Alva Reimer Myrdal

(Uppsala, 1902– 1986)

Ad Eskilstuna, in Svezia, c’è una strada intitolata ad Alva Myrdal. In Francia un viale porta il suo nome a Trappes. In Germania sono a lei intitolate una via a Gottinga ed una a Lemgo. In Spagna troviamo una via a Rubì ed un viale a Getafe.
Una scuola è a lei intitolata in Messico.

Una vita per il disarmo
di Saveria Rito

Alva Reimer nacque ad Uppsala il 31 gennaio 1902 e, dopo essersi laureata all'Università di Stoccolma, sposò a ventidue anni Gunnar Myrdal, a sua volta Premio Nobel per l'Economia nel 1974. Insieme viaggiarono a lungo in Europa e negli Stati Uniti per osservare da vicino diversi problemi socio-economici e furono autori del libro-manifesto, pietra miliare del sistema politico svedese, "Kris befolkningsfrågan" (La crisi nella questione demografica), pubblicato nel 1934, col quale proponevano di istituire una commissione d'inchiesta demografica e avviare nuove politiche di welfare, soprattutto a sostegno della maternità, per incrementare le nascite in una Svezia preoccupata dal crollo della popolazione. Per tale ragione vennero richiesti case, assegni familiari, sussidi statali e istruzione gratuita a sostegno delle famiglie. Della commissione, inaugurata l'anno successivo, fecero parte gli stessi coniugi Alva e Gunnar Myrdal insieme a psicologi, economisti e accademici, quasi tutti sostenitori di teorie eugenetiche positive, che portarono alla legalizzazione dell'aborto, alla liberalizzazione dei contraccettivi e ad ampi programmi di sterilizzazione per "utilità sociale".
Qualche anno più tardi, nel 1956, Alva si occupò in modo specifico del doppio ruolo della donna, a casa e a lavoro, in un'opera a quattro mani con Viola Klein, con ampie riflessioni sulle fasi della vita della donna, sui mutamenti della famiglia e dei modelli sociali e suggerendo proposte concrete per favorire il lavoro femminile.
Alva entrò in politica come esponente del Partito Socialdemocratico svedese con un programma incentrato proprio sul welfare, ma dimostrò sin da subito anche uno spiccato interesse per le questioni internazionali che la portò, a partire dai primi anni Quaranta, ad occuparsi dei programmi di ricostruzione postbellica presso l'Organizzazione delle Nazioni Unite.
Tra il 1950 e il 1955 fu presidente della sezione scientifica UNESCO e, nel 1962, ricoprì l'incarico di delegata del suo paese alla Conferenza di Ginevra per il disarmo, che mantenne fino al 1973. Proprio in quel contesto giocò un ruolo determinante proponendo, in collaborazione con altre nazioni, la necessità che fossero le due superpotenze, Stati Uniti ed ex Unione Sovietica, a dare per prime segnali tangibili di politiche di disarmo. Dopo la fine della sua esperienza al tavolo dei negoziati, nel 1976, scrisse  The game of disarmament : how the United States and Russia run the arms race, sottolineando come non ci fossero stati reali passi avanti nelle limitazioni agli armamenti soprattutto per opposizione delle superpotenze.
Fu anche membro del Parlamento e del Governo svedese, ambasciatrice in India per il suo paese ed ebbe parte attiva nell'apertura dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI).
Per il suo importante contributo alla politica di disarmo, nel 1982, Alva Myrdal fu insignita del Premio Nobel per la Pace con il diplomatico messicano Alfonso Garcia Robles, riconoscimento preceduto dal German Peace Prize (vinto con suo marito nel 1970), dall'Albert Einstein Peace Prize del 1980 e dal Jawaharlal Nehru Award for International Understanding dell'anno successivo.
Un riconoscimento arrivato ad ottant'anni dopo una vita dedicata alla politica, alla diplomazia internazionale, alla lotta per il disarmo.
Morì nel 1986 ad Uppsala.

Fonti
Stefan Bollmann, Le donne che pensano sono pericolose, Edizioni Piemme, 2014
Thomas Etzemüller, Alva and Gunnar Myrdal : social engineering in the modern world, Lanham, Lexington Book, 2014
Luca Dotti, L'utopia genetica del welfare state svedese (1934-1975), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004
Alva Myrdal-Viola Klein, Women's two roles. Home and Work, London, Routledge & Kegan Paul, 1956

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- K -


Suor Maria Kenneth Keller

(Cleveland, 1913 – Pennsylvania, 1985)
 
A Suor Mary Kenneth Keller è intitolato il Dipartimento di Informatica da lei fondato a Dubuque,  nello Stato dello Iowa.

Il computer di Clarke
di Ester Rizzo

Era nata nel 1913 a Cleveland, nell’Ohio e si era laureata in Matematica e Fisica alla DePaul University. Nel 1958 fu la prima donna ad essere ammessa al futuristico Computer Center  dell’Università di Darmouth, nel New Hampshire, in cui per statuto fino ad allora erano ammessi solo lavoratori uomini.
Conseguì il dottorato in Informatica all'Università di Wisconsin-Madison nel 1964.
Suor Mary Kenneth, con la sua vivida intelligenza, si guadagnò ben presto la stima dei colleghi, dando un contributo allo sviluppo del linguaggio semplice ma potente del Basic. Questo linguaggio, dopo pochi anni, verrà implementato su un calcolatore di Dartmouth e da lì partirà il boom del personal computer.
Suor Mary Kenneth era diventata novizia a diciannove anni, entrando nella Congregazione delle Suore della Carità della Beata Vergine Maria, e le consorelle, vista la sua attitudine agli studi sia umanistici che scientifici, le permisero subito di insegnare. In seguito, dopo aver preso i voti perpetui nel 1940, le fu permesso di laurearsi prima in Matematica e poi in Matematica e Fisica alla University DePaul.
Negli anni Cinquanta le sue alunne erano da lei sempre spronate a interessarsi a quegli elaboratori sofisticatissimi che allora erano appannaggio soltanto di centri specializzati.
Fu soprannominata “il computer di Clarke”e i suoi ex studenti la ricordano “come silenziosa e dal portamento austero, ma generosa nell’insegnamento e dalla battuta tagliente”.
E’ stata un punto di riferimento importante per chi si occupava di informatica e fornì consulenza a diverse aziende.
Jennifer Head, l’archivista delle Suore della Carità che ha raccolto materiale e testimonianze sulla sua vita, riferisce che quando si ammalò di cancro, nel 1983, fu ricoverata a Marian Hall, una casa di cura per anziani in Pennsylvania. In questo ricovero Suor Mary Kenneth si fece subito portare un personal computer e organizzò un corso per tutti i degenti. La sua classe era composta da dodici studenti, di cui due con le stampelle, uno quasi cieco e quattro in carrozzina, che avevano un’età media vicina agli ottant’anni.
Il suo Apple fu prezioso: con questo computer elaborò l’organizzazione dei pasti per tutti i malati, indicando menù più equilibrati dal punto di vista nutrizionale. Inoltre provvide a stilare un piano preciso per l’assunzione dei medicinali da parte dei malati.
Morì nella stessa casa di cura nel 1985 all’età di settantadue anni.
Il Dipartimento di Informatica presso il Clarke College di Dubuque, nello Iowa, che lei ha fondato e diretto per vent’anni, porta il suo nome: Keller Computer Center and Information Services.

Fonti
www.avvenire.it/Cultura/Pagine/suor-mary-kenneth.aspx
en.wikipedia.org/wiki/Mary_Kenneth_Keller

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Umm Kulthum

(al-Sanballāwayn, 1898 (altre fonti 1904) – Il Cairo, 1975)

A Gerusalemme una via è intitolata a lei nel quartiere di Beit Hanina.

Tarab
di Ester Rizzo

Viene ricordata come "la stella d'Oriente".
Nacque da una famiglia di contadini in un villaggio a nord-est de Il Cairo. Apprese il canto da suo padre, imam della moschea locale, che gestiva un gruppo di cantanti che si esibivano nei matrimoni ed in altre cerimonie. Il suo nome d'arte fu Fatima Ibrahim al-Bitagi. Dovette aspettare di compiere 23 anni prima di rivelare la sua vera identità, infatti la mentalità repressiva di un certo mondo islamico la costringeva a travestirsi da maschio quando si esibiva in pubblico. Si trasferì a Il Cairo per studiare ed esibirsi nei teatri della città egiziana. Umm rivelò un'eccezionale maestria nella poesia cantata (qsaida) e nella cantillazione del Corano (taiwid). Durante i suoi concerti dal vivo gli spettatori entravano in totale sintonia con lei, tanto che il suo modo di cantare fu definito "tarab" cioè estasi, rapimento mistico. La qualità e la bellezza della sua voce stava nel come utilizzava la tecnica del ghinà, “parlare con suono nasale”, ovvero voce impostata, sonora, melodiosa.
Dal 1934 fino alla fine degli anni Settanta in radio, ogni primo giovedì del mese veniva trasmesso un suo concerto e in quell'occasione milioni di egiziani lasciavano le loro attività quotidiane per ascoltarla. Nel 1944 ricevette dal Re Farouk il più alto degli ordini onorifici d'Egitto, il Nishan Kamal, riservato fino ad allora solo ai membri della famiglia reale ed ai politici.
Tenne concerti nelle maggiori città: Damasco, Tripoli, Beirut, Baghdad...
Nel 1953 si sposò con un medico egiziano.
Morì il 3 febbraio del 1975 e in quell'occasione così scrissero: "Il suo funerale è stato unico nella storia dell'Egitto, un evento che l'ha paralizzato. Tre milioni di egiziani hanno invaso la capitale. Fazzoletti che sventolavano, fiori e lamenti, canti e lacrime accompagnavano il feretro... la bara è stata passata di mano in mano sulle teste della folla riunita, trascinata da un mare di persone di questo corteo lungo oltre 10 chilometri che attraversava il Cairo... erano presenti tutti i Capi di Stato Arabi".


Fonti
Valeria Ines Crivello, Umm Kulthum, portavoce nell’Egitto postcoloniale, in Noi Donne, Dicembre 2012
http://www.guidaegitto.net/tradizioni/personaggi/umm-kulthum.htm

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- P -


Marie Paradis

(Chamonix, 1778 – 1839)

A lei sono intitolate una strada di Chamonix ed una scuola elementare di Sant-Gervais-les-Bains.

http://toponomasticafemminile.com/index.php?option=com_content&view=article&id=9227&Itemid=9340

 

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Madeleine Pelletier

(Parigi, 1874 – Epinay-sur-Orge, 1939)

A lei è intitolata una via nelle città francesi di Poitiers, Ploermel e Rezè.
Nessuna via è a lei intitolata a Parigi.

La femme vierge
di Ester Rizzo

Nacque a Parigi il 18 maggio 1874 in una famiglia povera: la madre vendeva frutta e verdura al mercato ed il padre era un vetturino. Vivevano in ristrettezze economiche soprattutto a causa dei problemi di alcolismo di cui soffriva il padre. 
Studiò Antropologia interessandosi in particolare della relazione tra il quoziente intellettivo umano e le dimensioni del cranio: in quel periodo infatti si sosteneva una teoria misogina che poneva la donna in una condizione di inferiorità intellettiva dato che il cranio femminile era più piccolo di quello maschile. Madeleine, disgustata da questa tesi corrente, abbandonò l’antropologia. 
Nel 1904 si iscrisse alla Massoneria, che abbandonò ben presto quando si rese conto che non approvava le pratiche di interruzione di gravidanza. 
Nel 1905 decise di impegnarsi attivamente in politica e sin da subito fu eletta segretaria dell’associazione “La Solidarité des femmes”. 
Sempre nello stesso anno fu tra le fondatrici del Partito Socialista Francese. Ma gli stessi compagni socialisti non comprendevano le sue istanze femministe, poiché consideravano la questione dell’emancipazione della donna secondaria rispetto alla rivoluzione proletaria. 
In seguito, Madeleine si iscrisse al Partito Comunista Francese che comunque abbandonò nel 1926 per aderire al Partito Anarchico. 
Nel 1910 fu protagonista, insieme ad altre suffragette, di una singolare iniziativa: anche se non avevano ancora ottenuto il diritto di voto, presentarono la loro candidatura all’Assemblea nazionale francese. Candidatura che, ovviamente, fu respinta.
Sempre nel 1910, dopo aver lavorato per le poste francesi, superò il concorso ed iniziò a lavorare nell’ospedale della “Pitié-Salpétriere” di Parigi. 
In un suo articolo dello stesso anno scrisse: "Le donne devono porre l'emancipazione del loro sesso prima della patria, perché, là dove solo gli uomini sono cittadini, non ha senso che le donne siano patriote". 
Durante la prima guerra mondiale Madeleine entrò nella Croce Rossa, prestando soccorso e assistenza ai soldati di entrambi gli schieramenti. 
Scrisse innumerevoli saggi e nel 1933 anche un romanzo, La femme vierge,in cui condannava sia il matrimonio che le libere unioni, affermando che “la verginità militante” era l’unico modo per anelare ad una libertà della donna. 
Nel 1937 fu colpita da un ictus ma, seppur invalida, continuò lo stesso a procurare aborti alle ragazze in difficoltà che non volevano avere un figlio. A tal proposito dobbiamo ricordare che, nel 1939, fu anche arrestata a causa delle interruzioni di gravidanza che effettuava nel suo ambulatorio privato ma non fu processata perché dichiarata inferma di mente. 
Madeleine, eccentrica ed originale, si vestiva sempre da uomo: bombetta, bastone, capelli da ragazzo, in un completo maschile di taglio incerto. Anche se questi abiti le stavano malissimo, si rifiutava categoricamente di vestirsi da donna. Tutti la ricordano come una donna molto colta, coraggiosa e di spirito libero. 
E’ morta a Epinay-sur-Orge il 19 dicembre 1939 internata in un manicomio francese. 
Negli ultimi anni, in Francia, la sua figura è stata rivalutata per il valore delle sue ricerche scientifiche. 

Fonti:
Valeria Palumbo, Svestite da uomo, Milano, BUR, 2007, pp. 194-196
http://www.literary.it/dati/literary/c/contilli/madeleine_pelletier_18741939.html

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Frances Perkins

(Boston, 1880 – New York 1965)

A lei è dedicato un edifcio del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti a Washington (Frances Perkins Building)

Una donna del New Deal
di Ester Rizzo

Era nata a Boston il 10 aprile 1880, si era laureata in Sociologia nel 1902 e nel 1910 aveva conseguito un master in Scienze Politiche alla Columbia University.
Già da studentessa, mentre frequentava un corso di Storia economica americana, le fecero visitare una fabbrica e vide con i propri occhi le pietose e disagiate condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici. Uomini e donne ricevevano saltuariamente la paga, non avevano garanzie di alcun genere e svolgevano le loro mansioni in condizioni che mettevano a rischio la loro incolumità fisica. Inoltre le operaie, a parità di ore lavorative, venivano pagate sempre meno degli uomini. Una fotografia desolante che, in seguito, non avrebbe mai dimenticato.
Il 16 settembre 1913 si sposò con Paul C. Wilson, un economista che in quel periodo era assistente del sindaco di New York. Lei comunque mantenne il suo cognome da nubile, temendo di perdere “il riconoscimento sociale” che si era conquistata.
Nel dicembre 1916 la coppia ebbe una figlia, Susanna.
Purtroppo, dopo pochi anni di matrimonio, il marito manifestò i primi segni di schizofrenia e per tutta la vita rimase ricoverato in un ospedale.
Frances Perkins fu tra le persone che il 25 marzo 1911 assistettero all’incendio della Triangle Shirtwaist Company in cui morirono 146 persone. Infatti, si trovava in Washington Place mentre l’Asch Building bruciava e le operaie si gettavano nel vuoto. Dopo essere stata testimone di quell’orrore, giurò solennemente a se stessa che quei fatti non sarebbero mai più dovuti accadere e dedicò la sua intera vita alla lotta per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori in generale ma in particolare delle lavoratrici.
Iniziò a lavorare come ispettrice di fabbrica a New York e fece parte di vari comitati ispettivi che si costituirono dopo l’incendio, sia per indagare su quello che era successo, sia per verificare le condizioni di sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro delle altre fabbriche manifatturiere.
Molto più avanti negli anni, durante una delle sue lezioni, parlando di quello che aveva visto quel giorno alla Triangle, Frances disse: “Non dimenticherò mai il gelido orrore che pervase tutto il mio corpo. Poggiai le mani sulla mia gola e mentre assistevo a quelle scene terribili mi resi conto che non potevo in alcun modo aiutare quelle povere donne; e questa considerazione per me fu la cosa più straziante”.
Per tutta la vita ripeterà: “Dopo tutto quello che è successo mi resi conto del valore sacro della vita di un lavoratore, capii come le condizioni precarie della sicurezza potevano uccidere come un fucile”.
Nel 1918 Frances Perkins assunse la carica di direttrice esecutiva del “Maternity Center Association” che si preoccupava di fornire aiuto alle donne in stato di gravidanza: in quel periodo i tassi di mortalità infantile, dovuti soprattutto alla malnutrizione, erano molto alti.
Ricordiamo inoltre che fece parte del Philadelphia Research and Protective Association ed effettuò delle indagini sulle case adibite a pensioni nella città di New York, scoprendo che tante di queste erano state trasformate in bordelli che sfruttavano giovani donne. Francis, con il suo impegno, fece in modo che venissero effettuati dei controlli più severi per il rilascio delle licenze delle pensioni.
Fu nominata Segretaria del Lavoro negli USA nel 1928 sia durante la presidenza Roosevelt, che in quella successiva di Truman, diventando così la prima donna al mondo a ricoprire questa carica e per un periodo così lungo.
Grazie a lei furono introdotte la legge sul salario minimo, l’indennità di disoccupazione, l’erogazione di benefit alle fasce più povere della società.
Ovviamente sensibilissima al tema degli incidenti sul lavoro elaborò e fece approvare una lunga serie di leggi per prevenirli e si deve alla sua instancabile attività la legge che vietava il lavoro infantile e quella che stabiliva che la settimana lavorativa standard non poteva superare le quaranta ore.
Queste leggi in seguito ispireranno la legislazione del lavoro in tutti i Paesi del mondo, ma lei è stata per lungo tempo ignorata dai libri di storia americana, anche perché la stampa dell’epoca non le diede il giusto risalto.
Negli Stati Uniti i milioni di lavoratori e lavoratrici che oggi sono garantiti da leggi sulla sicurezza sociale, i milioni che godono di assegni di disoccupazione, tutti quelli che percepiscono un risarcimento dopo un incidente sul lavoro, ignorano di dover dire grazie a Frances Perkins che lottò sempre con generosità e passione per ottenere la più ampia giustizia sociale. Diceva che era necessario sviluppare e sottostare al principio etico secondo il quale era ingiusto che un uomo o una donna operosa potessero vivere e morire nella miseria. Agì sempre disinteressatamente senza percepire guadagni esosi o riconoscimenti prestigiosi, tanto è vero che trascorse gli ultimi anni della sua vita insegnando in diverse università (University of Illinois, University of Salzbourg, University of Wisconsin e Cornell University) e fino a settantatré anni continuò a lavorare per garantire una adeguata assistenza sanitaria al marito gravemente malato.
Morì a New York il 14 maggio 1965 quasi completamente cieca. Nel 1980 il Congresso americano le intitolò un nuovo edificio del Dipartimento del Lavoro a Washington.

Fonti
Ester Rizzo, Camicette bianche, Navarra Editore, Palermo, 2014
Frances Perkins e il New Deal: 1932-1938, Tesi di Laurea di Sandra Incorvaia, anno accademico 2011/2012, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Scienze Politiche

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Ida Pfeiffer

(Vienna, 1797 – 1858)

A lei sono intitolate una via a Monaco di Baviera ed una a Wilhelmshaven.
A Vienna non risulta intitolata a lei alcuna via.

La donna che stupì l'Europa
di Ester Rizzo

Nacque a Vienna il 4 ottobre 1797.
Figlia di un agiato mercante di tessuti, era la quinta di sei fratelli e suo padre morì prematuramente
quando aveva nove anni.
Gli amici di famiglia raccontavano che sin da bambina correva fuori casa per vedere passare le diligenze che lasciavano la città. La piccola, inoltre, era un’accanita lettrice di libri di viaggi e di avventura. Tutto ciò che poteva farla evadere dal “quotidiano” l’attirava irrefrenabilmente.
Era innamorata del suo giovane precettore che era anche un viaggiatore, ma la madre si oppose.
Costretta dalle difficoltà economiche in cui versava la famiglia, la costrinse a ventidue anni a sposare un uomo molto più anziano di lei, un avvocato, con cui avrà due figli. Fu un matrimonio triste, lei non lo amava, vivevano in ristrettezza economica a causa di un tracollo finanziario del marito e lei, per arrotondare, faceva la segretaria e dava lezioni di pianoforte. Furono anni venati di tristezza e malinconia e così lei scriveva: “Solo il cielo sa cosa ho sofferto. Vi sono stati giorni in cui vi era solo pane secco per la cena dei miei figli”.
Nel 1842, diventata vedova e con i figli già grandi, iniziò a viaggiare. Il suo primo viaggio fu in Terrasanta: erano viaggi spartani, fatti in economia, spesso avvalendosi di passaggi gratuiti. A volte Ida, indossando abiti maschili, si mescolava tra la folla per poter osservare più liberamente il comportamento delle popolazioni incontrate nel suo peregrinare tra i continenti. Questa viaggiatrice percorrerà 140.000 miglia marine e 20.000 miglia inglesi via terra. Durante un suo viaggio in Oriente scrisse sul suo diario: “In quella mischia ero davvero sola e confidavo solo in Dio e nelle mie forze. Nessuna anima gentile mi si avvicinò”.
Ida Pfeiffer fu anche la prima donna bianca che nel 1852 si recò nella giungla di Sumatra abitata dai batak paventati da tutti come cannibali. In quell'occasione riuscì a salvarsi dicendo ai cannibali "la mia testa è troppo vecchia e dura per essere mangiata", così il saggio capo tribù iniziò a ridere e la lasciò libera.
Il suo primo viaggio intorno al mondo durò due anni e sette mesi. Si imbarcò da Amburgo per approdare in Brasile e poi in Cile. Da qui poi attraversò l’Oceano Pacifico approdando a Tahiti fino ad arrivare all’isola di Ceylon. Risalì attraverso l’India fino al Mar Nero e alla Grecia sbarcando a Trieste e ritornando a Vienna.
Il suo secondo viaggio invece durò quattro anni: da Londra arrivò a Città del Capo per poi esplorare il Borneo ed avere contatti ravvicinati con i “tagliatori di teste” del Dayak… attraversò l’Oceano Pacifico in senso inverso, arrivò in California e iniziò a viaggiare per tutti gli Stati americani.
I musei di Vienna custodiscono, ancora oggi, piante, insetti e farfalle da lei raccolte durante i viaggi e portate in patria. La motivazione che la spingeva a viaggiare la troviamo nell'introduzione ad uno dei suoi libri: "Bisogna essere animati da vera passione per i viaggi e avere un desiderio invincibile di istruirsi e esplorare Paesi finora poco conosciuti". Raccontò i suoi 7 viaggi in 13 volumi di diari che divennero best seller tradotti in 7 lingue. Lei scriveva a matita, con una calligrafia piccola e minuta. Tra i titoli dei suoi libri: Giro del mondo di una donna e Secondo giro del mondo di una donna.
In una sua bellissima e significativa foto del 1856 Ida è seduta su un divano con un vestito dell’epoca, il capo coperto da una cuffietta bianca di crinolina… un braccio su un grosso libro, accanto a lei un enorme mappamondo… il suo sguardo non guarda l’obiettivo ma altrove… lontano lontano…
Morì il 27 ottobre 1858 a causa di una malattia tropicale contratta in Madagascar.

Fonti
Luisa Rossi, L'altra mappa. Esploratrici, viaggiatrici, geografe, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia, 2011
http://www.tufani.net/ida-pfeiffer.html
http://www.luomoconlavaligia.it/ida-pfeiffer-la-viaggiatrice-solitaria.html
http://www.viaggiatorisidiventa.it/ida-pfeiffer-due-volte-il-giro-del-mondo/
http://www.andreasemplici.it/wp/index.php/2013/11/01/viaggiatrici-viaggiantie-un-giorno-ida-e-partita/
http://www.lanteriluini.it/Library/lasesia.pdf         
http://www.jourdelo.it/numeri/17_ottobre_dicembre_2010/pfeiffer.htm

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 Amelie Posse Brazdova

(Stoccolma, 1884 – 1957)

Non esiste di lei traccia nella toponomastica né a Roma né ad Alghero, le due località dove visse in Italia.

Matricola 1183 - una confinata svedese in Sardegna
di Laura Candiani

Una delle più interessanti e impegnate scrittrici svedesi del XX secolo nasce nel 1884, primogenita di tre figli, in una famiglia colta e illustre da parte della madre Gunhild (intellettuale, artista, appassionata di canto) e del padre Fredrik (costruttore di ferrovie). Fin da piccola segue canto, musica, arte, impara le lingue; anche se di salute cagionevole a causa di problemi cardiaci, febbri reumatiche e dolori alle artico-lazioni, diventa una nuotatrice formidabile.
Alla morte del padre, la famiglia si trasferisce a Lund dove Amelie studia anche l’italiano; a venti anni si sposa con Andreas Bjerre, ma il matrimonio fallisce ben presto. Dopo aver studiato pittura a Copenaghen, Amelie si trasferisce a Roma, dove vive in via della Scrofa; durante questo soggiorno in Italia tanto vagheggiato, incontra il pittore boemo Oki (Oskar) Bràzda (nato nel 1887) con cui si sposa in Campidoglio nel 1915. Ne diventa ben presto la modella ideale, anche se dalle foto Amelie ci appare robusta, imponente, con lineamenti marcati; ha un bel sorriso, occhi azzurri, capelli mossi biondi e una carnagione pallida. Fra il 1916 e il 17 nascono i due figli Slavo e Jan.
Gli anni più interessanti della vita di Amelie - almeno per lo stretto rapporto con l’Italia - sono quelli della Prima Guerra Mondiale quando la coppia condivide la causa antiaustriaca, indipendentista, democratica dei cechi e degli slovacchi, tanto che Amelie diviene amica personale dei leader Benes e Mazaryk. Su quest’epoca scrive un’opera straordinaria, una sorta di diario a quindici anni dagli eventi, pubblicata in Italia con il titolo Interludio di Sardegna (il titolo originale svedese suona all’incirca “L’incomparabile prigionia”). Il diario è diviso praticamente in due parti: nella prima (tre capitoli) viene rievocato il mondo intellettuale di molti artisti squattrinati residenti a Roma, negli alloggi di villa Strohl-Fern; qui conducono un’esistenza spensierata, allegra, con le modelle che talvolta diventano loro mogli, fra abitazioni fatiscenti e incuria, in un meraviglioso parco con alberi da frutto, rose e pini, senza convenzioni, fra giochi e scherzi ai danni del burbero proprietario alsaziano. E’ il momento dell’interventismo e, in quel clima di tensione, per non essere confusi fra i nemici dell’Italia, Amelie e i suoi variegati amici portano all’occhiello i colori slavi o svedesi. Dopo il 24 maggio 1915 tuttavia la posizione degli stranieri si fa sempre più difficile, tanto che l’8 luglio arriva l’ordine di internamento in Sardegna; come unico privilegio potranno scegliere la località. Su consiglio di Grazia Deledda, la scelta ricade sulla cittadina di Alghero, dall’ottimo clima, affacciata su un mare incontaminato e circondata da bastioni, ma anche suggestiva per la sua storia complessa e il suo antico legame con la cultura catalana. Di questo soggiorno forzato in terra sarda parla buona parte del libro in questione. Dopo circa un anno di “incomparabile prigionia” e molte promesse e illusioni, il 23 luglio 1916 la coppia può finalmente ripartire da Golfo Aranci alla volta di Civitavecchia e stabilirsi di nuovo a Roma, divenuta nel frattempo meno internazionale e più italiana. Del periodo algherese non rimangano tracce del lavoro di Oki (numerosi ritratti) e tutta la documentazione è andata distrutta per un’invasione di termiti nella prefettura di Sassari, negli anni Cinquanta. Dal 1925 la coppia si trasferisce con i figli in una proprietà in Cecoslovacchia, vicino alla frontiera con la Germania; dopo il ’38, a causa dell’occupazione tedesca, dell’insicurezza generale e del loro palese sentimento antinazista, i coniugi lasciano Lickov, ma Oki viene arrestato e i beni confiscati; Amelie torna in Svezia per agire attivamente a favore dei profughi di ogni nazione e riesce a salvare migliaia di ebrei, mentre continua la sua attività di scrittrice dedicata a rievocare gli anni vissuti nel castello (Costruire, non demolire -1942) e a diffondere le iniziative del “Club del martedì” da lei fondato (Ora si può dire di più -1949). Gli anni della Seconda  Guerra Mondiale portano Amelie a scrivere e pubblicare molto: Al principio fu la luce (1940) sulla sua infanzia, Intorno all’albero della conoscenza (1946), L’albero della conoscenza in fiore (1946), la raccolta di articoli e conferenze Tra le battaglie (1944). Nel ’46 la famiglia rientra nel castello di Lickov, ma la storia sta per cambiare nuovamente: mentre Amelie si trova a Stoccolma, il colpo di stato comunista li priva per la seconda volta dei loro beni e Amelie sceglie la Svezia; questi eventi drammatici sono narrati nel libro Quando su Praga calò la cortina di ferro (pubblicato postumo e incompiuto nel ’68). Da questo momento Amelie e il marito vivono lontani e separati, senza rivedersi più, ma la scrittrice prosegue la sua battaglia politica e lavora fino alla morte (1957) con la resistenza ceca, convinta che le idee e le azioni di Mazaryk non possano morire. Nel ’94 è uscito un libro di lettere sulla situazione politica e il carteggio con i dissidenti (Lettere segrete da Praga).
Amelie non visitò mai più la Sardegna, ma fece un viaggio in Italia negli anni Cinquanta; sulle sue esperienze italiane pubblicò anche La libertà multicolore (1936) e Il parco delle rimembranze (1954); certo è però che la lettura di Interludio di Sardegna (Stoccolma-1931) - dopo un secolo dagli eventi narrati - è ancora piacevolissima. L’opera è scorrevole, persino divertente nonostante le numerose privazioni e la scarsa libertà di azione, e lo sguardo di una donna colta, svedese, senza pregiudizi, è assai illuminante. Lo si potrebbe ritenere uno spaccato culturale e sociologico su un mondo primitivo ma affascinante, su cui Amelie si sofferma con interesse e curiosità, descrivendo splendori e miserie. I capitoli si susseguono a cominciare dal IV in cui Amelie ci parla del viaggio e dell’arrivo, della “berritta”, degli abiti maschili e femminili, dei palazzi fatiscenti, delle pulci onnipresenti e della serva con i piedi talmente sporchi che il nero incrostato era stato scambiato per un paio di calzini di fitta lana. Racconta del ritratto fatto da Oki al vescovo e del gentile dono di enormi prosciutti e gigantesche forme di caciocavallo; parla dei vasi smaltati tanto belli in cui mettere delle piante fiorite, peccato non sappia (nel divertimento generale degli algheresi) che sono… vasi da notte; si stupisce delle varietà incredibili di pesce ma nessuno mangia le ostriche! E poi nota le raffinate forme di artigianato (le cassapanche, le ceste, i tessuti), riflette sulla musica e il canto popolare, riferisce usanze per lei sconvolgenti (come il lutto che è quasi una morte per le vedove sopravvissute), i corteggiamenti e le serenate notturne, i riti religiosi, la longevità di certe famiglie patriarcali in cui possono convivere persino sei generazioni (racconta di una donna che a 33 anni aveva 17 figli e 5 nipoti, allattati indifferentemente da chi era disponibile al momento). Amelie è divertita dal fatto che i suoi capelli facciano scalpore: alcuni le chiedono di scioglierli e di poterli toccare, per verificare la loro consistenza setosa e il loro incredibile colore dorato, ma anche la sua pancia in gravidanza è oggetto di attenzioni e riti scaramantici; solleva stupore e scandalo la sua passione per il nuoto che in varie occasioni la mette nei guai. E poi naturalmente le gite in barca, i nuraghi, l’entroterra sassarese, il mare sterminato, i profumi, perfino il salvataggio e successivo allevamento di un gabbiano riottoso e in contrasto con la bella gattina bianca. Purtroppo però la guerra talvolta riappare con la sua crudeltà: il campo di prigionia per bulgari, polacchi, turchi, tedeschi all’Asinara in condizioni disperate (nonostante la dedizione di medici, infermieri, guardie e di un gruppo di generosi frati), le malattie (la malaria e le epidemie di tifo e di colera, persino 800 casi di lebbra), la mancanza di libertà, la situazione igienico-sanitaria arretrata (quando si avvicina il parto Amelie si preoccupa, addirittura si vagheggia una fuga alle Baleari). Un episodio per tutti dà l’idea della drammaticità che si stempera nel concreto realismo: ad Amelie viene offerto del buon tonno e il cuoco le mostra soddisfatto un bottone serbo trovato nella sua pancia; il mare era diventato particolarmente generoso e i pesci assai saporiti visto che molti cadaveri venivano gettati direttamente in acqua per risparmiare sulle sepolture ed evitare contagi … Amelie - di gusti semplici e di buon appetito – non resiste a tanto orrore: ha la sua prima nausea da futura madre e si alza da tavola di corsa. Tuttavia quello che prevale nella lettura è il ricordo di un Eden dalla bellezza primordiale: ”Qualsiasi altro paesaggio sembra banale e piatto, adulterato e sfruttato, quando lo paragono alla natura della Sardegna e alla sua prospettiva d’eternità”.
Sintesi di grande efficacia che solo una scrittrice dall’animo sensibile e dalla mente aperta poteva concepire, ieri come oggi.

Fonti:
AMELIE POSSE BRAZDOVA, Interludio di Sardegna, Tema, Cagliari ,1998 (ed. originale svedese 1931,traduzione inglese 1932) - edizione arricchita con foto realizzate da Oki  Bràzda ad Alghero e disegni  del figlio Jan.

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Fiordispina Lauri

(Spoleto, XVI secolo) 

Quando nel 1877 il professor Achille Sansi, storico delle vicende spoletine, ebbe l’incarico di riordinare la toponomastica della città, pensò a Fiordispina Lauri come modello di fedeltà coniugale e le intitolò la via che su tre lati gira intorno al seicentesco palazzo Mauri, oggi sede della Biblioteca Comunale.
 
Fiordispina Lauri ovvero il coraggio delle donne
di Paola Spinelli

Fiordispina Lauri è una figura borderline tra l’invenzione narrativa e la storia locale e se le sue vicende sono datate all’epoca della Controriforma; la sua fortuna come personaggio letterario risale alla seconda metà del XIX sec. quando, fatta l’Italia, si pose il problema del recupero della storia locale per individuare modelli morali da offrire ai giovani all’interno di un percorso educativo completamente laico in contrapposizione alla tradizionale pedagogia gesuitica o bigotta.
Fiordispina visse a Spoleto in un’epoca in cui alla donna erano richieste doti come la fedeltà, la sottomissione, l’umiltà, l’osservanza religiosa e alle bambine si insegnavano le virtù domestiche e il ricamo, non certo l’uso delle armi. Lei, tuttavia, si trovò a spezzare questi schemi mostrando grande coraggio e determinazione.
Fiordispina era la sposa di Filolauro Lauri un giovane nobile, gentile e innamorato; si era trattato di un matrimonio d’amore, cosa assai rara per quei tempi. Gli sposi abitavano in vaita Palazzo (le vaite erano i rioni in cui era divisa la città di Spoleto), tra la Rocca e la piazza del Mercato.
Il nobile Antonluigi  Migliorelli si invaghì di Fiordispina e, nonostante fosse da lei costantemente respinto, non perdeva occasione per insidiarla. La spiava di continuo per comparire ogni volta che il marito si allontanava, sempre senza risultato.  Il Migliorelli pensò allora di liberarsi del marito per avere campo libero e una sera avvenne la tragedia. La notte era  tiepida e Filolauro era uscito con gli amici fuori Borgo San Matteo sotto una splendida luna piena. Fiordispina, rimasta in casa, si era addormentata. A un tratto fu svegliata da un grido, riconobbe la voce di Filolauro, corse alla finestra e vide il Migliorelli che minacciava con la spada il suo sposo. Si precipitò in strada appena in tempo per scorgere a terra il marito ferito che stava per ricevere il colpo fatale. Senza esitare Fiordispina prese una lancia, la scagliò con tutte la sua forze contro il Migliorelli  e lo colpì mortalmente al petto.
Le guardie del Governatore arrestarono lei e il marito e li condussero alla Rocca, Fiordispina subì la tortura della corda, ma non parlò. Solo quando sentì che Filolauro veniva sottoposto allo stesso supplizio, Fiordispina confessò che lei, lei sola era colpevole, che aveva ucciso il Migliorelli per salvare la vita del marito. La gente di Spoleto cominciò ad affluire alla Rocca chiedendo la grazia e la liberazione di Fiordispina, c’era il  il rischio di una sommossa popolare, ma per fortuna lo stesso padre del giovane ucciso si recò dal governatore, riconobbe le colpe del figlio e perdonò Fiordispina che poté tornare a casa insieme al marito.

Fonti:
Marina Antonini, Fiordespina Lauri un’eroina popolare nella Spoleto del ‘500, edizioni Era Nuova, 2004.
http://www.myspoleto.it/citta/strade/Via-delle-cantoncelle.html
http://www.comunespoleto.gov.it/la-citta/monumenti/palazzo-mauri-e-mosaico-del-vi-secolo/
http://books.google.it/books?id=huadPRbMVbYC&pg=PA16&lpg=PA16&dq=fiordespina+lauri&source=bl&ots=A3RMun_exV&sig=Nc8fg89f_bDlxUm2vG9CCkQFjKM&hl=it&sa=X&ei=mE3eU_m-LrHn7Aa6m4GgCQ&ved=0CDAQ6AEwBDgK#v=onepage&q=fiordespina%20lauri&f=false

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Lavoratrici del Padule del Fucecchio

Alcuni antichi lavori femminili sono ricordati nella toponomastica toscana: via delle Fiascaie a Montelupo Fiorentino e a Empoli, via Trecciaiole a Montelupo Fiorentino; a Grosseto troviamo via delle Paduline.

Impagliatrici, trecciaiole e altri mestieri

di Laura Candiani

Il Padule di Fucecchio, anche se ormai ridotto a circa 1800 ettari, è la più vasta area umida interna d’Italia, quanto rimane di una palude molto più ampia, tradizionale bacino di caccia e pesca, che ha subito bonifiche in varie epoche, prima con i Medici e poi con i Lorena, soprattutto per eliminare la piaga della malaria e per rendere i terreni coltivabili. Intorno vi si affacciano alcuni paesi della Valdinievole, provincia di Pistoia e della provincia di Firenze, e aree di grande interesse naturalistico (colle di Monsummano, Cerbaie, Montalbano), mentre un tempo il Padule arrivava a comprendere larghe zone delle province di Pisa (Padule di Bièntina) e di Lucca (laghetto di Sibolla) e la vita si svolgeva sulle colline, quelle “castella” che sembrano fare da sentinelle alla pianura, sulle direttrici verso Lucca e verso Empoli.    Questa area, attraversata da numerosi corsi d’acqua, oggi è luogo di piacevoli passeggiate e visite con guide ambientali presso gli osservatori attrezzati, punto di passaggio ma anche di sosta e ripopolamento per tante specie di uccelli (fra cui oggi le cicogne); fino agli anni Cinquanta del XX secolo, però, era soprattutto una fonte inesauribile di cibo e di lavoro per le popolazioni di “padulini” (o padulani), sia mezzadri sia poveri contadini costretti alla sussistenza. Grazie al Padule si poteva sopravvivere e molti compiti erano riservati alle donne, talvolta anche ai bambini e, qualcuno ancora ricorda, «il Padule era la nostra fabbrica …».
Le donne erano forti, vigorose, temprate dal molto lavoro che ricadeva sulle loro spalle fin da piccole, riempiendo tutte le ore della giornata e rubando molto spesso il sonno durante le ore notturne.
Alle fatiche casalinghe (la cura della casa, dei bambini e degli anziani), si sommavano spesso altri carichi di lavoro sia in appoggio alle attività maschili sia sotto forma di impegno autonomo, una sorta di imprenditoria elementare e con pochi guadagni, fondamentali, però, per la limitata economia familiare.                  
Una delle principali attività femminili era la raccolta delle erbe palustri: la sara serviva per impagliare i fiaschi e il sarello per impagliare le seggiole e creare i “cappelli” delle damigiane. Si tratta di piante spontanee, un tempo molto diffuse. Si usavano anche il biòdano e la gaggìa (acacia) dai rami flessibili per realizzare il cesto robusto che veniva posto alla base della damigiana. Dopo la raccolta, l’erba seccata veniva lavorata, dandole la forma di lunghe trecce (realizzate dalle lavoranti dette appunto trecciaiole) che servivano anche per realizzare rustiche sporte.
Si raccoglieva poi la legna, indispensabile per scaldarsi e per cucinare, che però non doveva superare precise dimensioni e precise quantità, verificate dal “fattore”. Venivano raccolte anche le cannelle che servivano per realizzare cannicci di protezione per orti o coltivazioni e per far essiccare l’uva nei sottotetti (con cui produrre vin santo). Tutti gli avanzi delle erbe (“pattume”) si usavano come lettiera per gli animali per diventare poi letame; era evidentemente una società con una cultura naturalmente ecologica, senza sprechi e senza rifiuti. La saggina invece non era una pianta spontanea, ma veniva coltivata; se ne ricavavano soprattutto spazzole, scopini, scope che alimentarono anche una discreta attività economica, specie nel larcianese, fino agli anni ’70-80 del XX sec.
I campi erano quasi sempre orlati da filari di gelsi che avevano lo scopo principale di diventare nutrimento per i bachi da seta; e qui veniamo a un’altra attività essenzialmente femminile.  In molte case, in una stanza idonea ben disinfettata, si realizzavano in maggio i graticci coperti di foglie fresche di gelso e si allevavano i “filugelli”. Bambine e bambini davano una mano con gioia perché si trattava di un compito non faticoso e abbastanza semplice, almeno all’apparenza. I minuscoli animaletti (detti “semi” all’acquisto per quanto sono piccoli) mangiano voracemente e crescono, se sono in buona salute, in maniera vertiginosa: moltiplicano il loro peso 9.000 volte e la lunghezza per 30 volte! Ma sono delicati e se si ammalano (o non fanno il bozzolo) vanno eliminati immediatamente; al momento opportuno, smettono di mangiare e cominciano a fare il meraviglioso bozzolo; vanno scelti uno per uno e portati su nuovi ripiani coperti di frasche di olivo o fascette di rape o di stipa. Qui inizia l’ultima fase, finché il bozzolo (per un totale di circa 3 km. di filo) è concluso, la metamorfosi è avvenuta e la farfallina è costretta a morire prima di prendere il volo. I bozzoli venivano infatti gettati in acqua bollente e poi si procedeva nell’essiccatoio, prima delle fasi conclusive della filatura e, infine, della tessitura.  Ancora una volta un’attività economica sommersa, difficilmente quantificabile, ma certo un aiuto per le finanze familiari visto che il patto con il padrone prevedeva di fare a metà del ricavato.                                             
Nelle economie di sussistenza è normale sfruttare tutto l’esistente; in questa area erano abbondanti ricci, ghiri, tassi, istrici, volpi, conigli selvatici, granchi di fiume, chiocciole, oltre ai consueti animali da cortile, di cui si occupavano le donne e che poi si vendevano al mercato, insieme alle uova, o si portavano direttamente nelle case dei compratori.  Si trattava di un’alimentazione davvero povera, e non per moda o per consiglio medico: pochissimo olio (si usavano strutto, lardo e pancetta), poco maiale, niente manzo, raro il pollame (solo la domenica e le “feste comandate”). Con i frutti dell’orto, presenti in tutte le stagioni per la loro varietà, le donne realizzavano le marmellate e con i pomodori la conserva. Si raccoglievano i funghi e si mangiavano frutti oggi quasi del tutto scomparsi: le sorbe, le more del gelso, le bacche dei corbezzoli, le more di rovo; si cucinavano tutte le erbe commestibili per fare zuppe e frittate e persino i fiori di alcune piante (come la gaggìa). Le pelli dei conigli, opportunamente conciate, diventavano colletti per i cappotti femminili oppure manicotti o calde e ben imbottite coperte per i lettini e le culle.
Il Padule offriva grande abbondanza di pesce “povero” e liscoso, ma nutriente e versatile, che garantiva alimento alla famiglia. Le donne impegnate in mansioni di cernita e pulitura del pesce e, per quanto riguarda la caratteristica cattura dei ranocchi, alimento squisito da veri intenditori, le donne intervenivano per spellarli e cucinarli. Anche la caccia era un modo per procacciarsi un po’ di cibo proteico: le donne, spesso accompagnate dalla prole, catturavano gli uccelli più comuni, allodole, passeri, rondoni, balestrucci, con mezzi vari: lacci, reti, tagliole, pània, pratiche oggi inaccettabili e proibite, ma che la fame giustificava. Poteva avvenire persino lo svezzamento con la carne tenera degli uccellini.              Le donne lavoravano sempre. Anche quando potevano sembrare rilassate ed erano sedute, mentre il paiolo bolliva sul fuoco e i bambini piccoli dormivano, rammendavano e cucivano perché i vestiti, come si sa, si scorciavano, si allungavano, si “rovesciavano” addirittura e si riutilizzavano finché non cadevano a pezzi; ricamavano il corredo, lavoravano all’uncinetto o facevano la calza (maglie, calzini, camiciole: tutto era rigorosamente realizzato in casa …). Riparavano o realizzavano le reti da pesca e si occupavano dell’orto, raccoglievano ed essiccavano la camomilla spontanea ed erbe curative, come la malva il cui infuso è un ottimo rinfrescante.  In molte famiglie si teneva anche un telaio perché si potessero tessere lenzuoli, asciugamani, tovaglie di canapa, lino e cotone. Qualche donna, mentre andava al fosso, al fiume o al lavatoio, già che c’era prendeva in carico il “bucato” altrui, trasformandolo in una piccola ulteriore rendita. Le famiglie patriarcali, allargate a nonne, zie, cognate, nuore costituivano anche un mondo di saperi, di esperienze, di solidarietà, in assenza di asili e case di riposo; non mancavano poi i momenti di allegria e di convivialità, come la vendemmia e la battitura del grano.

Fonti:
AA.VV., Il lavoro delle donne. Attività femminili in Valdinievole tra Ottocento e Novecento, Buggiano (PT), Vannini, 2004 (a cura dell’Istituto Storico Lucchese- sezione Storia e storie al Femminile)
Borghini-Cecchi, Passato nostro. Vita, mestieri, costumi a Ponte Buggianese nella prima metà del Novecento, Pisa, Pacini editore, 2007
Borghini-Cecchi-Trinci, Il porto e la fattoria del Capannone, Pisa, Pacini editore, 1999
Ciuffoletti-Conti (a cura di), Ponte Buggianese.Un secolo di storia(1883-1983),Firenze, Centro editoriale toscano,1995
Francesca Romana Dani (a cura di ), Il Padule di Fucecchio e il Laghetto di Sibolla, Firenze, Editori dell’Acero,1999 (a cura del centro di Ricerca,Documentazione  e Promozione del Padule di Fucecchio)

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Paola Lombroso

(Pavia 1871 – Torino 1954) 

A differenza del padre Cesare Lombroso, ampiamente celebrato nella toponomastica italiana, mancano delle intitolazioni alla scrittrice e pedagogista Paola Marzola Lombroso anche a Pavia, città che le diede i natali, e Torino, dove trascorse la sua vita spendendosi in attività filantropiche rivolte all'infanzia che le valsero la medaglia d'oro dei benemeriti della Pubblica Istruzione nel 1950. Il gruppo di Toponomastica femminile ha partecipato nel 2014 a un bando del 1° Circolo didattico di Cuneo proponendo il suo nome per l'intitolazione di una scuola.
 
Paola Lombroso, istruzione come emancipazione
di Saveria Rito
 

Nacque a Pavia il 14 marzo 1871 da Nina De Benedetti e Cesare Lombroso, celebre antropologo e criminologo di origine ebrea, che le diede questo doppio nome per omaggiare il suo maestro Paolo Marzolo. La famiglia si trasferì a Torino nel 1876, una città che si stava rapidamente aprendo al progresso industriale e scientifico: in quell'ambiente culturalmente vivace, Paola e la sorella Gina ricevettero un'educazione paritaria rispetto ai tre fratelli e cominciarono presto a collaborare all'Archivio di psichiatria, rivista che il padre aveva fondato nel 1880. Paola pubblicò in quegli anni diversi articoli anche sul Fanfulla della domenica, Vita moderna e la Gazzetta letteraria, concentrandosi sulla pedagogia e la letteratura per l'infanzia, e scrisse alcune novelle e racconti sulla rivista di Luigi Capuana, Cenerentola.
Fondamentale nella sua formazione culturale e personale fu l'incontro con Anna Kuliscioff, una donna degna di ammirazione poiché impegnata negli studi e nella politica, che frequentava casa Lombroso e avvicinò Paola e la sua famiglia al socialismo. Ne seguì, dunque, una collaborazione giornalistica propagandistica con Il grido del popolo, Per l'idea, Germinal. Fu nel 1896 che Paola e Gina Lombroso, su suggerimento di Kuliscioff, fondarono a Torino "Scuola e famiglia", un doposcuola per i figli di famiglie operaie  che si inseriva nella lotta all'analfabetismo. Ben presto furono coinvolte tutte le scuole elementari di Torino, col sostegno del comune, e il successo dell'iniziativa convinse Paola Lombroso dell'importanza di istruire le nuove generazioni, della possibilità di far progredire le fasce sociali più deboli e superare le barriere del determinismo positivista.
Nel 1899 sposò Mario Carrara, allievo di suo padre Cesare, uno tra i pochi docenti universitari che nel 1931 non avrebbero prestato giuramento di fedeltà al Fascismo perdendo la cattedra.
Agli inizi del Novecento continuò a collaborare con diverse testate giornalistiche, come l'Avanti, denunciando le condizioni delle classi più svantaggiate e, proprio dall'esperienza nella carta stampata e nella pedagogia, le venne l'idea di realizzare un giornale interamente dedicato all'infanzia. Propose il progetto a Luigi Albertini, allora direttore del Corriere della sera, e il 27 dicembre 1908 vide la luce il primo numero del Corriere dei piccoli, allegato settimanale su cui Paola teneva delle rubriche, come Corrispondenza, firmandosi Zia Mariù. Nonostante l'ottima riuscita della sua iniziativa ottenne soltanto un incarico di collaborazione col giornale, oggetto di contenzioso con Albertini che le preferì nella direzione Silvio Spaventa Filippi, e dopo ripetute divergenze lasciò il Corriere nel 1911 per dedicarsi al nuovo progetto delle "Bibliotechine rurali", guardato con un certo sospetto dalla redazione di via Solferino. Erano nate a seguito della richiesta inviata a Zia Mariù da Liduina Valz, maestra di Riabella Balma nel biellese, che si trova a pagina 3 della Piccola Posta nel Corrierino del 25 luglio 1909: "...mi scrive domandandomi d'interessare i miei piccoli a mandar dei libri per la bibliotechina della sua scoletta [...] quello di arricchiere con qualche libro almeno le scuole rurali è sempre stato uno dei miei più cari sogni. Ed ecco che cosa propongo. Tutti i bambini devono quest'estate cercar in qualche modo di raggranellare dei soldi per comprare dei libri da mandare non solo alla scuoletta di Riabella Balma - questa sarà la prima - ma a tutte le altre che si possa, 10 volumi per scuola". All'appello lanciato  dalle pagine del Corriere  da Zia Mariù risposero immediatamente da tutta Italia con centinaia di donazioni (di libri oppure francobolli, cartoline da vendere e denaro), lei preparava i pacchi pieni di testi e li spediva alle maestre che ne facevano richiesta:  al 25 dicembre 1910 si contavano 255 bibliotechine! A p. 15 del Corriere dei piccoli del 23 gennaio 1910, scriveva entusiasta: "Figuratevi che l'altro giorno ho condotto una mia amica nella camera dove son pronte per essere spedite altre trenta bibliotechine. A dir trenta bibliotechine è niente. Se voi entraste nella stanzetta vi parrebbe un finimondo. Pacchi sul tavolo, sul letto, sulle sedie, pare un magazzino di libraio in rivoluzione". Come ha notato Delfina Dolza a p. 128 di "Essere figlie di Lombroso", dai nomi della rubrica Corrispondenza e del successivo Bollettino delle bibliotechine rurali viene fuori un "circuito femminile" dietro quell'impresa filantropica, fatto di bambini e bambine e principalmente di giovani maestre aperte ai nuovi metodi pedagogici.
Inoltre, si deve sempre a Paola Lombroso l'inaugurazione nel 1915 della "Casa del sole" di Torino per ospitare i figli sani dei tubercolotici ma, con l'affermarsi del regime fascista e soprattutto dopo il rifiuto di giuramento del marito, dovette lasciare tutte le istituzioni sociali da lei fondate.
Nel 1943, per via dell'approvazione delle leggi razziali, si rifugiò in Svizzera presso la sorella e rientrò in Italia dopo la fine della guerra e diversi lutti familiari. Fece riaprire la "Casa del sole" e nel 1951 riavviò il meccanismo di solidarietà delle bibliotechine.
Numerosi furono i riconoscimenti per il suo costante e innovativo impegno, come la medaglia d'oro dei benemeriti della Pubblica Istruzione ricetuta nel 1950. Concluse la sua vita a Torino il 23 gennaio 1954.

Fonti:
Il secolo del Corriere dei Piccoli: un'antologia del più amato settimanale illustrato, a cura di Fabio Gadducci e Matteo Stefanelli, Milano,  Rizzoli,  2008
Salotti e ruolo femminile in Italia: tra fine Seicento e primo Novecento, a cura di Maria Luisa Betri ed Elena Brambilla, Venezia, Marsilio, 2004
Stefania Pisano, Lombroso Paola in Donne del giornalismo italiano. Da Eleonora Fonseca Pimentel a Ilaria Alpi. Dizionario storico bio-bibliografico secoli 18.-20., a cura di Laura Pisano, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 226-227
Delfina Dolza, Essere figlie di Lombroso. Due donne intellettuali tra '800 e '900, Milano, Franco Angeli, 1990
Paola Di Stefano, Paola Lombroso, in Enciclopedia delle donne  http://www.enciclopediadelledonne.it/index.php?azione=pagina&id=61
http://it.wikipedia.org/wiki/Paola_Lombroso_Carrara
Giuseppe Zaccaria in http://www.treccani.it/enciclopedia/paola-lombroso-carrara/

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Elena Luzzato

(Ancona 1900 – Roma 1983) 

Non risulta alcuna area di circolazione dedicata alla prima architetta italiana, né ad Ancona, città natale, né a Bracciano, Taormina, Napoli, dove lasciò tracce visibili del suo ingegno, né a Roma,  città di studio e di lavoro, dove infine concluse la sua vita.
 
Elena Luzzato, pioniera dell’architettura “rosa”
di Livia Capasso
 
Elena Luzzato è stata la prima donna in Italia  a laurearsi in architettura: si era iscritta nel 1921 alla Regia Scuola Superiore di Architettura di Roma, l’anno stesso in cui l’Istituto iniziò la sua attività, e ottenne il diploma nel 1925. La donna “angelo del focolare” dimostra che il focolare sa anche costruirlo, smentendo un’affermazione che Mussolini ebbe a fare in un discorso del 1927: “La donna  è estranea all’architettura, che è sintesi di tutte le arti; essa è analitica, non sintetica. Ha forse mai fatto l’architettura in tutti questi secoli? Le si dica di costruirmi una capanna non dico un tempio! Non lo può".
Non meraviglia la posizione antifemminista del duce e conosciamo la sua disistima sulla capacità della donna di sentirsi autonoma e realizzata al di fuori delle mura domestiche. Per lungo tempo la professione dell’architetto è stata appannaggio maschile: si riteneva poco adatta a una donna, costretta a cimentarsi con le varie fasi della progettazione e a seguire la messa in opera nei cantieri. Ma intanto diverse donne diventavano architette: le romane Anna Luzzatto, detta Annarella, madre di Elena, laureatasi due anni dopo la figlia e Attilia Travaglio Vaglieri , progettista di palazzi, impianti sportivi e ricreativi in puro stile littorio (vincitrice di un concorso Internazionale ad Alessandria d’Egitto, non poté ritirare il premio in ossequio alle leggi musulmane che lo vietavano ad una donna); arredatrici di interni come Luisa Lovarini ed Elvira Luigia Morassi, che predilessero uno stile sobrio e funzionale; Carla Maria Bassi, autrice della Cassa di Risparmio di Milano; la napoletana Stefania Filo, che progettò giardini pubblici e sanatori e partecipò alla realizzazione della Mostra delle Terre Italiane d'Oltremare a Napoli voluta da Benito Mussolini. Queste sono solo alcune tra le architette più attive tra gli anni venti del Novecento, o “architettrici”, come allora venivano chiamate. Non ebbero vita facile: l’architettura “rosa” veniva accusata di essere timida, troppo attenta agli spazi familiari, in realtà fu un’architettura dalle linee semplici e pulite, funzionale, razionale, e sensibile alla luce, apprezzabile per  le soluzioni tecniche  adottate e per la chiarezza delle concezioni planimetriche.
 Appena laureata, Elena Luzzato entrò nell’Ufficio Tecnico del Comune di Roma e fino al 1934 fu assistente alla cattedra del prof. V. Fasolo. Partecipò e vinse numerosi concorsi. Già nel 1928 progettò un villino a Ostia per il gerarca fascista Giuseppe Bottai e sempre a Ostia vinse un concorso per un gruppo di villini, in seguito non realizzati. 
Oltre all’edilizia residenziale di villini, palazzine e case popolari, per cui spesso collaborò con il marito ing. Felice Romoli (realizzò ville a Bracciano - Behrnard, 1962 - e a Taormina - M. Bentivoglio, 1962), progettò numerose opere pubbliche.
Vinse concorsi per progetti di tipologie assai diverse: dalle steli funerarie (Verano) alle stazioni, dai fabbricati rurali coloniali (Somalia) a sanatori e ospedali (Viterbo, Bolzano), dalle chiese alle scuole, dai cimiteri militari e civili a negozi e mercati…
Tra le opere pubbliche realizzate ricordiamo il Cimitero di Prima Porta (Roma, 1945), il mercato di Primavalle (Roma, 1950), la scuola media di Villa Chigi (Roma, 1960)  e l’attuale mercato coperto di Piazza Alessandria (Napoli), ancora in uso.
Nel dopoguerra fu  capogruppo per la progettazione di case popolari per l'Istituto INA-CASA nell' Italia meridionale.

Fonti
Katrin Cosseta, Ragione e sentimento dell'abitare. La casa e l'architettura nel pensiero femminile tra le due guerre, 2000,  Architecture

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Elisa Agnini

(Finale Emilia, 1858 - Roma, 1922)

Elisa Agnini è stata una figura di rilievo nelle lotte per i diritti politici e civili delle donne italiane. Nel 2014 è stata avanzata al Comune di Roma la proposta di intitolarle un’area pubblica nel territorio della capitale.
 
Elisa Agnini Lollini e il movimento femminista ai primi del '900: diritti politici e diritti civili.
di Silvia Mori

Nel 1896 nasceva a Roma l’Associazione per la Donna ad opera di alcune giovani signore, tra cui Elisa Agnini. La storia di quegli anni si è recentemente ampliata ed arricchita dopo il ritrovamento delle carte di Elisa, a lungo nascoste in mezzo ai documenti del marito, l’avvocato e deputato socialista Vittorio Lollini.
Del lavoro svolto in vent’anni di attività dell’Associazione parla lei stessa in una lettera del 1919 indirizzata ad una giornalista francese in cui sottolinea che il contenuto del programma è “non seulement feministe mais aussi social”; fra i punti fondamentali da raggiungere quelli de “l’educazione popolare, l’inserimento delle donne nelle scuole miste, il divorzio, il suffragio femminile, la ricerca della paternità, la difesa dei minori, la protezione del lavoro delle donne e dei fanciulli”.
Era particolarmente odiosa la differenza di retribuzione tra  uomini e donne; gli slogan “A uguale lavoro uguale salario, a uguali titoli uguale carriera” si diffusero con sempre maggior frequenza soprattutto dopo il grande impegno delle donne durante gli anni della Prima guerra mondiale, quando dovettero sostituirsi agli uomini al fronte in molte attività, da cui fino ad allora erano state escluse, dimostrando di cavarsela egregiamente. Al ritorno dei reduci molte di loro, accusate di rubare il posto ai padri di famiglia e di concorrenza sleale per i bassi stipendi (quasi si fosse trattato di una loro scelta!), furono licenziate.
Attiva nel Comitato Pro Suffragio Femminile, in un intervento sull’ammissione degli uomini al Comitato e sul loro sostegno alla causa, Elisa Agnini affermò la necessità della collaborazione fra donne e uomini e che il “loro contributo di pensiero e d’azione […], appunto perchè diverso, è più completo e più efficace nei risultati. Indole disparate si integrano per legge di natura e formano un tutto armonico […] Per me in ogni manifestazione della vita, ci deve essere cooperazione tra i sessi, anche se l’idea per cui si combatte interessa apparentemente un sesso solo.
Quando nel 1910 il Comitato Pro Suffragio chiese al partito Socialista di pronunciarsi a favore del voto alle donne, Turati si oppose poichè temeva che col loro voto avrebbero rinforzato i partiti conservatori a causa “della loro pigra coscienza politica”.  Anche Bissolati affermavava che la proposta femminista aveva lo scopo di attribuire maggiori diritti alla donna solo “entro la cerchia delle forme di proprietà e di famiglia borghese”. In una lettera scritta e pubblicata sulle pagine de L’Avanti! nel 1908, Elisa difese accoratamente i suoi ideali: “Sappi caro Avanti! Che nel C.P.F. vi sono donne di ogni partito, tutte volonterose e pronte non solo ad associarsi a qualunque movimento di operai che dovesse sorgere, ma ad iniziarlo, se sarà loro possible, per mezzo della propaganda…. Io socialista, moglie di socialista e che ho il vanto di aver formato coscienze socialiste, pur diffidente in principio del buon risultato che si sarebbe ottenuto, sono contenta ora di prendervi parte, perchè ho avuto campo di convincermi che siamo, come primo inizio del movimento, sulla buona via.
Allo scoppio della prima Guerra mondiale Elisa, sempre attenta ai problemi delle donne, si rese conto che la lontananza degli uomini al fronte rendeva ancor più precaria la loro situazione giuridica ed economica. Decise allora di fondare un Comitato per l’assistenza legale per le famiglie dei richiamati, con l’appoggio morale e tecnico di suo marito, che le offrì un’utile consulenza giuridica. Coadiuvata da altre associazioni, leghe, cooperative, comuni e parlamentari democratici, si propose di agire presso il Governo per ottenere l’abolizione della autorizzazione maritale l’aumento e l’estensione del sussidio anche alle famiglie illegittime. Aprì anche un ufficio per espletare le pratiche per la legittimazione dei matrimoni e dei figli naturali. Dopo una dura lotta e i rifiuti dei ministri Salandra ed Orlando, finalmente trovò nell’On. Bissolati “…terreno assai favorevole”. Nella relazione finale del 30 dicembre 1918 Elisa poteva a buon diritto concludere con fierezza il lavoro svolto in quattro anni: “ …Per ciò che riguarda la concessione delle pensioni di Guerra alle famiglie irregolari possiamo dichiararci completamente soddisfatti… essa è stata estesa anche alla madre non coniugata del militare riconosciuto da essa come figlio naturale … Avremo quindi la soddisfazione d’aver portata la nostra pietra al nuovo edificio sociale basato sull’uguaglianza dei diritti dei due sessi.
La Guerra aveva messo in evidenza un grave problema che il perbenismo del tempo si sforzava di rimuovere: l’enorme numero di figli illegittimi, spesso abbandonati nei brefotrofi,  e la difficoltà di integrare, in una società classista, i cosiddetti “figli di nessuno”. La legislazione vigente proteggeva le famiglia legittime dai danni morali e soprattutto patrimoniali che avrebbe potuto arrecarle il riconoscimento di eventuali figli naturali. Ma durante la Guerra il fenomeno assunse dimensioni tali da colpire anche le coscienze più tiepide; la mortalità nei brefotrofi raggiunse punte del 93% (a Roma nel luglio1917 su 71 “esposti” ci furono 69 morti). Vi furono numerose richieste di una legge che permettesse la ricerca della paternità. In un articolo sul giornale socialista Uguaglianza  Elisa Agnini scriveva nel 1917: “Molti progetti sono stati presentati al Parlamento, ma nessuno, sia pure sotto veste borghese, andò in porto. Ora ve ne sono due: il progetto Meda ed il progetto Lollini. Il primo s’arresta alla soglia della famiglia, non ammette cioè la ricerca della paternità per il figlio adulterino. Il secondo […] non esclude nessun caso, estendendo la ricerca anche ai figli adulteri e ai figli incestuosi. Solo chi è socialista ed è perciò libero dai pregiudizi borghesi, vede la profondità dei mali sociali e può fare opera di vera e profonda rigenerazione.” La proposta di legge, che prevedeva sostanziali modifiche di diversi articoli del codice civile a favore dei soggetti più deboli, le donne ed i loro figli, fu però  respinta.
A 64 anni, nel 1922, Elisa morì. Poche settimane dopo ci fu la marcia su Roma. Con l’avvento del fascismo si inaugurò una politica sempre più restrittiva nei confronti delle donne, colpite soprattutto nei diritti civili. Scorrendo le carte colpiscono la modernità delle idee di Elisa e l’attualità degli argomenti affrontati;  per quasi cinquant’anni in Italia il movimento femminista è rimasto quasi paralizzato da un lungo sonno delle coscienze, solo parzialmente smosso dalla concessione del suffragio. Il nodo cruciale dei diritti civili, il divorzio, l’aborto, il controllo delle nascite, la parità nel lavoro e nei salari sarebbe stato seriamente affrontato solo a partire dagli anni ’70. E ancora non è stato compiuramente risolto.

Fonti:
Resoconti originali dell'Associazione per la Donna, annate 1914-5-8
Rapporto sul Congresso internazionale delle Donne, La Haye, 28 aprile 1915
Articoli apparsi su Il Cimento (1919), Bandiera Rossa (marzo 1921), L’Unita italiana (15 novembre1916), La Stampa (28 giugno1911)
 
 

 

Eleonora degli Albizzi

 

(Firenze, 1543 – 1634)

Non esistono intitolazioni in suo onore

Solo una concubina

di Barbara Belotti

La bellezza di Eleonora degli Albizzi era celebre nella Firenze della seconda metà del XVI secolo.
Fu forse questo a renderla desiderabile agli occhi di Cosimo I de’ Medici, vedovo ormai da qualche anno di Eleonora di Toledo e pronto a godersi una seconda esistenza amorosa; oppure a incantarlo furono il carattere gioioso e la giovane età della ragazza.
Figlia di Luigi degli Albizzi e di Nannina Soderini, Eleonora apparteneva a due casate celebri a Firenze, anche se la posizione economica del padre non era più molto solida. Probabilmente quando Cosimo notò la giovane donna, Eleonora si sentì lusingata dalle attenzioni del signore di Firenze, provò l’ebbrezza del potere, subì il fascino della corte medicea, rimase abbagliata dall’eleganza e dalla raffinatezza di quel mondo inaccessibile fino a poco tempo prima. Il padre Luigi non ostacolò le attenzioni di Cosimo, anzi pensò che quell’unione fosse una manna dal cielo per i suoi problemi finanziari, che la sua famiglia sarebbe tornata in auge e sarebbero terminate tutte le difficoltà. In fondo il duca era vedovo e nulla ostacolava il possibile matrimonio, certo non i 24 anni di differenza fra Cosimo ed Eleonora.
La loro relazione cominciò nel 1565, la giovane rimase presto incinta e nel 1566 nacque una figlia, morta ancora in fasce, di cui non si conosce il nome. Il duca Cosimo sentiva di vivere una seconda giovinezza e accolse quella neonata con entusiasmo e profondo affetto tanto da cominciare a pensare di rendere ufficiale la loro relazione sposando la giovane amante. Dopo la morte prematura della bambina, il duca colmò di attenzioni Eleonora organizzando per lei feste e battute di caccia con cui distrarla e farla tornare alla serenità. Pensò anche di garantirle un vitalizio perpetuo di 1000 scudi con cui metterla al riparo da eventuali difficoltà.
Su questa breve storia d’amore si addensarono però ben presto nubi molto fosche. Francesco de’ Medici, il figlio di Cosimo destinato a diventare il futuro granduca, mal digerì la notizia del possibile matrimonio e, come scrive Guglielmo Enrico Saltini nel suo Tragedie medicee 1557 -1587, “apertamente fece al duca rimprovero di queste sue debolezze”. Cosimo scoprì così che il suo segreto non era più tale e si convinse presto che il suo più fidato e stretto servitore, Sforza Almeni, aveva tradito le sue confidenze. La vendetta non si fece attendere e con lucida determinazione il duca lo affrontò e lo pugnalò in Palazzo Vecchio.
Nel 1567 Eleonora diede alla luce il secondo figlio, battezzato con il nome di Giovanni, mettendo ancora di più in agitazione la corte medicea, che vedeva nel nuovo nato un potenziale pericolo per l’assetto ereditario; fu Cosimo a imporre nuovamente la sua volontà riconoscendo il bambino e legalizzandone la nascita.
Ma per Eleonora fu solo un breve periodo di serenità, l’incapricciamento di Cosimo per lei stava già esaurendosi. L’amore paterno per il piccolo Giovanni non servì a consolidare l’unione e la giovane divenne un ostacolo per la libertà del duca mediceo, ormai solo una concubina di cui disfarsi. Forse, nella decisione di Cosimo di porre fine alla relazione con Eleonora, pesarono le rimostranze del papa contro questo legame irregolare e le minacce di non dare seguito alla tanto agognata nomina a granduca.
Svanita l’idea delle nozze, forse già infatuato di un’altra giovane donna, Camilla Martelli, il Signore di Firenze pianificò l’addio a Eleonora con un contratto matrimoniale che a lui garantisse la massima libertà. La donna fu costretta a sposare un nobile fiorentino, Carlo Piantacichi, sul cui capo pendeva una condanna a morte per omicidio. Le accuse gravissime furono fatte cadere e in cambio l’uomo accettò di convolare a nozze con Eleonora ricevendo anche una dote di 10000 scudi. Cosimo donò come risarcimento alla ex amante una cintura di rubini e perle con al centro uno zaffiro bianco. Dal nuovo matrimonio forzato nacquero 3 figli che non misero Eleonora a riparo da ulteriori dolori. Nel 1578 Carlo Piantacichi accusò la moglie di adulterio costringendola alla vita di clausura nel monastero di Fuligno a Firenze.
In base ai documenti conservati nell’Archive Medici Project, la vita di Eleonora continuò a essere afflitta da prepotenze e ingiustizie anche in convento. Nel 1616 Francesco Renzi, agente di Don Giovanni de’ Medici a Firenze, scrisse più volte al suo padrone lamentando il comportamento di Carlo Piantacichi e del figlio Bartolomeo. Scrive Renzi che Bartolomeo, “huomo oggi ozioso et in parte bisognioso ma non di pensiero” si presentò al convento obbligando la madre a pagare i suoi debiti. Triste il commento della povera donna ormai anziana che, sempre leggendo la lettera di Renzi, “non vol più sapere de fatti sua che quel poco che ha stare in questo mondo ci vuol vivere quieta”
; nel tempo furono intentate azioni contro la famiglia Panciatichi per il recupero della dote. È il figlio Giovanni de’ Medici ad aiutarla, a sostentarla e anche a denunciare i soprusi di cui è vittima. In una lettera a Maria Cristina di Lorena de’ Medici, sempre del 1616, Don Giovanni scrive “Mia madre […] è ridotta in età quasi decrepita a esser molestata et maltrattata da chi ella ha procurato levar del fango. [...] Saprà adunque V. A. S. che Bartolommeo Panciatichi, non huomo ma peggio che animale senza ragione, pretende da essa signora mille impertinenze, et dopo haverla infinite volte ingannata, con inganni vergognosissimi per ogni vilissimo plebeo aggiratore, la vuole hora, con donazioni surretizie, molestare, perchè ella non possi far del suo quel che gli piace”. Negli anni la situazione non migliorò se, il 19 ottobre 1620, Francesco Renzi scrisse a Don Giovanni ipotizzando che la madre fosse stata avvelenata: “Harivò poi il medicho di S. S. Ill.ma [Eleonora degli Albizzi] m.re Benedetto Mattonari, il quale la visitò et gli trovò una gran febbre con un polso alterato assai et domandò quello che gli era venuto; trovò che laveva vomitato et presa la febbre con il freddo. Io dubitai di veleno perchè uno male così alli in proviso mi parve cosa grande.[. . .]”.  
Visse a lungo Eleonora degli Albizzi, nonostante i dolori provati. Si spense a Firenze nel 1634 alla veneranda età di 91 anni.

Fonti:
Agostino Ademollo, Marietta de’ Ricci ovvero Firenze al tempo dell’assedio, Firenze, 1840, p. 992

Enrico Leo, Storia degli Stati italiani, Firenze, 1842, p. 410

Caroline P. Murphy, Isabella de’ Medici, Il Saggiatore, 2011, pp. 174-175

http://historion.net/tragedies-medici/eleanora-degli-albizzi

http://bia.medici.org/DocSources/Home.do  

 



Evangelina Alciati

(Torino 1883 - 1959)

Nessun ricordo della pittrice torinese nella toponomastica locale, nonostante in vita fosse stata nella sua città figura nota e artista di successo.
 
Evangelina, una vocazione d'artista
di Livia Capasso

Evangelina  Gemma Alciati nacque a Torino il 21 agosto 1883, e a Torino morì il 2 gennaio 1959. Sua madre, Caterina Silvia Aschieri, era di nobile famiglia; suo padre, Francesco, ingegnere, la lasciò orfana che era ancora bambina, costringendo la madre al lavoro di affitta-camere per tirar su le due figlie nate dal matrimonio. Dopo i primi studi per diventare maestra alla scuola femminile “Domenico Berti”, Evangelina avvertì la sua inclinazione artistica e si iscrisse all'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, dove conseguì il diploma di insegnante di disegno e pittura e fu alunna di Giacomo Grosso, pittore allora di grande successo, oggi accusato dalla critica di accademismo e virtuosismo. All'Albertina conobbe il suo futuro compagno, pittore anche lui, Anacleto Boccalatte, che non sposò mai, e dalla loro unione nacque, nel 1907, l’unico figlio della coppia.
Aveva un carattere vivace, spregiudicato e ardito, come ricorda la scrittrice Carola Prosperi, sua compagna di scuola, che testimonia anche la sua determinazione: Evangelina voleva fare l’artista e con fermezza e coraggio seguì la sua vena.  Il piglio autoritario, l’anticonformismo, la portava a volte a scatti d’ira, ma era animata da una fondamentale bontà e generosità verso il prossimo. Amava leggere libri, di cui poi discuteva con giudizio critico; amava la natura, il paesaggio collinare di Torino, il Po.
Decisivo per la sua carriera artistica fu il soggiorno a Parigi, dove Evangelina dimorò dal 1903 al 1906. Ritornata in Italia, espose per la prima volta nella sua città, nel 1908, ospite della Promotrice torinese, riscuotendo successo col suo dipinto Maternità, acquistato poi dal re per la somma di lire 700. Da allora in poi fu costante la sua presenza a tutte le mostre della Promotrice. Insieme a Emma Ciardi, nel 1912, partecipò alla Decima Esposizione Internazionale di Venezia, dove ambedue furono molto apprezzate; nel 1913, alla Seconda Esposizione Internazionale Femminile di Belle arti, promossa dalla rivista «La Donna» sotto il patronato della Regina Elena, ottenne una mostra individuale ove espose quindici opere, tra cui Ritratto di Bimba. Ancora, nel 1923 e nel 1927 partecipò alla Quadriennale di Torino, e nel 1926 alla mostra “Vedute di Torino”. Espose anche a Roma: nel 1914 alla prima mostra della Probitas, presso il Palazzo delle Belle Arti, nel 1919 presso la Società degli Amatori e Cultori di Belle Arti, e nel 1923 alla Seconda Biennale Romana. Cominciò poi a interessarsi ai soggetti floreali, che saranno sempre più frequenti nei suoi dipinti, anche se non abbandonò mai il genere del ritratto, a cui si dedicò per ritrarre personaggi illustri, ma anche familiari.
Nel 1938 subì un grave lutto familiare: il figlio Gabriele, maestro di pianoforte ed esperto rocciatore, morì in un incidente alpinistico a Courmayeur, lasciando vedova la moglie e orfano il figlio di un anno. La mamma lo ritrasse morto, sul retro di un altro dipinto, Contadine che panificano.
Espose anche a Buenos Aires, Rio de Janeiro e Montevideo.
Andò poi diradando la sua presenza a eventi pubblici; la sua ultima esposizione fu nel 1953 alla Galleria Fogliato, di Torino.
Le sue ceneri riposano nel piccolo cimitero di Courmayeur accanto alla tomba del figlio.
Caduta nell’oblio, nel 1992 le è stata dedicata una retrospettiva a Torino, accompagnata da un fascicolo, curato da Francesco De Caria e Donatella Taverna, ricco di precisazioni biografiche e corrispondenza inedita.
Così la ricorda la nipote, Anna Maria Fracchia, figlia di Leonardo, suo nipote prediletto e figlio della sorella Maria, che aveva un po’ sostituito nel suo cuore il figlio perduto: Era l'anno 1953. Avevo 16 anni: ricordo che sedevo intimidita nel luminoso studio dal soffitto a vetri della prozia Evangelina Alciati in via S. Giulia a Torino. Ero sua ospite per un breve periodo, giusto il tempo per farmi il ritratto. Venivo da Milano dove abitavo con i miei genitori. L'Alciati aveva allora 70 anni ma non li dimostrava: senza rughe, un incarnato fine color porcellana, i capelli lisci castani divisi da una scriminatura e raccolti in un piccolo chignon, gli occhi scurissimi e penetranti che quando ti guardavano sembrava che ti volessero carpire l'anima ……….  Aveva deciso di farmi il ritratto a mezza figura, un pastello, ed aveva voluto che indossassi un abito bianco di pizzo sangallo che, come diceva lei, era adatto ad una adolescente. Ero molto alta per la mia età, la zia mi guardava da sotto in su e diceva "sei alta come la Mole Antonelliana" ma poi aggiungeva "sei bella come una fata"……. Mentre maneggiava con perizia i gessetti dei pastelli, mi parlava della sua giovinezza, del suo desiderio fin da giovanissima di fare la pittrice, dei suoi primi anni di scuola, della perdita prematura del padre Francesco, che quasi non conobbe, dei sacrifici che sua madre Silvia dovette affrontare per farla studiare, e per tirare grande anche l'altra figlia Maria. Mi raccontò che quando vide per la prima volta Boccalatte, si innamorò perdutamente perché aveva colto in lui una rassomiglianza straordinaria con il musicista Beethoven della cui musica era profondamente appassionata. Un giorno le chiesi di parlarmi delle sue origini nobili. Mi rispose stizzita che lei quelle stupidaggini non le voleva proprio sentire, per lei il titolo nobiliare non aveva alcuna importanza e aggiungeva che la nobiltà alberga nell'animo e nel cuore anche della più umile delle creature …… Nei suoi ricordi non poteva mancare di raccontare la prima volta che incontrò Giacomo Grosso, celebre pittore all'Accademia Albertina. Aveva lasciato gli studi magistrali per dedicarsi alla pittura e doveva iscriversi al corso del Grosso, allora insegnante all'Accademia. Quando Grosso la vide aggrottò le sopracciglia e le disse: "Ma cosa fa qui lei, non sa che le donne devono stare a casa a fare la calza? Non voglio donne nel mio corso”. Lei non si scompose, aprì la grossa cartella con i suoi dipinti e disegni e gliela mostrò. Grosso cambiò espressione e mormorò: "Accidenti ma questa ha la mano di un uomo". L'accettò nel suo corso, unica allieva donna, ed aggiunse: "Lei dovrà lavorare il doppio dei suoi colleghi maschi!".
La sua arte, sulla base delle esperienze artistiche fatte a Parigi, approdò a uno stile assolutamente personale. Nei ritratti, a olio e a pastello, l’Alciati si rivela capace di sapiente indagine introspettiva: le figure, rese con campiture di colore e pochi dettagli, mostrano negli sguardi intensi grande espressività; anche i paesaggi e le nature morte sono resi a piccoli tocchi di colore, secondo la tecnica divisionista.
I ritratti, eseguiti in uno stile robusto, come scrisse Enrica Grasso in «La Donna» del 20 luglio 1912: “sono forse un po’ tristi …. ma non hanno nulla d'incerto ….con quei volti e con quegli abiti così volutamente lontani dalle frivolezze della moda: una bimba senza riccioli, senza nastri, con un'ampia veste di raso pesante; due dame, di cui una seduta in compostezza grave, quasi monacale …..  l'altra ritta, con un gesto più civettuolo, anch'essa lontana dalla consueta mondanità femminile, con grazie personali meglio che acquistate dal sarto più in voga, o prese a prestito alla posa delle dive teatrali”.
Una ricca galleria di immagini delle sue opere si trova all’indirizzo:
http://www.letteraturaalfemminile.it/evangelinagemmaalciati.htm

Fonti
Anna Maria Fracchia, Evangelina Alciati (1883-1959): chiara profonda intelligente pittura" , Canelli, Fabiano, 2007, p. 302
Evangelina Alciati nelle raccolte pubbliche e private: Circolo degli artisti, Palazzo Granieri, Torino", ed. Teca, Torino, 1960
Appunti su Evangelina Alciati, ( a cura di Francesco De Caria e Donatella  Taverna), mostra della Famija Turineisa, 1992  
http://www.artericerca.com/artisti_italiani_ottocento/a/alciati%20evangelina/evangelina%20alciati%20biografia.htm
http://www.letteraturaalfemminile.it/evangelinagemmaalciatibiografia.htm
 


Sorelle Avegno

A Genova, in una di quelle zone dove l’architettura misurata, la rigogliosa vegetazione mediterranea e il profumo del mare, non lontano, fanno pensare di essere sempre in vacanza, c’è una piccola strada che la toponomastica locale ha voluto dedicare alle sorelle Caterina e Maria Avegno. Purtroppo non è stato possibile rilevare nessuna targa stradale a testimonianza di questa intitolazione.
 
Caterina e Maria: eroine per caso e per scelta
di Paola Bortolani
 
Chi erano, queste due donne che meritano il ricordo perenne della loro esistenza? Per capirlo, dobbiamo tornare al lontano 1853, anno in cui la Russia dichiarò guerra alla Turchia, con l’intento di assicurarsi uno sbocco sul Mediterraneo, e Francia e Inghilterra, di risposta, decisero di appoggiare l’Impero Ottomano per contrastare le mire espansionistiche dello zar Nicola I.
Ne seppe approfittare Camillo Benso Conte di Cavour, primo Ministro del Regno di Sardegna, che ritenne conveniente offrire un sostegno alla Francia al fine di assicurarsi un futuro alleato.
Spostiamoci ora al 23 aprile del 1855, nel porto di Genova: Cavour e Rattazzi assistono alla partenza dell’esercito piemontese imbarcato sul bastimento inglese Croesus, diretto in Turchia. Oltre ai soldati, sul Croesus ci sono medici, infermieri, attrezzature, muli e cavalli, medicinali, viveri, munizioni, combustibile.
La nave salpa l’ancora, le condizioni del mare sono buone, con un bel vento teso di tramontana che gonfia le vele del piroscafo. Passato Camogli, però, dal Croesus si alza un grido: “Fuoco a bordo”. Il comandante impartisce gli ordini necessari per cercare di domare le fiamme, ma è inutile, meglio fermarsi dove possibile. Il bastimento si rifugia nella piccola baia di San Fruttuoso di Capodimonte, ed è così grande da occuparla tutta. L’incendio intanto continua violentissimo, i soldati sono terrorizzati: quasi nessuno sa nuotare, molti di loro non hanno mai visto il mare.
Davanti a questa tragedia Caterina e Maria Avegno non hanno un attimo di esitazione: saltano su un piccolo gozzo e si lanciano in soccorso dei naufraghi. A poco a poco ne portano in salvo moltissimi. Grazie al loro intervento, ci saranno solo ventiquattro vittime.
Ma troppe mani voglio afferrarsi alla salvezza, e dopo alcuni viaggi il gozzo si rovescia. Le sorelle Avegno sono ottime nuotatrici, e continuano a offrire il loro sostegno ai naufraghi, ma infine Maria è travolta dalla stanchezza, e annega. Lascia otto figli piccolissimi. Caterina si salva a stento, e morirà poco tempo dopo a causa dell’estenuante fatica sopportata.
La baia di San Fruttuoso è oggi un luogo incantato, raggiungibile solo a piedi, attraverso il Monte di Portofino, o via mare. Grazie alla presenza di una sorgente di acqua dolce, è sempre stato abitato da povere famiglie che si sostenevano con i prodotti della pesca. La scomparsa di Maria Avegno colpì profondamente le Autorità locali, che conferirono alla sua memoria onorificenze e una rendita per gli orfani.
Nel giugno 1855 Maria Avegno divenne la prima donna italiana a ricevere la Medaglia d’Oro al Valore Civile, mentre la Regina Vittoria volle insignire Maria della prestigiosa Victoria Cross, la più alta onorificenza inglese.
Su disposizione dei Principi Doria Pamphilj le sorelle Avegno sono sepolte nella cripta dell’Abbazia di San Fruttuoso, un privilegio unico per gli abitanti del borgo.
Troviamo il nome di Maria Avegno anche nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi: esiste una nota scritta al Ministro degli Interni del regno di Sardegna da monsieur Cormenin, fondatore di un’associazione che ha lo scopo di celebrare una messa quotidiana, in una cappella della Cattedrale, in suffragio di tutti coloro che sono morti per salvare la vita del prossimo.
 
Fonti:
Storie di navi e relitti del promontorio di Portofino, a cura del FAI Fondo Ambiente Italiano, mostra allestita presso l’Abbazia di San Fruttoso di Camogli, dal 16 aprile al 16 ottobre 2011.
www.agenzia bozzo.it – archivio Camogli antica.

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Salwa Salem

(Palestina 1940 - 1992)
 

Il contributo di Salwa Salem all’interno del movimento femminile impegnato nella costruzione di rapporti tra donne palestinesi e israeliane, verso la fine degli anni ottanta, con la sua peculiarità di intellettuale esule palestinese inserita nella società italiana, è fondamentale per la comprensione della questione palestinese e per la realizzazione di un nuovo modo di far politica in un’ottica femminile e pacifista.  La sua esperienza in Italia, costituisce un esempio riuscito di integrazione produttiva, che ha contribuito alla formazione di un pensiero interculturale, valore oggi più che mai attuale e fondamentale per la creazione di una prospettiva cosmopolita, capace di mostrare in una luce diversa la realtà nazionale e di reinterpretarla. Crediamo che la città di Parma dove ha vissuto ventidue anni, conosciuta e amata da molte persone, debba dedicarle un'intitolazione che ne perpetui il ricordo, come esempio di apertura al mondo degli ‘altri’, contro ogni tentazione di coscienza nazionale che innalza se stessa a criterio del mondo e come modello di valore sul quale riflettere. Siamo convinte che questa richiesta sarà sostenuta da molti cittadini parmigiani dai quali era chiamata ‘La Signora gentile’, con tutta l’ammirazione e l’affetto dimostrati negli anni della sua permanenza a Parma.

  
Salwa Salem “La Signora gentile”
di Marina Convertino
 
Salwa Salem nasce nel 1940 a Kafr Zibàd, un villaggio della Palestina a pochi chilometri da Yaffa, dove si trasferisce con la famiglia per qualche anno prima di dover abbandonare la propria casa a causa del conflitto arabo-israeliano del 1948 e doversi rifugiare nella città di Nablus in Cisgiordania. La guerra del 1948 e la nascita dello stato di Israele rappresenta per i palestinesi il punto d’inizio di una serie di tragedie anche personali. Città e villaggi furono teatri di scontri violenti durante i quali le forze armate ebraiche cacciarono la popolazione palestinese dalle loro case, facendo ricorso anche al terrorismo. La difesa dell’onore delle donne della famiglia dall’aggressione del nemico, durante questo conflitto, contribuì in alcuni casi, a costringere i palestinesi alla fuga, impauriti dalle testimonianze di ripetuti stupri e violenze sulle donne da parte delle forze israeliane. (Salih).
A Nablus Salwa Salem trascorre parte della sua giovinezza, con il ricordo doloroso della terra che aveva dovuto lasciare all’improvviso e la consapevolezza di aver perso tutto e di non poter più tornare alla propria casa.
 “In famiglia si parlava spesso di Yafa, era sempre nel nostro cuore, nei nostri discorsi[…] La gente fu a lungo sotto choc e non si rendeva conto della situazione; non capiva perché era stata cacciata, derubata di tutto. Era come un brutto sogno, la sensazione di un’enorme perdita. Si sentiva parlare del trattamento disumano che avevano subito gli ebrei nella seconda guerra mondiale, ma ci si chiedeva perché dovevamo essere noi a pagare per gli orrori commessi da altri[…] Era una tragedia troppo grande. Io vivevo nel rimpianto felice di Yafa.”
Salwa cresce in un clima culturale molto vivo, partecipando alle frequenti riunioni tenute dal fratello, il maggiore dei tre maschi, che sarà arrestato più volte per il suo impegno politico in difesa dei diritti dei palestinesi. Salwa, a lui fortemente legata, viene coinvolta e sostenuta in tutte le attività intellettuali, e la sua identità si nutre e si forma sulle letture di Nietzsche, Hegel, Kant, i classici americani, russi, francesi, la letteratura araba. Simone de Beauvoir diventa il suo vangelo, che la porterà ad approfondire all’università l’esistenzialismo. Attraverso la lettura si confronta con una molteplicità di modelli femminili differenti da quelli della sua tradizione e dai quali sarà influenzata, sviluppando una personalità determinata e una forte volontà di affermazione e di libertà. Si ribella ai ruoli di genere restrittivi della sua cultura, rifiutando l’imposizione della famiglia all’uso del mandìl, il velo usato dalle donne, aprendo così la strada alle sorelle minori, che grazie a lei non lo indosseranno mai. A quindici anni entra a far parte del partito Ba’ath, un partito laico e socialista che credeva nell’unità economica del mondo arabo, iniziando a organizzare riunioni e scioperi nella scuola e per questo sarà espulsa per qualche settimana dalla scuola.[i] Organizza una manifestazione contro il consolato britannico, duramente repressa dalla polizia e nel corso della quale una compagna perderà la vita e lei stessa sarà ferita a una gamba.
E’ nell’età in cui le ragazze venivano considerate pronte per il matrimonio. La pratica dei matrimoni combinati, anche con cugini di primo grado, era diffusa in molti paesi arabi, ma Salwa si oppone, determinata a continuare gli studi e l’attività politica, e la sua fermezza farà desistere i genitori, che per quanto molto legati alle tradizioni, erano comunque aperti a nuove possibilità. Finita la maturità, entra in un college femminile di Ramallàh, frequentato da ragazze musulmane e cristiane di diversa estrazione sociale, ma è una situazione di isolamento e di restrizione di libertà per Salwa, abituata ad avere una vita attiva e impegnata. Sfidando le tradizionali aspettative della famiglia, decide di raggiungere il fratello in Kuwait, dove l’élite intellettuale palestinese era ben accolta dalle autorità governative, che utilizzarono le competenze palestinesi per la costruzione del loro paese. Qui si trasferisce a vivere dal 1959 al 1966, insegnando letteratura in una scuola femminile, mentre studia filosofia all’Università di Damasco. E’ un periodo faticoso e impegnativo, che le consentirà di ritagliarsi spazi di autonomia fondamentali per la sua sete di libertà. L’indipendenza economica e l’insegnamento le daranno molte soddisfazioni, ma il Kuwait si rivela essere un paese opprimente.
Nel 1966 si sposa e va a vivere in Europa, nella città di Vienna. La disillusione per l’Occidente luogo mitico della sua adolescenza, si rileva in tutta la sua fredda concretezza: a Vienna vive una situazione di disagio, dovuta all’atteggiamento di rigidità e discriminazione degli austriaci. “Questo dei viennesi era razzismo vero, sistematico: se eri straniero non ti davano la casa e ti trattavano come un verme perché non meritavi altro. E non si poteva dire che gli europei fossero ignoranti. Io mi sentivo alla pari con gli austriaci. Avevamo una grande tradizione, una grande civiltà, una grande storia di cui eravamo orgogliosi: in che cosa si potevano sentire superiori e migliori di noi? Furiosa, mi chiedevo se era questa la cultura che ero venuta a scoprire […] Per loro gli arabi erano sottosviluppati, selvaggi, arretrati. Io, poi, ero una donna e questo suscitava altre domande: ‘dov’è il tuo velo? Non hai paura a uscire per strada?’. Le donne arabe per loro erano quelle figure nere, coperte, scalze, macchie senza personalità e non essere umani”.
Al senso di solitudine, si aggiunge il dolore per lo scoppio della guerra dei sei giorni, nel 1967, in cui Israele sottraeva il Sinai all’Egitto, le alture del Golan alla Siria, la Cisgiordania e la striscia di Gaza. “Noi che eravamo fuori dalla Palestina perdemmo per sempre il diritto di tornare. Eravamo tagliati fuori, stranieri, non eravamo più nessuno. Avevamo di nuovo perso tutto, eravamo di nuovo senza terra, senza casa, senza un punto d’appoggio”.  La situazione a Vienna diventa sempre più difficile, ma Salwa Salem che nel frattempo avrà due bambini, riesce comunque a seguire un corso di studio per imparare il tedesco e concludere il corso di laurea, tornando a Damasco per dare gli esami. L’insostenibile condizione di ostilità degli austriaci e di esilio imposto dalla vittoria israeliana, la porteranno nel 1970 a trasferirsi in Italia con la famiglia.
A Parma, dove vive, trova un clima ospitale e accogliente. Ritrova lo slancio giovanile e torna alla politica attiva. Riprende a frequentare i convegni, i dibattiti, le riunioni di gruppi pacifisti e attraverso la frequentazione di femministe italiane, riesce a riappropriarsi di spazi di realizzazione. Entra in contatto con diversi gruppi come la Casa delle donne di Torino, il Centro di documentazione delle donne di Bologna e l’Associazione per la pace, con i quali crea un rapporto di solidarietà e di impegno. Il suo contributo è mirato soprattutto a far conoscere la situazione palestinese a lungo ignorata e impegnarsi nella solidarietà con l’intifada.[ii]  Salwa partecipa agli incontri con la passione di una donna fortemente attaccata alle proprie radici, ma con grande capacità di dialogo e ascolto, e con la disponibilità a incrociare e modificare convinzioni e idee differenti, segno di una personalità aperta e forte allo stesso tempo.  Questo periodo di attività politica in Italia fu uno dei più importanti della sua vita, in un’atmosfera di continuo confronto politico e costruttivo durante il quale coltivò profonde amicizie.
“Considero la mia attività politica con le donne una parte importante della mia vita. Pur avendo condiviso con gli uomini molti momenti della mia formazione intellettuale, con le donne mi sento più a mio agio, trovo una maggiore possibilità di discutere, di capirsi. Credo che le donne abbiano un modo diverso di vedere la vita e la politica, La maternità insegna alle donne la concretezza, il loro istinto di protezione le rende pacifiche, nemiche della guerra, sensibili ai grandi problemi dell’umanità”.
L’esperienza di vita di Salwa, considerata a pieno titolo modello paradigmatico della condizione del popolo palestinese in esilio, si trasforma in una testimonianza scritta nel libro di memorie “Con il vento nei capelli”, pubblicato dopo la sua morte e frutto dell’impegno di diverse donne con le quali Salwa aveva collaborato, tra le quali la figlia Ruba.

Fonti
Salwa Salem, Con il vento nei capelli. Vita di una donna palestinese, Giunti 1993.

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[i] Le donne palestinesi hanno avuto un ruolo molto attivo nella sfera pubblica, già nell’organizzazione della resistenza contro gli inglesi e poi contro gli israeliani. Risale agli anni venti la prima organizzazione femminile con la nascita dell’Unione delle donne palestinesi e nel 1929 ha avuto luogo il primo Congresso delle donne arabe di Palestina, che ha visto partecipare centinaia di donne. Negli anni sessanta e settanta, sono nate moltissime organizzazioni di base, partiti e comitati di donne che hanno contribuito alla nascita di una società civile forte con l’obiettivo primaio di combattere l’occupazione israeliana. La vivacità culturale e politica di quegli anni ha determinato importanti ricadute sulla visibilità delle donne, che hanno ottenuto risultati importanti nella rappresentanza pubblica e politica. Nelle elezioni municipali del 2004 e del 2005, per esempio, le donne elette sono state il 17% del totale. Il 30 % degli avvocati sono donne e in generale il livello d’istruzione delle donne equivale o supera quello degli uomini.
(Ruba Salih, Musulmane rivelate, Donne, islam, modernità, Carocci 2008.)

[ii] Il culmine della partecipazione femminile alla resistenza e al simultaneo nation-building si avrà con la prima intifada, la rivolta delle pietre che inizia nel 1987 e termina con gli accordi di Oslo, nel 1993. La prima intifada verrà descritta come un movimento di femminilizzazione della società e della lotta palestinese e la presenza e il ruolo delle donne nelle strade, nelle manifestazioni, nelle strutture di supporto della resistenza e della società sarà centrale nella sua iconografia.
(Ruba Salih, Musulmane rivelate, Donne, islam, modernità, Carocci 2008.)

 


Filiz Şaybak

(Van, 1980 – Mexmur, 2016)

Per intitolare strade o piazze a questa grande comandante partigiana è presto: bisognerà prima fare chiarezza su chi sono gli eroi e chi i terroristi. Intanto, la foto con i suoi occhi del colore della divisa è affissa in tutti i villaggi del Kurdistan accanto a quella con i baffoni ormai bianchi di Abdullah Öcalan.

 

Comandante Avesta Harun 

 

di Andrea Zennaro

 

Filiz Şaybak (pronuncia: Filis Shaibak) nasce nel 1980 a Van, un piccolo paese nel Kurdistan turco. Il suo carattere è forte e indomabile come quello della gente a cui appartiene, i Curdi. Sono un antico popolo di origine indoeuropea. Hanno sempre vissuto liberi e autonomi. Ben arroccati sulle loro montagne, neanche Alessandro Magno riuscì a sottometterli. La loro lingua era ed è tuttora diversissima da tutte le altre. Fu l'Impero Ottomano a imporre loro la fede musulmana. Dopo la I Guerra Mondiale l'Impero Ottomano si sgretolò in fretta. La Società delle Nazioni divise la zona in due protettorati, un regno e una repubblica: Mesopotamia e Palestina alla Gran Bretagna, Siria e Libano alla Francia, Persia e Turchia autonome. Ai Curdi nulla. Il Kurdistan fu diviso in quattro parti, una turca, una siriana, una iraniana (ex persiana) e una irachena (ex mesopotamica). In modi e tempi diversi, tutti e quattro i nuovi stati hanno sempre represso le spinte identitarie e indipendentiste curde. La repressione peggiore è stata quella turca: vietato parlare curdo nei villaggi, vietato celebrare il Newroz (il tradizionale capodanno curdo che ricorre il 21 marzo, sempre festeggiato con fuochi e danze), insomma vietato non aderire al nuovo grande progetto di Turchia moderna e occidentale imposto da Kemal Atatürk.
Filiz cresce in una famiglia numerosa e piena di affetto. Gode di un amore inseparabile con il fratello Tekin e con la sorella Nurcan. Vive sulle montagne che conosce bene, considera gli alberi e i sassi come esseri viventi con tanto di nomi e sentimenti, ama e rispetta la Natura, di cui fin da bambina ha imparato a capire e accettare i cicli. Crescendo va a scuola a Mezri, la città più vicina a Van. Ama imparare ma le dispiace che a scuola non possa parlare il curdo né cantare i canti e danzare i balli tradizionali del suo popolo. È una bambina, non riesce a capire perché il maestro picchi i compagni di classe che si lasciano sfuggire una parola in curdo, non capisce chi sono davvero quelli che a scuola chiamano "terroristi". Tekin, il fratello maggiore, si arrabbia, vuole la libertà. L'altro fratello, il primogenito, ha studiato ed è diventato imam, lui è per la pace ma si rende conto che così non è giusto.
Nel 1984 il PKK (il partito dei lavoratori curdi, capeggiato da Abdullah Öcalan), dichiarato illegale e considerato un'organizzazione terroristica, entra in clandestinità e inizia la lotta armata contro lo stato turco. Sui monti del Qandil Filiz vede uomini che portano lunghi fucili e le sorridono. Filiz ne ha simpatia, non paura. In città Tekin scopre il movimento studentesco clandestino legato al PKK e vi entra portando con sé le sorelle, ormai cresciute. Filiz e Nurcan convincono (o costringono) la madre a togliere il velo che le copre il capo e la dignità, la donna non deve più essere sottomessa.
Le ingiustizie aumentano di continuo. Un giorno vede uomini e donne uccisi e trascinati per le strade dall'esercito turco. Arriva il giorno in cui Filiz decide di lasciare la scuola: lo fa a malincuore, ma non può continuare a studiare la lingua e le leggi di chi uccide i suoi fratelli, non vuole andare a lavorare per uno Stato che le è nemico.

In casa Şaybak non tarda ad arrivare la polizia turca. Da allora in poi fermi, arresti, perquisizioni e interrogatori saranno all'ordine del giorno. Finché Tekin viene arrestato. Terrorismo è l'accusa, dodici anni la condanna. Resta in carcere due anni, quando esce per un'amnistia ha le idee chiare.

Un giorno Tekin sparisce, va in montagna con i compagni; in braccio un fucile, nome di battaglia Harun Van: Harun come un compagno morto prima di lui e Van come il paese in cui è nato. Combatte per dare ai futuri bambini curdi l'infanzia normale e serena che lui non ha avuto.
L'ONU e l'Europa intervengono per un cessate il fuoco. Non è una vera e propria tregua, la Turchia, dicono, ha diritto a difendersi dai terroristi. La Turchia formalmente mantiene la tregua, in realtà rompe il cessate il fuoco e continua la guerriglia in montagna. Tekin è circondato dagli elicotteri, è il solo a rimanere vivo, lotta strenuamente solo contro tutti; ha mitragliatrici da ogni lato e bombe dal cielo. L'ultima pallottola la tiene per sé.

Un mese dopo la morte di Tekin, è Filiz a scomparire. Prende il fucile del fratello e continua la sua strada. Nome di battaglia Avesta Harun: Avesta come il nome dei testi sacri zoroastriani, la fede del Kurdistan prima dell'imposizione dell'Islam, e Harun come il suo amato fratello maggiore.

In Turchia il governo passa nelle mani di Erdogan e la guerra contro il Kurdistan si fa sempre più feroce.

Avesta diventa in breve tempo la comandante di un gruppo speciale n cui uomini e donne sono totalmente pari, la gerarchia è data solo dalla bravura sul campo e dalla cultura politica, che ci si scambia nelle costanti riunioni di lettura e autoformazione. È una comandante per niente severa, molto attenta al lato umano e ai bisogni di chi la segue, tenera con chi è in difficoltà o ha paura e dura con chi vuole mettere i piedi in testa ai più deboli.

Oltre all'YPG (gruppi armati di autodifesa del popolo curdo) si forma l'HPG (gruppi di difesa delle donne), una serie di gruppi militari speciali per le donne, per il Kurdistan libero e per la parità sessuale. Avesta è a capo di uno di questi gruppi. Sotto la sua guida il PKK ottiene i suoi migliori risultati militari contro l'esercito turco, che ha buone armi ma non conosce quelle montagne indomabili.

Foraggiato dall'Occidente, compare un nuovo nemico. Si tratta del Daesh (a noi noto con il nome di ISIS), un esercito di "barbari che si reputano gli inviati di Dio", come li definisce Avesta. Lei sta contemplando la neve sui monti del Quandil, a lei così familiari fin da piccina, e leggendo un libro di Öcalan quando arrivano le urla: "Il Daesh ha attaccato Mexmur!"

Mexmur, poco più che un campo profughi, è la località principale del Kurdistan iracheno, punto di arrivo di un lunghissimo esodo di Curdi cacciati dalla Turchia. Qui non ci sono attività belliche ma solo civili e postazioni mediche, ma rimane un luogo simbolicamente importante per l'identità curda e per il confederalismo democratico che lì è applicato.

La squadra di Avesta è una delle prime a partire. Daesh spara solo qualche colpo poi tutti salgono su un SUV e scappano via. Mexmur è liberata in breve tempo, la stessa scena si ripete per i villaggi vicini. I Curdi sembrano vincere. La situazione precipita quando l'esercito di Erdogan entra in Siria, disposto a tutto pur di fermarli. È il 2016: la Turchia sembra preferire le bestie del Daesh al confederalismo democratico del PKK; secondo Ankara il vero terrorista è ancora una volta Öcalan, non il sedicente Califfo e i suoi uomini incappucciati.

Nell'ultimo villaggio da liberare il Daesh è accerchiato e i Curdi vincono molto in fretta. Ma gli ultimi due colpi della barbarie colpiscono un braccio e un fianco di Avesta. Gli organi vitali non sono compromessi ma sta perdendo tanto, troppo sangue. Un altro comandante la carica di corsa su una jeep. Le mine intorno a Mexmur sono l'accoglienza irachena ai Curdi in fuga dalla Turchia, per non farli andare troppo in giro fuori dal campo: la jeep salta proprio su una di queste. Quando Avesta viene messa sulla seconda jeep ha già perso i sensi. Nella Mexmur liberata dove la aspettavano le cure mediche e i festeggiamenti per la vittoria non fa in tempo ad arrivare.

 

Fonti

 

Marco Rovelli, La guerriera dagli occhi verdi

 

 

 

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Muriel Siebert

(Cleveland, 1928 - New York, 2013)

 A lei è intitolata la casa d'investimento Muriel Siebert & Company

Prima donna a Wall Street

di Ester Rizzo

E’ nata a Cleveland il 12 settembre 1928. Ha frequentato la Western Reserve University per due anni, dovendo poi abbandonare gli studi per dare assistenza al padre malato.
Quando si trasferì a New York, nel 1954, fu assunta come tirocinante nella società di investimenti Bache & Company, percependo un salario di sessantacinque dollari a settimana. Dopo aver lavorato per diverse società di intermediazione finanziaria denunciò che i colleghi maschi guadagnavano di più, a parità di mansioni svolte, e le fu consigliato che per ottenere un salario paritario avrebbe dovuto “comprarsi” un posto al New York Stock Exchange.
Così fece, diventando la prima donna a Wall Street ad acquistare, nel 1967, un desk al New York Stock Exchange, unica donna fra 1.365 uomini. Nel 1969 diventò inoltre la prima donna a guidare una società di investimento, la Muriel Siebert & Company, stabilendo che metà dei profitti della sua società dovessero essere donati in beneficenza ad altre donne per aiutarle ad iniziare la loro attività in finanza.
Negli anni Settanta lottò contro le "abitudini sessiste" dell’ambiente finanziario di Manhattan. Una volta, addirittura, non le fu permesso di usare l'ascensore proprio perché donna.
Dal 1977 al 1982 fu sovrintendente del sistema bancario dello Stato di New York.
Nel 1987 per ottenere "un bagno femminile" al settimo piano del New York Stock Exchange, minacciò di installare una toilette portatile.
Per tutta la vita condannò pubblicamente le politiche discriminatorie degli ambienti di lavoro legati alla finanza.
Ha ricevuto diciassette lauree ad honorem.
Nel 2007, a quaranta anni dalla conquista del suo “desk”, suonò la campanella a Wall Street alla fine delle contrattazioni.
Ammalatasi di cancro, è morta il 26 agosto 2013 ad 84 anni in un ospedale di Manhattan.
E' stata definita una pioniera della finanza a stelle e strisce.

Fonti
http://america24.com/news/wall-street-26-08-2013/59062
http://www.ilpost.it/2013/08/28/muriel-siebert/

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