matronage artistico in favore del monastero permettendo l’abbellimento del convento. Spesso gli interventi architettonici e artistici per gli spazi religiosi e sacri, insieme alle azioni caritatevoli, costituivano per le nobildonne del passato le uniche forme di autonomia possibile, accettata e apprezzata.
Il convento di San Clemente in via San Gallo era sotto il controllo della famiglia medicea, qui Giulia e Porzia erano state accolte dopo l’omicidio del padre; Giulia era poi entrata nella corte di Cosimo I, Porzia, nata dopo la morte del padre, era stata accettata nel monastero grazie anche alla dote di 200 scudi d’oro pagata da Maria Salviati, diventando prima suora dalla “vita esemplarissima” e poi abbadessa del complesso per ben due volte. Ricorda Giuseppe Richa (1757) che “quello che è più notabile in lei fu l’essersi meritata con le umili sue maniere la benevolenza non solamente di Cosimo, ma della Granduchessa Leonora di Toledo, e dei suoi figli tutti portati a lasciar pegni della loro grande estimazione al monastero di San Clemente”.
Negli archivi medicei il nome di Porzia appare in un elenco di persone ricompensate economicamente; secondo la storica Maria Pia De Paoli, la giovane “è menzionata nei primi ruoli della corte medicea come damigella della duchessa Eleonora insieme a Clarice Malaspina e a Maria de’ Nerli, con provvisione di scudi 853”; successivamente, in un elenco stilato nel febbraio 1564, il suo nome e quello del convento di San Clemente appaiono fra i contributi e gli appannaggi pagati da Cosimo I. Con Porzia, secondo Maria Pia De Paoli, “si inaugura una nutrita schiera di personaggi, uomini e donne, col cognome Medici, appartenenti a rami collaterali, che beneficiano di cariche o protezioni a corte, risultando sovente impiegati con funzioni di pedagoghi. Dal monastero Porzia intrattiene legami assidui con l’entourage di Cosimo, tanto che nel 1549 scrive a Pier Francesco Riccio per raccomandargli Camillo da San Gimignano come maestro di scuola a Prato”.
Nelle antiche guide di Firenze viene ricordato un oratorio annesso al monastero di San Clemente i cui affreschi, opera del pittore fiammingo Giovanni Stradano, presentavano i ritratti, in forma ovale, di Cosimo I, della moglie Eleonora e dei figli Francesco, Ferdinando, Garzia e Giovanni; accanto a questi un altro ovale racchiudeva il volto di “una donna velata, con queste lettere attorno Soror Portia Medices Florentiae Ducis humilis servaet ejus progenies”.
Se Porzia fu umile e amabile, la stessa cosa non viene riferita per Giulia della quale si sottolinea l’orgoglio di appartenere alla famiglia Medici e la richiesta di onori e considerazione che, secondo alcune testimonianze, la fecero entrare in conflitto con Eleonora di Toledo. Giulia si sposò in seconde nozze con Bernardetto de’ Medici, membro di un ramo collaterale della famiglia, con il quale condivise la vita di corte e anche alcune missioni diplomatiche. Nel 1567 la coppia, insieme al figlio Alessandro, si trasferì a Napoli ottenendo i territori e il titolo del principato di Ottaviano.

Fonti

Giuseppe Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise nei suoi quartieri, tomo V, parte I, Firenze, 1757, p. 259-260
Guida della città di Firenze ornata di pianta e vedute, Firenze, 1822, p.32
Agostino Ademollo, Marietta de’ Ricci ovvero Firenze ai tempi dell’assedio, vol. VI, Firenze 1845, p.2188

Maria Pia Paoli, Di madre in figlio: per una storia dell’educazione alla corte dei Medici , in https://www.academia.edu/4838459/Educazione_Medici_2008_testo_in_Annali_di_Storia_di_Firenze
Marcello Vannucci, Le donne di Casa Medici, Newton Compton editori, 2016.

http://www.capitale-italia.com/2016/04/il-ritratto-di-maria-salviati-de-medici.html#!/2016/04/il-ritratto-di-maria-salviati-de-medici.html

http://www.kleio.org/en/books/true_faces_medici/artikel/
http://art.thewalters.org/detail/26104/portrait-of-maria-salviati-de-medici-with-giulia-de-medici/

http://www.pbs.org/wgbh/pages/frontline/shows/secret/famous/giuliademedici.html
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Eleonora de' Medici Gonzaga

(Firenze 1567 – Mantova 1611)

Non esistono intitolazioni a suo onore

Una fiorentina a Mantova 

di Francesca Romana Di Fiore

«Quando ritardo a’ miei pensieri il corso, /donna d’impero degna, i vostri pregi/ tesser volendo e ‘l nome vostro in rime, /veggio farmisi innanzi, al primo occorso,/ invitto duce e cavalieri egregi […] Ben si potrian lodar (non forse appieno)/ gli occhi e ‘l volto sereno;/ ma, in descriver di voi l’intera parte,/ vinti sarian gl’ingegni, e vinta l’arte» (Rime Eroiche, Canzone VIII).

Questi alcuni dei numerosi versi che Torquato Tasso dedicò a Eleonora de Medici-Gonzaga, certamente frutto di una riverenza che il poeta riservò a molte delle sue protettrici e dei suoi protettori, ma che servono a comprendere come la figlia di Francesco I e Giovanna d’Austria, divenuta duchessa di Mantova dopo aver sposato Vincenzo I Gonzaga, abbia condotto una vita intensamente legata alle arti.

Eleonora nacque a Firenze il 28 febbraio 1567 e, primogenita, ebbe quattro sorelle e un fratello. Le cronache riportano che, in occasione del suo battesimo, l’addobbo nel battistero di San Giovanni fu dato in carico a Vasari, attivo frequentatore della corte insieme a Benvenuto Cellini, e che vennero organizzati molti festeggiamenti in onore della sua nascita. La madre morì presto, lasciando il posto a corte alla veneziana Bianca Cappello, sposata celermente dal padre in seconde nozze, che ebbe molta influenza negli affari di Firenze ma anche nel futuro della stessa Eleonora. 

Il matrimonio della giovane rampolla Medici con Vincenzo, primogenito del duca Guglielmo Gonzaga e della duchessa Eleonora d’Asburgo ‒ in pratica un cugino di primo grado visto che la duchessa era sorella della defunta Giovanna ‒ venne celebrato nel 1584 anche se le prime trattative tra le due famiglie iniziarono nel 1579. Il Segretario di Stato di Francesco I, Belisario Vinta, fu inviato a Mantova per far firmare le carte e per cercare di appianare certe controversie fra i due casati sul titolo di granducato, fino a quel momento appannaggio solo della famiglia Medici. L’accordo, in questa occasione, non fu raggiunto perché il duca Gonzaga preferì stipulare accordi matrimoniali con la famiglia Farnese, escludendo di fatto il casato fiorentino. Vincenzo sposò quindi in prime nozze Margherita Farnese, con estrema soddisfazione di Eleonora d’Asburgo che aveva mal digerito il nuovo e velocissimo matrimonio dell’ex cognato con Bianca Cappello, un vero oltraggio alla memoria della sorella Giovanna.

Le nozze di Vincenzo e Margherita furono un fallimento: lei venne giudicata inabile alla procreazione e per questo spedita in un convento contro la propria volontà. Il naufragio dell’unione aveva alimentato voci anche sulla virilità di Vincenzo e, quando la famiglia Medici riprese le trattative con Mantova per un secondo matrimonio, il granducato di Toscana dimostrò di non aver dimenticato l’affronto di qualche anno prima e volle avere ampie assicurazioni riguardo la capacità procreativa del futuro genero; a Bianca Cappello spettò il compito di assicurare la buona riuscita dell’accordo, testimoniato da una fitta rete di scambi epistolari.
Nel contratto matrimoniale spuntò una scabrosa clausola: le nozze sarebbero state celebrate solo dopo la “prova” che doveva dimostrare l’efficienza sessuale di Vincenzo, messa in dubbio dal granduca Francesco I che scrive nel 1583 di sospettare “della impotentia del Principe di Mantova” e teme che “sarà ogni dì più impotente d'haver figli, perchè ha la materia grandissima la quale oltre che per la grandezza diventa fiacca et impotente a erigersi per poter penetrar' nella natura della donna”. Fu allora che iniziò una vera e propria farsa, di cui si rise e si chiacchierò in tutte le corti. 

A una giovane fiorentina di nome Giulia spettò il compito di fare da cavia sull’abilità amatoria del giovane duca.duca. Probabilmente figlia illegittima di casa Albizzi, la ragazza fu costretta a tale “impresa” con la prospettiva di una somma di denaro e di un matrimonio successivo.

Accompagnata da Belisario Vinta e accolta dal commissario e medico mantovano Marcello Donati, la povera ragazza dovette aspettare che Vincenzo si sentisse pronto a esprimere la sua ars amatoria di fronte a testimoni. Dopo un primo tentativo finito male per un improvviso malore del duca, la “prova” si svolse come tutti auspicavano e, constatata la sua forza virile, si diede inizio ai preparativi per le nozze con Eleonora. 
Di Giulia non si parla, è per tutti un corpo che serve a effettuare “la prova”, niente altro. Fu sottoposta a un interrogatorio per avere conferma che l’atto sessuale fosse stato compiuto, venne visitata a lungo e attentamente e furono controllate anche le lenzuola. L’onore del duca Gonzaga era salvo e il nuovo matrimonio non aveva di fronte a sé alcun ostacolo.
Eleonora aveva 17 anni e il suo volto non seguiva i canoni classici della bellezza: lineamenti duri e naso dritto, volto non armonioso incorniciato da una mascella pronunciata con labbra grandi e carnose, tipiche della famiglia asburgica. Marcello Donati la descrisse bellissima, guardandola probabilmente coi suoi occhi di medico: la ragazza aveva infatti una corporatura robusta e una struttura decisa, perfetta per svolgere al meglio il suo compito principale, quello di fare figli e assicurare la discendenza al casato Gonzaga.

Il rampollo della casa mantovana era esuberante e passionale, colpì subito il futuro suocero e probabilmente anche la futura moglie: il giorno successivo al primo incontro Eleonora era già piacevolmente presa da Vincenzo che la baciava in pubblico con passione.

Il matrimonio si celebrò il 29 aprile 1584 a Firenze, quindi Eleonora partì per Mantova, la sua nuova città.

La giovane fiorentina era delicata e seria, gentile e malinconica nello sguardo e nelle movenze. Questa sua grazia naturale aprì una breccia anche nei rapporti con la suocera Eleonora d’Asburgo, che si lasciò conquistare dalla giovane donna toscana, certamente preferita all’infelice Margherita Farnese; oltretutto Eleonora portava, per via materna, il glorioso nome del casato Asburgo. 

Eleonora e Vincenzo misero al mondo sei figli, due femmine e quattro maschi; un altro bambino morì prematuramente e tale evento segnò profondamente la donna, anche nel suo rapporto con il marito il quale, trovandosi fuori dalla corte al momento della disgrazia, non riuscì con le proprie parole a confortarla. Nella corte Gonzaga la Eleonora riuscì a mantenere in pugno la situazione, pur soffrendo dei tradimenti del marito che tanto le ricordavano quelli subiti dalla madre ad opera del padre. Era una donna abile e quando le finanze del ducato cominciarono a vacillare, dilapidate dal desiderio di lusso e di feste del marito, si risolse a prendere in mano la situazione; resse anche il governo dello Stato quando il duca era assente.

Trovò nella cultura la consolazione ai tradimenti del coniuge e agli altri dolori. Eleonora, intelligente e dai gusti raffinati, era cresciuta respirando arte nel palazzo dei nonni paterni Cosimo I e Eleonora di Toledo, che avevano dato tanto impulso alla cultura rinnovando i fasti del Rinascimento. Fu per lei naturale trasferire l’amore per il bello, la danza, il bel canto e la poesia nella nuova corte mantovana; fondamentale fu il suo contributo allo sviluppo del melodramma, passione esportata direttamente dall’amata Firenze grazie ai componimenti di Claudio Monteverdi.

Promise protezione a vita a Torquato Tasso e mantenne la parola: più di una volta il poeta le scrisse per ricevere benevolenza e denaro e mai Eleonora glieli negò. Tasso le dedicò una seconda stampa di Rime, lei avrebbe voluto regalargli “due turchine” ma assecondò il desiderio del poeta che avrebbe preferito ricevere un rubino e una perla legata in oro; anche il poeta Giovan Battista Marino, pur ancora giovane, le dedicò un componimento ne La Galleria e un riferimento a lei e alla corte Gonzaga nell’Adone.

Eleonora, duchessa di Mantova, morì nel 1611 dopo un colpo apoplettico che la lasciò inabile per diversi mesi.

Fonti:

http://www.treccani.it/enciclopedia/eleonora-de-medici-duchessa-di-mantova_(Dizionario-Biografico)/

http://www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/cartedidonne/arrivo.html

http://bia.medici.org/DocSources/Home.do

M. Bellonci, Segreti dei Gonzaga, Mondadori, Milano 2001

E. Micheletti, Le donne dei Medici, Sansoni, Firenze 1983

A. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Loescher, Torino-Roma 1895

M. Vannucci, Le donne di casa Medici, Newton Compton, Roma 1999

http://www.classicitaliani.it/tasso/critica/Ferrazzi_Tasso_Eleonora.htm

 

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Isabella de'Medici

(Firenze, 1542 – Cerreto Guidi (FI), 1576)

Non risultano intitolazioni in suo onore.

Lieta vivo et contenta

di Barbara Belotti

Bella, intelligente, curiosa, colta, di gusti raffinati e amante del bello, indipendente e consapevole del proprio valore: queste e molte altre sono le virtù e le qualità di Isabella de’ Medici che la storia ci restituisce.
Una donna forte e orgogliosa del proprio cognome, che sente il valore della famiglia a cui appartiene e cerca di illuminare Firenze e la corte medicea con la stessa luce del passato, quello di Lucrezia Tornabuoni e di Lorenzo il Magnifico.
Terzogenita di Cosimo de’ Medici e di Eleonora di Toledo, è prediletta dal padre forse perché la sua nascita, il 31 agosto 1542, sembra lenire il profondo dolore che il duca di Firenze prova per la perdita dell’amata Bia, la figlia naturale morta ancora piccola all’inizio di marzo dello stesso anno.
Isabella cresce insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle, educata alle lingue straniere (parla spagnolo e francese) e alle lingue classiche (studiò greco e latino), alla poesia, alla letteratura del passato e del presente; la corte paterna pullula di pittori, architetti, scultori, orafi e il clima culturale che si respira contribuisce ad arricchire la sua formazione umanista.
La musica riempie la vita di Isabella de’ Medici, che canta e compone madrigali: «Lieta vivo et contenta/ Dapoi che ‘l mio bel sole/ Mi mostra chiari raggi come suole./ Ma così mi tormenta/ S’io lo veggio sparire/ Più tosto vorrei sempre morire».
Autrice ma anche protettrice di ingegni femminili, come quello della poeta Laura Battiferri, che le dedica alcuni sonetti, o quello della compositrice Maddalena Casulana che consacra a Isabella il suo Primo libro de madrigali a quattro voci. Maddalena Casulana, ritenuta la prima donna ad aver pubblicato testi musicali nella storia della musica occidentale, nella dedica espone una coraggiosa presa di posizione sul valore intellettuale maschile e sulla sua presunta superiorità, ben sapendo che la sua protettrice avrebbe compreso e approvato: «[…] vorrei di mostrar anche al mondo […] il vano error de gl’huomini, che de gli alti doni dell’intelletto tanto si credono patroni, che par loro, ch’alle Donne non possono medesimamente esser communi».
Non solo cultura però per la giovane erede medicea: Isabella ama la vita all’aria aperta, i cavalli e l’equitazione sono fra le sue passioni insieme alle battute di caccia; ama anche le feste, i balli, i divertimenti, l’eleganza e la raffinatezza. Viene descritta come “una donna di indole allegra, liberale e colma di vitalità”, dal carattere “brillante, coraggioso e appassionato”, una personalità “spumeggiante”, dotata di “senso dell’umorismo tinto di sarcasmo”.
Il suo nome è stato a lungo legato alla misteriosa e improvvisa fine, avvenuta il 15 luglio 1576 nella villa medicea di Cerreto Guidi, una dimora che la famiglia destina soprattutto a residenza per la caccia. Le voci storiche e quelle popolari hanno tramandato nel tempo il racconto di una morte violenta, per strangolamento, a opera del marito Paolo Giordano Orsini, forse con il silenzioso assenso del nuovo granduca di Toscana Francesco I de’ Medici, fratello di Isabella.
La cronaca tragica e nera della sua fine ha lungamente nascosto ogni tratto positivo della sua figura, tramandando una fisionomia negativa della nobildonna che avrebbe pagato con la vita la sua esistenza giudicata dissoluta e amorale, la relazione avuta con Troilo Orsini, cugino del marito, il suo essere libera in un mondo che giudicava la libertà femminile impossibile.
Invece Isabella libera lo è stata, anche grazie all’amore e alla protezione del padre Cosimo I che la vuole sempre al suo fianco nonostante sia sposata con Paolo Giordano Orsini, un matrimonio voluto e pianificato dalla famiglia fiorentina interessata a rinnovare i legami parentali con la dinastia romana. Di fatto Isabella, tranne un breve periodo trascorso a Roma e a Bracciano con il marito, vive a Firenze, nel palazzo di via Larga e nella villa Baroncelli, sulle colline intorno alla città, regalo di Cosimo I. Quando la madre Eleonora di Toledo muore, nel 1562, Isabella la sostituisce come première dame medicea, affiancando il padre nelle apparizioni pubbliche, negli impegni ufficiali e istituzionali. Non la sostituiscono le due donne alle quali si lega Cosimo I, né Eleonora degli Albizzi né Camilla Martelli, neppure quando sposa il granduca.
Una donna superiore a tutte le altre della famiglia che lo scrittore lucano Felice Faciuta celebra in due poesie pastorali inserite in una raccolta pubblicata alla corte fiorentina: «Sempre bella, sarà resa ancora più bella [delizierà gli dei con il dolce canto del flauto […] e quando i carri di Febo diffondono la loro luce, mostreranno te, ottima Isabella».
Recentemente due testi storici, uno dell’americana Caroline P. Murphiy e uno dell’italiana Elisabetta Mori, hanno fatto riemergere il volto positivo della nobildonna fiorentina. Entrambe le studiose concordano nel ritenere Isabella una donna volitiva, acuta, dai molteplici interessi, riabilitano la sua esistenza cancellando gli aspetti lussuriosi e la mancanza di limiti e freni morali che hanno caratterizzato la memoria storica tramandata. Differente è però l’interpretazione data alla sua morte.
Secondo il testo di Elisabetta Mori (L'onore perduto di Isabella de' Medici, Milano, Garzanti, 2011) Isabella sarebbe morta di “oppilatione”, antico termine per indicare l’ostruzione delle vie urinarie, delle vie biliari, dell’intestino: di morte naturale, quindi, e non di morte violenta per mano del marito. In questa ricostruzione lo scambio epistolare fra i due coniugi viene interpretato alla luce dei profondi sentimenti che li avrebbero uniti e che avrebbero avuto la peggio di fronte alla politica del tempo. Spesso lontani, Isabella e Paolo Giordano avrebbero vissuto una vita matrimoniale un po’ diversa rispetto alle logiche del tempo, con il giovane rampollo romano impiantato a Firenze alla corte medicea, quando le vicende storiche e politiche lo consentivano, e non viceversa, come invece accadeva solitamente. Innamorati ma non liberi di vivere vicini, costretti da fatti ed eventi a interpretare ciascuno il ruolo politico che la storia aveva assegnato.
Isabella e Paolo Giordano sarebbero quindi vittime dei doveri nobiliari, della ragion di Stato, del volere della famiglia Medici.
Caroline P. Murphy (Isabella de’ Medici, Milano, Il Saggiatore, 2011), al contrario, ribadisce la tesi del complotto e dell’uxoricidio.
Il dramma, avvenuto in una delle dimore medicee più lontane da Firenze, avrebbe avuto più testimoni e lo stesso ambasciatore di Ferrara a Firenze, Ercole Cortile, scrive ad Alfonso d’Este che «La signora donna Isabella poi fu strangolata dal mezzo giorno havendola mandata a chiamare il signor Paolo che era, la povera signora nel letto. E così subito si levò e postasi una robba attorno, ché era in camiscia, andò alla camera di detto signor Paolo passando per una sala dove era un suo prete chiamato Elicona e certi altri suoi servitori […]. Et così se ne andò nella camera. Morgante [il nano della famiglia Medici N.d.R.], che era anch’egli quivi, gli tenea dietro et una sua donna, et il signor Paolo li cacciò via e serrò la porta della camera con gran furia. Era nascosto sotto il letto il cavalier Massimo […] romano, il quale aiutò a far morire detta signora: Né stette più di un terzo d’ora serrato in detta camera che il signor Paolo chiamò una sua donna chiamata madonna Leonora dicendo che portasse aceto ché alla signora era venuto svenimento. Et entrata che fu dentro la donna, dreto la quale era anche Morgante, vide la povera signora appoggiata al letto in terra et spinta dall’amore che le portava disse: “Ah! Se l’havete morta! Che bisogno havete d’aceto o d’altro?” Il signor Paolo la minacciò e disse che tacesse ché l’ammazzerebbe».
L’ambasciatore Cortile prosegue nelle informazioni al suo signore e riferisce che il corpo di Isabella, posto in una cassa di legno, fu portato a Firenze nella chiesa del Carmine e la bara nuovamente aperta per il pubblico. Lo spettacolo raccontato nel dispaccio è terribile e anche l’esposizione in pubblico sembra trasformarsi in un oltraggio a Isabella, una specie di punizione che prelude alla gogna post-mortem alla quale è sottoposta: «[…] il più brutto mostro. Havea una testa grossa fuori di misura, le labbra grosse et nere che pareano 2 salsicioni, gli occhi aperti, grossi come due prugna, le pope grossissime et una tutta crepata, per difesa, dicono, del signor Paolo che se le gittò addosso per farla morire quanto più tosto».
Il marito, sempre rimanendo alle comunicazioni dell’ambasciatore, resta a vivere nella villa Baroncelli insieme ad alcune prostitute; la figlia e il figlio, Eleonora e Virginio (Isabella, la secondogenita era morta piccolissima), vennero presi in custodia dalla duchessa Giovanna d’Austria perché, sempre secondo la versione di Cortile, «il signor Paolo non li vuole tenendo che non sono suoi figli, però di questo non me ne ha data altra certezza».
Una fine tragica dovuta in larga misura alla sua relazione con Troilo ma, forse, anche alla sua vicinanza con alcune figure contrarie al potere del fratello Francesco, che nulla fece per riabilitare il nome della sorella morta. Una sorta di damnatio memoriae anche questa.
Scrive Caroline P. Murphy nelle ultime pagine del suo libro su Isabella: «L’elemento tragico nella sua vita si trova nel fatto che, in ultima analisi, fu punita per essere nata donna. Se fosse stata un maschio, non sarebbe morta allo stesso modo. Pensando a Isabella, viene in mente un commento che Torquato Tasso mette in bocca a una nobildonna del XVI secolo, in un dialogo sui giochi pubblicato nel 1582; Margherita Bentivoglio protesta perché, nei giochi competitivi, gli uomini lasciano sempre vincere le signore, a differenza di quanto accade nella vita reale, in cui la donna si trova sempre in posizione di svantaggio rispetto all’uomo. Si può dire lo stesso della vita di Isabella; parve avere la meglio in più di un’occasione sullo scacchiere dorato che il padre l’aiutò a creare, ma alla luce severa della realtà, perse la sua partita».

Fonti:
Marcello Vannucci, I Medici. Una famiglia al potere, Roma, Newton Compton Editori, 1994
Elisabetta Mori, L'onore perduto di Isabella de' Medici, Milano, Garzanti, 2011.
Caroline P. Murphy, Isabella de’ Medici, Milano, Il Saggiatore, 2011.
Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Newton Compton Editori, Roma, 2016
http://www.treccani.it/enciclopedia/isabella-de-medici_%28Dizionario-Biografico%29/
http://www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/cartedidonne/cdd_02_arrivo.pdf     


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Lucrezia de’ Medici Salviati

(Firenze, 1470 – Roma, 1553)

 

Non esistono intitolazioni di strade in suo onore

 

Una virtuosa matrona

di Barbara Belotti e Lucrezia Ramacci

Lucrezia de’ Medici è la primogenita di Lorenzo il Magnifico e Clarice Orsini.
Nata nel 1470, sin da piccola visse il vivace clima culturale voluto dal padre, beneficiando anche lei degli insegnamenti che Poliziano impartiva al fratello Piero; è soprattutto la nonna, la potente Lucrezia Tornabuoni di cui la piccola porta il nome, a curare la sua educazione, ben oltre quella che si concedeva a molte giovani nobildonne dell’epoca.

Come succedeva al tempo, anche Lucrezia non rimase a lungo fuori dai giochi di potere medicei e, quando era solo un’adolescente, i parenti iniziarono a cercare per lei un matrimonio vantaggioso per il futuro della casata.

Di certo non erano pochi gli uomini che avrebbero voluto imparentarsi con una famiglia così potente: tra questi vi fu persino il cardinale Giuliano della Rovere, futuro papa Giulio II, che fece la proposta di far convolare a nozze con Lucrezia il fratello Giovanni.

Lorenzo de’ Medici però non assecondò le mire del cardinale rifiutando l’offerta e preferì un matrimonio in grado di consolidare la sua posizione ‒ e quella della famiglia ‒ all’interno di Firenze. Dopo la congiura dei Pazzi, infatti, appariva strategica l’idea di intrecciare alleanze familiari con i più ricchi e potenti casati della città per scongiurare altri complotti futuri e garantire stabili equilibri interni. Fu per questo motivo che i disegni dinastici si orientarono su Jacopo Salviati, parente di quel Francesco Salviati arcivescovo di Pisa che fu tra i partecipanti alla congiura, nel corso della quale era rimasto ucciso Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo e zio di Lucrezia. Questo gesto apparve come un chiaro segnale di perdono e di magnanimità da parte della famiglia Medici, un gesto di apertura volto proprio a riconquistare la fiducia dei rivali. Dal punto di vista di casa Salviati il matrimonio fu un vero affare, i legami con il Magnifico non potevano certo nuocere; anzi quella parentela così potente giovò agli affari di famiglia e alla carriera politica di Jacopo.

Il matrimonio avvenne nel 1486: Lucrezia aveva sedici anni, per la mentalità dell’epoca era pienamente in età da marito e diventava anche lei, a pieno titolo, una pedina nello scacchiere fiorentino.

In realtà, almeno all’inizio, la giovane sposa prese poco parte alla vita di casa Salviati; visse spesso nel palazzo di famiglia vicino ai genitori e fu al loro capezzale sino alla loro morte. La dedizione di Lucrezia verso la famiglia e la sua intelligenza sono evidenti nel modo in cui si curò dei figli e delle figlie, facendoli istruire dalle migliori menti dell’epoca. Nella sua visione di alleanze matrimoniali e strategie di carriera, iniziò a pianificare matrimoni, alleanze e vocazioni religiose che favorissero la sua discendenza diretta ma al tempo stesso mantenessero alto il ruolo della sua famiglia d’origine, i Medici. Anche quando il fratello Piero venne esiliato, lei non abbandonò Firenze né smise di agire in favore del ritorno al potere della sua stirpe, fino a provare l’onta dell’arresto e il dramma della tortura. Per lei il nome e il prestigio dei Medici venivano prima di tutto.

Fu quindi logico che al momento dell’elezione al soglio pontificio del fratello Giovanni ‒ Leone X ‒ Lucrezia decidesse di trasferirsi a Roma per proseguire nell’intento di rafforzare le sorti medicee. Nella storia della famiglia non c’era più solo il potere a Firenze, la nuova scena politica era ora Roma e era necessario consolidare qui il proprio ruolo.
Lo fece attraverso matrimoni combinati (il figlio Lorenzo sposò Costanza Conti, rampolla di una potente famiglia di baroni romani) e promuovendo presso il fratello papa l’elezione a cardinale del figlio Giovanni. Pensò però che ciò non bastasse e che il potere politico della famiglia dovesse essere affiancato da un solido potere economico. Cominciò quindi ad acquistare beni immobili: due case nel rione Sant’Eustachio, non lontano dal palazzo di famiglia, ora noto come Palazzo Madama; poi terreni (una vigna vicino alla chiesa di Santa Maria Maggiore e un’altra presso Porta Settimiana), il feudo di Sant’Angelo vicino a Tivoli, un casale nella campagna romana; nel 1533, alla morte del marito Jacopo, comprò insieme al figlio cardinale una parte del palazzo Della Rovere, in parte già acquistato anni prima. La ricchezza poteva costituire una concreta salvaguardia per la famiglia, questo Lucrezia lo sapeva bene. A conferma della lungimiranza delle sue azioni, quando Leone X morì, nel 1521, il prestigio e gli interessi della famiglia non subirono contraccolpi e furono ancor più rinforzati dalla nomina successiva di un altro Medici al soglio pontificio, Clemente VII.
Solo nel 1538 la fortuna sembrò abbandonare l’anziana donna quando Paolo III Farnese, prese le parti di Margherita d’Austria contro la famiglia Medici nelle controversie ereditarie, le tolse il palazzo di famiglia e l’allontanò forzatamente da Roma.
Di lei ci rimane un vasto carteggio, i giornali di spese tenuti meticolosamente tra il 1515 e il 1536 (conservati nella Biblioteca apostolica Vaticana) e un Libro d’ore, dono di nozze del padre Lorenzo, ora conservato presso la Bayerische Staatsbibliothek di Monaco.
Il codice, preziosamente rilegato in argento dorato e cesellato e arricchito da smalti e pietre preziose, aveva le pagine scritte in modo mirabile dal maggiore copista del tempo, Antonio Sinibaldi, e presentava eleganti miniature caratterizzate da immagini sacre e simboliche riferite alle famiglie Medici e Salviati.
Lucrezia rimase fino in fondo una Medici e per la sua famiglia combatté una tenace lotta che durò l’intera vita. Il nome della nonna le portò fortuna, poche seppero condurre così abilmente i giochi di potere senza essere penalizzate dal loro esser donne.
Ebbe una vita lunga, morì all’eccezionale età (per i tempi) di 83 anni, nel 1553. Nel suo testamento, redatto quindici anni prima della morte, aveva lasciato metà del suo palazzo all’Arciconfraternita della SS. Annunziata in S. Maria sopra Minerva precisando, nelle disposizioni testamentarie, di far costruire una cappella dedicata a san Giovanni e di essere sepolta nella stessa chiesa.

Fonti
Benedetto Varchi, Storia fiorentina, libro VI, pp.160 – 161, Milano, 1803

William Roscoe, Lorenzo de Medici detto il Magnifico, p. 117, Pisa, 1816

Dizionario biografico cronologico diviso per classi degli uomini illustri di tutti i tempi e di tutte le nazioni compilato dal professore Ambrogio Levati, vol. III, pp. 121-122, Milano, 1822

Antonio Paolucci, Per le magnifiche tre, in L’Osservatore romano, 19-9-2012

http://www.treccani.it/enciclopedia/lucrezia-de-medici_(Dizionario-Biografico)
http://bia.medici.org/DocSources/Home.do 

 


Maddalena de’ Medici Cybo

(Firenze, 1473 – Roma, 1519)

Non esistono intitolazioni di strade in suo onore

Un matrimonio forzato
di Barbara Belotti

Maddalena de’ Medici è la terzogenita di Lorenzo il Magnifico e Clarice Orsini. Nata nel 1473, è una pedina nelle mani del padre, strategica per i progetti di affermazione della famiglia.
Nei testi viene descritta mingherlina, di salute cagionevole, non bella e non brillante nei modi, amatissima dalla madre («quella fanciulla ch’era un occhio del capo suo» come scrive il padre Lorenzo riferendosi alla moglie Clarice).
A soli quattordici anni Maddalena si trova a essere la moglie-bambina di Francesco (Franceschetto) Cybo, figlio di papa Innocenzo VIII, che di anni ne ha invece quasi quaranta. Questo matrimonio serve ‒ e anche molto ‒ alla famiglia Medici, sempre più desiderosa di intrecciare stretti legami con Roma e il Vaticano e di agevolare Giovanni, il fratello più piccolo di Maddalena, destinato alla carriera ecclesiastica e puntualmente nominato cardinale a soli tredici anni nel 1489, un anno dopo la celebrazione del matrimonio.
Lorenzo il Magnifico si mostra consapevole del sacrificio imposto alla figlia: non si tratta solo di nozze combinate per ragion di Stato e strategie familiari, cosa assolutamente normale per l’epoca, ma di un matrimonio con un uomo dalla moralità dubbia, giocatore accanito dedito al bere, donnaiolo e scialacquatore di fortune economiche. Nonostante ciò, i progetti dinastici vanno avanti. Maddalena non protesta, non si ribella, accetta il proprio destino e porta avanti il matrimonio come un dovere da compiere.
Alla vigilia delle nozze Lorenzo regala alla figlia, come ha già fatto con Lucrezia, un Libro d’Ore preziosamente miniato, custodito in Inghilterra nella collezione Rothschild a Waddesdon Manor, formato da ventisette pagine decorate con raffigurazioni dei lavori agricoli per ogni mese dell’anno, frontespizi ricchi di colori sgargianti e grandi iniziali istoriate. Nell’apparato iconografico ricorrono più volte sia le raffigurazioni del pavone, simbolo della famiglia Cybo, che l’anello con diamante e il broncone, un tronco con spunzoni, entrambi elementi dell’araldica medicea. Il Libro d’ore è una raccolta di salmi e preghiere da recitare nelle diverse ore della giornata (Mattutino, Lodi, Prima, Terza, Sesta, Nona e Vespri); così preziosamente rilegato e miniato, però, diventa ben altro: un oggetto di lusso, un vero e proprio gioiello artistico che rientra a tutti gli effetti nel patrimonio dotale e che, in caso di difficoltà economiche, può trasformarsi in un cospicuo tesoretto.
Le trattative matrimoniali si concludono nel febbraio 1487 ma le nozze sono rinviate all’anno successivo e celebrate in Vaticano nel mese di gennaio. La dote assegnata a Maddalena è di 4000 fiorini, non alta se paragonata ai 6000 fiorini di sua madre Clarice, accompagnata però anche da diverse proprietà immobiliari. Pochi mesi dopo la cerimonia, Maddalena fa rientro a Firenze con Clarice, già molto malata di tubercolosi, e la assiste fino alla morte avvenuta in luglio; poi torna a Roma nel palazzo del marito.
Nella città dei papi Maddalena fa vita di corte in Vaticano, ben voluta com’è da Innocenzo VIII che, fin dall’inizio, l’ha immaginata come l’unica in grado di porre un freno alle dissolutezze del figlio Francesco. In questo senso Maddalena può ben poco, mentre si dimostra capace di intervenire con i potenti vicino a lei (il papa, il padre, il fratello Piero quando raggiunge il potere a Firenze, il fratello Giovanni dopo l’elezione al soglio pontificio) per ottenere benefici per conoscenti, amici e parenti, marito compreso.
Maddalena e Franceschetto hanno otto tra figlie e figli. La primogenita, Lucrezia, muore a soli tre anni nel 1492; anche la secondogenita, Clarice, scompare piccolissima nello stesso anno e la madre vive un periodo di forte depressione. Il 1492 è un anno funesto per lei: oltre alle figliolette, scompaiono il padre Lorenzo e il suocero Innocenzo VIII e, per la coppia di sposi, quest’ultimo evento segna l’inizio di un nuovo percorso.
La politica nepotistica del papa, che ha garantito per anni a Franceschetto nomine, agii e privilegi, non sopravvive alla morte del pontefice e deve necessariamente lasciare il posto alle mire e ai piani della famiglia del nuovo papa, Alessandro VI Borgia; è anzi necessario lasciare Roma e recarsi prima in Toscana e poi a Genova, dove si trova il palazzo della famiglia Cybo. Maddalena inizia a far conoscere di sé un altro volto, più consapevole e determinato. In Toscana comincia a curare le proprietà ricevute in dote, soprattutto a Firenze e Pisa; si reca periodicamente a Roma fin dalla nomina papale di Giulio II, evento che consente alla famiglia Cybo di vedere più serene le prospettive romane. Ma fu soprattutto quando il fratello Giovanni viene eletto papa con il nome di Leone X che Maddalena riesce a ottenere molto: d’altra parte non è stata proprio lei, con il matrimonio, a favorire la carriera ecclesiastica di Giovanni fino all’elezione a papa? Qualcosa deve pur tornare indietro. Le viene conferita la cittadinanza romana nel 1515, ottiene per il figlio Innocenzo la nomina a cardinale accompagnata da numerose rendite sempre concesse dal pontefice; accanto a tanti onori anche accuse pesanti come quella di aver ricevuto da Leone X le rendite raccolte in Germania dalla vendita delle indulgenze.
Maddalena muore a Roma all’inizio di dicembre del 1519, pochi mesi dopo la scomparsa del marito Franceschetto.

Fonti
William Roscoe, Lorenzo de Medici detto il Magnifico, p. 167, Pisa, 1816
Benedetto Varchi, Storia fiorentina, libro III, Firenze 1843
Antonio Paolucci, Per le magnifiche tre, in L’Osservatore romano, 19-9-2012 https://archive.org/stream/s3archiviostoricoi09depuuoft/s3archiviostoricoi09depuuoft_djvu.txt http://bia.medici.org/DocSources/Home.do
http://www.treccani.it/enciclopedia/maddalena-de-medici_(Dizionario-Biografico)

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Maria e Lucrezia de' Medici

 

(Firenze, 1540 – 1557) (Firenze, 1545 – Ferrara, 1561)

Non esistono intitolazioni in loro onore

Sorelle sfortunate

di Barbara Belotti

Maria fu la primogenita di Cosimo I ed Eleonora di Toledo. Le venne assegnato il nome delle due nonne, Maria Salviati e María Osorio y Pimentel, come voleva la tradizione. Per il padre Cosimo la tradizione fu rispettata anche per un altro motivo: Maria era la prima nata e, come accaduto più volte in passato nella famiglia, questo preannunciava la futura nascita di un erede maschio: “Alle 3 dì di questo la S. Duchessa per gratia di N. S. Dio con molta facilità ha expedito el suo parto et dataci in luce una bella figliola della quale oltra il buono esser di S. Ex. siamo restati non men contenti che se fusse stato maschio perchè lei ha seguitato l'ordine di tutte le altre che si sono maritate con la casa nostra da Cosimo Vecchio in qua le quali nel primo parto hanno fatto una figliola et dipoi lo prossimo i maschi e così noi ci rendiamo certi che quest'altro sarà maschio”. La neonata fu affidata alle cure di Maria Salviati che costantemente inviava notizie alla nuora Eleonora e al figlio. Con la prima nipotina e poi con Francesco e Isabella, nati nei due anni successivi, la nonna paterna visse prevalentemente nella Villa di Castello e nella Badia fiesolana, come la stessa Eleonora caldeggiava: “[…] lei [Eleonora di Toledo N.d.R.] teneva non piccola dispiacere che S. S. et detti Sig.ri fig.li stessino di presente in Fiorenza, dove conoscie essere cattivissime aere per loro, così ha preso contentezza non piccola della resolutione fatta per laClick here to read more stanza loro alla Badia di Fiesole, et si rallegra assai che se sia ritrovato un luogo salubre per la sanità loro come dicono essere quello […]”.
L’educazione della piccola Maria fu degna del suo ruolo di principessa: studio delle lingue straniere, lo spagnolo in particolare, cultura umanistica, latino e greco, musica e danza, attività fisica, discipline nelle quali la ragazzina si applicò in maniera diligente; ebbe una particolare predilezione e propensione per il disegno, anche se gli interessi verso l’arte furono coltivati indistintamente nei principi e nelle principesse Medici. Non c’erano fra loro sostanziali differenze nei princìpi educativi, erano tutti e tutte molto amati dai genitori che, quando gli affari politici e di corte lo permettevano, mostrarono una vicinanza non usuale con figli e figlie.
In più occasioni li condussero con loro durante le battute di caccia e di pesca, o nel corso di passeggiate all’aperto o di viaggi ufficiali; la vicinanza si dimostrò anche con l’uso, davvero unico per l’epoca, di pranzare insieme ai figli e alle figlie, cercando di creare un’unità familiare e un calore affettivo sorprendenti. Padre e madre seguirono, anche se spesso a distanza, la crescita dei figli e delle figlie, Cosimo chiedeva notizie sulla salute, Eleonora ordinava calze, vesti, scarpe per ciascuno di loro valutando l’opportunità di quel tessuto o di quelle misure. Quando la piccola Maria espresse a mamma e papà la richiesta di avere un nuovo giocattolo (“La S.ra Donna Maria [de' Medici] m'ha detto gli scriva gli mandi una bambola et me l'ha replicato poi alla presentia del Duca et della Duchessa miei signori”) il segretario di Cosimo, Lorenzo Pagni, prontamente scrisse al maggiordomo di corte a Firenze, Pierfrancesco Riccio, perché la richiesta della piccola fosse esaudita; l’invio del giocattolo non fu così tempestivo e fu Eleonora a farsi sentire: “Maravigliasi assai la prefata signora Duchessa [Eleonora di Toledo] che la S.V. [Riccio] non habbi mai mandato una bambola a donna Maria [de' Medici], et vuole che gliene mandi una quanto prima è possibile. [...]”.
Maria era considerata “di bellezza rara e di costumi reali” e il padre e madre predisposero per lei un matrimonio di alto rango promettendo la sua mano ad Alfonso II d’Este. Le nozze non furono però mai celebrate. Maria morì a Livorno nel novembre 1557 dopo un periodo di malattia, come testimonia la lettera del padre Cosimo: “Resta che con grandissimo nostro cordoglio vi diciamo come la signora donna Maria nostra figliola primogenita, […] dopo esser stata malata […] di febre, et d’un gravissimo catarro, passò all’altra vita, la cui perdita, et perchè l’amavamo tenerissimamente, et per molti altri respetti, ci hà sommamente afflitto, et pur considerando che da Dio viene ogni cosa, et che lui che ce l’ha tolta, ce l’haveva data, ci quietiamo patientemente à quello che è di sua sola volontà”.
Le relazioni diplomatico-matrimoniali fra la famiglia Medici e la corte Estense, sospese dall’improvvisa scomparsa della giovane Maria, vennero presto riprese con la proposta di sostituire la primogenita con la quintogenita Lucrezia. Le nozze si svolsero nel 1558 a Firenze, in Palazzo Vecchio, ma Lucrezia non lasciò la città perché, appena tredicenne, era ancora troppo giovane. Nata nel 1545, aveva condiviso con sorelle e fratelli la vita di corte e l’educazione umanistica, forse con risultati meno brillanti rispetto alla “saggia” Maria e dando prova di un carattere meno effervescente e brillante rispetto all’altra sorella isabella.
Il giorno delle sue nozze, il 3 luglio, venne organizzato un ricco banchetto al quale parteciparono “110 gentildonne fiorentine, nobili e belle”. I festeggiamenti andarono avanti, sontuosi, per più giorni con mascherate, musiche e danze, caroselli e anche partite di calcio fiorentino, una versione più rude e violenta delle moderne partite calcistiche. Le cronache dicono anche che il matrimonio venne subito consumato nonostante la disapprovazione di Eleonora di Toledo, che riteneva la propria figliola ancora una bambina e non pronta a unirsi sessualmente al marito. Alfonso ripartì tre giorni dopo le nozze e Lucrezia rimase a vivere a Firenze con la sua famiglia fino al 1560 quando, il 17 febbraio, fece il suo ingresso a Ferrara, la nuova città in cui sarebbe vissuta con il titolo di duchessa. Fu accolta con tutti gli onori e con fastosi festeggiamenti duranti più giorni, che non furono da meno di quelli organizzati a Firenze in occasione delle nozze.
Il clima festoso di Ferrara per l’arrivo della giovane Medici fu in parte mitigato dal lutto dovuto alla morte di Ercole d’Este, suocero della giovane Lucrezia, che scrive alla sorella Isabella: “Ill.ma Signora sorella e padrona osservantissima, Vostra Signoria mi terrà bene per malcreata perché io non li ho scritto, ma la supplico che mi perdoni perché son tante le feste che si fanno qua che io non ho tempo per niente, e non so che nuove ne li dar di qua, se no che andai a vede l’altra sera la madama [Renata di Valois, sua suocera N.d.R.] che avevo un po’ che male a g[l]i occhi, e tutte quelle signore pensavano che io piangessi el mio suocero, e tutte mi tennono per molto amorosa, e io aspetto a scrivere più a lungo a vostra signoria perché stasera mi verranno a vedere li basciadori di Venetia e subito li scriverò tutte le cerimonie che si faranno”.
Ma anche i festeggiamenti in onore di Lucrezia terminarono e il clima familiare estense si rivelò molto diverso da quello più caldo e partecipato che la giovane sposa era abituata a vivere nella sua famiglia. Soffrì la solitudine, i silenzi della corte ancora in lutto e l’atteggiamento della suocera, Renata di Valois: “Adesso vengo da pigliar licentia da madama mia suocera, che certo mi è stato di molto fastidio. La prima cosa per lei, e poi, vedendo lasciar le signore mie cognate tanto discontente […]”. La giovane Medici, nelle lettere inviate alla sorella Isabella, chiedeva sempre notizie della famiglia, di cosa accadesse a Firenze, voleva conoscere gli aspetti della vita a Palazzo Pitti e della moda che si seguiva in Toscana. In alcune accennò anche al desiderio di un figlio maschio, forse sperando con la gravidanza di trovare la sua giusta collocazione e il riconoscimento nella corte ferrarese. Il figlio non venne mai e non solo a causa della sterilità del marito. Lucrezia morì da lì a poco, nell’aprile del 1561, appena sedicenne, dopo due mesi di malattia e sofferenze. Saputo che la figlia era grave, il duca di Firenze inviò subito un medico per seguirla costantemente. Non ci fu nulla da fare e probabilmente la causa del decesso fu la tisi, la stessa malattia che aveva colpito già la sorella Maria.
La morte precoce della giovane duchessa di Ferrara ispirò, in seguito, il monologo drammatico The last duchess, scritto da Robert Browing nel 1842 e pubblicato nel 1845 nella raccolta Dramatic Romances and Lyrics. Il testo riprese alcune voci, fatte circolare dalle fazioni antimedicee, secondo le quali la morte di Lucrezia poteva essere causata dal veleno usato contro di lei dal marito Alfonso.

Fonti
Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Newton Compton editori, 1999.
Eleonora Mori, L’onore perduto di Isabella de’ Medici, Milano, 2011.
Caroline P. Murphy, Isabella de’ Medici, Il Saggiatore, 2011.
Daniela Stiaffini, Cosimo I ed Eleonora de Toledo. Vita coniugale a Pisa, Pisa, 2016
Grazia Biondi, Lucrezia de’ Medici, duchessa di Ferrara,
http://www.treccani.it/enciclopedia/lucrezia-de-medici-duchessa-di-ferrara_(Dizionario-Biografico)/
Maria Pia Paoli, Di madre in figlio: per una storia dell’educazione alla corte dei Medici, in
https://www.academia.edu/4838459/Educazione_Medici_2008_testo_in_Annali_di_Storia_di_Firenze

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Maria Maddalena de' Medici

(Firenze, 1600 – 1633)

Non esistono intitolazioni in sua memoria

Nata malcomposta

di Barbara Belotti

Maria Maddalena nacque “malcomposta nelle membra”: l’ottava figlia del granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici e di Cristina di Lorena, forse affetta da rachitismo, ebbe gravi problemi nel camminare, nel salire e scendere le scale, nell’affrontare la vita di tutti i giorni. Nel suo unico ritratto ufficiale, l’artista non ha certo potuto mostrare i problemi fisici che affliggevano la giovane donna e ha celato il suo corpo sotto un austero abito nero, da cui spuntano solo le mani e il volto circondato da una gorgiera di trine secondo la moda del tempo; lo sguardo rivolto verso di noi non fa trasparire alcuna emozione o sentimento, la sua posa in piedi, composta e severa, quasi ieratica, sembra voler sottolineare la natura distaccata e non terrena propria di chi appartiene a una famiglia di grande potere.
Una vita ritirata quella di Maria Maddalena, inevitabilmente: per lei non si potevano progettare nozze né immaginare alleanze dinastiche nuove. Il suo problema fisico costituiva un ostacolo insormontabile, forse una tara che non poteva essere taciuta.
Rimanevano pochi scenari da disegnare per la sua vita e la possibilità di entrare in una comunità religiosa costituì una soluzione ben vista dalla famiglia. Maria Maddalena accettò la possibilità di trascorrere la vita nei silenziosi ambienti di un convento, ma con condizioni molto particolari. Il monastero scelto era quello della Crocetta, ma lei sarebbe vissuta nel palazzo attiguo, che aveva lo stesso nome e al quale fu estesa la clausura, in una dimora privata e nobile ben diversa dalla cella monacale: “Comandò allora il Sereniss. Cosimo Secondo […] che allato alla muraglia di quel sacro luogo, fosse alzata una bellissima fabbrica, dove la Signora Principessa sua Sorella potesse con il decoro a lei convenuto, mentre si dipartiva dalle pompe del mondo, diportarsi a suo talento tra i pensieri del Cielo”.
I lavori di realizzazione del palazzo della Crocetta riunirono quattro lotti acquistati in passato da Lorenzo il Magnifico; oltre all’organizzazione e alla sistemazione degli ambienti interni furono previsti camminamenti e corridoi aerei per collegare la residenza medicea al convento di clausura e alla chiesa della Santissima Annunziata: in questo modo Maria Maddalena, che in realtà non prese i voti, poteva muoversi liberamente al primo piano, essere raggiunta dalle suore, recarsi a sua volta nel convento e assistere alle funzioni nella vicina chiesa senza dover uscire, salire e scendere le scale e essere sottoposta agli sguardi estranei. Il palazzo si trasformò, quindi, in un punto intermedio fra due estremità religiose, quella del convento di clausura e quella del “riverito Tempio della Santissima Nunziata” cui si giungeva attraverso “una lunghissima galleria che partendo da gl’interni appartamenti di essa” portava “la devota Signora” a “adorare quella celebratissima Immagine della Regina del Cielo”; il camminamento aereo verso la chiesa fu allestito come se fosse un percorso sacro nel quale “tra sì grati oggetti di devozione, passeggia questa Real Vergine, e col guardo, e col pensiero segue il suo Signore al Calvario”.
Suora, ma di fatto laica, Maria Maddalena cominciò la sua “vita monastica” nel 1621. Scrisse la madre Cristina all’altra figlia Caterina il 25 maggio di quell’anno: “Hiersera io messi in Monasterio la Principessa Maria Maddalena, et così io mi ritrovo hoggi in questa casa senz'alcun figliuolo appresso di nove che ne ho havuto”; poche settimane prima la granduchessa aveva voluto accompagnarla a Pisa e Livorno “per far vedere quelle città, et il Mare alla Sig.ra Principessa Maria Maddalena innanzi ch'ell'entri in Monasterio. Et seco è andato solamente il S.r Cardinale” Carlo de' Medici che era riuscito a ottenere per la famiglia l’estensione della clausura al palazzo della Crocetta e per la giovane la dispensa a vestire il velo monacale; pochi anni dopo, nel 1626, un altro soggiorno negli stessi posti come scrisse sempre Cristina di Lorena: “venni a Firenze per cavare la Principessa del monasterio et menarla a vedere quella città [Pisa] et Livorno, come seguirà domani piacendo a Iddio insieme col Cardinale”.
Maria Maddalena non fu dispensata solo dal velo. Quando entrò in convento la sua esistenza, per quanto rivolta alla preghiera e alla devozione, non differì molto dalla sua vita a palazzo Pitti. Come spesso accadeva nei monasteri del XVII secolo che ospitavano rampolle di alto rango, gli spazi claustrali si trasformavano in centri di cultura, musicale soprattutto. Negli anni di “clausura” della principessa Medici, il convento-palazzo si trasformò nella sintesi perfetta fra un luogo di fede e di preghiera e una vera e propria corte. Spesso Cristina di Lorena e l’arciduchessa Maria Maddalena d’Austria, sua nuora, si recavano in visita al palazzo della Crocetta dove, negli anni Venti, soggiornarono anche Claudia de ‘Medici, con la figlioletta Vittoria della Rovere, e Anna de’ Medici. La principessa Maria Maddalena fu attiva nel promuovere spettacoli teatrali e rappresentazioni musicali, quasi fosse un prolungamento della corte fiorentina. I lavori teatrali, organizzati con il consenso della famiglia, in particolare della madre Cristina di Lorena, ebbero come protagonisti i migliori artisti del tempo, musicisti, poeti e cantanti che lavoravano regolarmente per la corte toscana; in alcun casi le opere messe in scena, sacre rappresentazioni soprattutto, furono composte dalle stesse suore di clausura. I testi avevano come protagoniste eroine bibliche o sante il cui potere e la cui forza erano legittimati direttamente dalla volontà divina; divennero simboli, come spiega la musicologa Janie Cole, del diritto e del ruolo politico femminile incarnato in quegli anni dalle due reggenti Cristina di Lorena e Maria Maddalena d’Austria. Nel 1625 fu allestito il testo teatrale “Il martirio di Santa Caterina”, scritto da Jacopo Cicognini e dedicato alla principessa Maddalena de’ Medici; l’opera fu musicata e forse cantata da Francesca Caccini, compositrice, clavicembalista e soprano attiva presso la corte fiorentina; tempo dopo fu messo in scena alla Crocetta un altro lavoro di Cicognini, Le vittorie di Santa Tecla. Il convento ospitò anche rappresentazioni di Michelangelo Buonarroti il Giovane, fra queste alcune canzoni spirituali cantate da Emilia Grazi, allieva della stessa Francesca Caccini.
Maria Maddalena fu molto devota a Suor Domenica del Paradiso, fondatrice del monastero della Crocetta, agli inizi del Cinquecento, su terreni di proprietà della famiglia Medici che diede alla religiosa sempre appoggio morale ed economico. Per questo la principessa, nata “malcomposta”, chiese e ottenne di essere sepolta nel convento davanti alla tomba della suora. La sua fine fu improvvisa e rapida, il 28 dicembre 1633, forse per una violenta forma di vaiolo.

Fonti:
Massimiliano Rossi, Imitatio granducale: Maria Maddalena de’ Medici alla Crocetta, la sua tomba e un progetto dimenticato, in Le donne Medici nel sistema europeo delle corti XVI-XVIII secolo, a cura di Guido calvi e Riccardo Spinelli, tomo 1, pp.117-130
Janie Cole, Self-Fashioning in Early Seventeenth-Century Florence: Music-Theatre under the Medici Women, in Le donne Medici nel sistema europeo delle corti XVI-XVIII secolo, a cura di Guido calvi e Riccardo Spinelli, tomo 2, pp. 691-708
Maria Pia Paoli, Di madre in figlio: per una storia dell’educazione alla corte dei Medici, in http://www.fupress.net/index.php/asf/article/view/9849
Cristina di Lorena, Lettere alla figlia Caterina de’ Medici Gonzaga duchessa di Mantova (1617-1629), (a cura di Elisabetta Stumpo e Beatrice Biagioli), Firenze University Press, 2015
http://bia.medici.org/DocSources/Home.do
 
 

(Firenze, 1568 – Modena, 1615)

Non esistono intitolazioni di strade in suo onore

Indemoniata

di Barbara Belotti

La storiografia ha per molto tempo liquidato Virginia de’ Medici, figlia illegittima di Cosimo I e di Camilla Martelli, come una posseduta dal demonio o come una pazza: giudizi spietati che hanno nascosto o alterato tutto ciò che di positivo ha realizzato nella vita.
Virginia nasce nel 1568, quando ancora suo padre Cosimo e sua madre Camilla non sono sposati; sarà legittimata solo dopo la celebrazione delle loro nozze, nel 1570, per subsequens matrimonium come prevedeva una norma introdotta da Giustiniano nel diritto romano. Anche lei, come tutte le figlie di stirpe nobile, è destinata a nozze combinate, prima con Francesco Sforza conte di Santa Flora poi, dopo il fallimento delle trattative matrimoniali, con Cesare d’Este, figlio di Alfonso marchese di Montecchio.
A pianificare l’alleanza nuziale, in nome della Realpolitik del tempo, ci pensano i fratellastri maggiori, Francesco I e il cardinale Ferdinando, con la complicità di Bianca Cappello, tutti convinti della necessità di trovare accordi e strategie politiche vantaggiose per il granducato toscano. Virginia accetta ubbidiente la volontà della famiglia, ha ben poche alternative e ha visto cosa è capitato alla madre dopo la morte del vecchio Cosimo: rinchiusa forzatamente in convento. Dopo la celebrazione delle nozze il 6 febbraio 1586, la giovane lascia Firenze per affrontare il suo nuovo destino di duchessa di Ferrara, Modena e Reggio, almeno fino al 1598 quando papa Clemente VIII, non riconoscendo il ruolo di Cesare a Signore di Ferrara, riprende il pieno possesso di quei territori e conclude il dominio estense. Virginia, al suo arrivo, viene accolta con onore e rispetto: “Per la figlia di Cosmo accogli et orna/
scrive Torquato tasso Nobili dame e cavalieri egregi/ […] Perché già seco al suo venir se’n torna/ Schiera da far invidia a’ duci, a’ regi:/ Sì rari ha sempre e sì diversi pregi/ Ove passa, ove giace, ove soggiorna […]”.
Madre prolifica, mette al mondo quattro figlie e sei figli ma i suoi compiti non rimangono confinati al solo ruolo materno. Quando nel 1601 il marito si trova lontano, Virginia assume la reggenza dei territori, come ha fatto altre volte in passato. Dimostra carattere nel difendere l’autonomia di Modena dalle manovre politiche del Podestà, che forse spera di scalare il potere ritenendo il governo della Duchessa meno capace e sollecito, e viene definita nelle cronache del tempo degna erede di suo padre: “[…] per la prima volta che è stata in simili maneggi, governa prudentissimamente, e bene si scorge essere figliuola del gran Cosmo de Medici […]”. Virginia è in attesa del suo ottavo figlio, Niccolò, ma non risparmia le energie e la fatica, “sta su sino a ore dieci di notte a dare audienza, provedere et ispedire per il stato”.
Una donna capace, quindi, equilibrata e attenta alla quale il destino però sta riserbando un tragico epilogo.
“Umore malinconico” le viene diagnosticato nel 1608, ma anche precedentemente si erano manifestati disturbi mentali. La sua vita a corte non facile: l’accettazione del matrimonio con un uomo che non le manifesta mai un gesto di affetto e di cortesia, la sopportazione del legame d’amore del marito con la marchesa Bradamante Bevilacqua, le regole imposte dall’etichetta di corte al suo ruolo la fanno sentire “sprezzata non potendo nientissimo”.
All’inizio della primavera del 1608 la corte modenese è tutta concentrata nei preparativi per l’arrivo di Isabella, figlia di Carlo Emanuele I di Savoia e di Caterina Michela d’Asburgo, la sposa del primogenito di Virginia e Cesare. La duchessa vive appartata, sta male, non segue l’organizzazione degli allestimenti e delle decorazioni del palazzo e della città come invece, visto il suo ruolo di madre e duchessa, avrebbe dovuto fare. Alle diagnosi dei medici si aggiungono quelle dei religiosi che parlano di possessione demoniaca: come riferisce Giovan Battista Spaccini nelle sue Cronache di Modena, la duchessa viene visitata dal gesuita Padre Girolamo Bondinari che senza mezzi termini le comunica “Madama, mi dispiace a dirvelo, Vostra Altezza è inspiritata”. La reazione della donna è immediata e altrettanto brutale, arriva alle percosse contro il religioso, agli insulti, alle urla e tutta scena non fa che rinforzare il parere e le affermazioni del gesuita. Virginia è assente anche all’arrivo della giovane nuora che giunge scortata, come vuole il suo alto rango, da numerose dame di compagnia: segregata e nascosta almeno fino a quando ci sarà tanta animazione a corte. I “comunicati ufficiali” parlano di indisposizione e febrette, ma le indiscrezioni cominciano a circolare; l’ambasciatore mediceo scrive che la duchessa Virginia “non si vede mai alla finestra e tutto il dì e la notte fu sentito gridare e piangere ininterrottamente”; pochi mesi dopo aggiunge che è stata visitata da un padre benedettino il quale conferma la possessione: ”ha in sé degli spiriti perché ha sentito tremare la colonna del capo e ha visto tremarle gli occhi e le guance”. Le notizie che dal ducatoestense giungono a Firenze sono allarmanti e imbarazzanti per la corte medicea.
Si consolida sempre più l’idea che un demone malvagio abbia preso possesso della nobildonna, si arriva addirittura a dargli un nome, Re Azica, entrato nel suo corpo e nella sua mente a causa di qualche stregoneria. Rivela cose incredibili lo spirito maligno: prima di tutto che non è solo a abitare in quel povero corpo di donna perché da oltre venti anni molti demoni se ne sono impossessati e che il maleficio ha ingannato tutti facendo passare la possessione demoniaca per disturbi mentali. Lui, Re Azica che parla per bocca di Virginia, si dichiara contrari al sacro vincolo del matrimonio e questa affermazione giustificherebbe l’odio profondo che Virginia prova nei confronti del marito Cesare.

La duchessa non accetta però di essere indemoniata, rifiuta le orazioni, gli esorcismi, le preghiere che dovrebbero liberarla dal maligno, non vuole seguire i consigli del frate benedettino che immagina “una terapia d’urto”, per guarirla dal rancore che prova verso il coniuge, basata su un costante, quotidiano e terapeutico ripetersi delle nozze con il duca. Virginia non vuole ragionare e non vuol guarire: è il religioso in prima fila ad affermare che forse lo stato di posseduta è una condizione attraente per lei, uno stato di grazia e di piacere da cui non vuole regredire. Più complice che vittima del demone, anzi dei demoni, intende proseguire nella condizione di spiritata. Il 18 ottobre del 1608 viene sottoposta a un’indagine scrupolosa dei comportamenti e, richiusa in una stanza, è osservata dal buco della serratura. La vedono denudarsi e, come riportato da Grazia Biondi nel suo Madama mi dispiace a dirvelo, vostra altezza è inspiritata. Demoni ed esorcisti alla corte di Cesare d’Este, la sentono dichiarare “Ben mio, sete pur venuto una volta, sete pur anco bello e rosso” e poco dopo anche “Non avete pur calcagni”: più diavolo di così non si può, ormai la possessione di Virginia è accertata.

Vivrà fino al gennaio 1615 l’infelice duchessa di Modena, considerata sempre meno affetta da disturbi mentali e sempre più vicina agli spiriti malvagi. Si racconta che Virginia abbia continuato a vivere lontana da ogni forma di mondanità, eleganza e raffinatezza, nutrendosi di pane e acqua, coprendosi di povere pezze di lana, ribaltando i ruoli e inchinandosi di fronte a coloro che avrebbero dovuto servirla. Segregata nella corte come figura impresentabile, torna ad avere una dignità solo nel momento delle esequie solenni. Nella sua orazione funebre vengono snocciolate tutte le caratteristiche positive dimostrate in passato (le capacità di governo, l’equilibrio nell’azione politica) ma che la possessione diabolica ha soffocato. Anzi la sua segregazione viene riletta non come una terribile condizione che l’ha vista a lungo sacrificata, ma come un percorso per raggiungere la felicità dopo la pace dopo la morte: “l’aspro e pungente cilicio la ricopre di gloria immortale, la veste preparata di lana ruvida le tesse un chiaro ammanto di sole, …  le danze et allegrezze mondane poste in non cale, le riempiono il cuore di giubilo; gli ornamenti donneschi magnanimamente disprezzati gli intessono corone di stelle”. Forse se non fosse stata la consorte del duca di Modena avrebbe rischiato di essere definita una strega, con conseguenze ancora più tragiche.
Meglio posseduta dal demonio che pazza? Si, la pazzia gettava una terribile ombre sul casato sia mediceo che estense, in quest’ultimo caso ancora di più visto che anche la figlia di Virginia, Laura, soffrì degli stessi disturbi; dai malefici del maligno ci si poteva salvare con le preghiere, le intercessioni della Chiesa e dalla volontà divina.

Come scrive Grazia Biondi i tentativi di curare e controllare la malattia illuminano in maniera tragica la cultura di inizio Seicento. Si tratta di modi spietati di controllare le posizioni e i ruoli che donne dovevano avere, di farle tornare all’interno di schemi definiti “normali”. Virginia da quegli schemi è uscita e la possessione serve “a coprire la pazzia e poi della pazzia a coprire una volontà irriducibile”. Lei non accetta la diagnosi degli spiriti maligni, si ribella a chi la definisce “inspiritata” diventando vittima “dell’ingranaggio del controllo e del disciplinamento”. A lei e alle donne come lei “viceversa, la malattia, letta come possessione diabolica, conferisce, paradossalmente, la possibilità di esprimere senza veli i propri sentimenti. Prima che cali il silenzio.”

Fonti:
Giovan Battista Spaccini, Cronaca di Modena, vol. 2, anni 1603-1611, a cura di Albano Biondi, Rolando Bussi, Carlo Giovannini, Modena, Panini, 1999, pp. 298; 309; 341-343
Ludovico Muratori, Delle antichità estensi. Continuazione o sia parte seconda, Modena, 1740, p. 413
Grazia Biondi, “Madama mi dispiace a dirvelo, vostra altezza è inspiritata”. Demoni ed esorcisti alla corte di Cesare d’Este, in Quaderni Estensi, VI (2014) http://www.quaderniestensi.beniculturali.it
http://www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/cartedidonne/cdd_02_arrivo.pdf
     

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Clorinda Menguzzato "Veglia"

(Castel Tesino, Tn 1924 - 1944)
 
A ricordo della partigiana Clorinda Menguzzato Veglia, dal luogo di nascita fino alla Capitale, sono state dedicate vie, targhe, associazioni e una scuola. Il suo nome è spesso associato a quello di Ancilla Marighetto Ora, sua amica, compaesana e compagna di battaglione. Le due garibaldine, brutalmente uccise rispettivamente a 19 e 17 anni, sono le più giovani Medaglie d'Oro al Valor Militare della Resistenza.
A Castello Tesino (Tn), sulla casa di famiglia di Veglia, è affissa una targa che narra brevemente le vicende di cui è stata protagonista. Da qui prende origine “via M. O. Clorinda Menguzzato Veglia” che porta alla piazza centrale, dove è presente il monumento dedicato ai paesani caduti durante la Seconda Guerra Mondiale. A fianco ai nomi delle vittime del conflitto, risalta una scritta: “Su queste montagne, nella lotta al nazifascismo e nel martirio, Clorinda Menguzzato Veglia e Ancilla Marighetto Ora, hanno inciso il nome della Resistenza”. Nell’aprile del 2013, lungo la strada che da Castello Tesino porta a Pieve Tesino, nel luogo in cui Clorinda venne uccisa, è stato inaugurato un cippo alla memoria. A Borgo Valsugana, sempre in provincia di Trento, la scuola secondaria di primo grado porta i nomi di battaglia delle due Medaglie d'Oro "Ora e Veglia”, stesso nome scelto a Pergine Valsugana dal circolo di Rifondazione Comunista.  A Trento, oltre alla strade dedicate a Clorinda e ad Ancilla, è stata fondata la onlus “Ora Veglia”. Anche a Roma, negli anni '70, due vie perpendicolari in una zona periferica sono state dedicate alle due partigiane.

La seconda Medaglia d'oro V.M. più giovane della Resistenza
di Emily Menguzzato

Clorinda Menguzzato nasce a Castello Tesino il 15 ottobre del 1924, seconda di quattro fratelli: i due più piccoli, Arduino e Fortunato, e il maggiore, Rodolfo, che entrerà con lei a far parte della Resistenza. Clorinda è ricordata soprattutto per il suo carattere determinato, per l'ironia e l'intelligenza. Durante l'adolescenza intraprende diversi viaggi nel Triveneto con il padre Augusto, venditore ambulante. Viaggi intensi che con molte probabilità contribuiscono a renderla più forte di fronte alle avversità.
Nell'agosto del '44 suo fratello Rodolfo e l'amico Celestino, fratello di Ancilla, decidono di prendere contatti con i partigiani veneti per costruire un distaccamento della “Brigata Gramsci”, quello che inizialmente si chiamerà “Compagnia Gherlenda”. Clorinda, allora diciannovenne, non esita a portare aiuti e informazioni ai giovani compagni. Ed e' in una di queste prime azioni da staffetta che incontra l'amore, Gastone Velo Nazzari, vicecomandante della Compagnia. Da questo momento le loro strade sono destinate a non dividersi più, neanche di fronte alla morte.
A metà settembre del '44 i partigiani del Gherlenda compiono un'azione memorabile che viene comunicata da Radio Londra, ottenendo una risonanza internazionale. Grazie a questa operazione, il gruppo viene innalzato di grado, passando da “Compagnia” a “Battaglione Gherlenda”. Anche Clorinda e suo fratello prendono parte all'attacco della caserma di Castello Tesino, dove i nazisti e i militi del Cst (Corpo di Sicurezza Trentino) hanno creato una base militare. Si tratta perlopiù di un'azione morale: i nemici vengono immobilizzati, disarmati e poi caricati su una corriera per essere portati in cima al passo Broccon, a una decina di chilometri di distanza. Qui vengono fatti scendere e, a uno a uno, viene chiesto loro di scegliere se restare tra le fila partigiane o tornare a piedi in paese, a patto di non ritornare con i nemici.
Alla presa della caserma seguono due rastrellamenti molto duri in cui il Gherlenda subisce numerose perdite, tra cui quella del comandante Isidoro Giacomin Fumo. Durante il secondo attacco nazista, anche Veglia e Nazzari vengono catturati mentre cercano di raggiungere una baita poco lontana dal centro abitato. Il ragazzo, colpito da febbre e pleurite, cammina sorretto dalla giovane amata; in quello stato non riuscirebbe a raggiungere il rifugio di alta montagna dove si stanno dirigendo i compagni. Clorinda decide perciò di restare con lui, a costo della sua stessa vita.
Questo non sarà il suo ultimo gesto d'amore: quando i due verranno divisi e torturati per giorni interi, Clorinda non svelerà il nascondiglio dei compagni ma nemmeno l'identità di Gastone che, essendo originario di Feltre, rimarrà un prigioniero sconosciuto per i soldati nazisti che finiranno per ucciderlo. Veglia morirà il giorno seguente, immaginando Nazzari ancora vivo. Dopo tre lunghi giorni di torture e violenze di ogni genere, sarà portata lungo una strada poco fuori Castello Tesino e lì verrà uccisa con cinque colpi di pistola. Affinché non si rimanga indifferenti di fronte al sacrificio di questa giovane donna e a quello che è avvenuto in quel luogo, vi è ora il monumento alla memoria.


Fonti:
Giuseppe Sittoni, Uomini e fatti del Gherlenda, Croxarie edizioni, Strigno (TN), 2005
Ariateatro (a cura di), Ora e Veglia, il sil
enzio e la neve, PUBLISTAMPAEDIZIONI, Pergine Valsugana (TN),2010
Antonella Di Luoffo, Ricordare Veglia, http://www.psicolab.net/2013/liberazione-partigiani-ricordo/

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Cesarina Monti Stella

(Arcisate, 1871 - Pavia 1937)
 
La ricorda una piccola via periferica a Roma e, per i suoi pregevoli studi di limnologia, le è stato dedicato un laghetto antartico scoperto nel 1988 da una spedizione scientifica italiana. Recentemente la municipalità di Pavia ha intitolato a lei una strada cittadina. A Sassari il suo nome è stato inserito da un gruppo locale in un elenco di nomi femminili da proporre al Comune in vista di un riequilibrio toponomastico di genere.
 

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Pina Menichelli

(Castroreale, Me 1890 - Milano 1984)
 
Una tranquilla strada delimitata da siepi di alloro, nella periferia sud di Roma, ricorda l’attrice Pina Menichelli che nella capitale ha vissuto una parte importante della sua carriera artistica. La sua terra d’origine – la Sicilia – l’ha inspiegabilmente dimenticata e né a Castroreale né a Messina una targa ne celebra la memoria.

Diva, russa e... siciliana
di Marinella Fiume

Clamoroso caso di divismo quello di Pina Menichelli , protagonista assoluta di uno star system ancora in embrione. Una “diva” famosa, oggi ingiustamente dimenticata, che invece meriterebbe di occupare un posto di rilievo nella storia del cinema e attorno alla quale, all’epoca, viene creato un alone di mistero, amplificato dalle voci più strane che su di lei cominciano a circolare. Si parla della sua provenienza russa e di un’origine levantina, tanto che Luigi Pirandello, nel proporre ad Anton Giulio Bragaglia, nel 1918, di portare sullo schermo il romanzo Si gira, ritiene che l’attrice più indicata per interpretare la protagonista Varia Nestoroff, una donna fatale russa, sia proprio la Menichelli. E in effetti, le caratteristiche somatiche dell’attrice - capelli biondi, occhi azzurri, carnagione chiara - discostandosi dal classico tipo siciliano, non possono farla ritenere figlia di Sicilia.
I natali di Pina Menichelli sono rimasti incerti fino al 1989, quando una scoperta dello studioso di cinema Nino Genovese ha svelato l’autentico dato anagrafico dell’attrice.
Menichelli Giuseppa Jolanda è figlia di Cesare e di Francesca Malvica, un’antica famiglia di teatranti siciliani che si fa risalire al Settecento. I dizionari, le enciclopedie e i repertori riportano come luogo di nascita Roma o, genericamente, la Sicilia e come anno il 1893. In realtà Pina Menichelli nasce a Castroreale (Messina) il 10 gennaio 1890. La sua ‘leggenda’ comincia quando una sera del 1914, mentre in una saletta della torinese “Itala Film” il produttore e regista Giovanni Pastrone sta visionando i film delle Case cinematografiche concorrenti, vede qualcosa che attira la sua attenzione in una pellicola della romana “Cines”: una tamburina bionda, dagli occhi chiari, che picchia sul tamburo e guarda, contro tutte le regole, nella macchina da presa. Pastrone taglia il fotogramma e lo manda al suo corrispondente di Roma, chiedendogli di rintracciare la giovane attrice. L’intuizione di Pastrone e l’ingaggio dell’attrice creano ben presto la “diva”, un mito destinato a resistere per molto tempo, iniziato nel 1915 con Il Fuoco (tratto da un soggetto originale di Febo Mari) e continuato l’anno successivo con Tigre Reale, ispirato a Verga. Questi due film, diretti da Giovanni Pastrone, conquistano alla Menichelli un posto significativo nell’Olimpo delle dive, imprimendole quel marchio di donna fatale che caratterizza la sua personalità artistica e quella di molte altre attrici dell’epoca del muto. Dopo l’esperienza alla ”Itala” di Torino, l’attrice passa alla “Rinascimento Film”, sorta a Roma nel 1918 ad opera del barone Carlo Amato. Egli cerca di valorizzare al massimo le qualità artistiche della Menichelli , intreccia con cui lei una duratura relazione che sfocia nel matrimonio nel 1930. Con la “Rinascimento Film” l’attrice gira diversi film, soprattutto accanto a Amleto Palermi, tra cui due feuilleton romantici, Il padrone delle ferriere e Il romanzo di un giovane povero. Alla femme fatale si aggiunge così l’immagine della donna altera e ribelle, che apre la via alle figure femminili emancipate del dopoguerra.
Dimostrando grande versatilità, la Menichelli s’impegna anche in ruoli comici e brillanti, ne La Dame de Chez Maxim (1923) e in Occupati di Amelia (uscito nel 1925), che è anche il suo ultimo film. La diva abbandona la scena al culmine della carriera, a poco più di trent’anni, forse per non intraprendere il malinconico viale del tramonto, forse perché insofferente delle repressioni dell’occhiuto e sessuofobo regime, a cui appare modello di donna troppo sensuale e inquietante. Molti suoi film, infatti, ebbero seri problemi con la censura: da Il Fuoco a Chioma d’oro (che, realizzato nel 1915, esce tre anni dopo, sforbiciato e con il titolo cambiato in L’Olocausto), da Il giardino delle voluttà (che diventa Il giardino incantato) a La biondina (che subisce notevoli modifiche) e a La moglie di Claudio, censurato perché l’attrice è ritenuta “troppo... affascinante”.

Fonti
V. Martinelli, Pina Menichelli. Le sfumature del fascino, Bulzoni, 2002
N. Genovese, Pina Menichelli, in Siciliane. Dizionario illustrato, a cura di M. Fiume, Emanuele Romeo Editore, Siracusa, 2006
Nessuna intotlazione, nei centri urbani della laguna veneta, ricorda queste straordinarie lavoratrici dalle mani d'oro e dalla tecnica eccelsa.
 
Ago e filo obbedienti
di Gina Duse

Chioggia, Pellestrina, Burano furono fino agli inizi del Novecento le capitali del merletto. Trine leggere come spuma sono nate dalle umili mani delle donne del popolo. Un’attività, la loro, che si vuole connessa alla tradizione marinaresca di riparazione delle reti ma che, grazie alla creatività femminile, si trasformò in arte. A Chioggia, il centro lagunare più importante per numero di abitanti, si contarono nel 1780 ben ottomila lavoranti a domicilio: una realtà, questa, destinata progressivamente a diminuire, ma da considerarsi, finché sopravvisse, una voce attiva nell’economia locale.  “Chi passa per le calli –racconta a fine Ottocento un viaggiatore- può vedere, in qualunque ora del giorno, giovani sedute al telaio intente al ricamo, bambine, donne e vecchie occupate nella confezione della reticella. E tutte lavorano con prodigiosa velocità, con una precisione propria della macchina, aggiungendo maglia a maglia, quadrato a quadrato di ricamo”.  I pittori impressionisti e i primi fotografi non mancarono di immortalare simili scene. L’idealizzazione dei costumi del passato, immemore delle miseria che affliggeva il popolo, non deve farci trascurare lo sfruttamento a cui erano sottoposte le merlettaie. L’elevata disponibilità di manodopera privava la donna di potere contrattuale. Il guadagno risultava irrisorio, ad arricchirsi erano pochi committenti.
Divenute operaie, la condizione di lavoro delle merlettaie non migliorò. Ecco come una benefattrice che aveva a cuore le sorti delle classi disagiate descrive la situazione riscontrata in una ditta di Burano: “Benchè io mi dichiari ammiratrice di tale industria gentile, per senso di umanità non posso tacere la pena che mi destarono sempre quelle povere e vispe lavoratrici di merletti, costrette per troppe ore ed in troppo numero a rimanere rinchiuse nell’aria viziata di quelle sale. […] Così tornando alle povere lavoratrici di Burano, costrette ad un’arte ch’è tutta un insidia per gli occhi loro, vorrei che il nobile drappello che ingrandisce sempre più, rappresentando una vera fonte di ricchezza artistica  cittadina, fosse fatto segno a speciali attenzioni da chi vigila all’igiene dell’isola; che le ore di lavoro fossero umanitariamente ridotte  e possibilmente interrotte da ricreazioni e passeggiate”.
A volte il sacrificio è ricompensato. Grazie alle Esposizioni Universali anche le merlettaie escono dall’anonimato. È il caso della chioggiotta Rosina Gradara Bonivento che, all’Esposizione di Vienna del 1873, viene decorata con medaglia al merito per “una sottana ricamata, con tunica relativa in tela battista”: “Sotto la sua mano- recita la motivazione-  il filo e l’ago obbedienti poterono giungere a far conoscere quanto di pregio abbiano questi lavori”.


Fonti
Angela Nardo Cibele, Studi sul dialetto di Burano, Estratto dall’"Ateneo Veneto", Anno XXI, vol.1, Venezia 1898
Felice Nordio, Cittadini che onorarono Chioggia nell’Ottocento, ms., Biblioteca civica “ C. Sabbadino” di Chioggia
A.C.S. Murazzo, Il merletto di Pellestrina, Pellestrina 1986
G. Scarpa- S. Ravagnan, Chioggia nel ‘900 tra fascismo e democrazia, Padova 1986
Gianni Scarpa ( a cura di), Ristampa anastatica di: Carlo Bullo, Guida storico commerciale illustrata di Chioggia (1896
Iginio Tiozzo, Chioggia nella storia nell’arte e nei commerci (1926), Chioggia 1999.
Maria Dolfin, Le merlettaie di Chioggia, in “Chioggia Rivista di studi e ricerche”, n.27 ottobre 2005
Angelo Padoan- Gianni Zenna, Tipi, tipetti, tipacci della Chioggia dell’Otto-Novecento.Zente d’altri tempi de le cale e dei campéti de Ciòsa, Piove di Sacco 2014.

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Mescitrici

Un recente referendum fra i cittadini di Montecatini Terme (PT), promosso dalla Commissione Pari Opportunità e concluso a fine febbraio 2016 con 1114 votanti, ha visto il notevole successo della proposta di intitolare un'area verde alle “mescitrici”, per quasi un secolo simbolo delle Terme. L'amministrazione comunale ha assicurato che ne terrà conto per una delle prossime intitolazioni.

Le cuffiette e altro ancora

di Laura Candiani

All’inizio del ‘900 Guido Giuliani, direttore delle Regie Terme di Montecatini appartenenti al demanio, crea una nuova figura professionale esclusivamente femminile destinata a un successo straordinario: la mescitrice (detta anche “cuffietta” o “portatrice d’acqua” o ancora “ninfa delle acque” …), simbolo di salute, freschezza e gioventù. Le prescelte, che fanno a gara per essere assunte, indossano una divisa azzurra mentre quella degli stabilimenti privati è rossa; quando le due società si fondono, nel 1913, la divisa diviene per tutte a righe bianche e azzurre, con cuffietta e grembiule bianchi. Le ragazze della zona vengono scelte perché graziose, ma devono anche essere svelte, spigliate e abili nel muoversi con le bottiglie in mano nei parchi termali fra cappelli ingombranti, bastoni da passeggio, poltroncine, tavoli oppure nel servire al banco, offrendo i vari tipi di acqua curativa (Tettuccio, Regina, Tamerici, Rinfresco, Torretta, ecc.) indicata dalla prescrizione medica e più gradita ai “villeggianti”. Questo lavoro non ha alcuno stipendio ma le mescitrici ricevono generose mance che, a fine giornata, vengono equamente spartite fra tutte; ciò garantisce una paga dignitosa anche se si tratta di un lavoro stagionale che va dalla primavera all'autunno. Se le Terme di Montecatini per un lungo periodo hanno goduto di meritata fama, una parte del merito va senz’altro a questa figura professionale, rappresentata in foto e cartoline, cantata da poeti, celebrata da giornalisti, musicisti, scrittori. Oggi il termalismo tradizionale è in crisi e da tempo questo mestiere è scomparso, anche se le acque curative hanno i loro fedeli estimatori e ancora sgorgano abbondanti attraverso semplici rubinetti.                                                                    
Montecatini da Bagni a Terme. A seguito di una “supplica” rivolta al granduca Pietro Leopoldo di Lorena, partono in breve i lavori per sanare la situazione ambientale a Montecatini. Comincia la progettazione e qualificazione dell’area, circondata da paludi maleodoranti e sorgenti d’acqua malsane che rendono difficile la vita dei pochi residenti. Nascono gli stabilimenti termali, la Palazzina Regia e i primi edifici per accogliere i visitatori. La gestione delle Terme viene donata dal granduca (nel 1784) ai Monaci cassinesi della Badia fiorentina che costruiscono uno “spedale” per uomini e uno per donne, divenuto nel XX secolo un moderno istituto di cura. La cittadina cresce e si sviluppa: nel 1853 arriva la ferrovia (linea Lucca - Pistoia), nel 1871 gli abitanti, fra pianura e collina, sono oltre 3.000, nel 1905 diviene Comune autonomo, nel 1928 perde l’appellativo “Bagni” per diventare Montecatini Terme. Ormai alberghi e pensioni sono oltre 200 e altrettante affittacamere; la capienza arriva a 20.000 persone (si calcolano oltre 100.000 visitatori a stagione). Nel 1895 viene creato il bicchiere in vetro graduato con la scritta Montecatini incisa, come quello in uso a Karlsbad; il costo è di 25 centesimi e il ricavato va ai poveri della zona. In pochi giorni se ne vendono oltre 1.000. Qui soggiorna tutto il bel mondo dell’epoca: Pellegrino Artusi è ospite abituale, Verdi viene per 19 anni, e poi Rossini, Mascagni, Leoncavallo, Puccini, Trilussa, il trasformista Fregoli, D’Azeglio, Giusti, artisti, nobili, parlamentari, fino a Grace Kelly, appena divenuta principessa, e Dior che qui muore. Persino Maria Sklodowska Curie viene più volte per studiare le acque curative e le loro proprietà (una targa la ricorda all'interno del parco dello stabilimento Tettuccio).                                                                                                                         

Altri lavori femminili ai Bagni. Le donne lavorarono per “costruire” Montecatini avendo il compito faticoso e ben poco remunerato di riempire di terra i fossi per alzare il suolo attorno alle strade nascenti, agli stabilimenti, ai fiumiciattoli (anni ’70-80 del XVIII sec.). Appena iniziata l’attività termale, incontriamo le prime bagnaiole che pulivano le vasche per le immersioni, assistevano i bagnanti e procuravano loro teli e asciugamani. Altre donne erano impiegate per lavare e “imbiancare” panni, gusci di materassi e cuscini; altre per garantire il servizio di posta da Pistoia e da Pescia. Importantissime le albergatrici, non solo mogli, sorelle, figlie di imprenditori, loro stesse impegnate in prima persona come cuoche, cameriere, guardarobiere, ma anche a creare e gestire nuovi servizi: affittacamere e pensioni, vendite di sali e tabacchi, mescite di vini e liquori, trattorie e ristoranti, caffè, sale per concerti, teatri, negozi di scialli, ricami, ventagli, ombrelli. Intanto si esibiva il pomeriggio, nel bel parco dello stabilimento Torretta, una orchestra di eleganti musiciste viennesi famose per le esecuzioni di celebri valzer.
Altre donne erano assunte per imbottigliare o infiascare le acque, altre estraevano i sali purgativi che poi erano confezionati e commercializzati, altre ancora facevano le sarte e le lavandaie (nel 1915 si effettuavano al giorno 1.000 bagni con l’impiego di circa 6.000 capi di biancheria). Intanto in Valdinievole nuove attività erano destinate all’occupazione femminile: lavorazione della paglia e dei cappelli di feltro, macinatura dei cereali, lavori a domicilio in campo tessile e calzaturiero, mentre nascevano le cartiere nel Pesciatino, le sigaraie a Ponte Buggianese, le prime industrie conserviere in cui le donne costituivano la manodopera più numerosa.


Fonti
AA. VV., Il lavoro delle donne. Attività femminili in Valdinievole tra Ottocento e Novecento, Istituto Storico Lucchese,”Storia e Storie al femminile”, Buggiano, Vannini, 2004 (si veda in particolare il saggio di Roberto Pinochi)
Claudia Massi (a cura di), All'opre femminili intenta. Immagini d'epoca del lavoro delle donne in Valdinievole, Istituto Storico Lucchese, “Storia e Storie al femminile”, Buggiano, Vannini, 2005

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Clementina (Tina) Merlin

(Trichiana BL -1926 - Belluno -1991)

Le sono state intitolate due strade, una a Padavena (prov. di Belluno) e una a Maniago (prov. di Pordenone); nel dicembre 2016, le è stato dedicato un piazzale a Bologna. Anche la Scuola Materna del Comune di Vajont porta il suo nome; alla sua memoria le sono stati dedicati il Circolo ARCI di Montereale Valcellina, il Campus Universitario di Feltre e il nuovo Centro Culturale di Quarto d’Altino. Nel 1992 è stata fondata L’Associazione Culturale Tina Merlin a Belluno.

Tina Merlin, una donna coraggiosa
di Paola Gardin

Tina Merlin, giornalista, scrittrice e partigiana, nasce a Trichiana il 26 agosto del 1926 figlia di Cesare, muratore ed emigrante, e di Rosa Dal Magro, contadina. È l’ultimogenita di una famiglia numerosa, la madre aveva già avuto due figli maschi, Clemente (“Mente”) e Jijo (forse diminutivo di Luigi) dal primo marito Benvenuto Tacca,  altri sei li ha col secondo: Ida, Giuseppe Benvenuto (Nuto) Remo, Antonio (Toni)  Giuseppina (Pina) e Clementina detta Tina.
La storia della sua vita, più che dalle biografie, si può “vivere” leggendo il suo libro, pubblicato postumo con l’aiuto e la prefazione di Mario Rigoni Stern,  La Casa sulla Marteniga, un racconto di memorie vibranti, a volte scarno e duro come le vicende raccontate, ma anche poetico, ironico; un inno alla vita, alla speranza contro ogni tragedia e difficoltà. Il racconto è un percorso che ci porta, con discrezione, nell’intimità di una famiglia povera: la mamma era stata una “cioda”, una bambina –serva a soli dieci anni, che poi, dopo un breve periodo di sposa felice col primo marito tanto amato, è costretta dalla famiglia (per cui una vedova con figli è solo un peso) a sposare un uomo più anziano  di lei di quindici anni, un uomo onesto ma severo e autoritario, dal quale riceve solo rimproveri e imposizioni.
I fratelli maschi, uno dopo l’altro, muoiono o per malattia (“Mente” fulminato da menengite tubercolare forse contagiato dal padre Benvenuto, morto di tubercolosi, e “Nuto” morto per la febbre spagnola e per  “pellagra” cioè malnutrizione ); per incidente ( Jijo, il primogenito, emigrante , muore annegato lasciando moglie e due figlie) o per la guerra ( Remo, disperso in Russia  e Toni, partigiano comandante del battaglione” Manera”, ucciso in combattimento).
Anche Tina partecipa con coraggio alla resistenza come staffetta; dopo la guerra sposa Aldo Sirena, anche lui partigiano, e ha un figlio che chiama Antonio come il fratello Toni. Pur non avendo potuto studiare (a soli dodici anni viene mandata a Milano “a servizio” al seguito della sorella  maggiore Ida) comincia la sua carriera di giornalista scrivendo per  L’Unità, attività che continua fino al 1982. Per alcuni anni, dal 1964 al 1970, è consigliera provinciale del PCI. È sempre partecipe alla vita politica e collabora con diverse riviste, scrive libri e saggi soprattutto sulla Resistenza e sul ruolo che in essa avuto dalle donne.
 Il ricordo di Tina Merlin è legato alla tragedia del Vajont, da lei intuita e denunciata prima di ogni altro. A impedire la costruzione della diga si dedica con coraggio e ostinazione, inascoltata e osteggiata in tutti i modi dalle istituzioni; contro l’onnipotente Società Adriatica di Elettricità (S.A.D.E.) affronta, sostenuta solo dagli abitanti di Erto e Casso, un  processo intentatole per “diffusione di notizie false e tendenziose” da cui è assolta dal Tribunale di Milano.
Ascoltando la voce degli ultimi, i montanari dei minuscoli paesi minacciati dalla costruzione della diga,  indaga e scrive articoli. La caparbietà con cui conduce le sue denunce è da ricercare nelle esperienze dell’infanzia e dell’adolescenza: impara presto cosa voglia dire nascere poveri, discriminati, soggetti al potere dei “padroni”. Nella sua giovane mente le ingiustizie e le prevaricazioni non diventano fonte di rassegnazione, ma di una lenta e progressiva presa di coscienza che la farà sempre stare con lealtà dalla parte degli offesi, degli emarginati proprio come, a soli diciassette anni, era stata dalla parte dei partigiani, dei “banditi” secondo fascisti e Tedeschi. Impara presto cosa vuol dire “servire” i padroni, lavorando sodo ma non sottomettendosi: questo la rende diversa da tutti quelli che considerano - e alla fine accettano -  ogni sventura  come un  destino ineluttabile, non come un’ingiustizia contro cui rivoltarsi, chiedendo e pretendendo ciò che spetta di diritto e viene loro negato con la forza o l’inganno.
Tina, anche dopo l’olocausto del Vajont, continua a interessarsi del disastro e scrive Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont. Il suo libro, che fa ancora paura e non trova un editore, viene pubblicato solo nel 1983 (Milano Ed. La Pietra). La giornalista sconta il fatto di essere una donna e una comunista e riceve solidarietà solo dalla gente comune, non certo dal mondo della carta stampata o da quello istituzionale. Si rifiuta di considerare il Vajont “una catastrofe naturale”, come per comodità fanno molti giornalisti, ritenendola “una catastrofe costruita”. Che la sua testimonianza faccia paura è evidenziato dal fatto che la messa in onda di una sua intervista, raccolta dalla Televisione Francese poco tempo dopo il disastro del 9 ottobre 1963, viene ostacolata dal Governo Italiano che la ritiene denigratoria (e favorevole alla propaganda comunista). Trasmessa un’ unica volta in Francia solamente grazie alla pressione della stampa, che ne denuncia la censura, viene poi fatta sparire. Recuperata decenni dopo è stata divulgata in Italia per La Storia siamo noi a cura di Giovanni Minoli.
Dopo lo spettacolo-denuncia di Marco Paolini Il racconto del Vajont, un monologo teatrale del 1993, trasmesso dalla Rai nel 1997 per il 34°anniversario della tragedia, il grande pubblico ha preso coscienza di quanto accaduto e anche la figura  di Tina Merlin è stata riscoperta.
Nel film di Martinelli del 2001 Vajont- La diga del disonore,  l’interpretazione di  Laura Morante ne rispetta la bellezza e la determinazione, tuttavia la fa apparire nervosa e aggressiva mentre Tina era forte e pacata, anche quando si trattava di andare “contro” ogni cosa ingiusta, persino contro le direttive del suo partito.
Tina è stata amata dalla gente di montagna, ha ricevuto la cittadinanza onoraria dei paesi di Erto e Casso. Ha rifiutato, invece, la medaglia che il Comune di Longarone ha conferito nel 1983 a tutti i giornalisti che hanno scritto del Vajont; questo perché NESSUN giornalista, tanto meno quelli famosi, aveva scritto la verità sulla tragedia denunciando i responsabili, preferendo parlare di “sciacallaggio comunista” riferendosi agli articoli della Merlin apparsi su L’Unità.
Tina Merlin è morta a Belluno, dopo un anno di malattia, il 22 dicembre del 1991.

 Opere
Menica, Pavia - Cortina, 1957
Avanguardia di classe e politica delle alleanze,  Roma, Editori Riuniti, 1969
Siamo tutti una famiglia. Cronache di lotta operaia nel paese della ceramica. Le Nove di Bassano aprile - luglio 1971, Vicenza, Odeonlibri, 1982
Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, Milano, La Pietra, 1983
La casa sulla Marteniga, Padova, Il Poligrafo, 1993
La rabbia e la speranza. La montagna, l’emigrazione, il Vajont, Sommacampagna, Cierre,2004

Fonti
Adriana Lotto, Quella del Vajont. Tina Merlin, una donna contro, Sommacampagna, Cierre. 2011
Anna Minazzato, Tina Merlin: una testimone del Novecento. Fra cronaca e emancipazione, Aracne Editrice, 2013

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Rosina Muzio Salvo

(Termini Imerese (Pa),1815- 1866)

Fin dagli anni '80 dell''800 a Palermo fu intestata una strada centrale alla memoria della poetessa e scrittrici Rosina Muzio Salvo che forse fu il primo toponimo femminile della città. Altri centri della provincia di Palermo, Alia e Misilmeri (quest'ultimo nel 2010) e Messina Galati Memertino le hanno intestate strade mentre un importante Istituto Superiore di Trapani è intestato a suo nome.

Una poetessa ribelle

di Ester Rizzo

Rosina Anna Francesca Illuminata Clementina nacque a Termini Imerese il 23 dicembre 1815 da Giuseppa Sciarrino e dal tenente colonnello Giuseppe Salvo. Rosina è stata, oltre che una poetessa, una donna attiva nel contesto storico della prima metà dell’Ottocento. Lottò per l’emancipazione della donna dalla soggezione e dall’ignoranza e lottò per eliminare la prostituzione.

Sin da piccola dimostrò di avere un carattere ribelle e insofferente alle imposizioni. Rimasta orfana di madre a soli dodici anni, fu affidata alle cure dei nonni paterni e fu proprio il nonno a insegnarle i primi versi che la ragazzina recitava dinanzi agli amici.
Quando fu mandata in un monastero termitano, la sua vivacità non le fece tollerare la rigida disciplina del convento: Rosina bisticciava spesso con le monache per le quali componeva versi satirici che, beffardamente, affiggeva nelle loro celle. Pur essendo credente mal sopportava quella religiosità alleata di ozio e clausura. Ben presto le monache non riuscirono più a domarla, il padre fu costretto a ritirarla dal convento e la portò a Messina dove fu affidata alle cure di Madame De Chateneuf, una gentildonna francese molto istruita.

A diciott’anni si sposò con il barone Gioacchino Muzio Ferreri, un marito che non ostacolò le sue letture un po’ sovversive né la sua vena poetica. Da questo matrimonio nacquero quattro figli, ma tre dei quali purtroppo morirono in tenera età.

Rosina frequentò i salotti palermitani e molti intellettuali legati agli ideali risorgimentali. Costituì una delle prime associazioni femminili siciliane, “La Legione delle Pie Sorelle”, che coordinava gruppi femminili dediti a opere di carità e all’istruzione delle donne del popolo che non potevano accedere agli studi.

Svolse una intensa attività di propaganda clandestina a favore dei patrioti mazziniani e più volte rischiò di essere arrestata. Diventò pure corrispondente della Ruota, un giornale letterario e scientifico.

Le sue prime raccolte di versi, pubblicate nel 1839 con tre titoli femminili, Bice, Francesca da Rimini e Iole, raccontano di sentimenti d’amore ma senza i “toni sdolcinati” tipici di quel periodo. In seguito pubblicò altre tre raccolte, Giovanni da Procida, Carlotta Carday e L’Esule, che invece affrontano le tematiche dell’amore per la patria e denotano la grande insofferenza dell’autrice verso ogni forma di tirannia.

Nel 1843 si separò dal marito e tornò con l’unica figlia sopravvissuta nella casa paterna dove, avendo ampia libertà d’azione, dimenticò le proprie sventure. A Termini conobbe Baldassarre Romano, dotto archeologo, che la spronò ad accostarsi al genere del racconto. Nei suoi versi sottolineò come “la donna sia migliore dell’uomo perché poco sedotta da ambizioni. Se le si ferisce il cuore diventa una iena ma avrà sempre un’indole meno ferina dell’uomo che bacia per tradire e agogna il potere per calpestare”.

Nel 1856 iniziò a collaborare al giornale genovese “La donna” dove, in un articolo identifica l’uomo con Satana che, celandosi sotto svariate e seducenti forme, non si stanca mai di insidiare le donne.

Firmò anche un articolo contro il ministro Giuseppe La Farina accusandolo palesemente di essere un incompetente. Lo scalpore che seguì costrinse Rosina a “lasciare il palcoscenico della politica agli uomini”.

Morì nel 1866 a soli cinquant’anni, riuscendo a salutare con gioia l’Italia una e libera che aveva a lungo agognato.

Fonti

Marinella Fiume (a cura di), Siciliane dizionario biografico, Emanuele Romeo Editore, 2006

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