Requiem per il ricordo del lavoro alla Superga

In tela e gomma, le Superga sono state le prime scarpe con cui la mia generazione è entrata nella palestra della scuola. “Superga” era sinonimo di scarpe da ginnastica o da tennis, prima che altri brand si imponessero sul mercato in espansione delle calzature sportive.
Il marchio peraltro esiste ancora, ma non la fabbrica torinese, che ha chiuso una ventina di anni fa, dopo essere entrata in crisi negli anni ‘90.
Dello stabilimento dove per decenni hanno lavorato migliaia di donne non rimane oggi che la palazzina direzionale di via Verolengo, che avrebbe dovuto ospitare, una volta ristrutturata, la Asl 2, ma del progetto non se ne è fatto nulla, milioni di euro sono andati in fumo e da tempo l’edificio del primo ‘900 si sta malinconicamente degradando.
In compenso, il giardino che è stato creato proprio lì dietro, nell’area un tempo occupata da un’ala della grande manifattura, è stato intitolato alle “Operaie della fabbrica Superga” e nel 2012 vi è stata inaugurata, e apposta sulle pareti di una monumentale fontana preesistente, un’installazione che avrebbe il compito di ricordare proprio il lavoro delle maestranze femminili, che nella fabbrica erano la grande maggioranza.

Dico “avrebbe” perché in realtà non solo non esiste (né sembra che sia mai esistito) uno straccio di cartello esplicativo per far capire che quelle quattro paia di mani metalliche rappresentano i gesti del lavoro delle operaie, ma anche dell’intitolazione del giardino non c’è traccia e nessuno ne sa niente. Non lo sanno le mamme che ci portano i bambini a giocare, non lo sanno i proprietari dei cani che ci passeggiano tutti i giorni, non lo sanno i pensionati che vi leggono il giornale seduti sulle panchine, o il netturbino che ci passa quotidianamente, non lo sanno nemmeno alla Circoscrizione la cui sede è a un tiro di schioppo.
Siamo nella periferia nord di Torino, in un quartiere popolare, qui il degrado delle opere anche recenti stringe il cuore, e non è solo degrado fisico.
Quella di ricordare il lavoro di migliaia di donne che hanno passato anni a confezionare scarpe era una buona idea, ma è stata sprecata.
E non si venga a dire, al solito, che è-altro-quel-che-serve alle donne, e spiace che anche la simpatica Luciana Littizzetto si sia unita al coro. Perché sì, è vero che ci sono cose più importanti, e che il lavoro, e che gli asili, e che la sicurezza eccetera… Ma contrapporre, come si fa, i due piani, quello delle realizzazioni concrete e quello culturale e simbolico, si rivela un’operazione priva di senso di fronte al fatto che è proprio lì dove la condizione femminile è più difficile, nelle periferie, che anche il ricordo della storia delle donne impallidisce nel degrado e nell’oblio.