Le vie delle donne che vorremmo

 

Marcella dell’Aventino

Marcella dell’AventinoMarcella, nata intorno al 330 in una delle famiglie romane più illustri, quella dei Marcelli, fu donna di vasta e raffinata cultura. Come spesso è accaduto, la storia ne ha cancellato gli scritti, ma la sua memoria è conservata nelle risposte date alle sue lettere da San Girolamo, padre della Chiesa. Indirettamente, la figura della donna emerge come devota alla penitenza, al digiuno e alla preghiera.

Vedova giovanissima, torna a vivere con la madre in una casa sull’Aventino, rinunciando alla mondanità a favore della riservatezza. La casa di Marcella diventa ben presto luogo dove si riuniscono figure femminili nobili, come Sofronia, Asella, Principia, Marcellina, Paola Eustochio, tanto che la donna decide di creare un gruppo, denominato Circolo dell’Aventino, composto soprattutto da donne che condividono con la fondatrice l’interesse per le Sacre Scritture.

Marcella si avvicina allo spirito ascetico del monachesimo, che consiste nell’abbandono di ogni bene mondano, e quando le fu proposto in matrimonio un facoltoso console, lo rifiutò per dedicarsi a una vita ritirata e casta.
La sua morte è legata al crollo dell’Impero d’Occidente, quando Roma viene assediata e saccheggiata dai soldati di Alarico. Come in tutte le guerre, alla devastazione si accompagna il furto e alla rapina lo stupro. In casa di Marcella, ormai anziana, vive anche la sua giovane discepola Principia. Quando i soldati arrivano, pretendendo soldi e fanciulla: Marcella, per difenderla, le fa da scudo e viene pesantemente picchiata. Di lì a poco morirà.

di Barbara La Rosa


Joyce (Gioconda) Salvadori Lussu

Joyce (Gioconda) Salvadori LussuNata a Firenze, ebbe una educazione cosmopolita e libertaria, fatta di libri, passeggiate nei giardini storici e botanici, natura, libertà.
Le violenze squadriste sul fratello e sul padre porteranno la famiglia nel 1924 in Svizzera. La sua formazione matura, in quegli anni, in un vortice di viaggi e di esperienze, in Italia per conseguire la maturità classica agli studi, in Germania per seguire il filosofo Karl Jaspers. Qui Joyce assiste consapevole all’affermarsi del nazismo; si laurea in Lettere alla Sorbona e in Filologia a Lisbona.
Nel 1932 il fratello viene arrestato: comincia per lei un’attività che la porta a distribuire stampa antifascista clandestina per Giustizia e Libertà. E proprio in una di queste missioni clandestine riceve l’incarico di consegnare un messaggio segretissimo a Emilio Lussu, un mito dell’antifascismo in esilio all’estero; lo troverà a Ginevra e il loro sodalizio durerà per tutta la vita.

La stagione del dopoguerra pone a Joyce il problema di fare politica da sé. L’impegno troverà un esito originale (e del tutto coerente con la sua storia di scrittrice e militante) nel lavoro di traduzione e di divulgazione dei poeti rivoluzionari del Terzo Mondo. Convinta che la traduzione non sia attività filologica accademica ma conoscenza viva e diretta degli autori, della loro matrice storica, sociale ed umana, elabora il suo metodo insolito: incontrare i poeti, anche nei più remoti villaggi, conoscere e vivere il loro mondo attraverso letture e poi direttamente, usare le lingue comuni, lavorare insieme. Così sarà per l’Africa, per la poesia degli Eschimesi e dei Curdi. Ma su tutti spicca l’incontro con il poeta turco Nazim Hikmet, dal 1950 in esilio dopo dodici anni di carcere. Joyce, traducendo migliaia dei suoi versi, confermerà il suo stile di scrittrice, in una lingua che si mette alla pari, che parla a tutti. E dopo Hikmet, la poesia del Black Power e degli Albanesi.

Dopo la morte di Emilio nel 1975, Joyce racconta di aver lasciato la casa di Roma per recuperare la sua storia, le storie intellettuali delle donne della sua famiglia e quelle di un mondo arcaico che aveva la forza delle Sibille e delle madri, nell’immaginazione politica di un mondo pacifista e giusto. Ha condiviso lo strillo femminista, che aveva rivelato l’inadeguatezza di una politica e di un’ideologia per cui lo spazio delle donne era principalmente uno spazio in più, da sommare al lavoro e ai ruoli tradizionali.

di Barbara Belotti e Carla Giacobbe


Funmilayo Ransome-Kuti (1900-1978)

Funmilayo Ransome-KutiÈ stata una figura di spicco del mondo politico nigeriano. Insegnante, femminista, attivista dei diritti umani e del movimento anti coloniale, fondatrice della Nigerian Women’s Union, ebbe un ruolo importante nel movimento per l’indipendenza della Nigeria e per i diritti politici delle donne. Si impegnò per dare alle donne del suo Paese una migliore educazione, organizzando i primi programmi di formazione per adulte che chiamò “Social welfare club for market women”.

Negli anni quaranta, a seguito della decisione dell’amministrazione coloniale inglese di introdurre misure e tributi che penalizzavano fortemente i diritti e l’indipendenza economica delle nigeriane, organizzò scioperi delle tasse, dimostrazioni e azioni di disobbedienza civile che portarono al collasso l’amministrazione coloniale e costrinsero -nel 1949- all’abdicazione del re Obda Ademola II.

Queste dimostrazioni, che ebbero grande risonanza nell’intero paese e a livello internazionale, sono passate alla storia col nome di Egba Women’s War. La “leonessa di Lisabi”, come veniva chiamata Funmilayo, si batté fortemente per il diritto di voto alle donne. In seguito aderì all’NCNC, partito del primo presidente della Nigeria post coloniale, Nnamdi Azikiwe.
Morì nel 1978 per le gravi ferite riportate in un brutale attacco da parte delle forze militari del dittatore e capo di stato Olusegun Obasanjo. Viene ricordata come la “madre dei diritti delle donne nigeriane”.

di Irene Giacobbe