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Elisa Agnini

(Finale Emilia, 1858 - Roma, 1922)

Elisa Agnini è stata una figura di rilievo nelle lotte per i diritti politici e civili delle donne italiane. Nel 2014 è stata avanzata al Comune di Roma la proposta di intitolarle un’area pubblica nel territorio della capitale.
 
Elisa Agnini Lollini e il movimento femminista ai primi del '900: diritti politici e diritti civili.
di Silvia Mori

Nel 1896 nasceva a Roma l’Associazione per la Donna ad opera di alcune giovani signore, tra cui Elisa Agnini. La storia di quegli anni si è recentemente ampliata ed arricchita dopo il ritrovamento delle carte di Elisa, a lungo nascoste in mezzo ai documenti del marito, l’avvocato e deputato socialista Vittorio Lollini.
Del lavoro svolto in vent’anni di attività dell’Associazione parla lei stessa in una lettera del 1919 indirizzata ad una giornalista francese in cui sottolinea che il contenuto del programma è “non seulement feministe mais aussi social”; fra i punti fondamentali da raggiungere quelli de “l’educazione popolare, l’inserimento delle donne nelle scuole miste, il divorzio, il suffragio femminile, la ricerca della paternità, la difesa dei minori, la protezione del lavoro delle donne e dei fanciulli”.
Era particolarmente odiosa la differenza di retribuzione tra  uomini e donne; gli slogan “A uguale lavoro uguale salario, a uguali titoli uguale carriera” si diffusero con sempre maggior frequenza soprattutto dopo il grande impegno delle donne durante gli anni della Prima guerra mondiale, quando dovettero sostituirsi agli uomini al fronte in molte attività, da cui fino ad allora erano state escluse, dimostrando di cavarsela egregiamente. Al ritorno dei reduci molte di loro, accusate di rubare il posto ai padri di famiglia e di concorrenza sleale per i bassi stipendi (quasi si fosse trattato di una loro scelta!), furono licenziate.
Attiva nel Comitato Pro Suffragio Femminile, in un intervento sull’ammissione degli uomini al Comitato e sul loro sostegno alla causa, Elisa Agnini affermò la necessità della collaborazione fra donne e uomini e che il “loro contributo di pensiero e d’azione […], appunto perchè diverso, è più completo e più efficace nei risultati. Indole disparate si integrano per legge di natura e formano un tutto armonico […] Per me in ogni manifestazione della vita, ci deve essere cooperazione tra i sessi, anche se l’idea per cui si combatte interessa apparentemente un sesso solo.
Quando nel 1910 il Comitato Pro Suffragio chiese al partito Socialista di pronunciarsi a favore del voto alle donne, Turati si oppose poichè temeva che col loro voto avrebbero rinforzato i partiti conservatori a causa “della loro pigra coscienza politica”.  Anche Bissolati affermavava che la proposta femminista aveva lo scopo di attribuire maggiori diritti alla donna solo “entro la cerchia delle forme di proprietà e di famiglia borghese”. In una lettera scritta e pubblicata sulle pagine de L’Avanti! nel 1908, Elisa difese accoratamente i suoi ideali: “Sappi caro Avanti! Che nel C.P.F. vi sono donne di ogni partito, tutte volonterose e pronte non solo ad associarsi a qualunque movimento di operai che dovesse sorgere, ma ad iniziarlo, se sarà loro possible, per mezzo della propaganda…. Io socialista, moglie di socialista e che ho il vanto di aver formato coscienze socialiste, pur diffidente in principio del buon risultato che si sarebbe ottenuto, sono contenta ora di prendervi parte, perchè ho avuto campo di convincermi che siamo, come primo inizio del movimento, sulla buona via.
Allo scoppio della prima Guerra mondiale Elisa, sempre attenta ai problemi delle donne, si rese conto che la lontananza degli uomini al fronte rendeva ancor più precaria la loro situazione giuridica ed economica. Decise allora di fondare un Comitato per l’assistenza legale per le famiglie dei richiamati, con l’appoggio morale e tecnico di suo marito, che le offrì un’utile consulenza giuridica. Coadiuvata da altre associazioni, leghe, cooperative, comuni e parlamentari democratici, si propose di agire presso il Governo per ottenere l’abolizione della autorizzazione maritale l’aumento e l’estensione del sussidio anche alle famiglie illegittime. Aprì anche un ufficio per espletare le pratiche per la legittimazione dei matrimoni e dei figli naturali. Dopo una dura lotta e i rifiuti dei ministri Salandra ed Orlando, finalmente trovò nell’On. Bissolati “…terreno assai favorevole”. Nella relazione finale del 30 dicembre 1918 Elisa poteva a buon diritto concludere con fierezza il lavoro svolto in quattro anni: “ …Per ciò che riguarda la concessione delle pensioni di Guerra alle famiglie irregolari possiamo dichiararci completamente soddisfatti… essa è stata estesa anche alla madre non coniugata del militare riconosciuto da essa come figlio naturale … Avremo quindi la soddisfazione d’aver portata la nostra pietra al nuovo edificio sociale basato sull’uguaglianza dei diritti dei due sessi.
La Guerra aveva messo in evidenza un grave problema che il perbenismo del tempo si sforzava di rimuovere: l’enorme numero di figli illegittimi, spesso abbandonati nei brefotrofi,  e la difficoltà di integrare, in una società classista, i cosiddetti “figli di nessuno”. La legislazione vigente proteggeva le famiglia legittime dai danni morali e soprattutto patrimoniali che avrebbe potuto arrecarle il riconoscimento di eventuali figli naturali. Ma durante la Guerra il fenomeno assunse dimensioni tali da colpire anche le coscienze più tiepide; la mortalità nei brefotrofi raggiunse punte del 93% (a Roma nel luglio1917 su 71 “esposti” ci furono 69 morti). Vi furono numerose richieste di una legge che permettesse la ricerca della paternità. In un articolo sul giornale socialista Uguaglianza  Elisa Agnini scriveva nel 1917: “Molti progetti sono stati presentati al Parlamento, ma nessuno, sia pure sotto veste borghese, andò in porto. Ora ve ne sono due: il progetto Meda ed il progetto Lollini. Il primo s’arresta alla soglia della famiglia, non ammette cioè la ricerca della paternità per il figlio adulterino. Il secondo […] non esclude nessun caso, estendendo la ricerca anche ai figli adulteri e ai figli incestuosi. Solo chi è socialista ed è perciò libero dai pregiudizi borghesi, vede la profondità dei mali sociali e può fare opera di vera e profonda rigenerazione.” La proposta di legge, che prevedeva sostanziali modifiche di diversi articoli del codice civile a favore dei soggetti più deboli, le donne ed i loro figli, fu però  respinta.
A 64 anni, nel 1922, Elisa morì. Poche settimane dopo ci fu la marcia su Roma. Con l’avvento del fascismo si inaugurò una politica sempre più restrittiva nei confronti delle donne, colpite soprattutto nei diritti civili. Scorrendo le carte colpiscono la modernità delle idee di Elisa e l’attualità degli argomenti affrontati;  per quasi cinquant’anni in Italia il movimento femminista è rimasto quasi paralizzato da un lungo sonno delle coscienze, solo parzialmente smosso dalla concessione del suffragio. Il nodo cruciale dei diritti civili, il divorzio, l’aborto, il controllo delle nascite, la parità nel lavoro e nei salari sarebbe stato seriamente affrontato solo a partire dagli anni ’70. E ancora non è stato compiuramente risolto.

Fonti:
Resoconti originali dell'Associazione per la Donna, annate 1914-5-8
Rapporto sul Congresso internazionale delle Donne, La Haye, 28 aprile 1915
Articoli apparsi su Il Cimento (1919), Bandiera Rossa (marzo 1921), L’Unita italiana (15 novembre1916), La Stampa (28 giugno1911)
 
 

 

Eleonora degli Albizzi

 

(Firenze, 1543 – 1634)

Non esistono intitolazioni in suo onore

Solo una concubina

di Barbara Belotti

La bellezza di Eleonora degli Albizzi era celebre nella Firenze della seconda metà del XVI secolo.
Fu forse questo a renderla desiderabile agli occhi di Cosimo I de’ Medici, vedovo ormai da qualche anno di Eleonora di Toledo e pronto a godersi una seconda esistenza amorosa; oppure a incantarlo furono il carattere gioioso e la giovane età della ragazza.
Figlia di Luigi degli Albizzi e di Nannina Soderini, Eleonora apparteneva a due casate celebri a Firenze, anche se la posizione economica del padre non era più molto solida. Probabilmente quando Cosimo notò la giovane donna, Eleonora si sentì lusingata dalle attenzioni del signore di Firenze, provò l’ebbrezza del potere, subì il fascino della corte medicea, rimase abbagliata dall’eleganza e dalla raffinatezza di quel mondo inaccessibile fino a poco tempo prima. Il padre Luigi non ostacolò le attenzioni di Cosimo, anzi pensò che quell’unione fosse una manna dal cielo per i suoi problemi finanziari, che la sua famiglia sarebbe tornata in auge e sarebbero terminate tutte le difficoltà. In fondo il duca era vedovo e nulla ostacolava il possibile matrimonio, certo non i 24 anni di differenza fra Cosimo ed Eleonora.
La loro relazione cominciò nel 1565, la giovane rimase presto incinta e nel 1566 nacque una figlia, morta ancora in fasce, di cui non si conosce il nome. Il duca Cosimo sentiva di vivere una seconda giovinezza e accolse quella neonata con entusiasmo e profondo affetto tanto da cominciare a pensare di rendere ufficiale la loro relazione sposando la giovane amante. Dopo la morte prematura della bambina, il duca colmò di attenzioni Eleonora organizzando per lei feste e battute di caccia con cui distrarla e farla tornare alla serenità. Pensò anche di garantirle un vitalizio perpetuo di 1000 scudi con cui metterla al riparo da eventuali difficoltà.
Su questa breve storia d’amore si addensarono però ben presto nubi molto fosche. Francesco de’ Medici, il figlio di Cosimo destinato a diventare il futuro granduca, mal digerì la notizia del possibile matrimonio e, come scrive Guglielmo Enrico Saltini nel suo Tragedie medicee 1557 -1587, “apertamente fece al duca rimprovero di queste sue debolezze”. Cosimo scoprì così che il suo segreto non era più tale e si convinse presto che il suo più fidato e stretto servitore, Sforza Almeni, aveva tradito le sue confidenze. La vendetta non si fece attendere e con lucida determinazione il duca lo affrontò e lo pugnalò in Palazzo Vecchio.
Nel 1567 Eleonora diede alla luce il secondo figlio, battezzato con il nome di Giovanni, mettendo ancora di più in agitazione la corte medicea, che vedeva nel nuovo nato un potenziale pericolo per l’assetto ereditario; fu Cosimo a imporre nuovamente la sua volontà riconoscendo il bambino e legalizzandone la nascita.
Ma per Eleonora fu solo un breve periodo di serenità, l’incapricciamento di Cosimo per lei stava già esaurendosi. L’amore paterno per il piccolo Giovanni non servì a consolidare l’unione e la giovane divenne un ostacolo per la libertà del duca mediceo, ormai solo una concubina di cui disfarsi. Forse, nella decisione di Cosimo di porre fine alla relazione con Eleonora, pesarono le rimostranze del papa contro questo legame irregolare e le minacce di non dare seguito alla tanto agognata nomina a granduca.
Svanita l’idea delle nozze, forse già infatuato di un’altra giovane donna, Camilla Martelli, il Signore di Firenze pianificò l’addio a Eleonora con un contratto matrimoniale che a lui garantisse la massima libertà. La donna fu costretta a sposare un nobile fiorentino, Carlo Piantacichi, sul cui capo pendeva una condanna a morte per omicidio. Le accuse gravissime furono fatte cadere e in cambio l’uomo accettò di convolare a nozze con Eleonora ricevendo anche una dote di 10000 scudi. Cosimo donò come risarcimento alla ex amante una cintura di rubini e perle con al centro uno zaffiro bianco. Dal nuovo matrimonio forzato nacquero 3 figli che non misero Eleonora a riparo da ulteriori dolori. Nel 1578 Carlo Piantacichi accusò la moglie di adulterio costringendola alla vita di clausura nel monastero di Fuligno a Firenze.
In base ai documenti conservati nell’Archive Medici Project, la vita di Eleonora continuò a essere afflitta da prepotenze e ingiustizie anche in convento. Nel 1616 Francesco Renzi, agente di Don Giovanni de’ Medici a Firenze, scrisse più volte al suo padrone lamentando il comportamento di Carlo Piantacichi e del figlio Bartolomeo. Scrive Renzi che Bartolomeo, “huomo oggi ozioso et in parte bisognioso ma non di pensiero” si presentò al convento obbligando la madre a pagare i suoi debiti. Triste il commento della povera donna ormai anziana che, sempre leggendo la lettera di Renzi, “non vol più sapere de fatti sua che quel poco che ha stare in questo mondo ci vuol vivere quieta”
; nel tempo furono intentate azioni contro la famiglia Panciatichi per il recupero della dote. È il figlio Giovanni de’ Medici ad aiutarla, a sostentarla e anche a denunciare i soprusi di cui è vittima. In una lettera a Maria Cristina di Lorena de’ Medici, sempre del 1616, Don Giovanni scrive “Mia madre […] è ridotta in età quasi decrepita a esser molestata et maltrattata da chi ella ha procurato levar del fango. [...] Saprà adunque V. A. S. che Bartolommeo Panciatichi, non huomo ma peggio che animale senza ragione, pretende da essa signora mille impertinenze, et dopo haverla infinite volte ingannata, con inganni vergognosissimi per ogni vilissimo plebeo aggiratore, la vuole hora, con donazioni surretizie, molestare, perchè ella non possi far del suo quel che gli piace”. Negli anni la situazione non migliorò se, il 19 ottobre 1620, Francesco Renzi scrisse a Don Giovanni ipotizzando che la madre fosse stata avvelenata: “Harivò poi il medicho di S. S. Ill.ma [Eleonora degli Albizzi] m.re Benedetto Mattonari, il quale la visitò et gli trovò una gran febbre con un polso alterato assai et domandò quello che gli era venuto; trovò che laveva vomitato et presa la febbre con il freddo. Io dubitai di veleno perchè uno male così alli in proviso mi parve cosa grande.[. . .]”.  
Visse a lungo Eleonora degli Albizzi, nonostante i dolori provati. Si spense a Firenze nel 1634 alla veneranda età di 91 anni.

Fonti:
Agostino Ademollo, Marietta de’ Ricci ovvero Firenze al tempo dell’assedio, Firenze, 1840, p. 992

Enrico Leo, Storia degli Stati italiani, Firenze, 1842, p. 410

Caroline P. Murphy, Isabella de’ Medici, Il Saggiatore, 2011, pp. 174-175

http://historion.net/tragedies-medici/eleanora-degli-albizzi

http://bia.medici.org/DocSources/Home.do  

 



Evangelina Alciati

(Torino 1883 - 1959)

Nessun ricordo della pittrice torinese nella toponomastica locale, nonostante in vita fosse stata nella sua città figura nota e artista di successo.
 
Evangelina, una vocazione d'artista
di Livia Capasso

Evangelina  Gemma Alciati nacque a Torino il 21 agosto 1883, e a Torino morì il 2 gennaio 1959. Sua madre, Caterina Silvia Aschieri, era di nobile famiglia; suo padre, Francesco, ingegnere, la lasciò orfana che era ancora bambina, costringendo la madre al lavoro di affitta-camere per tirar su le due figlie nate dal matrimonio. Dopo i primi studi per diventare maestra alla scuola femminile “Domenico Berti”, Evangelina avvertì la sua inclinazione artistica e si iscrisse all'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, dove conseguì il diploma di insegnante di disegno e pittura e fu alunna di Giacomo Grosso, pittore allora di grande successo, oggi accusato dalla critica di accademismo e virtuosismo. All'Albertina conobbe il suo futuro compagno, pittore anche lui, Anacleto Boccalatte, che non sposò mai, e dalla loro unione nacque, nel 1907, l’unico figlio della coppia.
Aveva un carattere vivace, spregiudicato e ardito, come ricorda la scrittrice Carola Prosperi, sua compagna di scuola, che testimonia anche la sua determinazione: Evangelina voleva fare l’artista e con fermezza e coraggio seguì la sua vena.  Il piglio autoritario, l’anticonformismo, la portava a volte a scatti d’ira, ma era animata da una fondamentale bontà e generosità verso il prossimo. Amava leggere libri, di cui poi discuteva con giudizio critico; amava la natura, il paesaggio collinare di Torino, il Po.
Decisivo per la sua carriera artistica fu il soggiorno a Parigi, dove Evangelina dimorò dal 1903 al 1906. Ritornata in Italia, espose per la prima volta nella sua città, nel 1908, ospite della Promotrice torinese, riscuotendo successo col suo dipinto Maternità, acquistato poi dal re per la somma di lire 700. Da allora in poi fu costante la sua presenza a tutte le mostre della Promotrice. Insieme a Emma Ciardi, nel 1912, partecipò alla Decima Esposizione Internazionale di Venezia, dove ambedue furono molto apprezzate; nel 1913, alla Seconda Esposizione Internazionale Femminile di Belle arti, promossa dalla rivista «La Donna» sotto il patronato della Regina Elena, ottenne una mostra individuale ove espose quindici opere, tra cui Ritratto di Bimba. Ancora, nel 1923 e nel 1927 partecipò alla Quadriennale di Torino, e nel 1926 alla mostra “Vedute di Torino”. Espose anche a Roma: nel 1914 alla prima mostra della Probitas, presso il Palazzo delle Belle Arti, nel 1919 presso la Società degli Amatori e Cultori di Belle Arti, e nel 1923 alla Seconda Biennale Romana. Cominciò poi a interessarsi ai soggetti floreali, che saranno sempre più frequenti nei suoi dipinti, anche se non abbandonò mai il genere del ritratto, a cui si dedicò per ritrarre personaggi illustri, ma anche familiari.
Nel 1938 subì un grave lutto familiare: il figlio Gabriele, maestro di pianoforte ed esperto rocciatore, morì in un incidente alpinistico a Courmayeur, lasciando vedova la moglie e orfano il figlio di un anno. La mamma lo ritrasse morto, sul retro di un altro dipinto, Contadine che panificano.
Espose anche a Buenos Aires, Rio de Janeiro e Montevideo.
Andò poi diradando la sua presenza a eventi pubblici; la sua ultima esposizione fu nel 1953 alla Galleria Fogliato, di Torino.
Le sue ceneri riposano nel piccolo cimitero di Courmayeur accanto alla tomba del figlio.
Caduta nell’oblio, nel 1992 le è stata dedicata una retrospettiva a Torino, accompagnata da un fascicolo, curato da Francesco De Caria e Donatella Taverna, ricco di precisazioni biografiche e corrispondenza inedita.
Così la ricorda la nipote, Anna Maria Fracchia, figlia di Leonardo, suo nipote prediletto e figlio della sorella Maria, che aveva un po’ sostituito nel suo cuore il figlio perduto: Era l'anno 1953. Avevo 16 anni: ricordo che sedevo intimidita nel luminoso studio dal soffitto a vetri della prozia Evangelina Alciati in via S. Giulia a Torino. Ero sua ospite per un breve periodo, giusto il tempo per farmi il ritratto. Venivo da Milano dove abitavo con i miei genitori. L'Alciati aveva allora 70 anni ma non li dimostrava: senza rughe, un incarnato fine color porcellana, i capelli lisci castani divisi da una scriminatura e raccolti in un piccolo chignon, gli occhi scurissimi e penetranti che quando ti guardavano sembrava che ti volessero carpire l'anima ……….  Aveva deciso di farmi il ritratto a mezza figura, un pastello, ed aveva voluto che indossassi un abito bianco di pizzo sangallo che, come diceva lei, era adatto ad una adolescente. Ero molto alta per la mia età, la zia mi guardava da sotto in su e diceva "sei alta come la Mole Antonelliana" ma poi aggiungeva "sei bella come una fata"……. Mentre maneggiava con perizia i gessetti dei pastelli, mi parlava della sua giovinezza, del suo desiderio fin da giovanissima di fare la pittrice, dei suoi primi anni di scuola, della perdita prematura del padre Francesco, che quasi non conobbe, dei sacrifici che sua madre Silvia dovette affrontare per farla studiare, e per tirare grande anche l'altra figlia Maria. Mi raccontò che quando vide per la prima volta Boccalatte, si innamorò perdutamente perché aveva colto in lui una rassomiglianza straordinaria con il musicista Beethoven della cui musica era profondamente appassionata. Un giorno le chiesi di parlarmi delle sue origini nobili. Mi rispose stizzita che lei quelle stupidaggini non le voleva proprio sentire, per lei il titolo nobiliare non aveva alcuna importanza e aggiungeva che la nobiltà alberga nell'animo e nel cuore anche della più umile delle creature …… Nei suoi ricordi non poteva mancare di raccontare la prima volta che incontrò Giacomo Grosso, celebre pittore all'Accademia Albertina. Aveva lasciato gli studi magistrali per dedicarsi alla pittura e doveva iscriversi al corso del Grosso, allora insegnante all'Accademia. Quando Grosso la vide aggrottò le sopracciglia e le disse: "Ma cosa fa qui lei, non sa che le donne devono stare a casa a fare la calza? Non voglio donne nel mio corso”. Lei non si scompose, aprì la grossa cartella con i suoi dipinti e disegni e gliela mostrò. Grosso cambiò espressione e mormorò: "Accidenti ma questa ha la mano di un uomo". L'accettò nel suo corso, unica allieva donna, ed aggiunse: "Lei dovrà lavorare il doppio dei suoi colleghi maschi!".
La sua arte, sulla base delle esperienze artistiche fatte a Parigi, approdò a uno stile assolutamente personale. Nei ritratti, a olio e a pastello, l’Alciati si rivela capace di sapiente indagine introspettiva: le figure, rese con campiture di colore e pochi dettagli, mostrano negli sguardi intensi grande espressività; anche i paesaggi e le nature morte sono resi a piccoli tocchi di colore, secondo la tecnica divisionista.
I ritratti, eseguiti in uno stile robusto, come scrisse Enrica Grasso in «La Donna» del 20 luglio 1912: “sono forse un po’ tristi …. ma non hanno nulla d'incerto ….con quei volti e con quegli abiti così volutamente lontani dalle frivolezze della moda: una bimba senza riccioli, senza nastri, con un'ampia veste di raso pesante; due dame, di cui una seduta in compostezza grave, quasi monacale …..  l'altra ritta, con un gesto più civettuolo, anch'essa lontana dalla consueta mondanità femminile, con grazie personali meglio che acquistate dal sarto più in voga, o prese a prestito alla posa delle dive teatrali”.
Una ricca galleria di immagini delle sue opere si trova all’indirizzo:
http://www.letteraturaalfemminile.it/evangelinagemmaalciati.htm

Fonti
Anna Maria Fracchia, Evangelina Alciati (1883-1959): chiara profonda intelligente pittura" , Canelli, Fabiano, 2007, p. 302
Evangelina Alciati nelle raccolte pubbliche e private: Circolo degli artisti, Palazzo Granieri, Torino", ed. Teca, Torino, 1960
Appunti su Evangelina Alciati, ( a cura di Francesco De Caria e Donatella  Taverna), mostra della Famija Turineisa, 1992  
http://www.artericerca.com/artisti_italiani_ottocento/a/alciati%20evangelina/evangelina%20alciati%20biografia.htm
http://www.letteraturaalfemminile.it/evangelinagemmaalciatibiografia.htm
 


Sorelle Avegno

A Genova, in una di quelle zone dove l’architettura misurata, la rigogliosa vegetazione mediterranea e il profumo del mare, non lontano, fanno pensare di essere sempre in vacanza, c’è una piccola strada che la toponomastica locale ha voluto dedicare alle sorelle Caterina e Maria Avegno. Purtroppo non è stato possibile rilevare nessuna targa stradale a testimonianza di questa intitolazione.
 
Caterina e Maria: eroine per caso e per scelta
di Paola Bortolani
 
Chi erano, queste due donne che meritano il ricordo perenne della loro esistenza? Per capirlo, dobbiamo tornare al lontano 1853, anno in cui la Russia dichiarò guerra alla Turchia, con l’intento di assicurarsi uno sbocco sul Mediterraneo, e Francia e Inghilterra, di risposta, decisero di appoggiare l’Impero Ottomano per contrastare le mire espansionistiche dello zar Nicola I.
Ne seppe approfittare Camillo Benso Conte di Cavour, primo Ministro del Regno di Sardegna, che ritenne conveniente offrire un sostegno alla Francia al fine di assicurarsi un futuro alleato.
Spostiamoci ora al 23 aprile del 1855, nel porto di Genova: Cavour e Rattazzi assistono alla partenza dell’esercito piemontese imbarcato sul bastimento inglese Croesus, diretto in Turchia. Oltre ai soldati, sul Croesus ci sono medici, infermieri, attrezzature, muli e cavalli, medicinali, viveri, munizioni, combustibile.
La nave salpa l’ancora, le condizioni del mare sono buone, con un bel vento teso di tramontana che gonfia le vele del piroscafo. Passato Camogli, però, dal Croesus si alza un grido: “Fuoco a bordo”. Il comandante impartisce gli ordini necessari per cercare di domare le fiamme, ma è inutile, meglio fermarsi dove possibile. Il bastimento si rifugia nella piccola baia di San Fruttuoso di Capodimonte, ed è così grande da occuparla tutta. L’incendio intanto continua violentissimo, i soldati sono terrorizzati: quasi nessuno sa nuotare, molti di loro non hanno mai visto il mare.
Davanti a questa tragedia Caterina e Maria Avegno non hanno un attimo di esitazione: saltano su un piccolo gozzo e si lanciano in soccorso dei naufraghi. A poco a poco ne portano in salvo moltissimi. Grazie al loro intervento, ci saranno solo ventiquattro vittime.
Ma troppe mani voglio afferrarsi alla salvezza, e dopo alcuni viaggi il gozzo si rovescia. Le sorelle Avegno sono ottime nuotatrici, e continuano a offrire il loro sostegno ai naufraghi, ma infine Maria è travolta dalla stanchezza, e annega. Lascia otto figli piccolissimi. Caterina si salva a stento, e morirà poco tempo dopo a causa dell’estenuante fatica sopportata.
La baia di San Fruttuoso è oggi un luogo incantato, raggiungibile solo a piedi, attraverso il Monte di Portofino, o via mare. Grazie alla presenza di una sorgente di acqua dolce, è sempre stato abitato da povere famiglie che si sostenevano con i prodotti della pesca. La scomparsa di Maria Avegno colpì profondamente le Autorità locali, che conferirono alla sua memoria onorificenze e una rendita per gli orfani.
Nel giugno 1855 Maria Avegno divenne la prima donna italiana a ricevere la Medaglia d’Oro al Valore Civile, mentre la Regina Vittoria volle insignire Maria della prestigiosa Victoria Cross, la più alta onorificenza inglese.
Su disposizione dei Principi Doria Pamphilj le sorelle Avegno sono sepolte nella cripta dell’Abbazia di San Fruttuoso, un privilegio unico per gli abitanti del borgo.
Troviamo il nome di Maria Avegno anche nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi: esiste una nota scritta al Ministro degli Interni del regno di Sardegna da monsieur Cormenin, fondatore di un’associazione che ha lo scopo di celebrare una messa quotidiana, in una cappella della Cattedrale, in suffragio di tutti coloro che sono morti per salvare la vita del prossimo.
 
Fonti:
Storie di navi e relitti del promontorio di Portofino, a cura del FAI Fondo Ambiente Italiano, mostra allestita presso l’Abbazia di San Fruttoso di Camogli, dal 16 aprile al 16 ottobre 2011.
www.agenzia bozzo.it – archivio Camogli antica.

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