III Municipio - Le vie delle donne

 

Matilde di Canossa

Matilde di CanossaImparentata per via materna con gli imperatori ed influente sulla scelta dei pontefici grazie al casato paterno, Matilde ebbe fin da piccola un ruolo politico centrale, tanto da essere rapita a soli 10 anni da Enrico III.
Alla morte della madre, nel 1076, i suoi domini spaziavano dal Lazio al Lago di Garda ed erano di grande importanza sia per i papi che per gli imperatori. All'inizio dell'anno successivo Matilde risultava infatti già inserita come elemento chiave nelle dinamiche di potere tra Gregorio VII ed Enrico IV. Quest'ultimo era stato scomunicato e, costretto ad affrontare diverse rivolte, finì per chiedere il perdono papale a Canossa, dove la contessa tenterà la mediazione tra i due. La tregua così stipulata non durò: nel 1080 Enrico dichiarò deposti il papa e Matilde. Mentre il primo fu costretto all'esilio, la contessa al contrario riuscì ad opporsi all'imperatore: nel 1804 vinse la battaglia di Sorbara e riuscì a formare un'accorta rete di alleanze filopapali.
Nel 1092, tradita da alcune città, Matilde si rifugiò nei suoi feudi reggiani e solo grazie all'aiuto di vassalli fedeli riuscì a uscire dall'impasse, partecipando personalmente alla battaglia decisiva.
Nel 1111 Matilde stipulò una pace stabile con il nuovo imperatore, ricevendo il titolo di Regina d'Italia e Vicaria papale e si dedicò alla vita contemplativa fino alla morte (1115).

Dal 1633 è una delle tre sole donne le cui spoglie siano ospitate nella basilica di San Pietro a Roma.

di Giulia Salomoni


Eleonora d'Arborea

Eleonora d'ArboreaFiglia del Giudice Mariano IV, che governava il regno d’Arborea, Eleonora (Molins de Rei, 1340 - Oristano, 1403) è forse il personaggio più illustre della storia della Sardegna. Di lei, Carlo Cattaneo dirà che “è la figura più splendida di donna che abbiano le storie italiane, non escluse quelle di Roma antica”.
Nel 1383 Eleonora è alla guida del Giudicato in qualità di reggente, data la tenera età del figlio Federico avuto da Brancaleone Doria. Da subito si trova a gestire una lunga trattativa di sei lunghi anni con gli Aragonesi, che mirano ad avere il dominio sul Giudicato e tengono in ostaggio Brancaleone.
Eleonora regge mirabilmente le sorti del Giudicato d’Arborea: da un lato cerca di realizzare il disegno politico del padre di unificare la Sardegna in un unico regno, mentre dall’altro persegue l’organizzazione giuridico-amministrativa del Giudicato con la promulgazione della Carta de Logu, redatta in volgare sardo, considerata uno dei più importanti statuti italiani del Trecento. Traducendo in legge scritta le usanze della società sarda, la Carta propone diversi elementi innovativi anche per la condizione femminile: chi compromette una donna, ad esempio, ha l’obbligo di sposarla esclusivamente se lei lo gradisce, altrimenti deve garantirle per tutta la vita una dote senza imporle il matrimonio.
L’importanza della Carta de Logu fu tale che rimase in vigore sino al 1827.

In Sardegna quasi tutti i paesi ricordano Eleonora dedicandole una piazza, una strada o un edificio.

di Daniela Serra


Piccarda Donati

Piccarda DonatiLa vicenda di Piccarda Donati, celebrata nella Divina Commedia, è avvenuta realmente alla fine del 1200. Entrata nel convento delle Clarisse di Firenze, era stata costretta dal fratello Corso, capo del partito dei Guelfi Neri, ad abbandonare il velo e a contrarre un matrimonio vantaggioso per gli interessi familiari e per la sua carriera politica.

Dante la incontra nel Paradiso, nel cielo più vicino alla terra, quello della Luna, simbolo di incostanza, incostanza femminile. È fra gli spiriti che, non riuscendo a portare a termine il loro voto, hanno tratti indistinti come fossero dietro a vetri trasparenti e tersi. Dante non riconosce Piccarda ed è lei a rivelarsi: gli si fa incontro sorridente, più bella di un tempo per la condizione di beatitudine in cui si trova. Dante chiede e Piccarda, amabilmente, gli risponde. Le cronache medievali raccontano che la donna sarebbe morta di crepacuore poco tempo dopo le nozze; altri commentatori dicono che, contratta la peste, la morte l’avrebbe colta pochi giorni dopo il matrimonio, consentendole di conservare così la sua verginità. Né l’una né l’altra ipotesi interessa a Dante, che affida a Piccarda stessa la possibilità di raccontare la conclusione della sua dolorosa vicenda, con poche, toccanti parole: Iddio si sa qual poi mia vita fusi. Piccarda, ormai beata, non recrimina più nulla e con la sua reticenza lascia al lettore la facoltà di immaginare la sua vita dopo la violenza subita. Ancora una donna cui è stato impedito di affermare il proprio diritto di scelta.

di Maria Rosaria Melita