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Dal mese di settembre 2013 Toponomastica Femminile è stata invitata a collaborare ad una nuova rivista on line. Il primo articolo della rivista Sardegna Soprattutto ha visto la luce il 27 settembre e dal 5 ottobre sono iniziate le pubblicazioni firmate dalle nostre autrici. La partecipazione alla rivista può considerarsi l’ideale continuazione della precedente esperienza con Sardegna Democratica, conclusasi nella primavera scorsa. Sardegna Soprattutto si occupa di tutte le tematiche che riguardino la Sardegna: cronaca, letteratura, geografia, linguistica, biografie, politica e, grazie alla nostra collaborazione, anche di toponomastica.
 
 

Toponomastica femminile: “Donne e lavoro”

  di Agnese Onnis, 14 giugno 2015

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Negli spazi espositivi del Museo della Centrale Elettrica Montemartini a Roma il giorno 29 maggio 2015 si è inaugurata la mostra Toponomastica femminile: donne e Lavoro, una mostra nata per essere itinerante e in perenne ampliamento. Le ricercatrici dell’Associazione Toponomastica femminile, presenti e attive nel territorio nazionale, hanno fatto pervenire dalle varie regioni il materiale documentario. L’esito prodotto è un racconto storico sul lavoro sociale delle Donne, una vera rassegna corale che spazia dal Nord al Sud, allestita su 72 pannelli corredati da fotografie e testi. L’allestimento espositivo è stato curato dalle organizzatrici romane: la presidente Maria Pia Ercolini, la storica dell’arte Livia Capasso, la fotografa Rosangela Petillo, l’archeologa Astrid D’Eredità, la sociologa Milena Gammaitoni.

“Donne e Lavoro” vuole sollecitare una riflessione sull’impegno lavorativo delle donne costantemente presente e in continua evoluzione e sulla contemporanea invisibilità del loro operato. L’assenza di tracce e riconoscimenti femminili sul territorio porta a riproporre stereotipi di genere largamente superati dalla reale dinamica sociale, che vede da tempo le donne protagoniste della vita professionale e pubblica. Attraverso inclusioni ed esclusioni dalla memoria collettiva, anche le targhe stradali – via delle maestre,via delle cernitrici, via delle filatrici - sono in grado di far riemergere storie rimosse e contribuiscono ad aprire gli orizzonti a nuove generazioni alla ricerca di una propria identità. Portando alla luce il vissuto e l’agito delle donne si combattono quindi stereotipi e violenze.

Operaie, imprenditrici, artigiane, lavoratrici diverse in luoghi differenti. Un grande lavoro di ricerca sul lavoro delle donne è documentato dai repertori delle immagini di archivio. Collegate dal filo conduttore delle pari opportunità, sono esposte immagini storiche, foto attuali e targhe stradali di donne che da sempre agiscono nell’ombra e in piena luce, davanti ad una metà del mondo che non ha occhi per notarle.

I pannelli raccontano sia i lavori tradizionali delle donne, legati alla vita di tutti i giorni, sia i mestieri ormai scomparsi e le professioni intellettuali: scienziate, educatrici e maestre, scrittrici e poete, ma anche ricamatrici, venditrici di fiori, tessitrici, modiste e merlettaie, balie e donne del mare, gelsominaie e portatrici di ardesia, cernitrici, setaiole, lavandaie, sigaraie e tabacchine. Alcuni pannelli riconducono alle professioni un tempo ritenute ‘maschili’: poliziotte e vigili, magistrate, astrofisiche e astronaute, dirigenti di fabbrica; altri a professioni, come quelle delle compositrici e delle pittrici, che pur condivise da tempo raramente appaiono nei manuali.

L’arte, sempre presente nel lavoro femminile, viene documentata da un pannello su cui domina l’arazzo VIA MARIA LAI: voluto dal gruppo di Toponomastica femminile e tessuto nel laboratorio di Ulassai è davvero un sentito omaggio all’artista scomparsa. Portiamo la mostra nella nostra isola!

 

 

 

Toponomastica femminile

  di Agnese Onnis, 8 settembre 2014

Convegno, Torino 3-4-5 Ottobre 2014 “Strade maestre: un cammino di Parità “. Strade maestre: un cammino di parità è il titolo del Terzo Convegno Nazionale di Toponomastica Femminile che quest’anno si terrà dal 3 al 5 di Ottobre a Torino, nella Sala Polivalente di via Leoncavallo.  Le tre giornate di attività del suo meeting “Strade maestre:un cammino di Parità” propone tavole rotonde e seminari, spazi e tempi di un ricco programma articolato su diverse tematiche che vedono protagoniste le donne.
Nella prima giornata verrà dato ampio spazio alla Sintesi delle Attività del Gruppo di Toponomastica Femminile così pure a Sguardi di genere verso la Scuola , sono previsti Laboratori Didattici su percorsi culturali e museali torinesi insieme alle Visite Guidate e le passeggiate di Genere in città al Quadrilatero, alla Villa della Regina e alla ex Manifattura Tabacchi. Seguiranno nelle altre due giornate diversi approfondimenti delle toponomaste provenienti dalle varie zone d’Italia su temi e argomenti con riferimento a Spazi,Tempi e Linguaggi urbani, Oltre Confine, La Rete per la parità, Omaggio a Torino con personaggi e culture di genere femminile, fino a Tracce femminili in città “Dalla Sardegna all’Italia: giudicesse, patriote risorgimentali, regine, donne di potere e di corte, tra storia e arte” . Le strade si raccontano attraverso le intitolazioni, le targhe nelle strade possono ritenersi fonti storiche..
Le intitolazioni del territorio sardo, ad esempio, sono di tipo celebrativo: numerosi i protagonisti uomini ed eroi della storia nazionale anche se in numero ridotto i personaggi della storia locale dei sardi, ma soprattutto poche le presenze delle donne. Fa eccezione nella città di Cagliari una singolare presenza di targhe delle vie intestate ai Giudicati: Giudici e Giudicesse del sardo medioevo condividono la loro intitolazione nello spazio urbano del quartiere Fonsarda della città.
La giudicessa Eleonora d’Arborea mantiene il primato sardo di intitolazione di genere nelle strade e piazze insieme all’altra donna sarda, la scrittrice Grazia Deledda premio Nobel per la letteratura. Nella memoria storica dei sardi Eleonora ‘jughissa de Arbaree’ è ampiamente nota e nella Toponomastica le viene senza dubbio riconosciuto il primato nelle intitolazioni di strade al femminile.
Nel lavoro di ricerca per Toponomastica Femminile si parlerà delle donne nei Giudicati sardi le‘giudichesse’, un viaggio a ritroso nella Sardegna giudicale per meditare sulle donne nel sardo medioevo, con le giudicesse al comando e al potere senza la tutela di un marito, di un padre o di un figlio, Giudicesse reggenti o ‘portatrici di titolo’’, prerogative di governo nei regni giudicali del medioevo sardo, ciascuna giudicessa con la sua storia pubblica e privata è protagonista nel contesto storico del suo territorio.
Nell’isola di Sardegna Eleonora d’Arborea’juighissa de Arbaree’, considerata la giudicessa per eccellenza, è la legislatrice che promulga la Carta de Logu, il codice di leggi del Giudicato di Arborea, nel quale si intravvede una modernità di norme rispetto ai rigidi canoni medievali riservata al mondo della famiglia, il diritto di famiglia: l’istituto del matrimonio, la comunione dei beni tra i coniugi; la tutela della donna, lo stupro, il matrimonio riparatore… Originalità di presenza femminile da considerarsi certamente un unicum negli avvenimenti storici che vedono le donne protagoniste.
Senza dubbio le targhe e intitolazioni delle strade quali fonti storiche sono documenti da interrogare, utili a ricostruire identità di donne troppo spesso ignorate dalla Storia.

 

 

 

 

 

 

Grazia Deledda: la sarda che conquistò l'Europa

  di Dino Manca, 30 maggio 2014

Toponomastica Femminile. Il 23 giugno prossimo il complesso monumentale del vecchio ospedale, restaurato con i fondi del Ministero per i beni e le attività culturali, ospiterà la nuova sede della Biblioteca Universitaria di Sassari. Un patrimonio inestimabile di 300.000 volumi (incunaboli, cinquecentine, edizioni del XVII, XVIII, XIX secolo), di centinaia di manoscritti (tra i quali il Condaghe di San Pietro di Silki, L’edera e Il ritorno del figlio di Grazia Deledda), di migliaia di periodici, di preziose carte geografiche, verrà dunque trasferito, dopo più di quattrocento anni, dall’ex Palazzo dello Studio Generale, oggi sede di rappresentanza dell’Università, a piazza Fiume.
Sarà un passaggio storico, importante non solo per la città ma per l’intera regione. Ma dovrà essere altresì un’occasione di riflessione sul ruolo e la funzione della biblioteca in un mondo che cambia vorticosamente. Per questo motivo è stata promossa una petizione, che in una settimana ha raccolto quasi 800 firme, indirizzata al ministro dei beni Culturali Dario Franceschini con lo scopo di chiedere l’intitolazione della Biblioteca Universitaria di Sassari al premio Nobel Grazia Deledda.
Le ragioni sono tante e stanno tutte nelle vicende biografiche e letterarie, intellettuali e umane della «piccola donna di provincia» che conquistò l’Europa. La scrittrice inizia, infatti, il suo variegato e duraturo percorso di formazione a Nuoro, piccolo borgo dell’ex Regno di Sardegna, in una temperie culturale e morale che è quella propria del «villaggio», di un microcosmo non urbano, antropologicamente connotato, con propria lingua, propri saperi, propri sistemi valoriali, propri reticoli di esclusione e inclusione, proprie leggi e consuetudini difficilmente traducibili attraverso codici e sistemi segnici d’inappartenenza; una civiltà agro-pastorale le cui pulsioni primordiali e i cui miti, tipi e archetipi diventano da subito per lei fonte di ispirazione e oggetto inesauribile di scrittura.
Gli anni romani, durante i quali ricerca, trovandoli, input e sollecitazioni molteplici, sperimentando soluzioni estetiche differenti e aggiornando modalità espressive e linguaggi, indiscutibilmente segnano un punto di svolta nella sua maturazione artistica e antropologica. Entra in contatto con i cenacoli di intellettuali e artisti più famosi e stimolanti della capitale. Alla sua formazione etica ed estetica, spirituale, intellettuale e umana, concorrono, dunque, da un lato la solida cultura delle origini (agro-pastorale, orale, sardofona), dall’altro la cultura italiana (urbana, scritta). Queste due componenti prepareranno il terreno, non senza interferenze e contraddizioni, per le opere più mature.
L’opera della Deledda riveste una grande importanza in quel particolare contesto storico e culturale d’inizio secolo, per la sua capacità di liberare nel lettore, attraverso la nostalgia del primitivo, un bisogno di autenticità, il sogno di «un paese innocente». La coscienza del peccato e dell’errore che si accompagna al tormento della colpa, alla necessità dell’espiazione e del castigo, la pulsione primordiale e incontrollata delle passioni e l’imponderabile portata dei suoi effetti, l’ineluttabilità dell’ingiustizia e la fatalità del suo contrario, le manifestazioni dell’amore e dell’odio, visceralmente e autenticamente vissute, segnano l’exsistens di una umanità primitiva, malfatata e dolente, «gettata» in un mondo unico, incontaminato, di ancestrale e paradisiaca bellezza, spazio dell’esistenza assoluta.
Le figure deleddiane vivono sino in fondo, senza sconti, la loro incarnazione in personaggi da tragedia. L’unica ricompensa del dolore, immedicabile, è, per dirla con Eschilo, la sua trasformazione in vissuto, l’esperienza fatta degli uomini in una vita senza pace e senza conforto. Solo chi accetta il limite dell’esistere e conosce la grazia di Dio non teme il proprio destino. Portando alla luce l’errore e la colpa, la scrittrice sembra costringere il lettore a prendere coscienza dell’esistenza del male e nel contempo a fare i conti col proprio profondo, nel quale certi impulsi, anche se repressi, sono sempre presenti.
Ma questo processo di immedesimazione non conosce «catarsi», nessun liberatorio distacco dalle passioni rappresentate, perché la vicenda tragica in realtà non si scioglie e gli eventi non celano alcuna spiegazione razionale, in una vita che è altresì mistero. Resta la pietas, intesa come partecipazione compassionevole verso tutto ciò che è mortale, come comprensione delle fragilità e delle debolezze umane, come sentimento misericordioso che induce comunque al perdono e alla riabilitazione di una comunità di peccatori con un proprio destino «sulle spalle». Anche questo avvertito senso del limite e questo sentimento di pietà cristiana rendono la Deledda una grande donna prima ancora che una grande scrittrice.
Dessì ha scritto che i due più grandi uomini che ha avuto la Sardegna sono state due donne: Eleonora d’Arborea e Grazia Deledda. Con la Deledda l’Isola entra a far parte dell’immaginario europeo. Il libro è lo strumento che le permette di oltrepassare la «finestra-limine» per proiettarsi nel mondo e con lei la terra-madre ritorna a essere centro e non più periferia, luogo mitico e archetipo di tutti i luoghi: «I libri e i giornali sono i miei amici e guai a me senza di loro».
Per lei, prima donna nella storia d’Italia a vincere il premio Nobel (1926) e prima donna a essere candidata alle elezioni politiche (1909) quando alle donne non era stato ancora riconosciuto il diritto di voto, la scrittura diviene occasione straordinaria di riscatto e di libertà: «Se vostro figlio vuole fare lo scrittore o il poeta sconsigliatelo fermamente. Se continua minacciatelo di diseredarlo. Oltre queste prove, se resiste, cominciate a ringraziare Dio di avervi dato un figlio ispirato, diverso dagli altri». Un vero esempio per tantissimi giovani.
*Promotore dell’iniziativa- Commissione lingua e cultura sarda- Università di Sassari
 P.S. Petizione online su change.org: proposta di intitolazione della Biblioteca Universitaria di Sassari al premio Nobel Grazia Deledda:
 

 

 

 

Maria Piera Mossa. Intervista a sua figlia Martina

  di Agnese Onnis, 21 marzo 2014

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Toponomastica femminile. Il Comune di Cagliari, su proposta della Commissione di Parità per l’iniziativa “8 marzo tre donne tre strade” di Toponomastica Femminile, con delibera del dicembre 2013 ha intitolato la terza nuova strada di Giorgino alla regista cagliaritana Maria Piera Mossa, scomparsa prematuramente nel 2002.
Maria Piera Mossa, la prima donna regista in Sardegna negli anni Settanta, intraprende la sua attività di ricerca collaborando alla Cineteca Sarda-Società Umanitaria, per affermarsi dal 1976 nel suo ruolo di programmista e regista negli studi della RAI-Sardegna. In questa sede ha dato impulso a diverse attività di promozione e di progettazione culturale fra cui si ricordano, in collaborazione con Jacopo Onnis, “Visti da fuori’”, “Grazia quasi Cosima”, i quadri biografici e i profili di artisti e di intellettuali sardi.
Maria Piera svolge la sua attività di regista fino al 2002, malgrado la sua malattia: ce lo rivela sua figlia Martina che, a distanza di dodici anni dalla morte, accetta volentieri di parlare di sua madre, permettendo di aprire una breccia nei ricordi e nelle emozioni di figlia, allora trentenne, e cercando di tracciare un profilo della donna Maria Piera.
” Mia madre, una donna forte e coraggiosa anche nella fase più difficile della malattia, è stata capace di affrontare la terapia delle sette del mattino per proiettarsi subito dopo nel lavoro; mi ha incoraggiata nei percorsi  di studio e nelle scelte del mio futuro, è stata la mia guida libera e laica e, attraverso la sua disponibilità, mi ha sempre permesso di affrontare l’indipendenza e ogni scelta che ho fatto.”
Giovanissima, Piera si laurea in filosofia e vive intensamente gli anni della Cineteca sarda fino a metà degli anni Settanta; prima di entrare in RAI si specializza a Roma e “in quel suo periodo romano,  seppur lontana da casa, il nostro freezer è stato sempre pieno di cibo rigorosamente genuino,  cucinato da lei, una riserva affettuosa quasi a definire la sua volontà  di estensione di madre”.
Di notevole importanza la realizzazione televisiva a puntate di “La Sardegna nella Storia”, su progetto dello storico Francesco Cesare Casula. Il tema riguardava la storia della Sardegna dall’evo antico-periodo prenuragico ad oggi: l’età prenuragica e nuragica, quelle fenicia, romana e bizantina; i Giudicati e l’Arborea; la Sardegna aragonese e spagnola e quella dei Savoia fino allo Statuto speciale. Il suo intento didattico e informativo viene arricchito – per scelta di regia – dalle riprese aeree.
Lei, che neppure guidava l’automobile, ha eseguito insieme ai suoi collaboratori le riprese del territorio dell’isola da terra e dall’alto, perfino in elicottero, per mostrare le belle immagini delterritorio sardo”; senza alcun dubbio è stato il primo grande lavoro televisivo sulla storia della Sardegna, diretto anche a sottolineare i paesaggi attuali antropizzati e le forme degli insediamenti.
Nei racconti sua figlia sottolinea la volontà e la coerenza di madre coniugata e di intellettuale delle arti visive, proiettata naturalmente in un mondo ‘fuori’dalla famiglia. “Anche se occupata da impegni diversi, mamma ogni giorno ha trovato comunque il tempo per tutte le cose, riservandone una parte  alla cucina, che non ha delegato ad altri, amando riunirci tutti a cena; un rito ritenuto importante, pieno di quell’affetto dimostrato anche attraverso il cibo, al quale ha sempre dato grande importanza. Una persona accogliente e ospitale, la nostra casa è stata aperta agli amici, sempre.”
Sul filo della memoria, Martina riporta anche le iniziative di cineteca organizzate dalla madre come programmista e regista, i progetti e le ricostruzioni d’archivio per Rai-Sardegna da lei curati con notevole sensibilità d’autore, capace di comunicare agli spettatori le proprie emozioni. Soprattutto in un filmato storico come il“ Il 43 con Sant’Efisio”, toccante documento che mostra la città di Cagliari ferita dalla guerra nel febbraio del 1943, ha recuperato e montato le immagini della città bombardata riprese da un cineamatore. Un filmato ricco di emozioni da cui si desumono la professionalità e la profonda intesa tra regia e montaggio che Maria Piera ha saputo operare nel suo lavoro descrittivo.
 “Lei è riuscita, malgrado trascorresse fuori casa giornate intere per il suo lavoro, a curare e a mantenere con me un filo diretto , anche di sostegno, manifestato nelle nostre discussioni. Grande lettrice e profonda studiosa, sempre molto impegnata nella sua attività di analisi e di documentazione per le diverse zone dell’isola; ho fatto tesoro dei suoi pareri e consigli anche per la mia tesi di laurea.
Maria Piera come regista ha condiviso alcune parti di attività insieme ad altri, per RAI-Sardegna  ha curato interviste a intellettuali e artisti, come quella radiofonica all’artista Maria Lai, basata sulla reciproca ammirazione e su una solida intesa.
Mia madre, ha sempre intessuto profonde amicizie, sempre così forte e combattiva. Credo di averla vista soffrire davvero per la scomparsa di un suo grande amico, Chicco Mura, tanto da farmi pensare che quel dolore per la scomparsa abbia minato e influito sul suo sistema immunitario. Tuttavia non ha mai perso il coraggio dimostrando forza e determinazione nella lotta contro la sua malattia: è stata lei a confortare me…”.
Maria Piera Mossa, sempre presente sul fronte sociale, ha dedicato alcune serie di trasmissioni al mondo del lavoro, in particolare quello femminile. Sempre attenta alle tematiche di denuncia, spicca tra i suoi documenti televisivi per la serie quindicinale Città-Regione, un suo importante filmato sulla protesta della comunità di Bitti in Barbagia, realizzato attraverso le voci e le testimonianze delle operaie tessili della fabbrica Beatex.  “Bitti: una fabbrica inventata su un paese reale” è una cronistoria dell’insediamento industriale e della lotta sindacale in difesa del lavoro, un atto di accusa sulla disoccupazione femminile nell’isola della fine degli anni ’70.
Così Martina descrive sua madre Maria Piera “Caparbia, una grande personalità, grande lavoratrice, colta e profonda lettrice, una donna piena di umanità e di grande carica emotiva, anche nel saper rielaborare, per me bambina, le storie e i racconti”. Non a caso la regia e il montaggio sono una composizione di immagini, sia quelle fantastiche sia quelle fedeli alla realtà.
 

 

 

 

Una Rosa rossa a Giorgino

  di Agnese Onnis, 26 febbraio 2014

Su proposta della Commissione di Parità e della delibera del Comune di Cagliari in merito alla toponomastica femminile, la seconda strada di Giorgino sarà intestata a Rosa Luxemburg, una vita interamente politica nel senso più etico del termine, non solo per le scelte di militanza e di riflessione economica, ma fin dentro le pieghe più intime della sua intensa e insieme dolorosa esistenza:

“Qualche volta ho la sensazione di non essere un vero e proprio essere umano, ma appunto qualche uccello o un altro animale in forma di uomo; nel mio intimo mi sento molto più a casa mia in un pezzetto di giardino come qui, oppure in un campo tra i calabroni e l’erba, che non… a un congresso di partito. A lei posso dire tutto ciò: non fiuterà subito il tradimento del socialismo. Lei lo sa, nonostante tutto io spero di morire sulla breccia: in una battaglia di strada o in carcere. Ma nella parte più intima, appartengo più alle mie cinciallegre che ai “compagni”. E non perché nella natura io trovi, come tanti politici intimamente falliti, un rifugio, un riposo. Al contrario, anche nella natura trovo ad ogni passo tanta crudeltà, che ne soffro molto”.

Figlia di ebrei polacchi,  Rosa malgrado sia una bambina delicata a causa di una tubercolosi ossea all’anca, forte nella sua carica vitale già al liceo di Varsavia partecipa ai movimenti politici. Considerata sovversiva, appena diciottenne deve rifugiarsi in Svizzera dove studia economia politica e legge e si laurea nel ’97; sposa un tedesco per ottenere la cittadinanza tedesca, aderisce al partito socialdemocratico nell’ala estrema del partito  e si lega a Leo Jogiches, suo compagno per il resto della vita.

Accusata di lesa maestà viene costretta a tre mesi di prigione nel carcere di Weimar nel 1906, ad altri sei mesi per alto tradimento nel 1913, e dopo uno sciopero generale subisce un’altra condanna di due anni. Insegna nelle scuole di partito e scrive opere fondamentali di politica economica.  Redattrice della rivista ‘Rothe Fahne’, fonda la lega spartachista con Liebknecht e ne diventa la guida. Le lettere che Rosa scrive ai suoi amici sono dense di un’osservazione minuziosa del mondo che le sta intorno; la sua è appunto l’attitudine della scienziata che guarda e vive con la stessa passione le relazioni umane, di cui coglie in ogni momento, non solo nelle riunioni o nelle manifestazioni, la dimensione politica del vivere insieme.

Scrive a Mathilde Jacob, alla quale ha affidato l’amata gatta Mimì, ringraziandola per i fiori ricevuti: “Non so se vi ho già mostrato i miei erbari in cui, a partire dal maggio 1913, ho classificato più o meno 250 piante, tutte magnificamente conservate, le ho tutte qui come alcuni atlanti e adesso posso aprire un nuovo quaderno”, eanche…“Per distrarmi leggo la storia geologica della Germania. Pensate un po’, nelle placche d’argilla del periodo algonchiano, cioè l’epoca più antica della storia del globo, quando non esisteva ancora la minima traccia di vita organica, quindi milioni e milioni di anni fa, si sono trovati in Svezia, in una di queste placche di argilla i segni delle gocce di un breve acquazzone! Non vi potete immaginare quale effetto magico ha prodotto in me questo buongiorno venuto da epoche lontane. Non leggo nient’altro con altrettanto interesse appassionato come i libri di geologia.”

Sono lettere cariche di significati e raccontano una donna che ha fatto della sua partecipazione alla politica una bandiera di vita, e ci rivelano una Rosa più autentica e introspettiva nei suoi risvolti meditativi.

« Mi riposo finalmente. Sono terribilmente affaticata nel morale e nel fisico. Per la prima volta dal mio arrivo sono finalmente sola » (Parigi, 21.03.1895). E ancora: « Mio caro, mio amato. Tu non sei qui in questo momento, ma tutta la mia anima e piena di te, ti stringe » (Svizzera, 16.07.1897).

Dal carcere di Wronke,  nell’aprile 1917, Rosa scrive all’amica Luise Kautsky:

“ Quando si ha l’abitudine di cercare una gocciolina di veleno in ogni fiore schiuso, si trova, fino alla morte, qualche motivo per lamentarsi. Guarda quindi le cose da un angolo diverso e cerca il miele in ogni fiore: troverai sempre qualche motivo di sereno buonumore. Inoltre, credimi, il tempo che- così come altri- attualmente passo sotto chiave, neanche questo tempo è perduto…”

La presenza del carteggio ci mostra aspetti più privati e sofferti della sua vita che non possono essere rivelati all’interno di analisi teorica e riflessione economica e politica, e ricorda le sue conoscenze scientifiche dei fenomeni naturali. In una lettera all’amica Louise dal carcere di Wronke, scrive:

“… Sono del parere che si deve semplicemente, senza voler essere troppo cattivi né scervellarsi, condurre la vita che si reputa giusta, senza esigere d’essere pagate subito in moneta sonante per tutto ciò che si fa. Alla fine, tutto sarà ben ricapitolato; e se così non sarà io  ‘proprio me ne infischio’,  anche senza la vita è per me una tale fonte di gioia: tutte le mattine ispeziono scrupolosamente le gemme di ogni mio arbusto e verifico dove ce ne sono; ogni giorno faccio visita a una coccinella rossa con due puntini neri sul dorso che da una settimana mantengo in vita su un ramo, in un batuffolo di calda ovatta nonostante il vento e il freddo; osservo le nuvole, sempre più belle e senza sosta diverse, e in fondo io non mi considero più importante di quella piccola coccinella e, piena del senso della mia infima piccolezza”…

Rosa fu una grande e brillante teorica del socialismo: lo stesso Lenin, nonostante i numerosi scontri teorici avvenuti tra i due, la definì “un’aquila”, ritenendo i suoi scritti  manuali utili alla formazione delle future generazioni di comunisti di tutto il mondo.  Anche Trotsky aveva per lei stima e l’ammirava da lontano, ricordando i suoi occhi bellissimi che irradiavano intelligenza e il suo stile intenso e spietato.

Rosa Luxemburg  si afferma come personaggio pubblico tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento: è una donna colta e impegnata, un’intellettuale e in quanto tale una figura complessa, che percorre strade diverse dell’impegno personale e della dedizione politica verso i problemi sociali delle masse in quel secolo nuovo che insieme risulta essere il secolo dei totalitarismi, delle guerre totali, ma anche  il secolo delle ideologie e diviene pian piano il ‘secolo delle donne’.

La partecipazione alla vita politica delle masse determina la nascita dei partiti popolari (socialisti, socialdemocratici e cattolici)  e l’ondata di presenza femminile: sono gli anni in cui si discute il voto alle donne. Davanti ai suoi occhi corrono tante guerre e tante prigionie. A Mathilde Wurm, il 28 dicembre 1916, confessa:

«Non conosco la ricetta che permetterebbe di comportarsi come un essere umano, so solo come lo si è. … Il mondo è cosi bello malgrado tutti gli orrori e sarebbe ancora più bello se non vi fossero sulla terra dei vigliacchi e dei codardi ».

Assieme a Liebknech, Rosa Luxemburg fu protagonista della Sollevazione Spartachista di Berlino del gennaio 1919, tentativo rivoluzionario brutalmente represso dal nuovo governo socialdemocratico tedesco: Liebknecht e Rosa, rapiti dai soldati del Freikorps e portati all’Hotel Eden di Berlino, sono torturati ed interrogati prima di venire uccisi il 15 gennaio 1919. Il corpo di Rosa viene fatto scomparire.

La sua migliore eredità sta nell’idea che libertà e giustizia siano due fratelli siamesi.

 

 

Giorgino: una targa col nome di Joyce Lussu

  di Agnese Onnis, 10 febbraio 2014

Topografia femminile. La Commissione Pari opportunità del capoluogo sardo, nella seduta del 10 dicembre 2013 ha deliberato di attuare l’odg della Toponomastica femminile proponendo di intitolare nel territorio di Giorgino (CA) tre strade a tre donne, di cui una a Joyce Lussu . “Sa bobidda d’Emilieddu”…
Una donna libera, forte, colta e  aperta, coraggiosa combattente del Movimento di Giustizia e Libertà, partigiana medaglia d’argento della Repubblica, studiosa delle lingue e delle tradizioni popolari di diverse nazioni, scrittrice e poeta, storica del percorso della Storia delle donne, Gioconda Salvadori ha vissuto la sua lunga esistenza attraversando gli eventi storici tra le due guerre.
Gioconda stessa narra l’incontro con l’uomo importante della sua vita di cui assume il cognome, quell’Emilio famoso diventato prima suo compagno di lotta antifascista e dopo suo compagno di vita condividendone a pieno l’amore per l’isola di Sardegna. “Fu così che m’innamorai di un sardo e anche della Sardegna, ed a me che non la conoscevo sembrava favolosa e remota. Quando la conobbi, divenne una mia patria. Di patrie, è bene averne più d’una, anzi più sono meglio è. Oltre alle radici, ci sono anche gli innesti, che moltiplicano foglie e frutti”.
Quando Emilio Lussu ricoprì il suo incarico parlamentare, Joyce, che non stava ad aspettare nessuno come tutte le donne abituate alla propria autonomia e all’impegno civile e sociale, viaggia per altri mondi per conoscerne le dinamiche storiche e i risvolti sociali e decide di vivere anche in Sardegna.
 
Sardegna, scheggia di un continente più antico
crinale eroso rugginoso
come una spada dimenticata
che nessuno raccoglie.
Non sono le tue spoglie
belle ch’io cerco, per la gioia dei miei occhi…
…cerco l’immagine della vita nella tua fatica
difficile, nei tuoi dirupi di granito
nelle tue distese d’ogliastri e di lentischio….
 
Joyce, fortemente legata all’uomo politico e antifascista Lussu col quale ha condiviso la lotta partigiana e le difficoltà, dimostrando che la vita di coppia non è un ostacolo per il militante rivoluzionario, ma un vantaggio, sceglie di vivere ad Armungia, un piccolo paese del Gerrei, un periodo della sua vita. Ricca di entusiasmo e di curiosità verso gli altri e sensibile ai problemi delle classi subalterne, impara a conoscere l’isola e la sua gente. In Sardegna conosce i contadini e i pastori, li ascolta e presta attenzione alle donne, riunendole a Cagliari nel ’51 nell’intento di portare la presenza femminile nella discussione sul mondo del lavoro, con l’esperienza di presidente dell’Unione Donne Italiane.
Durante la sua attività di soccorso percorre l’isola con i camion dell’assistenza post-bellica, ritenendo di avere stimoli per la sua sensibilità non solo dalle ricostruzioni storiche, ma anche dal quotidiano presente della miseria, nella tragedia dei bambini morti per denutrizione, febbri malariche e tubercolosi. I suoi atti di accusa verso la cruda e violenta vita nel lavoro duro delle miniere del Sulcis, risuonano all’imbocco della miniera, mentre osserva le condizioni disumane delle donne e le loro mani ‘che non si fermavano mai’ a spaccare le pietre e a selezionarle.
…Giovanna ha sette bambini gli ultimi due gemelle, durante la gravidanza le son caduti tre denti….adesso che non è gravida il suo corpo è scavato come un arco, la spina dorsale è curva e i seni pendono lunghi e vuoti sotto la vestina di cotone, ma certamente il marito la ingraviderà ancora più volte, Giovanna ha ventisette anni…
Joyce, nel suo impegno attivo, così pure nell’analisi dei processi sociali e politici, affronta i temi della condizione femminile e sottolinea il protagonismo delle donne nelle lotte contro le classi dominanti.
Di lei si conosce l’intenso e ricco bagaglio culturale assunto con lo studio e la conoscenza delle lingue straniere, raggiunta anche grazie alla sua storia familiare. Provenendo da un clima anticonformista, antifascista, di educazione laica, culturalmente ricco di incontri e di studi all’estero, al liceo in Svizzera e poi alla Sorbonne parigina, conosce intellettuali e politici europei e traduce versi e testi di poeti africani, di tradizione orale, trasformandoli in percorsi letterari di grande apertura alle culture del mondo.
Filologa di formazione e traduttrice di culture altre,  Joyce entra nel mondo delle ‘parole’, dove il testo poetico diventa uno dei veicoli più profondi e diretti per capire una lingua e un popolo, per entrare quindi in sintonia con le nuove generazioni.
Questo aspetto dà risalto alla sua notevole capacità umana di saper incidere sui giovani e sulle masse con il suo impegno formativo. Nel dopoguerra, infatti, inizia un rapporto con la Scuola: antesignana di metodologie laboratoriali nell’attività di ricerca, propone lavori di gruppo, discussioni e confronti.
Molto attenta e critica verso le inchieste ministeriali,  le ritiene inattendibili nei dati reali sull’analfabetismo infantile, e la combattente Joyce proclama il suo atto d’accusa dovuto verso la società, le ingiustizie e le sofferenze. “L’infanzia sarda è l’immagine di queste sofferenze e di queste ingiustizie: e ci guarda con occhi spalancati”.

 

 

La città di Sassari dedica uno dei suoi parchi a Maria Carta

  di Teresa Spano, 4 febbraio 2014

logo Maria Carta

Topografia femminile. Nella città di Sassari ci sono numerosi parchi che nelle belle giornate offrono agli adulti ombra, spazio per riposo, relax, passeggiate e ristoro, alcuni permettono anche la possibilità di una linea Wi-Fi alla quale collegarsi dopo una semplicissima iscrizione all’utenza della Biblioteca Comunale. I bambini, i più assidui frequentatori dei nostri giardini pubblici, trovano spazi sicuri e accoglienti in cui scatenarsi e i genitori che li sorvegliano possono rilassarsi e scambiare consigli e opinioni senza alcuna preoccupazione per l’incolumità dei loro pargoli.

Ebbene, fino a qualche mese fa, nemmeno uno di questi nostri salotti cittadini aveva un nome proprio. Ci si dava appuntamento nel parco di Via Montello, di Via Venezia, di Viale Italia e così via, indicando non il parco stesso ma le vie che li costeggiano. Finalmente, con una delibera del settembre scorso, la giunta comunale ha deciso di dare un nome a due di questi importanti spazi di aggregazione, il nome di due donne che fino a questo momento la mia città non aveva ancora commemorato. Per questa ragione, dal 29 settembre del 2013, i bambini della zona del “Monte Rosello” vanno a giocare nel Parco Emanuela Loi e, da oggi, 1 febbraio 1014, non ci si dà più appuntamento in Via Venezia ma nel Parco Maria Carta.

Il parco Emanuela Loi, non poteva avere migliore intitolazione, visto che al suo interno ospita il monumento dedicato alle “vittime di tutte le guerre” e la nostra eroina, nata a Sestu nel 1967, è stata la prima donna a far parte di una squadra di agenti addetta alla protezione di obiettivi a rischio. Emanuela fu anche la prima poliziotta che morì in servizio, il 19 luglio 1992, a venticinque anni, nell’attentato mafioso in via d’Amelio. Stamattina invece, dopo mesi di attesa, uno splendido sole ha accolto la cerimonia in cui è stata scoperta la targa del Parco Maria Carta, interprete della musica sarda nel mondo.La cerimonia ha visto protagoniste, oltre alle autorità comunali, socie e soci della Fondazione a lei dedicata, nata nel 2002 per iniziativa della famiglia dell’artista e del comune di Siligo, fondazione che aveva avanzato ufficialmente la richiesta alla commissione toponomastica cittadina.Hanno partecipato alla “festa” anche i ragazzi del coro della Scuola Media N° 3, scuola che da qualche anno porta il nome della nostra amata interprete. Tutti i sardi e molti estimatori sparsi per il mondo conoscono la meravigliosa voce di Maria Carta, personalmente le sue canzoni hanno accompagnato la mia giovinezza e spesso sono state la ninna nanna preferita dei miei figli, ma qui vorrei ricordare la splendida donna che è stata e che ci ha abbandonato esattamente vent’anni fa.

Nata a Siligo nel 1934, Maria evoca così gli anni della sua fanciullezza, mentre si recava a piedi da Siligo a Biddanòa per lavare i panni: «Per la strada cantavo sempre, i pastori quando mi sentivano dicevano oggi Maria è di fiume… quando avevo paura, correvo e cantavo. Ho sempre detto che scacciavo le Ombre dalla mia strada solo attraverso la mia voce… avevo paura del buio, sentivo echi di passi, sapevo che erano loro, le Ombre, che mi accompagnavano dal mondo del passato. Allora cantavo a voce delirante». Maria non ha tempo da dedicare allo studio. Negli intervalli lasciati liberi dal lavoro quotidiano, raccogliere le olive, lavare i panni, filare la lana, cercare legna con la nonna, dona sua voce: canta in chiesa e poi, accompagnata dal nonno, inizia a cantare nelle feste popolari dei paesi vicini. La Sardegna inizia a conoscere il suo nome e le sue melodie. Negli anni 50 vince il titolo di miss Sardegna, negli anni 60 parte e va a vivere a Roma dove svolge diversi lavori finché non incontra lo sceneggiatore Salvatore Laurani, il suo futuro marito, che decide di investire su di lei e sulla sua voce. In quegli anni Maria frequenta il centro studi di musica popolare dell’Accademia di Santa Cecilia e inizia a esplorare la sua terra per ricercare e registrare antichi canti salvandoli dall’oblio, fermamente convinta che “in Sardegna il canto è nato femminile, insieme alla poesia è nato, ai tempi del matriarcato…” nonostante fino a quel momento il “canto sardo” ufficiale fosse esclusivo appannaggio maschile.

Nel 1971 vede la luce il suo primo disco, inizia un decennio di esperienze intense: partecipa a diversi film e opere teatrali, pubblica un libro di poesie, diventa consigliera comunale a Roma. Negli anni 80, lasciato il primo marito dopo vent’anni di vita coniugale, ha finalmente un figlio, David, con un nuovo compagno ma affronta da sola i lutti familiari (muoiono la sorella e la madre) e la malattia, un cancro che le toglie la splendida voce. Lotta contro la malattia per anni, canta come e quando le pesanti terapie le consentono di fare, affronta il dolore con coraggio e senza rassegnazione, per lasciarci un triste giorno del 1994.

 

 

 

Consacrata Beata la Reginella Santa e Sarda

  di Angelica Scanu, 31 gennaio 2014

Topografia femminile. Maria Cristina di Savoia, il cui nome completo è Maria Cristina Carlotta Giuseppina Gaetana Efisia, è stata consacrata Beata, sabato 25 gennaio, nella Basilica di Santa Chiara a Napoli, alla presenza dell’Arcivescovo di Napoli Crescentio Sepe, del Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e del Monsignor Arrigo Miglio Arcivescovo di Cagliari. Alla cerimonia, oltre ai diversi esponenti delle famiglie reali dei Savoia e dei Borbone, era presente anche l’artista sarda Claudia Tronci, che in un film-documentario interpreterà la futura santa. Principessa del Regno di Sardegna, figlia di Vittorio Emanuele I di Savoia e dell’Arciduchessa Maria Teresa d’Asburgo-Este, Maria Cristina nacque a Cagliari il 14 novembre 1812 – dove Casa Savoia si trovava in esilio – durante il periodo rivoluzionario in cui la capitale del regno era a Torino e il Piemonte era occupato dalle truppe napoleoniche.

Fu battezzata davanti alla Madonna di Bonaria e consacrata alla Madonna dalla regina sua madre, consacrazione che fu poi rinnovata da Maria Cristina stessa, appena fu in grado d’intendere e volere. Lasciò la Sardegna nel 1815 assieme alla madre e le sorelle per raggiungere il re Vittorio Emanuele che vi aveva fatto ritorno l’anno precedente e in seguito visse a Nizza e a Genova. Appena ventenne, nonostante avesse manifestato il desiderio di diventare suora di clausura, per ragion di stato e su disposizione di Carlo Alberto, divenuto suo tutore alla morte dei genitori, sposò Ferdinando II di Borbone re delle Due Sicilie, abbandonando cosi la sua vocazione monastica e si stabilì a Napoli.

Snobbata dalla storiografia, fu invece magnificata dalla chiesa come esempio di virtù, di dedizione ai poveri e agli indifesi. Maria Cristina con il matrimonio si convinse che la vita di corte avrebbe potuto esaudire il suo sogno di politica della carità, come lo stesso Benedetto Croce ebbe a dire. Mise a disposizione del popolo i suoi averi e stabilì che una parte del denaro destinato ai festeggiamenti per le nozze fosse utilizzato per donare una dote a 240 spose e per riscattare un buon numero di pegni depositati al Monte di Pietà. Inviava ai poveri denaro e biancheria, dava ricovero agli ammalati, diede assegni di mantenimento a giovani donne. La sua opera sociale più nota fu la riattivazione della seteria di San Leucio di Caserta.

Fu donna di grande fede. Un aneddoto racconta che obbligò le ballerine del San Carlo a indossare castigati mutandoni neri, nei pochi anni del suo regno riuscì a impedire l’esecuzione di tutte le condanne capitali e finché fu in vita, tutti i condannati a morte furono graziati. Aveva capito che la vera ricchezza era quella del cuore. Il 16 gennaio del 1836 diede alla luce Francesco, che poi sarebbe diventato l’ultimo re del glorioso Regno, per la gioia di tutti i napoletani che l’amavano, gli stessi che, dopo due settimane, a causa di complicazioni dovute al parto, piansero la sua prematura morte avvenuta ad appena ventiquattro anni il 31 gennaio. Fu sepolta nella Basilica di Santa Chiara dove si trova tuttora.

Molteplici i miracoli attribuiti alla Regina, tanto che il 10 luglio 1859 Papa Pio IX comunicò che era stata proclamata Venerabile. Le virtù eroiche vennero riconosciute il 6 maggio 1937. La chiesa ha riconosciuto il miracolo ricevuto da Giuseppina Urru di Ortacesus, per intercessione della sovrana. Papa Francesco, il 2 maggio 2013, dà il via alla sua beatificazione autorizzando la promulgazione del decreto riguardante il miracolo.

Un importante riconoscimento per una delle più amate regine del Regno delle Due Sicilie, “la reginella santa” viene ricordata nella toponomastica di Napoli-Mergellina, ma non nell’isola che le ha dato i natali. In Sardegna, infatti, troviamo spesso nelle nostre strade regine e principesse di casa Savoia ma nessun comune ricorda la nostra nuova “beata” nata nella nostra isola, neppure Cagliari che l’ha vista nascere.

Le strade di Giorgino avranno nomi femminili

  di Angelica Scanu e Teresa Spano, 20 gennaio 2014

Il gruppo di Toponomastica femminile esiste da poco più di un anno, ma la sua attività di sensibilizzazione si sta diffondendo anche nella nostra isola. Le amministrazioni comunali si stanno gradualmente adeguando al necessario equilibrio di genere nelle vie delle nostre città e nel dicembre dell’anno appena trascorso la toponomastica femminile è arrivata anche a Giorgino, Villaggio dei pescatori, di Cagliari. Indicato nelle mappe stradali come “viale Pula” ex SS195, in realtà Giorgino fu la spiaggia preferita dai cagliaritani, il luogo di villeggiatura dell’aristocrazia locale, fino agli inizi del 1900. In seguito all’apertura dei  primi stabilimenti balneari al Poetto, il villaggio di Giorgino fu gradualmente abbandonato e divenne un piccolo agglomerato di periferia. Attualmente rivive gli antichi splendori ed è meta di numerose presenze in occasione della Sagra del pesce. Il primo maggio è una tappa del pellegrinaggio di Sant’Efisio da parte dei fedeli che portano l’effige del santo da Cagliari a Nora.
Finalmente, il 20 dicembre, la giunta comunale ha deliberato di attuare la proposta della Commissione Pari Opportunità e di intitolare tre delle sette strade del Villaggio dei pescatori a tre donne illustri. Le tre aree di circolazione che, provenendo da Cagliari, si innestano su via Pula, prenderanno rispettivamente il nome di Maria Piera Mossa, Joyce Lussu e Rosa Luxemburg.
Maria Piera Mossa è stata programmista e regista della sede RAI di Cagliari ed è morta prematuramente nel marzo del 2002 all’età di 52 anni. Ha firmato come autrice diversi filmati brevi sulle operaie tessili di Bitti, ha documentato insediamenti industriali e lotte sindacali, fatti e personaggi dell’isola, ha descritto la “sardità” dal punto di vista degli osservatori esterni. Poco incline al protagonismo, quasi sconosciuta all’esterno del suo ambiente lavorativo, si è inoltre dedicata con cura e precisione al riordino degli archivi sardi della RAI.
Joyce Lussu, il cui nome di battesimo era in realtà Gioconda Beatrice Salvadori, fu moglie di Emilio Lussu. Nata a Firenze nel 1912 fu scrittrice, traduttrice, partigiana e poetessa. Ottenne la medaglia d’argento al valor militare, fu capitano delle Brigate “Giustizia e Liberta”, fu promotrice dell’UDI (Unione Donne Italiane). Morì a Roma il 1998. Dal 2006 il premio annuale di narrativa “Città di Offrida” porta il suo nome.
Rosa Luxemburg è lo pseudonimo di Rozalia Luksemurg, di origine polacca, nata nel 1871 da una famiglia ebraica. Fu una prolifica scrittrice politica, filosofa, teorica del socialismo rivoluzionario, contribuì a fondare il Partito Comunista di Germania. Nel corso della rivolta di Berlino, il 15 gennaio 1919, venne rapita e assassinata.
Nella stessa seduta comunale è stato anche deciso di intitolare a Nostra Signora di Fatima la piazza del Villaggio Pescatori di Giorgino antistante l’omonima chiesa e di dare un nome femminile anche all’arena del Parco della Musica della città di Cagliari, che verrà dedicato a Giusy Devinu.
La cantante Giusy Devinu, nata a Cagliari nel 1960, fu interprete di numerose opere liriche. Il ruolo di Violetta nella Traviata le diede notorietà internazionale:  fu protagonista nei più importanti teatri del mondo interpretando ruoli e repertori diversi. A  lei venne affidato il compito di inaugurare il nuovo Teatro Lirico Comunale di Cagliari, il 2 settembre 1993, interpretando la Messa in Gloria di Rossini. Morì nel maggio del 2007 a soli 46 anni.
 

Venus Erucina tra Sicilia e Sardegna

  di Gilda Nonnoi, 16 gennaio 2014

Topografia femminile. Come secondo appuntamento sulla toponomastica antica della Sardegna al femminile, propongo il ricordo della Venus Erucina siciliana in un poleonimo sardo. Tolomeo trasmette, nel II d.C., il nome Ἐρύκιον –Erykion (Ptol. III 3, 7), per una località topograficamente sconosciuta della Sardegna. Il toponimo sembra ripresentarsi nella forma latina Erucio dell’anonimo Itinerarium Antonini Augusti, che colloca questo presunto centro urbano, forse di tipo rurale, tra Viniolis e Ad Herculem, cioè tra Castelsardo e Porto Torres, se non verso Stintino.
Le forme greco-latine, sia nell’incerta tradizione manoscritta tolemaica (Ἐρύκιον – Erykion, Ἐρίκινον – Erikinon ed Ἐρίκηνον – Erikenon), che nella testimonianza latina, si mostrano come varianti grafico-fonetiche delle lingue greca e latina, e sono in ogni caso dei derivati equivalenti d’origine, appartenenza o devozione di Ἔρυξ – Eryx. Quest’ultimo è il nome di un monte e di una famosa città della Sicilia nord-occidentale, corrispondente all’attuale Erice (Monte S.Giuliano), in prossimità di Trapani. Si tratta di una cima frequentata già dalla fine del secondo millennio o dall’inizio del primo, sia da popolazioni autoctone, come Sicani ed Elimi, che da stranieri come Fenicio-Punici, Greci e Romani, non solo per l’eccezionale posizione della sua rocca, ma anche per il fatto che sulla sua cima si trovasse un tempio, dedicato a una divinità della fecondità e dell’amore. La dea era probabilmente d’origine mediterranea, forse chiamata dagli Elimi Iruka (= Eryx?), poi identificata con la fenicia Ashtart, dai Greci con Afrodite e dai Romani con Venere. Si trattava di un importante santuario in un’area di mercato, dove pare venisse praticata una sorta di prostituzione sacra delle donne locali, con uomini stranieri, in cambio di un’offerta votiva alla dea, affinché questa favorisse la fertilità e la fecondità delle comunità.
In assenza di dati archeologici, si può ipotizzare, sulla base del nome e delle popolazioni che abitarono la Sardegna, che a questo toponimo corrispondesse un antico centro, di fondazione o frequentazione fenicio-punica, forse caratterizzato da un tempio, dedicato ad Ashtart, identificabile poi con l’epigrafica Venus Erucina (CIL X 7253-7255 e 7257). D’altra parte, l’ipotesi è plausibile anche alla luce di un’iscrizione del III a.C., rinvenuta nel sud dell’isola, a Karales, presso la Torre di Calamosca, in cui compare la forma punica del toponimo ‘RK (Eryx), proprio in rapporto alla dea semitica (IFPCO III 19.1 = CIS I 1). L’ipotesi non deve stupire, in ragione non solo della comune presenza fenicio-punica sulle due isole del Mediterraneo occidentale, ma soprattutto in considerazione dell’importanza del santuario ericino nel Mediterraneo antico, confermata da numerose citazioni nelle fonti greche e latine e perfino dalla notizia dell’esistenza di un tempio a lei dedicato a Roma, presso Porta Collina.
Il fatto che Tolomeo si ricordi di registrare subito dopo Ἐρύκιον – Erykion, andando verso Olbia, un Ἥραιον –Heraeum, cioè un toponimo che allude all’esistenza di un tempio di Hera, oltre che, scendendo verso sud-est, serbi memoria della città dedicata alla dea italica Feronia (cf. Sardegna Soprattutto 12 novembre 2013 http://www.sardegnasoprattutto.com/archives/713), aumenta ulteriormente il sospetto di una grande diffusione nell’area di culti femminili mediterranei e della loro ben nota funzione quali grandi-dee dell’amore e della fecondità fin dall’epoca neolitica.
La coincidenza di tali toponimi, epiteti ed etnici da una parte all’altra del Mare nostrum, e il particolare dialogo culturale intercorrente tra le due isole maggiori del Tirreno, mostrano l’importanza, la continuità e il sincretismo di tipologie religiose primitive affini nella storia del Mediterraneo antico.

Passeggiando per Alghero, s'Alighera, l'Alguer

  di Laura Candiani, 19 dicembre 2013

Alghero: comunque la si chiami, in italiano, sardo o catalano, la radice “alga” appare evidentissima, come testimonia anche lo stemma cittadino; dalla spiaggia e dal mare, poi, l’appellativo si è esteso all’abitato. Oggi, la città più catalana d’Italia appare nella sua bellezza a picco sul mare, con le mura, le torri, le chiese, i palazzi, fra cui quello gotico dei De Ferrera; la leggenda vuole che l’imperatore Carlo V, di passaggio, abbia definito la città ”Bonita, por mi fé, y bien assentada” e abbia salutato dal balcone gli abitanti con la celebre frase: ”Estode  todos  caballeros” (in realtà i cavalieri nominati furono solo tre!).
L’abitato ha subito molti rimaneggiamenti e demolizioni, anche a seguito dei bombardamenti, ma il nucleo storico mantiene la caratterizzazione militare e mercantile originaria; a partire dagli anni Venti la cittadina (aveva solo 10.000 abitanti) si è aperta verso la rigogliosa campagna circostante e ha scoperto la vocazione turistica, che appare oggi preminente. Ma, passeggiando sui bastioni e nelle viuzze, si ricava costantemente il richiamo alla strategica posizione geografica e al ricordo vivo della dominazione catalana, nelle insegne, nei nomi delle strade, nella lingua degli abitanti, nelle specialità gastronomiche, nei toponimi e, naturalmente, nella toponomastica. Qui si celebra la messa, si può fare testimonianza in tribunale, si insegna, si stampano libri e pubblicazioni in catalano, mentre altrove la lingua dei dominatori (Pisani, Castigliani, Savoia) è scomparsa del tutto, da lungo tempo. Va notato però che ad Alghero la lingua degli stranieri (che normalmente costituisce un’imposizione e un impoverimento per le tradizioni locali) è stata mantenuta viva anche grazie all’arrivo dalla Spagna, a più riprese (1355-1372), di cittadini catalani allo scopo di ripopolare un’area in forte crisi demografica.
Non ci troviamo a Barcellona, ma in Sardegna, eppure incontriamo camminando e guardandoci  intorno: Forte de la Magdalena, Torre de San Juan, Torre de Castilla, Torre de la Polvorera, Torre dell’Espero Reial, Nostra Senyora de la Merced, Palazzo del Veguer (Vicario), Portal de la Mar, via Catalogna, carrer del Carmen, carrer Major – che forma incrociandosi con via Ferret – “les quatre cantonades”; poco fuori città, volendo raggiungere la grotta di Nettuno a piedi, percorriamo la Escala del Cabirol (656 gradini, adatti appunto ai caprioli, più che agli incauti turisti sotto il sole estivo). Sul colle del Balaguer, dall’11 ottobre scorso, una piazza porta il nome di un personaggio femminile che la cittadinanza ha fortemente voluto ricordare: quello della cantautrice siciliana Giuni Russo (Giuseppa Romeo-1951-2004), dalla troppo breve vita e dalla potente, bellissima voce.
A lei va il merito di aver citato Alghero in un ritornello che tutti hanno cantato per il ritmo orecchiabile e le rime: ”Voglio andare ad Alghero /in compagnia di uno straniero/ Su spiagge assolate/mi parli in silenzio/ con avide occhiate”; non sarà stato il suo capolavoro, ma certo ha contribuito in modo determinante alla sua notorietà.
Anche ad Alghero non mancano strade dedicate a Grazia Deledda e a Eleonora d’Arborea, ad alcune sante (Anna, Chiara, Barbara), alla dea romana della sapienza (Minerva); meno comune il ricordo di Rina de Liguoro (1892-1966), pianista e attrice cinematografica di padre algherese; si incontrano poi il forte della Maddalena e, andando verso Porto Conte, il villaggio nuragico che prende il nome di Sant’Imbenia.
Più delle presenze, colpisce tuttavia una mancanza: fra questi pochi nomi femminili non c’è quello di Amelie Posse Brazdova (1884-1957), la scrittrice svedese più popolare del XX secolo che ha lasciato il diario dell’intero anno trascorso ad Alghero (1915-16). Amelie era di origini nobili e durante una perma-nenza a Roma conobbe – e subito sposò – Oskar (Oki) Brazda, un pittore boemo che con l’avvento della Grande Guerra diventò un nemico dell’Italia e fu costretto all’esilio. La coppia scelse dunque la Sardegna di cui aveva notizie dall’amica Grazia Deledda e l’esilio divenne quasi una vacanza: amarono molto il clima, la città di Alghero con il suo vivace porto e i pesci di ogni forma, il mare, le lunghe spiagge, gli ambienti selvaggi; tutto affascinante e ricco di meraviglia, se non fossero stati perseguitati dalle pulci e non avessero visto tanta miseria: con stupore pensavano che la loro rozza cameriera portasse dei calzini scuri anche nell’afa estiva, ma poi scoprirono che era un “rivestimento” di sporcizia dura e incrostata da sempre. Di queste condizioni quasi primitive (a cui si univano dissenteria, malaria, colera e tifo) Amelie tentò di parlare con le autorità italiane, ricevendo in cambio un arresto per aver denigrato il nome e il prestigio dell’Italia. La coppia in seguito visse in Cecoslovacchia dove Amelie si occupò non solo di letteratura, ma fu anche una pacifista, un’autentica democratica e una tenace antinazista. L’esperienza sarda fu richiamata alla mente anni dopo quando scrisse appunto “Interludio di Sardegna” (1931), un libro molto fortunato ma sconosciuto in Italia fino a poco tempo fa.
“Qualsiasi altro paesaggio sembra banale e piatto, adulterato e sfruttato, quando lo paragono alla natura della Sardegna e alla sua prospettiva di eternità”. (Amelie Posse)
 

Toponomastica femminile a Convegno

  di Agnese Onnis, 2 dicembre 2013

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Strada donna…

…Una strada donna

abbastanza insolita

da trovare…

Toponomastica Femminile a convegno. Le strade: luoghi di memoria, non di violenza. Palermo, 31 ottobre – 3 novembre 2013. Così nel corso del convegno i versi di due testi poetici scritti da una studentessa liceale, letti da Mary Nocentini, relatrice dei "Percorsi di genere nei Castelli romani", hanno fornito ai convegnisti seduti in sala nelle poltroncine rosse – tra cui quelle ‘conquistate’ da POSTO OCCUPATO - il senso del titolo scelto per questo appuntamento di Toponomastica femminile. Le strade: luoghi di memoria non di violenza.

Un titolo d’effetto e di richiamo non solo per le donne quello del 2° Convegno di Toponomastica Femminile che si è svolto dal 31 Ottobre al 3 Novembre presso il padiglione De Seta dei Cantieri Culturali della Zisa a Palermo. Il gruppo siciliano di Toponomastica femminile a Palermo ha scelto come sede del convegno un contesto interessante quello dei Cantieri Culturali della Fisa, uno spazio inserito in una cornice della ex area industriale nella quale, recuperati e ristrutturati, i Cantieri sono oggi una cittadella della cultura. Parafrasando le parole scritte nel Foglio, allegato in cartella dei convenuti e realizzato dall’Associazione ‘LuminariaLa città di Palermo (la Zys fenicia, Panormos greco-romana, Balarm araba) il nome dichiara chi si appropria dello spazio…non si tratta di un’operazione neutrale né neutra… Chi si sente padrone dello spazio lo denomina, in qualche misura dichiarandolo proprio

Il Comune di Palermo ha la possibilità di effettuare visite guidate della città come un vero regalo per tutti i convegnisti con due appuntamenti ‘in movimento’, nella mattinata del 31 ottobre e del pomeriggio del 1 novembre. Davvero un’apertura originale della prima giornata, attraverso la partecipazione al percorso A del Trekking Urbano Nazionale, come scrive nel programma la curatrice dell’evento Claudia Fucarino: ”Palermo commemora il proprio passato e onora il proprio presente con un omaggio alle donne, le donne siciliane e straniere che, emarginate dall’universo maschile, dalla storia e dalle cronache del tempo, hanno tuttavia contribuito a costruire la nostra città.“Una lettura quindi della città tutta al femminile”.

Quattro giorni di incontri su toponomastica, storia e memoria femminile in Sicilia e in Italia, eccellenze visibili e invisibili, progetti didattici, riflessioni sulla violenza. Il tocco sardo è giunto con l’intervento di Gilda Nonnoi “Toponomastica Femminile in Sicilia. Toponimi al femminile tra isole del Mediterraneo antico: casi tra Sicilia, Sardegna, Italia”. Di isola in isola…Alle relazioni tematiche si sono aggiunte presentazioni e anticipazioni di libri e video curati dalle relatrici convenute: “Rosso fuoco” di Sara Favàron e Grazia Alia, “La Busacchinara“ di Fosca Medizza; tra le guide di genere: La Palermo delle donne, a cura di Claudia Fucarino, e Percorsi di genere femminile ai Castelli romani, anteprima di Mary Nocentini. Attraverso video-documentari sono giunte voci di donne, intellettuali siciliane, piemontesi, toscane, laziali, impegnate nel mondo della cultura, dell’arte e nella società civile. Donne, sud, mafia: videolettera dalla Sicilia; il cortometraggio di A. Marena “ La combattente” dedicato a Frida Malan; i filmati realizzati nelle scuole di Pistoia e di Roma…Le mostre pittoriche e fotografiche hanno aggiunto emozioni e profondità alle idee e alle parole: “ I volti della svolta” a cura di Danila leotta e Simona Sangiorgio, “Le vie della parità. Le donne del Novecento sulle strade di Roma” a cura di Barbara Belotti e Maria Pia Ercolini.

Quattro giorni di confronto su un lavoro condiviso, nella varietà e nella specificità dei temi connessi e nell’azione sinergica delle donne intervenute. Censimenti, catalogazione e proposte di intitolazioni di strade, piazze, luoghi pubblici nel territorio nazionale per rileggere il cammino della Storia anche attraverso i nomi delle sue protagoniste, che nelle comunità locali si sono distinte nel volontariato, nelle arti, nella cultura, nella scienza. L’invisibilità delle donne nel linguaggio, nella segnaletica stradale e nella toponomastica contribuisce a renderci corpi più che persone, con tutto ciò che questo comporta. La toponomastica assume così il ruolo di un vero “rilevatore sociale nascosto”. Anche i nomi delle nostre strade e delle nostre piazze contribuiscono a creare la cultura di un popolo, definendone le figure storiche degne di memoria, ma se tali figure illustri sono quasi sempre maschili, quali le conseguenze nella percezione delle persone?

Viaggio in Ogliastra alla ricerca di antiche leggende

  di Laura Candiani e Teresa Spano, 24 novembre 2013 

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Topografia femminile. Arrivare dalla Toscana, anzi dalla Valdinievole (raccolta e armoniosa “valle delle nebbie” bagnata dal torrente Nievole e circondata da borghi medievali) fino in Ogliastra ancora oggi non è facilissimo: le navi veloci per Olbia e gli aerei low-cost per Cagliari ci aiutano, ma il percorso –una volta giunti nell’isola – non è breve né sempre agevole, tuttavia – forse proprio per questo – può presentare momenti magici. Sulla grande, semivuota superstrada, un improvviso rallentamento: un vitello è sulla carreggiata; lontano, su una roccia rossastra, un muflone sta immobile, mentre si scorgono gruppi di capre abbarbicate a vertiginosi pendii e le pecore, raccolte in cerchio, se ne stanno sotto olivastri centenari. Basta uno slargo, un breve corso d’acqua e si fanno prepotenti i colori vivaci degli oleandri. Al tramonto un vecchio contadino conduce con una corda due mucche che pascolano lungo il bordo della strada; alcune donne indossano ancora la gonna plissettata e il fazzoletto con le cocche sotto il mento.

Giunto a Santa Maria Navarrese il viaggiatore attento rimane certamente colpito dalla graziosa baia dominata dalla torre e bagnata dal mare trasparente. Il cuore del paese è la piazza Principessa di Navarra; qui anni fa la celebre cantautrice americana Patti Smith rimase letteralmente folgorata dalla meraviglia e non avrebbe quasi iniziato il concerto tutta presa dall’altra sua passione: far fotografie. A cosa? Agli olivi millenari, veri monumenti naturali, dal tronco immenso, sconvolto, nodoso, che si dirama in vari bracci dalle fronde abbondanti e che crea ombrelli circolari sotto i quali è piacevole sostare e chiacchierare. Questi olivastri sono fra le creature viventi più vecchie della terra: pensare che erano adulti ai tempi di Dante Alighieri o di Eleonora D’Arborea non può lasciare indifferenti. La toponomastica di questo luogo straordinario ci offre un duplice richiamo: il nome del paese e la presenza della chiesetta nella piazza dedicata alla Beata Vergine Assunta. La chiesa, datata 1502, è certamente preesistente al centro abitato che nel 1960 contava soltanto 4 famiglie (non più di 50 persone) e che soltanto negli ultimi decenni è stato popolato grazie alla spinta turistica. L’intitolazione Santa Maria Navarrese è presente nelle cronache tardo quattrocentesche, del tardo cinquecento e del 1639, a testimoniare un fatto storico, lo sbarco di una figlia del re di Navarra.

Sul motivo dello sbarco e sul nome della principessa ci sono diverse leggende. I più raccontano che la principessa, forse Isabella, sia stata imprigionata in una torre per volere del padre che intendeva impedirle di amare un plebeo, probabilmente il proprio servo. Sfuggita alla prigionia si mise in mare con un barcone e poche provviste. Al largo l’imbarcazione fu sorpresa da una tempesta e Isabella promise che se si fosse salvata avrebbe costruito una chiesa sul luogo dello sbarco. Improvvisamente la tempesta si calmò e la barca giunse nella zona di Santa Maria Navarrese. La principessa si prodigò per sciogliere il voto e fece edificare la chiesetta che fu consacrata alla Vergine Assunta. In quello stesso periodo furono piantati nelle vicinanze degli olivastri, simbolo di forza e di lunga vita, che ancora oggi, ormai diventati millenari, accolgono sotto la loro ombra i numerosi fedeli che il 15 agosto di ogni anno si recano in pellegrinaggio a Santa Maria Navarrese per la festa dell’Assunta.

II Convegno nazionale di Toponomastica

  di Maria Pia Ercolini, 24 novembre 2013

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Dal 31 ottobre al 3 novembre Palermo ospiterà il II Convegno Nazionale di Toponomastica femminile e una grande mostra fotografica sulle strade italiane ed europee che ricordano figure femminili.

L’incontro si apre giovedì 31 ottobre a piazza Bellini con il trekking urbano attraverso la Palermo delle donne: due circuiti turistico-monumentali all’interno del mandamento Tribunali, che non trascurano l’aspetto artistico-storico e culturale di ogni monumento, piazza, palazzo e villa presente nel percorso, e approfondiscono la conoscenza di vicende e aneddoti legati ai numerosi personaggi femminili della storia e della contemporaneità siciliana. Nel pomeriggio, ai Cantieri della Zisa, si prosegue con la presentazione dei libri di Sara Favarò e Grazia Alia, Rosso Fuoco, e di Francesca Picone, La cugina Marisa. In serata, si inaugura la mostra pittorica e ritrattistica, I volti della svolta, a cura di Danila Leotta e Simona Sangiorgio e si proietta il documentario di Maria Grazia Lo Cicero e Pina Mandolfo Donne, sud, mafia: videolettera dalla Sicilia.

Venerdì 1 novembre, si entra nel cuore del Convegno. Dopo i saluti istituzionali e la presentazione del progetto, delle attività e della pagina web del gruppo di ricerca Toponomastica femminile, la docente sarda Gilda Nonnoi, con il suo intervento sui toponimi femminili tra isole e penisole del Mediterraneo antico, apre la sessione dedicata alla toponomastica insulare. Nel pomeriggio una nuova passeggiata di genere nel centro storico di Palermo condurrà all’ex Casa dei teatini, dove saranno presentate le guide di genere su Roma, i Castelli Romani, la Versilia e Palermo.

Sabato 2 novembre si torna ai Cantieri della Zisa per parlare di didattica. Al racconto dei progetti di Toponomastica femminile realizzati nelle scuole di Roma, Napoli, Chioggia, Castelli Romani, Pistoia, Lodi, Piazza Armerina, farà seguito la presentazione del nuovo bando di concorso Sulle vie della parità, e, infine, la premiazione del precedente concorso siciliano Strade di parità. Chiude la mattinata la sessione dedicata a Donne, società e memoria, con interventi e cortometraggi su donne e pace, partigiane e costituenti, figure femminili nelle valli valdesi. I lavori riprendono nel pomeriggio conl’analisi storica dellapresenza femminile nell’arte, nella polis e la presentazione del libro di Maria Sofia Messana, Il Santo Uffizio dell’Inquisizione – Sicilia 1500-1782. A fine giornata verranno presentate le testate cartacee e on-line che diffondono sull’isola notizie e servizi realizzati dal gruppo di ricerca di Toponomastica femminile.

Domenica 3 novembre, ancora ai Cantieri della Zisa per allargare il discorso alla Didattica di genere, ai laboratori contro il femminicidio e alla rete antiviolenza per le donne. A fine mattinata, conclusioni, tavola rotonda e dibattito.

Ma gli appuntamenti del gruppo di Toponomastica femminile non si esauriscono in Sicilia.
Ecco le prossime date.
9 novembre – NAPOLI – Maschio Angioino, Antisala dei Baroni – Convegno nazionale FNISM (Federazione Nazionale Insegnanti): Toponomastica femminile, didattica e nuove tecnologie. Presentazione del concorso “Sulle vie della parità”.
21 novembre – GENOVA – Inaugurazione mostra fotografica di Toponomastica femminile sul tema “Donne e diritti”. Intervento nell’ambito del Festival dell’eccellenza femminile.
22 novembre – PADOVA – Palazzo Moroni (ore 17,30) – Presentazione del libro “Sulle vie della parità”, edizione Universitalia.
23 novembre – CHIOGGIA – Sala Consiliare del Comune (ore 15) – Convegno Toponomastica femminile Regione Veneto con mostra fotografia e presentazione del concorso didattico “Sulle vie della parità”.

*Fondatrice di Toponomastica Femminile

Feronia: la città dedicata alla dea italica

  di Gilda Nonnoi, 12 novembre 2013

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Toponomastica femminile. Memoria del femminile nella toponomastica antica della Sardegna. E’ curioso come i toponimi antichi celino informazioni altrimenti dimenticate sul piano storico-culturale. Spesso gli antichi nomi di luogo sono stati obliati, deformati, sostituiti, assieme alla loro portata linguistica e semantica. In questa spazio, mi riserverò di ricordare alcuni toponimi antichi della Sardegna, che serbano memoria del femminile in epoche remote, attraverso il nome stesso o nelle implicazioni culturali di cui sono rivelatori. Attraverso l’onomastica è infatti possibile ricostruire una flebile storia delle donne o un immaginario delle stesse, grazie all’indispensabile supporto e alla comparazione di dati storici, archeologici, geografici, antropologici o religiosi.

Il primo caso che esaminerò sarà l’antico toponimo Feronia, un nome “viaggiante”, che testimonia una rete di relazioni geo-storiche tra l’Italia e la Sardegna antiche, ed è portatore di valori religioso-cultuali al femminile. Tale nome si riscontra nell’opera geografica di Claudio Tolomeo, come poleonimo sulla costa nord-orientale della Sardegna: Φηρωνία (πόλις) (Phērōnía pólis) / Feronia (oppidum) (Ptol. III 3, 4). Il toponimo è stato identificato con un antico insediamento alla foce del rio Posada, ai piedi della collina su cui è sorto nel Medioevo il centro omonimo (Castello della Fava). Nella più recente cartografia storica della Sardegna – cf. Tavole di Licinio (1550), Blaeu (1640) e Levanto (1664) -, compare una seconda volta il toponimo Feronia, in caratteri latini, per una località genericamente segnalata sulla costa sud-occidentale della Sardegna, tra Nora e Chia, ma sempre presso un estuario fluviale, forse identificabile con Cala Ostia.

La presenza del nome di una divinità femminile italica nella toponomastica antica della Sardegna è un indicatore culturale interessante sulla presenza di tale tipo di culti sull’isola. La dea Feronia, infatti, era celebrata, nella penisola italica, come arcaica divinità della Natura, protettrice dei boschi e delle messi, preferibilmente presso sbocchi fluviali. Si tratta pertanto di un’antica divinità pre-cereale, passata a protettrice dei prodotti agricoli, garante dello scambio degli stessi attraverso le naturali vie di comunicazione, quali erano fiumi e mare. A questa sono associati simbolici riti di cambiamento, compiuti attraverso cerimoniali delle acque, quali erano quelli di guarigione, affrancamento e liberazione di rifugiati. La dea, onorata in ambienti etruschi e osco-sabellici, fu assimilata dai Romani alla Iuno latina, mentre in Magna Grecia più spesso all’omologa Hera, dee che erano spesso in confluenza funzionale con Venere e Afrodite. In ogni caso, il nome di Feronia, d’etimologia oscura, appare come un teonimo d’importazione nella Sardegna romana. Lo stesso potrebbe essere stato trasferito come toponimo da gruppi italici, d’incerta provenienza.

Il nome porta a ipotizzare una sua introduzione nell’isola da parte di membri devoti alla dea, forse appartenenti a classi sociali d’origine straniera, magari di condizione servile o mercenaria, approdati con finalità emporico-coloniali, in ascesa socio-economica e alla ricerca di una propria autonomia politica e civile. Non è da escludere che il suo culto, pur introdotto in simili circostanze in Sardegna, potrebbe essersi innestato su quelli di divinità affini, precedentemente adorate nel territorio insulare, come la Gran Madre o la fenicia Ashtar. L’ipotesi è plausibile sulla base del fatto che, sia il sito di Posada, che la costa sud-occidentale dell’isola, presentino forti tracce archeologiche di frequentazione neolitica e nuragica, ma soprattutto fenicio-punica, motivo per cui non è da escludere la possibilità di un sincretismo di culti femminili analoghi, assai diffusi tra le comunità indigene e quelle semitiche, e senz’altro tra quelle italico-romane, come il nome analizzato rivela. In conclusione, si potrebbe affermare che questo teo-toponimo è, a suo modo, un testimone dell’immaginario preistorico e storico, relativo al femminile, nelle società antiche del Mediterraneo, dell’Italia e della Sardegna. La donna appare concepita, oltre che come forza generatrice e nutrice, anche come negoziatrice e intermediaria, in quanto garante di importanti passaggi biologici e socio-economici. L’ubicazione di Feronia, preferibilmente presso località di passaggio delle acque, conferma simbolicamente il ruolo delle donne come mediatrici tra vita – morte – rinascita, tramite l’elemento liquido.

*Insegnante. Toponomasta

Fortuna Novella, la mamma di tanti giovani marinai

 di Teresa Spano, 19 ottobre 2013

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Topografia femminile. La storia che stiamo per conoscere, quasi una favola, probabilmente sarebbe stata dimenticata da parecchio tempo se la cittadina di Carloforte, della piccola Isola di San Pietro, unica in tutta la nazione, non avesse deciso di commemorarla nella sua toponomastica. Dal 25 aprile del 2001, un tratto di lungomare, tecnicamente detto “Calata”, vicino alla Capitaneria di Porto e a pochi passi dall’immancabile statua di Carlo Emanuele III, ospita una targa che recita “Calata Fortuna Novella – Mamma Mahon“.

I turisti che sbarcano sull’isola davanti a quell’insegna in marmo con eleganti volute in ferro battuto immaginano sia una dedica ad un personaggio mitologico, alla dea bendata di cui tutte le genti di mare hanno bisogno, ma non è così. I carlofortini sanno, e i visitatori hanno modo di apprendere dopo una breve chiacchierata con qualsiasi residente, che Fortuna era una gentile signora bionda dagli occhi azzurri, verso la quale moltissime famiglie italiane hanno un debito di riconoscenza.

Fortuna nasce a Carloforte il 25 settembre 1880 e trascorre la giovinezza sull’isola fino al matrimonio, celebrato l’8 maggio del 1902 a Minorca, col ricco commerciante spagnolo Antonio Riudavetz. La famiglia Novella era arrivata sull’isola di San Pietro nel 1793, proveniente da Santa Margherita Ligure: i nonni di Fortuna intendevano proseguirvi l’attività di piccoli armatori di barche per la pesca del corallo. Dal giorno del matrimonio Fortuna diviene l’unica cittadina italiana di Port Mahon, sull’isola di Minorca, e vive la sua tranquilla esistenza in una grande casa sul mare anche dopo essere rimasta vedova e senza figli: neppure lo scoppio della seconda guerra mondiale la coinvolge direttamente perché la Spagna è neutrale.

Il 10 settembre 1943 succede però qualcosa d’imprevisto e sconvolgente: arrivano sull’isola di Minorca gli equipaggi italiani della corazzata Roma e di altre 4 navi da guerra italiane, con a bordo anche feriti e morti. La situazione degli equipaggi è disperata, perché secondo il diritto internazionale, vista la neutralità spagnola, gli oltre 1.800 marinai devono ripartire con le loro navi entro 48 ore senza far rifornimento, oppure consegnarsi alle autorità locali.

Cos’era accaduto nel frattempo?

L’8 settembre del 1943 era stata diffusa la notizia dell’armistizio e le navi da guerra ancorate a La Spezia e a Genova erano partite durante la notte per sfuggire ai tedeschi e far rotta verso l’isola della Maddalena. Durante il viaggio arriva la notizia che La Maddalena è stata occupata dai tedeschi e la flotta cambia direzione. Quindici aerei tedeschi le bombardano: la corazzata Roma viene colpita due volte, va a fuoco e affonda rapidamente, trascinando con sé 1.393 marinai. Le altre navi, compresa la corazzata Italia (colpita, ma in grado di navigare), proseguono verso Sud, invece l’incrociatore Attilio Regolo e i tre cacciatorpediniere Carabiniere, Fuciliere, Mitragliere si fermano a raccogliere 25 vittime e 624 superstiti della corazzata Roma e proseguono per Port Mahon.

Fortuna, giunta a conoscenza della situazione, apre le porte della sua casa, cura i feriti, procura loro da mangiare, e offre degna sepoltura ai 25 marinai che hanno perso la vita; mette a frutto le conoscenze “altolocate” e il suo titolo di “vice console onorario d’Italia”, per convincere gli ufficiali a consegnarsi alle autorità, e per ottenere in cambio gli aiuti necessari e il permesso, per i marinai, di permanenza sulle navi.

Villa Fortuna diventa un pezzo di patria, rifugio dei bisognosi di cure e assistenza: per 16 mesi, “Mamma Fortuna” o “Mamma Mahon”, come ormai la chiamano, è il punto di riferimento per l’intera comunità marittima. Dopo la loro partenza Fortuna continua a occuparsi dei defunti, fa in modo che a nessuno manchi una croce col nome, qualche fiore fresco, una preghiera. Nel 1950 la Marina Italiana fa costruire a Minorca un mausoleo per ricordare le vittime della corazzata Roma e alla cerimonia di inaugurazione Fortuna è ospite d’onore.

Tra le famiglie dei superstiti, mamma Mahon non viene dimenticata, invitata più volte nella capitale da parte della Marina Militare, due anni dopo Fortuna accetta: accolta in udienza privata dal papa, oggetto d’attenzione da parte degli organi di stampa e d’informazione, riceve molti riconoscimenti e incontra i parenti dei caduti. Nel luglio 1953 riceve dal presidente della repubblica Luigi Einaudi la “Stella di Solidarietà Italiana di prima classe” e con l’occasione è invitata e ospitata a Carloforte, dove l’attende un intero paese in festa. Riparte per Mahon poco dopo Natale, e vi resta fino alla morte, avvenuta il 26 giugno del 1969, all’età di 89 anni.

Oggi il ricordo della generosità di Fortuna Novella è affidato alla riconoscenza di 1.800 famiglie e a una piccola targa nel porto di Carloforte.

Carloforte: un angolo di Liguria in terra sarda

di Laura Candiani, 17 ottobre 2013

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La toponomastica ricorda due donne generose L’uiza de San Pé (isola di san Pietro) - sesta per superficie fra le isole italiane- ospita un solo pàise: Carloforte (fondato il 17 aprile 1738) che prende il nome da Carlo Emanuele III di Savoia, il sovrano che trovò una nuova patria per i profughi, di origine ligure, che vivevano da circa due secoli nell’isoletta tunisina di Tabarca.

In questo luogo praticamente disabitato, vicinissimo alla costa e alla gemella isola di Sant’Antioco, i “tabarchini” mantennero le usanze tenacemente conservate e crearono un ambiente che stupisce il visitatore che arriva dal mare: un villaggio colorato di sfumature pastello, case aggrappate alla collina, vicoli che salgono ripidi (creuza de ma) , palme e bouganville, agricoltura a terrazze. Ancora oggi si parla il dialetto di Pegli e se ne incoraggia l’uso anche a scuola, si usano cibi tipicamente liguri (come il pesto, le trofie, la farinata di ceci), si scrivono cartelli e insegne in tabarchino (con gli articoli “u” al maschile e “a” al femminile), si trovano cognomi come Parodi, Baghino, Brichetto, Pittaluga. Un angolo della vecchia Liguria magicamente trasportato in terra sarda .

La toponomastica locale, oltre a ricordare la storia propria degli abitanti (piazza Pegli , via Tunisi , piazza Carlo Emanuele), rimanda alle isole del Mediterraneo (via Ponza, via Pianosa, via Tabarca, via Caprera,via Isola Piana)e alle località culturalmente affini (via Calasetta, via Chiavari, via Alicante, dove si erano stabiliti altri profughi che oggi hanno perduto però le antiche tradizioni).

Il dato più evidente tuttavia emerge dalle attività legate tradizionalmente alla pesca soprattutto del tonno e del corallo che sono state primarie per la vita e il sostentamento della popolazione e oggi si mantengono (anche con feste e sagre come il “Girotonno”); troviamo dunque una serie di strade con nomi oscuri per i non addetti : via Raìs (il capo delle operazioni della tonnara), via Calafati (gli operai addetti alla impermeabilizzazione degli scafi), via Tonnarotti, via Corallari, corso Battellieri, via dei Naviganti, via dei Salinieri, via delle Mosciare (piccole barche da pesca), piazza dei Galanzieri (i trasportatori di galena, minerale a base di piombo: lavoro pericoloso e durissimo che il medico piemontese Cavallera cercò di tutelare).

Le donne non avevano molto spazio in questo mondo di lavoratori quasi totalmente maschile (a loro poteva essere riservato il compito di riparare le reti e di intrecciare le nasse, oppure di pulire, salare, cucinare il pesce); la toponomastica locale non ricorda le lavoratrici né le regine dei Savoia, ma curiosamente, oltre a dedicare due vie che partono dal lungomare una a S. Teresa (e arriva proprio al forte Santa Teresa) e l’altra a S. Lucia, presenta una lunga strada in alto, che circonda a ventaglio il paese , chiamata salita Santa Cristina.

Vengono così costeggiati i resti delle mura, l’antica porta Leone, le scuole elementari, il liceo, la scuola media, il forte Santa Cristina: passeggiando si domina fino al mare con bellissimi scorci del porto e delle stradine scoscese. Carloforte ricorda poi – con due vicoletti fra loro vicini - l’educatrice religiosa suor Maria Scaccabarozzi (1899-1984) e la beata Carolina Damele; quest’ultima era nata proprio nell’isola, nel 1883, e si dedicò fin da giovane alla preghiera e alla povertà, divenendo terziaria. Prima a Roma e poi a Gaeta - dopo aver lasciato i suoi beni ai parenti - si adoperò attivamente per i malati e i bisognosi, vivendo in umiltà francescana. La morte la colse a Gaeta nel 1952, ma dal 1988 le sue spoglie sono state riportate a Carloforte.

Un’altra particolare storia di generosità e altruismo riguarda una donna dal nome fiabesco, così bello che sembra inventato e alla quale dedicheremo un intero articolo: Fortuna Novella.

Iglesias per tre giovani donne coraggiose

  di Teresa Spano e Anna Marcias, 5 ottobre 2013

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Toponomastica Femminile. Nella parte sud occidentale della Sardegna, sui rilievi che chiudono la valle del Cixerri, si trova Iglesias. Spiagge, colline, verdi vallate e il Parco Geominerario basterebbero a rendere indimenticabile la città. Ma sono soprattutto la sua storia, il patrimonio architettonico, le antiche testimonianze del medioevo toscano, della dominazione spagnola, delle sue chiese a catturare l’attenzione. Frequentata dal Neolitico, fondata alla fine del XIII secolo dal conte Ugolino della Gherardesca, con il dominio pisano divenne una delle città sarde più importanti e popolose grazie alle attività estrattive del carbone, della blenda (minerale di zinco), della galena (minerale di piombo), e di piccole quantità di argento.

Oggi conta circa trentamila abitanti. E’ capoluogo e sede vescovile, erede storica dell’antica diocesi del Sulcis. Il suo stradario conta 519 vie, di cui 306, 191 maschili e 22 femminili. A conti fatti il 4,2% delle strade di Iglesias ha un’intitolazione femminile ma rientrano nell’esigua percentuale anche 5 strade dedicate alla Vergine Maria (una via e quattro vicoli), tre vie e un Ospedale a Santa Barbara, una via e un vicolo a Eleonora D’Arborea.

Le altre aree di circolazione ricordano due Sante (Margherita e Maddalena), due personalità del mondo cattolico (Chiara Lubich e Madre Teresa di Calcutta) quattro scrittrici (Grazia Deledda, Ada Negri, Amelia Melis de Villa, la piazza nel Castello Salvaterra a Grazia Sanna Serra), una cantante sarda (Maria Carta) e tre giovani donne: due vittime di mafia e una giornalista. Nel rione Col di Lana troviamo la via dedicata ad Emanuela Loi, Medaglia d’Oro al valor civile, agente di Polizia, nata a Sestu (CA) e uccisa a Palermo il 19/07/1992, a soli 25 anni, nell’agguato mafioso di via D’Amelio insieme al giudice Paolo Bosellino e ai colleghi Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli.

Emanuela, che amava i bambini, si era diplomata alle magistrali e, in attesa di concorrere al bando che le permettesse di insegnare, aveva fatto domanda in Polizia. Tre anni dopo, veniva mandata in prima linea a Palermo, preposta al servizio di scorta, prima con il Giudice Falcone e poi con il Giudice Borsellino: un servizio duro, con turni impossibili e molti rischi che ha sempre assolto con grande coraggio e assoluta dedizione.

La Sardegna le ha dedicato diverse vie, scuole e persino un ponte sulla strada statale 554 che collega Cagliari all’hinterland: nella campata centrale è stata affissa una targa in sua memoria.

Nella località “Funtanamarzu” troviamo altre due vie di recente intitolazione dedicate ad altre due grandi donne contemporanee: Ilaria Alpi e Rita Atria.

Ilaria Alpi, romana di nascita e di formazione, grazie all’ottima conoscenza di arabo, francese e inglese, ottiene le prime collaborazioni giornalistiche al Cairo per conto di Paese Sera e l’Unità. Successivamente, vinta una borsa di studio, viene assunta alla RAI. Inviata in Somalia dal TG3, segue l’operazione “Restore Hope” per indagare su un traffico d’armi e rifiuti tossici che coinvolgeva vertici istituzionali e militari italiani. Ilaria voleva usare contro di loro la più pericolosa delle armi, “ la verità”, e per questa ragione viene uccisa il 20/03/1994 a Mogadiscio assieme al collega Miran Hrovatin, a colpi di kalashnikov. Le indagini del caso sono tutt’ora aperte.

Rita Atria, originaria di Partanna, è figlia di un piccolo boss di quartiere facente capo agli Accardo. Nella sua famiglia faide, strategie, vecchi rancori, interessi di ogni tipo, sono all’ordine del giorno. Il 18 novembre dell’85, Rita dodicenne, si trova davanti al cadavere del padre, Vito Atria, crivellato di colpi, fra le urla e gli impegni di rappresaglia dei familiari. Aiutata da Paolo Borsellino e incoraggiata dalla cognata Piera, vedova del fratello Nicola, diviene essa stessa testimone di giustizia. A soli 17 anni, vissuta in un ambiente mafioso, minacciata persino dai sui parenti, viene nascosta da Borsellino in un appartamento di Roma. Dopo la morte del giudice, Rita perde ogni speranza, scrive nel suo diario: ” quelle bombe in un secondo spazzarono via il mio sogno, perché uccisero coloro che, con il loro esempio di coraggio, rappresentavano la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto. Ora tutto è finito!” e si toglie la vita. Al suo funerale il paese non partecipa, e neppure sua madre, che l’aveva ripudiata e minacciata di morte perché la sua ribellione “le procurava stizza e preoccupazione”.