Varvara Stepanova
Livia Capasso

Daniela Godel

 

Il crollo dell’Impero russo e l’avvento del regime sovietico portarono cambiamenti profondi nel Paese e le arti visive non mancarono di adeguarsi. Nel giovane Stato comunista, fondato nel 1922 sotto Vladimir Lenin, molte/i intellettuali videro un’opportunità per porre fine alla corruzione e all’estrema povertà che avevano caratterizzato la Russia per secoli. L’arte, voluta e sostenuta dal nuovo regime, prendendo le mosse dal cubismo e dal futurismo, che in quegli anni dilagavano nel resto d’Europa, sfociò nel “Costruttivismo”, movimento che intendeva rappresentare le esigenze della nuova classe sociale del proletariato, superando i canoni secolari dell’arte. Il Costruttivismo, con un cambiamento conseguente a quello di una società che andava sempre di più industrializzandosi, rifiutò l’estetismo dell’arte per l’arte, di un’arte cioè fine a sé stessa. Promosse invece gli obiettivi di funzionalità e utilità, esprimendosi a tutto campo, nell’arte come nella letteratura, la musica, il teatro, e la scenografia, e ancora nelle arti grafiche, la fotografia e il design. La concentrazione di importanti istituzioni culturali a San Pietroburgo e Mosca fece di queste due città il terreno fertile per un'evoluzione favorevole delle arti, per le quali fu determinante l’apporto delle donne. Il rinnovato interesse per le arti applicate e le tecniche industriali permise a molte di loro di avventurarsi in questi nuovi settori, associandosi ai movimenti costruttivisti e suprematisti, come Olga Vladimirovna Rozanova, o Natalia Goncharova, che oggi sono considerate artiste importanti delle avanguardie russe, anche se il loro contributo è stato riconosciuto assai più tardi. Varvara Stepanova, più nota come moglie e collaboratrice di Aleksandr Rodčenko, non altrettanto come grafica, fotografa, designer, fu in prima linea in questi cambiamenti e lottò tutta la vita per avvicinare l'arte alle persone con la ferma convinzione che in questo modo la loro vita potesse essere migliorata. Come molti altri artisti e artste d'avanguardia, Stepanova realizzò opere in un'ampia varietà di campi, che vanno dalla pittura tradizionale a poster, libri, riviste, vestiti e fotografie.

Alexander Rodčenko e Varvara Stepanova nel loro studio, 1922

Nacque il 9 novembre 1894 a Kaunas, in Lituania, da una famiglia di contadini e frequentò la Scuola d'Arte di Kazan, dove conobbe Rodčenko, suo compagno di studi; con lui si trasferì a Mosca, rimanendo affascinata dalla poesia futurista, e proprio dalla poesia prese spunto per la sua prima produzione di testi poetici e libri manoscritti decorati con la tecnica del collage. Collaborò coi futuristi come Aleksej Kručënych, di cui illustrò il libro Gly-Gly nel 1919.

Illustrazione per Gly gly, 1919 - Varvara Stepanova Illustrazioni per il poema Zigra Ar, 1918 – Varvara Stepanova

Nelle opere di questo periodo il suo interesse era prevalentemente rivolto a cercare una nuova forma di pittura attraverso la fusione di suono e immagine, un tipo di poesia visiva non oggettiva, concentrata sulla particolare espressività del suono delle parole. Questi testi divennero il contenuto di una serie di libri manoscritti, le cui pagine erano ricoperte da un insieme di parole transrazionali, cioè vocaboli scelti per il loro suono e aspetto piuttosto che per il loro significato, e accostati a forme astratte.

Poesia visiva, Varvara Stepanova

Insieme ad Aleksandr Rodčenko pubblicò nel 1920 il Programma del gruppo produttivista, nel quale si auspicava che l’arte, perdute ormai le funzioni tradizionali, soprattutto quella religiosa, potesse riacquistare un nuovo significato nell’età moderna, legata al produttivismo industriale. La sua posizione si opponeva al soggettivismo di Kandinsky, che poneva l’accento sull’“emozione” e sulla “necessità spirituale”, princìpi che trovava troppo individuali e personali. Durante gli anni Venti, le sue opere costruttiviste, attraverso valori pittorici geometrici e un ritmo della composizione incalzante, incarnavano lo spirito positivo che permeava la società del tempo.

Giocatori di biliardo, 1920 - Varvara Stepanova Figura, 1921 - Varvara Stepanova

Nel 1921 organizzò la storica mostra 5 × 5 = 25, nella quale Varvara Stepanova, Liubov Popova, Aleksandr Rodčenko, Aleksandr Vesnin e Aleksandra Ekster presentarono cinque opere a testa. Nel catalogo Stepanova dichiarava la fine della pittura e la “costruzione” come nuovo ideale artistico. Iniziò a collaborare anche con alcuni teatri, tra gli altri con il Teatro della Rivoluzione, per il quale realizzò le scenografie costruttiviste per La morte di Tarelkin. 

Manifesto per la prima de La morte di Tarelkin, 24 nov. 1922 – Varvara Stepanova

Sempre più interessata a un'arte che riflettesse la realtà sociale e fosse accessibile alle masse, si dedicò all'abbigliamento e al design tessile, lavorando per la Prima Fabbrica Statale di Stampa Tessile, dove realizzò centocinquanta disegni di tessuti, di cui venti furono prodotti. Gli abiti che disegnava, ispirati a quelli tradizionali russi, erano in modo specifico studiati in base alle esigenze di chi li indossava: tute adatte a ogni professione, divise e corredi per gli sportivi; i capi, essenziali, erano costruiti con la massima cura per essere sia stimolanti da guardare che estremamente pratici da indossare. E sulle pagine della rivista Lef (Left Front of the Arts), con cui collaborava regolarmente, teorizzava il vestito costruttivista: ideato per il lavoro, è un abito che privilegia la funzione sociale rispetto a quella estetica. Ogni decoro viene abolito a favore della comodità e della funzionalità.

Modelli di vestiti costruttivisti - Varvara Stepanova Costumi, Varvara Stepanova
Tenute sportive, Varvara Stepanova

Le fantasie dei suoi tessuti sono caratterizzate dalla ripetizione di forme geometriche talvolta sovrapposte e definite dall’uso di pochi colori tra loro decisamente contrastanti, che danno vita a motivi assolutamente originali.

Fabric Design - Varvara Stepanova Disegno tessile - Varvara Stepanova
Disegni tessili - Varvara Stepanova

Pioniera del fotomontaggio, accostava immagini ritagliate e caratteri tipografici distribuiti in ogni senso, orizzontale, verticale o diagonale, con una eccezionale forza comunicativa. Come nella copertina per I risultati del primo piano quinquennale, pubblicato nel 1933, un inno al successo dell’iniziativa avviata da Stalin nel 1928. Tutto è costruito con cura, l'artista utilizza solo tre colori, alternando il bianco, il nero e il rosso, il colore della bandiera sovietica. A sinistra Stepanova ha inserito degli altoparlanti su una piattaforma con il numero 5, che simboleggia il Piano quinquennale, insieme a cartelli con le lettere Cccp, le iniziali russe dell'Urss; a destra il ritratto di Lenin, mentre parla. Sotto, una grande folla di persone indica la popolarità del programma politico di Stalin e il desiderio di celebrarlo.

I risultati del primo piano quinquennale (particolare della parte superiore), 1932 - Varvara Stepanova
Copertina di Threatening Laughter, 1932- Varvara Stepanova

L’ascesa al potere di Stalin portò con sé una diffidenza verso le avanguardie; la nascita e la diffusione del realismo socialista subordinò infatti la forma al contenuto. Il lavoro di Varvara Stepanova, come quello di molti altri artisti e artiste delle prime avanguardie, venne duramente attaccato dalla cultura stalinista e venne lasciato ai margini. Stepanova morì il 20 maggio 1958, due anni dopo suo marito, nello stesso anno in cui era stata riammessa nell’Unione degli Artisti dell’Unione Sovietica. Sebbene avesse lavorato fianco a fianco con il governo sovietico, le sue opere hanno mostrato sempre una grande creatività personale attraverso l'uso di colori vivaci e immagini sorprendenti in composizioni dinamiche.


Traduzione francese

Lucrezia Pratesi

La chute de l’Empire russe et l’avènement du régime soviétique entraînèrent de profonds bouleversements dans le pays, auxquels les arts visuels ne tardèrent pas à s’adapter. Dans le jeune État communiste fondé en 1922 sous la direction de Vladimir Lénine, de nombreux intellectuels virent une occasion de mettre fin à la corruption et à l’extrême pauvreté qui avaient marqué la Russie pendant des siècles. L’art, encouragé et soutenu par le nouveau régime, s’inspira du cubisme et du futurisme, qui se répandait alors en Europe, pour donner naissance au « Constructivisme », un mouvement destiné à représenter les besoins de la nouvelle classe sociale du prolétariat, rompant ainsi avec les canons séculaires de l’art. Le Constructivisme, en phase avec une société de plus en plus industrialisée, rejeta l’esthétisme de l’art pour l’art, c’est-à-dire d’un art ayant pour seule fin elle-même. Il promeut au contraire les objectifs de fonctionnalité et d’utilité, s’exprimant dans tous les domaines : les arts visuels, la littérature, la musique, le théâtre, la scénographie, les arts graphiques, la photographie et le design. La concentration d’institutions culturelles majeures à Saint-Pétersbourg et à Moscou fit de ces deux villes un terrain fertile pour l’essor des arts, auxquels les femmes apportèrent une contribution décisive. Le regain d’intérêt pour les arts appliqués et les techniques industrielles permit à nombre d’entre elles de s’aventurer dans ces nouveaux domaines, en s’associant aux mouvements constructivistes et suprématistes, comme Olga Vladimirovna Rozanova ou Natalia Gontcharova, aujourd’hui considérées comme des figures majeures de l’avant-garde russe, bien que leur apport ait été reconnu tardivement.Varvara Stepanova, plus connue comme épouse et collaboratrice d’Alexandre Rodtchenko, mais moins comme graphiste, photographe et designer, fut en première ligne de ces changements et lutta toute sa vie pour rapprocher l’art du peuple, convaincue que cela pouvait améliorer leur quotidien. Comme de nombreux artistes d’avant-garde, Stepanova réalisa des œuvres dans une grande variété de domaines, allant de la peinture traditionnelle aux affiches, livres, revues, vêtements et photographies. 

Alexandre Rodtchenko et Varvara Stepanova dans leur atelier, 1922

Elle naît le 9 novembre 1894 à Kaunas, en Lituanie, dans une famille de paysans. Elle fréquente l’École des Beaux-Arts de Kazan, où elle rencontre Rodtchenko, son camarade d’études ; avec lui, elle s’installe à Moscou et se passionne pour la poésie futuriste. C’est d’ailleurs la poésie qui inspire ses premières œuvres poétiques et livres manuscrits décorés à la technique du collage. Elle collabore avec les futuristes, comme Alekseï Kroutchonykh, dont elle illustre le livre Gly-Gly en 1919.

Illustration pour Gly gly, 1919 - Varvara Stepanova Illustrations pour le poème Zigra Ar, 1918 – Varvara Stepanova

Dans ses œuvres de cette période, elle cherche avant tout à créer une nouvelle forme de peinture à travers la fusion du son et de l’image : une poésie visuelle non objective, centrée sur l’expressivité particulière du son des mots. Ces textes deviennent le contenu de livres manuscrits, dont les pages sont remplies de mots transrationnels, c’est-à-dire choisis pour leur sonorité et leur apparence plutôt que pour leur sens, associés à des formes abstraites.

Poésie visuelle – Varvara Stepanova

Avec Alexandre Rodtchenko, elle publie en 1920 le Programme du groupe productiviste, où elle souhaite que l’art, ayant perdu ses fonctions traditionnelles – notamment religieuses –, retrouve un sens nouveau à l’ère moderne, lié au productivisme industriel. Elle s’oppose alors à la subjectivité de Kandinsky, qui mettait l’accent sur « l’émotion » et la « nécessité spirituelle », des principes qu’elle jugeait trop personnels. Dans les années 1920, ses œuvres constructivistes, par leurs valeurs picturales géométriques et leur rythme soutenu, incarnent l’esprit d’optimisme qui imprègne la société.

Joueurs de billard,, 1920 - Varvara Stepanova Figure, 1921 - Varvara Stepanova

En 1921, elle organise l’exposition historique 5 × 5 = 25, à laquelle participent Varvara Stepanova, Lioubov Popova, Alexandre Rodtchenko, Alexandre Vesnine et Alexandra Exter, chacun présentant cinq œuvres. Dans le catalogue, Stepanova proclame la fin de la peinture et fait de la « construction » le nouvel idéal artistique. Elle commence également à collaborer avec des théâtres, notamment le Théâtre de la Révolution, pour lequel elle conçoit des scénographies constructivistes, comme celle de La mort de Tarelkin.

Affiche pour la première de La mort de Tarelkin, 24 nov. 1922 – Varvara Stepanova

De plus en plus tournée vers un art reflétant la réalité sociale et accessible aux masses, elle se consacre à l’habillement et au design textile, travaillant pour la Première Fabrique Nationale d’Impression Textile, où elle réalise cent cinquante modèles de tissus, dont vingt seront produits. Ses vêtements, inspirés des habits traditionnels russes, sont conçus selon les besoins de ceux qui les portent : combinaisons adaptées à chaque profession, uniformes, tenues sportives ; les vêtements sont sobres mais élaborés avec soin, pour être à la fois visuellement stimulants et très pratiques. Dans les pages de la revue Lef (Front gauche des arts), avec laquelle elle collabore régulièrement, elle théorise la tenue constructiviste : pensée pour le travail, elle privilégie la fonction sociale sur l’esthétique. Toute ornementation est supprimée au profit du confort et de la fonctionnalité.

Modèles de vêtements constructivistes – Varvara Stepanova Costumes – Varvara Stepanova
Tenues sportives – Varvara Stepanova

Les motifs de ses tissus sont caractérisés par la répétition de formes géométriques parfois superposées et définies par l’usage de quelques couleurs fortement contrastées, créant des compositions d’une grande originalité. 

Fabric Design - Varvara Stepanova Dessin textile - Varvara Stepanova
Dessins textiles - Varvara Stepanova

Pionnière du photomontage, elle juxtapose images découpées et caractères typographiques disposés dans tous les sens – horizontal, vertical, diagonal – avec une force de communication exceptionnelle. Comme sur la couverture de Les résultats du premier plan quinquennal, publiée en 1933, un hymne au succès de l’initiative lancée par Staline en 1928. Tout y est soigneusement construit, avec seulement trois couleurs : blanc, noir et rouge, la couleur du drapeau soviétique. À gauche, Stepanova insère des haut-parleurs sur une plateforme portant le chiffre 5, symbole du plan quinquennal, accompagnés de panneaux marqués des lettres CCCP, initiales russes de l’URSS ; à droite, un portrait de Lénine en train de parler. En bas, une foule immense illustre la popularité du programme politique de Staline et l’envie de le célébrer.

Les résultats du premier plan quinquennal (détail de la partie supérieure), 1932 Varvara Stepanova
Couverture de Threatening Laughter,, 1932- Varvara Stepanova

L’arrivée au pouvoir de Staline marqua le début d’une méfiance envers les avant-gardes : la naissance du réalisme socialiste subordonna la forme au contenu. L’œuvre de Varvara Stepanova, comme celle de nombreux artistes d’avant-garde, fut sévèrement critiquée par la culture stalinienne et reléguée en marge. Stepanova meurt le 20 mai 1958, deux ans après son mari, l’année même où elle est réintégrée dans l’Union des Artistes d’URSS. Bien qu’ayant travaillé aux côtés du gouvernement soviétique, ses œuvres témoignent toujours d’une grande créativité personnelle, à travers l’usage de couleurs vives et d’images saisissantes dans des compositions dynamiques.


Traduzione spagnola

Francesco Rapisarda

El colapso del Imperio ruso y el advenimiento del régimen soviético provocaron profundos cambios en el país, y las artes visuales no tardaron en adaptarse. En el joven Estado comunista, fundado en 1922 bajo Vladimir Lenin, muchas figuras intelectuales vieron una oportunidad para poner fin a la corrupción y a la extrema pobreza que habían caracterizado a Rusia durante siglos. El arte, promovido y apoyado por el nuevo régimen, tomando como punto de partida el cubismo y el futurismo, que en aquellos años se difundían por el resto de Europa, desembocó en el Constructivismo, un movimiento que pretendía representar las necesidades de la nueva clase social del proletariado, superando los cánones seculares del arte. El Constructivismo, como consecuencia de una sociedad cada vez más industrializada, rechazó el esteticismo del arte por el arte, es decir, un arte que existía solo para sí mismo. Promovía objetivos de funcionalidad y utilidad, expresándose en todos los ámbitos: en el arte, la literatura, la música, el teatro, la escenografía, así como en las artes gráficas, la fotografía y el diseño. La concentración de importantes instituciones culturales en San Petersburgo y Moscú convirtió a estas dos ciudades en terreno fértil para una evolución favorable de las artes, en la que fue determinante el aporte de las mujeres. El renovado interés por las artes aplicadas y las técnicas industriales permitió a muchas de ellas aventurarse en estos nuevos sectores, asociándose a los movimientos constructivistas y suprematistas, como Olga Vladimirovna Rozanova o Natalia Goncharova, quienes hoy son consideradas artistas importantes de las vanguardias rusas, aunque su contribución fue reconocida mucho más tarde. Varvara Stepánova, más conocida como esposa y colaboradora de Aleksandr Ródchenko, aunque no tanto como diseñadora gráfica, fotógrafa y diseñadora textil, estuvo en primera línea en estos cambios y luchó toda su vida por acercar el arte a las personas, con la firme convicción de que, de este modo, sus vidas podían mejorar. Como una gran cantidad de artistas de vanguardia, Stepánova realizó obras en una gran variedad de campos, que van desde la pintura tradicional hasta carteles, libros, revistas, ropa y fotografías.

Aleksandr Ródchenko y Varvara Stepánova en su estudio, 1922

Nació el 9 de noviembre de 1894 en Kaunas, Lituania, en una familia campesina, y asistió a la Escuela de Arte de Kazán, donde conoció a Ródchenko, su compañero de estudios; con él se trasladó a Moscú, donde se quedó fascinada por la poesía futurista. Fue precisamente de la poesía de donde tomó inspiración para su primera producción de textos poéticos y libros manuscritos decorados con la técnica del collage. Colaboró con los futuristas como Alekséi Kruchónykh, cuyo libro Gly-Gly ilustró en 1919.

Ilustración para Gly gly, 1919 - Varvara Stepanova Ilustraciones para el poema Zigra Ar, 1918 – Varvara Stepanova

En las obras de este periodo, su interés se dirigía principalmente a buscar una nueva forma de pintura mediante la fusión de sonido e imagen, un tipo de poesía visual no objetiva, centrada en la particular expresividad del sonido de las palabras. Estos textos se convirtieron en el contenido de una serie de libros manuscritos, cuyas páginas estaban cubiertas por un conjunto de palabras transracionales, es decir, vocablos elegidos por su sonido y apariencia más que por su significado, y combinados con formas abstractas.

Poesía visual, Varvara Stepanova

Junto con Aleksandr Ródchenko, publicó en 1920 el Programa del grupo productivista, en el cual se auspiciaba que el arte, que había perdido ya sus funciones tradicionales, sobre todo la religiosa, pudiera adquirir un nuevo significado en la era moderna, vinculado al productivismo industrial. Su posición se oponía al subjetivismo de Kandinsky, quien hacía hincapié en la "emoción" y la "necesidad espiritual", principios que consideraba demasiado individuales y personales. Durante los años veinte, sus obras constructivistas, a través de valores pictóricos geométricos y un ritmo compositivo marcado, encarnaban el espíritu positivo que impregnaba la sociedad de aquella época.

Jugadores de billar, 1920 - Varvara Stepanova Figura, 1921 - Varvara Stepanova

En 1921 organizó la histórica exposición 5 × 5 = 25, en la que Varvara Stepánova, Liubov Popova, Aleksandr Ródchenko, Aleksandr Vesnin y Aleksandra Ekster presentaron cinco obras respectivamente. En el catálogo, Stepánova declaraba el fin de la pintura y proponía la "construcción" como nuevo ideal artístico. También comenzó a colaborar con algunos teatros, entre ellos el Teatro de la Revolución, para el cual realizó las escenografías constructivistas de La muerte de Tarelkin.

Cartel para el estreno de La muerte de Tarelkin, 24 nov. 1922 – Varvara Stepánova

Cada vez más interesada en un arte que reflejara la realidad social y fuera accesible a las masas, se dedicó a la ropa y al diseño textil, trabajando para la Primera Fábrica Estatal de Estampado Textil, donde realizó ciento cincuenta diseños de telas, veinte de los cuales fueron producidos. Las prendas que diseñaba, inspiradas en la vestimenta tradicional rusa, estaban específicamente pensadas según las necesidades de quienes las iban a usar: monos adecuados para cada profesión, uniformes y equipamientos para deportistas; las piezas, esenciales, estaban construidas con el máximo cuidado para ser tanto estimulantes visualmente como extremadamente prácticas para vestir. Y en las páginas de la revista Lef (Frente de Izquierda de las Artes), con la que colaboraba regularmente, teorizaba acerca del vestido constructivista: ideado para el trabajo, es una prenda que privilegia la función social por encima de la estética. Se eliminan todo los adornos en favor de la comodidad y la funcionalidad.

Modelos de vestidos constructivistas - Varvara Stepanova Vestuario, Varvara Stepanova
Equipamiento deportivo , Varvara Stepanova

Los estampados de sus telas se caracterizan por la repetición de formas geométricas, a veces superpuestas y definidas por el uso de pocos colores fuertemente contrastantes entre sí, que dan lugar a motivos absolutamente originales.

Diseño textil - Varvara Stepanova Boceto textil - Varvara Stepanova
Diseños textiles - Varvara Stepanova

Pionera del fotomontaje, combinaba imágenes recortadas con caracteres tipográficos dispuestos en todas las direcciones —horizontal, vertical o diagonal— con una fuerza comunicativa excepcional. Como en la portada de Los resultados del primer plan quinquenal, publicada en 1933, un himno al éxito de la iniciativa lanzada por Stalin en 1928. Todo está construido con esmero: la artista utiliza solo tres colores, alternando el blanco, el negro y el rojo, el color de la bandera soviética. A la izquierda, Stepánova ha insertado unos altavoces sobre una plataforma con el número 5, que simboliza el Plan Quinquenal, junto con carteles con las letras CCCP, la sigla rusa de la URSS; a la derecha, el retrato de Lenin, mientras habla. Abajo, una gran multitud de personas indica la popularidad del programa político de Stalin y el deseo de celebrarlo.

Los resultados del primer plan quinquenal (detalle de la parte superior), 1932 Varvara Stepanova
Portada de Threatening Laughter, 1932- Varvara Stepanova

El ascenso al poder de Stalin conllevó una desconfianza hacia las vanguardias; de hecho, la emersión y la difusión del realismo socialista subordinó la forma al contenido. El trabajo de Varvara Stepánova, como el de muchas otras personas artistas de las primeras vanguardias, fue duramente atacado por la cultura estalinista y quedó relegado al margen. Stepánova murió el 20 de mayo de 1958, dos años después que su esposo, en el mismo año en que fue readmitida en la Unión de Artistas de la Unión Soviética. Aunque trabajó codo a codo con el gobierno soviético, sus obras siempre mostraron una gran creatividad personal a través del uso de colores vivos e imágenes sorprendentes en composiciones dinámicas.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 The collapse of the Russian Empire and the advent of the Soviet regime brought profound changes to the country, and the visual arts did not fail to adapt. In the young communist state, founded in 1922 under Vladimir Lenin, many intellectuals saw an opportunity to end the corruption and extreme poverty that had characterized Russia for centuries. Art, desired and supported by the new regime, taking its cue from Cubism and Futurism, which were rampant in the rest of Europe in those years, resulted in "Constructivism," a movement intended to represent the needs of the new social class of the proletariat by transcending the secular canons of art. Consequential to that of an increasingly industrializing society, Constructivism rejected the aestheticism of art for art's sake, of art, that is, as an end in itself. Instead, it promoted the goals of functionality and utility, expressing itself across the board, in art as in literature, music, theater, and stage design, and again in the graphic arts, photography, and design. The concentration of important cultural institutions in St. Petersburg and Moscow made these two cities fertile ground for favorable developments in the arts, for which the contribution of women was crucial. Renewed interest in the applied arts and industrial techniques enabled many of them to venture into these new fields, associating themselves with the Constructivist and Suprematist movements, such as Olga Vladimirovna Rozanova, or Natalia Goncharova, who today are considered important artists of the Russian avant-garde, although their contributions were recognized much later. Varvara Stepanova, best known as Aleksandr Rodčenko's wife and collaborator, not so much as a graphic artist, photographer, and designer, was at the forefront of these changes and struggled all her life to bring art closer to the people with the firm belief that in this way their lives could be improved. Like many other avant-garde artists, Stepanova produced works in a wide variety of fields, ranging from traditional painting to posters, books, magazines, clothing and photographs.

Alexander Rodčenko and Varvara Stepanova in their studio, 1922

She was born on November 9, 1894, in Kaunas, Lithuania, to a peasant family and attended the Kazan School of Art, where she met Rodčenko, her fellow student. With him she moved to Moscow, becoming fascinated by Futurist poetry, and it was from poetry that she took inspiration for her first production of poetic texts and manuscript books decorated with the collage technique. She collaborated with futurists such as Aleksej Kručënych, whose book Gly-Gly she illustrated in 1919.

Illustration for Gly gly, 1919 - Varvara Stepanova Illustrations for the poem Zigra Ar, 1918 – Varvara Stepanova

In the works of this period, her interest was mainly in seeking a new form of painting through the fusion of sound and image, a type of non-objective visual poetry focused on the particular expressiveness of the sound of words. These texts became the contents of a series of handwritten books, the pages of which were covered with a set of transrational words, that is, words chosen for their sound and appearance rather than their meaning, and juxtaposed with abstract forms.

Visual poetry, Varvara Stepanova

Together with Aleksandr Rodčenko, she published the Program of the Productivist Group in 1920, in which she hoped that art, having now lost its traditional functions, especially the religious one, could regain a new meaning in the modern age, linked to industrial productivism. Her position opposed Kandinsky's subjectivism, which emphasized "emotion" and "spiritual necessity," principles she found too individual and personal. During the 1920s, her constructivist works, through geometric pictorial values and a pressing rhythm of composition, embodied the positive spirit that permeated the society of the time.

Billiard Players, 1920 - Varvara Stepanova Figure, 1921 - Varvara Stepanova

In 1921 she organized the historic exhibition 5 × 5 = 25, in which Varvara Stepanova, Liubov Popova, Aleksandr Rodčenko, Aleksandr Vesnin and Aleksandra Ekster presented five works each. In the catalog Stepanova declared the end of painting and "construction" as the new artistic ideal. She also began to collaborate with a number of theaters, among others with the Theatre of the Revolution, for which she created the constructivist sets for The Death of Tarelkin.

Poster for the premiere of The Death of Tarelkin, Nov. 24, 1922 - Varvara Stepanova

Increasingly interested in art that reflected social reality and was accessible to the masses, she devoted herself to clothing and textile design, working for the First State Textile Printing Factory, where she made one hundred and fifty fabric designs, twenty of which were produced. The clothes she designed, inspired by traditional Russian garments, were specifically tailored to the needs of the wearer - outfits suitable for every profession, uniforms and outfits for sportsmen. These essential garments were constructed with the utmost care to be both stimulating to look at and extremely practical to wear. And in the pages of Lef (Left Front of the Arts) magazine, with which she regularly collaborated, she theorized about constructivist dress: designed for work, it is clothing that prioritizes social function over aesthetics. All decoration is abolished in favor of comfort and functionality.

Constructivist dress models - Varvara Stepanova Costumes, Varvara Stepanova
Sportswear, Varvara Stepanova

The patterns of her fabrics are characterized by the repetition of geometric shapes sometimes overlapping and defined by the use of a few distinctly contrasting colors, which give rise to absolutely original patterns.

Fabric Design - Varvara Stepanova Fabric Design - Varvara Stepanova
Fabrics Designs - Varvara Stepanova

A pioneer of photomontage, she juxtaposed cropped images and typefaces distributed in every direction, horizontally, vertically or diagonally, with exceptional communicative power. As in the cover for The Results of the First Five-Year Plan, published in 1933, an ode to the success of the initiative initiated by Stalin in 1928. Everything is carefully constructed, the artist using only three colors, alternating white, black and red, the colors of the Soviet flag. To the left, Stepanova placed speakers on a platform with the number 5, symbolizing the Five-Year Plan, along with signs with the letters CCCP, the Russian initials of the USSR. To the right is a portrait of Lenin, speaking. Below, a large crowd of people indicates the popularity of Stalin's political program and the desire to celebrate it.

The results of the first five-year plan (top detail), 1932 - Varvara Stepanova
Cover of Threatening Laughter, 1932- Varvara Stepanova

Stalin's rise to power brought with it a distrust of the avant-garde. Indeed, the rise and spread of socialist realism subordinated form to content. Varvara Stepanova's work, like that of many other early avant-garde artists and artists, was harshly attacked by Stalinist culture and was left on the margins. Stepanova died on May 20, 1958, two years after her husband, the same year she was readmitted to the Union of Artists of the Soviet Union. Although she had worked side by side with the Soviet government, her works always showed great personal creativity through the use of bright colors and striking images in dynamic compositions.

 

Sophie Taeuber Arp
Livia Capasso

Daniela Godel

 

La storia ricorda Sophie Taeuber come moglie di un grande artista, Hans Arp, come pittrice e creatrice di marionette, ma dimentica che fu artista a tutto tondo: scultrice, designer di mobili e di interni, designer di tessuti, coreografa, ballerina e architetta, progettista tra l’altro di una casa che influenzò Le Corbusier. Pur avendo vissuto la tragedia di due conflitti mondiali, ha prodotto opere in cui trionfano la gioia e il colore, tanto da essere definita dai critici «un'artista che ha portato gioia al dada». Le sue opere sono "astrazioni gioiose", che sfidano le convenzioni consolidate dell'arte spostando e muovendo in modo apparentemente casuale forme e colori, in una sorta di “jazz visivo".

Portatrice di vaso, 1916 - Sophie Taeuber

Composizione di cerchi e angoli sovrapposti, 1930 - Sophie Taeuber

Artista eclettica, non faceva distinzione tra l’Arte con la A maiuscola e le arti applicate: ha creato mobili e vetrate colorate, sculture e marionette in legno, tessuti e abiti, ceramiche e tappeti, poster e cuscini, carta da parati e lampade, borse ricamate e gioielli. Minimo comune denominatore una vitalità e una vivacità tali che le sue forme sembrano danzare. La rigidità delle figure geometriche contrasta con la scioltezza della composizione e l’emozione dei colori, col risultato che cerchi, quadrati, linee ondulate danzano davanti agli occhi di chi le guarda. Sophie Taeuber nacque il 19 gennaio del 1889 a Davos in Svizzera, dove i suoi genitori gestivano una farmacia; il padre morì di tubercolosi quando lei aveva due anni e la famiglia si trasferì allora a Trogen, sempre in Svizzera, dove sua madre aprì una pensione; Sophie, vivendo in un ambiente culturalmente aperto, poté scoprire presto la sua inclinazione artistica. Studiò disegno tessile a St. Gallen, poi ad Amburgo e a Monaco, ma la prima maestra fu sua madre che le insegnò a cucire. Tornò in Svizzera nel 1914 durante la Prima guerra mondiale. Frequentò la Scuola di danza di Laban a Zurigo e si esibì al Festival del Sole ad Ascona. Rudolf Laban perseguiva la liberazione del corpo attraverso il movimento e Sophie ne afferrò immediatamente la portata, trasferendo il suo interesse per i movimenti del corpo nelle sue opere, comprendendo che non vi è soluzione di continuità tra le arti: una coreografia, un passo di danza, un tessuto, un dipinto si relazionano tra di loro per profonde analogie. In una mostra alla Galleria Tanner incontrò quello che sarebbe diventato suo marito, l'artista Hans Arp, detto Jean, che si era trasferito a Zurigo per evitare, come fecero altri artisti e intellettuali del tempo, di essere arruolato nell'esercito tedesco e mandato in guerra. I due si influenzarono a vicenda, producendo opere a quattro mani, come i Duo-collages. Insieme si associarono al movimento Dada, nato a Zurigo nel 1916. Firmataria del Manifesto Dada, Sophie si esibiva spesso al famoso Cabaret Voltaire, centro di aggregazione del gruppo dadaista; prese parte a spettacoli come ballerina, e disegnò burattini, costumi e scenografie.

Costumi per una performance al Cabaret Voltaire, 1916 - Sophie Tauber

Burattini: Angela (sin.) Dr. Komplex (dex), 1918 – Sophie Taeuber

Il fenomeno Dada al Cabaret Voltaire fu un fenomeno internazionale, durato solo alcuni mesi, ma lasciò segni indelebili. Artisti e artiste infatti si spostarono a Parigi e a Berlino e nella stessa Zurigo, alla Galerie Dada, alla cui inaugurazione, nel 1917, Sophie danzò indossando una maschera disegnata da Marcel Janco, mentre Hugo Ball recitava le sue poesie.

Fotografia di Sophie Taeuber che balla con una maschera e un costume alla Galerie Dada nel 1917

Unendo l’interesse per il nascente movimento costruttivista al design di tessuti, Sophie iniziò a realizzare opere tessili e dipinti geometrici non figurativi che definiva “concreti”, studiate composizioni di cerchi, quadrati, linee diagonali e altre forme.

Verticale-Orizzontale-Composizione, 1916 (sin)– Composizione, 1931 (dex) Sophie Taeuber

Dal 1916 al 1929 fu incaricata di insegnare disegno tessile alla Zürich Kunstgewerbeschule (ora Università delle Arti di Zurigo), impiego che le consentì di mantenere sé stessa e il marito. Le sue opere tessili e grafiche di questi anni, con la loro pura astrazione geometrica e il ritmo derivato dalla interazione tra colore, forma e movimento, sono tra i primi lavori del nascente costruttivismo.

Carta da parato (sin) - Cuscino (dex), 1920 - Sophie Taeuber

Lavoro semestrale (sin) - Ritratto in legno di Jean Arp, 1918 (dex) - Sophie Taeuber

Nel 1926, col marito, si trasferì a Strasburgo, dove presero entrambi la cittadinanza francese; lì Sophie ricevette numerose commissioni per progetti di interior design; è a lei che i fratelli Horn assegnarono l’incarico di decorare il Café de l’Aubette, un interno totalmente costruttivista, un’impresa in cui generosamente si farà affiancare da Theo van Doesburg, il quale se ne prenderà i meriti, e dal marito. I tre artisti crearono scenografie per un progetto che si sviluppa su quattro livelli e comprende una caffetteria, un ristorante, una brasserie, una sala da tè, un cinema, una sala da ballo, un cabaret e una sala da biliardo. A Sophie si devono l'Aubette-bar con la sala da tè Five-O'Clock, la Sala del Biliardo, il Foyer-bar, il Pianerottolo e la Scalone. Per l'Aubette-bar, Sophie disegna quadrati e rettangoli che ricoprono l'intera superficie di colori prevalentemente caldi, punteggiati da zone di colori freddi.

L’Aubette-bar, 1926 - Sophie Taeuber

Arazzo per la sala da tè Aubette, 1928 - Sophie Taeuber

Nel 1927 scrisse insieme a Blanche Gauchet un manuale sull’arte tessile, intitolato Welly Lowell. Nel 1928 si trasferì col marito a Clamart, ai margini della foresta di Meudon, in una casa-atelier, progettata da Sophie stessa, una casa in pietra che anticipava le costruzioni di Le Corbusier.

La casa di Sophie Taeuber e Hans Arp a Meudon

Nel 1930 entrò nel gruppo Cercle e Carré, leader dell'arte non figurativa, confluito l’anno successivo in Abstraction-Creátion. In questi anni esplorava la forma del cerchio che rappresentava la metafora cosmica, la forma che contiene tutte le altre, e fu la prima artista a utilizzare i pois.

Dynamic Circles, 1934, Sophie Taeuber

Fondò e diresse per qualche anno la rivista Plastique, che si proponeva di mettere in contatto l’arte europea con quella americana e il cui numero uno fu dedicato a celebrare Kazimir Malevič, da poco scomparso. La sua cerchia di amici comprendeva Sonia e Robert Delaunay, Wassily Kandinsky, Joan Miró, Marcel Duchamp. Fece anche parte dell'Allianz, un'unione di pittori svizzeri. Prima dell'occupazione nazista Taeuber e Arp fuggirono da Parigi e si trasferirono a Grasse, nella Francia di Vichy, dove crearono una colonia artistica. Alla fine del 1942 ripararono in Svizzera. La notte del 13 gennaio 1943, Sophie, che aveva perso l'ultimo tram per tornare a casa, dormì a Zurigo, nella casa di Max Bill. Morì lì per avvelenamento accidentale da monossido di carbonio causato dal malfunzionamento di una stufa, a cinquantatré anni. Wassily Kandinsky disse: «Sophie Taeuber-Arp si esprimeva, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, utilizzando quasi esclusivamente le forme più semplici, le forme geometriche, invitando a un linguaggio che spesso era solo un sussurro; ma spesso anche il sussurro è più espressivo, più convincente, più suadente, della voce alta che qua e là si lascia esplodere».Taeuber-Arp è stata l'unica donna a essere ritratta nell'ottava serie di banconote svizzere, figurando su quella da cinquanta franchi in corso dal 1995 al 2016.

Ritratto di Sophie Taeuber sulla banconota svizzera da cinquanta franchi.

Il 19 gennaio 2016, Google ha creato un doodle per commemorare il suo 127esimo compleanno.

19 gennaio 2016, Doodle di Google per Taeuber-Arp

Molti musei in tutto il mondo hanno le sue opere nelle loro collezioni, ma la sua considerazione è rimasta per parecchi anni inferiore a quella del suo più famoso marito. Iniziò a ottenere un riconoscimento sostanziale solo dopo la Seconda guerra mondiale e il suo lavoro è ora generalmente accettato ai primi posti dell’astrattismo. Nel 1943 fu inclusa nella mostra di Peggy Guggenheim Exhibition by 31 Women alla galleria Art of This Century di New York. Una pietra miliare importante fu la mostra del suo lavoro a Documenta 1 nel 1955, la prima grande rassegna di arte contemporanea nella Germania Ovest. Nel 1981 il MoMA di New York ha allestito una retrospettiva del suo lavoro che successivamente è stata esposta al Museum of Contemporary Art di Chicago, al Museum of Fine Arts di Houston e al Musée d'art contemporain di Montréal. Una retrospettiva itinerante delle sue opere è partita dalla Svizzera nel marzo 2021 al Kunstmuseum Basel, per poi passare alla Tate Modern e poi al MoMA. Con oltre quattrocento pezzi è stata la più completa e la sua prima grande mostra. Alla Biennale 2022 è stata esposta una sua piccola borsa in stoffa con ricami di perline di vetro a formare motivi geometrici che rimandano alle composizioni pittoriche dell’artista.

Borsetta in stoffa creata da Sophie Taeuber ed esposta alla Biennale 2022

Con lei la tappezzeria diventa danza e la danza architettura.


Traduzione francese

Lucrezia Pratesi

L’histoire se souvient de Sophie Taeuber comme de l’épouse d’un grand artiste, Hans Arp, comme d’une peintre et créatrice de marionnettes, mais elle oublie qu’elle fut une artiste à part entière : sculptrice, designer de mobilier et d’intérieur, créatrice de textiles, chorégraphe, danseuse et architecte – elle conçut notamment une maison qui influença Le Corbusier. Bien qu’elle ait vécu les tragédies des deux guerres mondiales, ses œuvres débordent de joie et de couleur, au point que les critiques la qualifient d’« artiste qui a apporté la joie au dadaïsme ». Ses œuvres sont de véritables « abstractions joyeuses », défiant les conventions artistiques établies par le déplacement apparemment aléatoire de formes et de couleurs, dans une sorte de « azz visuel» 

Porteuse de vase, 1916, 1916 - Sophie Taeuber

Composition de cercles et angles superposés, 1930 1930 - Sophie Taeuber

Artiste éclectique, elle ne faisait pas de distinction entre l’Art avec un grand A et les arts appliqués : elle a créé des meubles et des vitraux colorés, des sculptures et marionnettes en bois, des tissus et vêtements, des céramiques et tapis, des affiches et coussins, du papier peint et des lampes, des sacs brodés et des bijoux. Le dénominateur commun : une vitalité et une vivacité telles que ses formes semblent danser. La rigidité des figures géométriques contraste avec la fluidité de la composition et l’émotion des couleurs, si bien que cercles, carrés, lignes ondulées dansent sous les yeux du spectateur. Sophie Taeuber naît le 19 janvier 1889 à Davos, en Suisse, où ses parents tenaient une pharmacie. Son père meurt de la tuberculose alors qu’elle n’a que deux ans, et la famille s’installe à Trogen, toujours en Suisse, où sa mère ouvre une pension. Élevée dans un environnement culturellement ouvert, Sophie découvre très tôt sa vocation artistique. Elle étudie le dessin textile à Saint-Gall, puis à Hambourg et Munich, mais sa première maîtresse fut sa mère, qui lui apprend la couture. En 1914, pendant la Première Guerre mondiale, elle rentre en Suisse. Elle fréquente l’école de danse de Rudolf Laban à Zurich et se produit au Festival du Soleil à Ascona. Laban prônait la libération du corps par le mouvement, et Sophie saisit aussitôt la portée de cette idée, transposant son intérêt pour le mouvement corporel dans ses œuvres : elle comprend qu’il n’existe pas de frontière entre les arts – chorégraphie, pas de danse, tissu, peinture s’articulent entre eux par de profondes analogies. C’est lors d’une exposition à la galerie Tanner qu’elle rencontre celui qui deviendra son mari, l’artiste Hans (Jean) Arp, réfugié à Zurich comme beaucoup d’autres artistes et intellectuels de l’époque pour échapper à l’armée allemande. Ils s’influencent mutuellement, créent ensemble des œuvres à quatre mains comme les Duo-collages. Tous deux rejoignent le mouvement Dada, né à Zurich en 1916. Signataire du Manifeste Dada, Sophie se produit souvent au célèbre Cabaret Voltaire, centre de rencontre du groupe dadaïste ; elle y danse, conçoit des marionnettes, des costumes et des décors.

Costumes pour une performance au Cabaret Voltaire, 1916 - Sophie Tauber

Marionnettes : Angela (gauche) Dr. Komplex (droite), 1918 – Sophie Taeuber

Le phénomène Dada au Cabaret Voltaire est de courte durée – quelques mois – mais marque profondément l’histoire de l’art. Les artistes se déplacent ensuite à Paris, Berlin, ou restent à Zurich, où naît la Galerie Dada. Lors de son inauguration en 1917, Sophie danse masquée – le masque est une création de Marcel Janco – pendant qu’Hugo Ball récite ses poèmes.

Sophie Taeuber dansant avec masque et costume à la Galerie Dada, 1917

Mêlant son intérêt pour le constructivisme naissant au design textile, Sophie commence à réaliser des œuvres textiles et des peintures géométriques non figuratives qu’elle qualifie de «concrètes»: compositions rigoureuses de cercles, carrés, lignes diagonales et autres formes.

Composition verticale-horizontale, 1916 (gauche) – Composition, 1931 (droite) Sophie Taeuber

De 1916 à 1929, elle enseigne le dessin textile à la Kunstgewerbeschule de Zurich (aujourd’hui Université des Arts de Zurich), un poste qui lui permet de subvenir à ses besoins et à ceux de son mari. Ses œuvres textiles et graphiques de cette période, marquées par une abstraction géométrique pure et un rythme né de l’interaction entre couleur, forme et mouvement, comptent parmi les premières du constructivisme naissant.

Papier peint (gauche) – Coussin (droite), 1920 - Sophie Taeuber

Projet de semestre (gauche) – Portrait en bois de Jean Arp, 1918 (droite) - Sophie Taeuber

En 1926, Sophie et Hans s’installent à Strasbourg, où ils obtiennent la nationalité française. Elle y reçoit de nombreuses commandes pour des projets de design d’intérieur. Les frères Horn lui confient la décoration du Café de l’Aubette, un espace résolument constructiviste. Généreusement, elle y associe Theo van Doesburg, qui en revendiquera cependant le mérite, ainsi que son mari. Les trois artistes conçoivent les décors d’un complexe sur quatre niveaux comprenant café, restaurant, brasserie, salon de thé, cinéma, salle de bal, cabaret et salle de billard. Sophie est responsable notamment du bar de l’Aubette avec son salon Five-O’Clock, de la salle de billard, du foyer-bar, du palier et de l’escalier monumental. Pour l’Aubette-bar, elle compose une surface entièrement recouverte de carrés et rectangles dans des tons chauds, ponctués de touches de couleurs froides.

L’Aubette-bar, 1926 - Sophie Taeuber

Tapisserie pour le salon de thé de l’Aubette, 1928 - Sophie Taeuber

En 1927, elle coécrit avec Blanche Gauchet un manuel sur l’art textile intitulé Welly Lowell. En 1928, le couple emménage à Clamart, en lisière de la forêt de Meudon, dans une maison-atelier conçue par Sophie elle-même, une bâtisse en pierre annonciatrice des constructions de Le Corbusier.

Maison de Sophie Taeuber et Hans Arp à Meudon

En 1930, elle rejoint le groupe Cercle et Carré, fer de lance de l’art non figuratif, qui fusionne l’année suivante avec Abstraction-Création. Dans ces années-là, elle explore la forme du cercle comme métaphore cosmique, forme qui contient toutes les autres. Elle est aussi la première artiste à utiliser les pois.

Cercles dynamiques, 1934, Sophie Taeuber

Elle fonde et dirige pendant plusieurs années la revue Plastique, visant à relier l’art européen à l’art américain ; le premier numéro rend hommage à Kazimir Malevitch, récemment disparu. Parmi ses amis proches, on compte Sonia et Robert Delaunay, Wassily Kandinsky, Joan Miró, Marcel Duchamp. Elle fait aussi partie du groupe Allianz, union de peintres suisses. Avant l’occupation nazie, Sophie et Hans fuient Paris pour Grasse, en zone libre, où ils fondent une colonie artistique. Fin 1942, ils se réfugient en Suisse. Dans la nuit du 13 janvier 1943, Sophie, ayant manqué le dernier tram, passe la nuit à Zurich chez Max Bill. Elle meurt d’une intoxication accidentelle au monoxyde de carbone due à un poêle défectueux. Elle avait cinquante-trois ans. Wassily Kandinsky a dit : « Sophie Taeuber-Arp s’exprimait, surtout dans les dernières années de sa vie, en utilisant presque exclusivement les formes les plus simples, les formes géométriques, invitant à un langage qui souvent n’était qu’un murmure ; mais bien souvent, le murmure est plus expressif, plus convaincant, plus séduisant qu’une voix forte qui éclate ici ou là. » Taeuber-Arp est la seule femme à avoir figuré sur la huitième série de billets suisses, apparaissant sur le billet de cinquante francs en circulation de 1995 à 2016.

Portrait de Sophie Taeuber sur le billet suisse de cinquante francs

Le 19 janvier 2016, Google crée un Doodle pour célébrer son 127e anniversaire.

Doodle Google pour Taeuber-Arp, 19 janvier 2016

De nombreux musées dans le monde conservent ses œuvres dans leurs collections, mais elle est longtemps restée dans l’ombre de son mari plus célèbre. Ce n’est qu’après la Seconde Guerre mondiale qu’elle commence à être réellement reconnue, son travail étant aujourd’hui largement considéré comme central dans l’abstraction. En 1943, elle est incluse dans l’exposition Exhibition by 31 Women organisée par Peggy Guggenheim à la galerie Art of This Century de New York. Une étape importante est la présentation de son œuvre à Documenta 1 en 1955, première grande exposition d’art contemporain en Allemagne de l’Ouest. En 1981, le MoMA de New York consacre une rétrospective à son œuvre, présentée ensuite au Museum of Contemporary Art de Chicago, au Museum of Fine Arts de Houston et au Musée d’art contemporain de Montréal. Une exposition itinérante, lancée en mars 2021 au Kunstmuseum Basel, est ensuite accueillie à la Tate Modern, puis au MoMA. Avec plus de 400 pièces, elle constitue la rétrospective la plus complète jamais réalisée sur son œuvre. À la Biennale de 2022, une petite bourse en tissu, brodée de perles de verre dessinant des motifs géométriques évoquant ses compositions picturales, est exposée.

Petite bourse en tissu de Sophie Taeuber, exposée à la Biennale 2022

Avec elle, la tapisserie devient danse, et la danse architecture.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

History remembers Sophie Taeuber as the wife of a great artist, Hans Arp, as a painter and creator of puppets, but forgets that she was a well-rounded artist: sculptor, furniture and interior designer, textile designer, choreographer, dancer and architect, and designer, among other things, of a house that influenced Le Corbusier. Although she lived through the tragedy of two world wars, she produced works in which joy and color triumph, so much so that critics called her "an artist who brought joy to dada." Her works are "joyful abstractions" that defy the established conventions of art by seemingly randomly shifting and moving shapes and colors in a kind of "visual jazz." 

Vase Bearer, 1916, 1916 - Sophie Taeuber

Composition of overlapping circles and angles, 1930, Sophie Taeuber

An eclectic artist, she made no distinction between Art with a capital A and the applied arts. She created furniture and stained glass, wooden sculptures and puppets, textiles and clothing, ceramics and rugs, posters and pillows, wallpaper and lamps, embroidered bags and jewelry. The lowest common denominator is such vitality and liveliness that her forms seem to dance. The rigidity of the geometric figures contrasts with the looseness of the composition and the excitement of the colors, with the result that circles, squares, and wavy lines dance before the eyes of the beholder. Sophie Taeuber was born on Jan. 19, 1889, in Davos, Switzerland, where her parents ran a pharmacy. Her father died of tuberculosis when she was two years old, and the family then moved to Trogen, also in Switzerland, where her mother opened a boarding house. Sophie, living in a culturally open environment, was able to discover her artistic inclination early on. She studied textile design in St. Gallen, then in Hamburg and Munich, but her first teacher was her mother, who taught her to sew. She returned to Switzerland in 1914 during World War I. She attended Laban's School of Dance in Zurich and performed at the Festival del Sole in Ascona. Rudolf Laban pursued the liberation of the body through movement, and Sophie immediately grasped its significance, transferring her interest in body movements into her works, understanding that there is no seamlessness between the arts - a choreography, a dance step, a fabric, a painting relate to each other because of profound similarities. At an exhibition at the Tanner Gallery she met what would become her husband, the artist Hans Arp, known as Jean, who had moved to Zurich to avoid, as other artists and intellectuals of the time did, being drafted into the German army and sent to war. The two influenced each other, producing four-handed works such as the Duo-collages. Together they became associated with the Dada movement, which was born in Zurich in 1916. A signatory of the Dada Manifesto, Sophie often performed at the famous Cabaret Voltaire, the Dadaist group's center of gathering. She took part in shows as a dancer, and designed puppets, costumes and sets.

Costumes for a performance at Cabaret Voltaire, 1916 - Sophie Tauber

Puppets: Angela (left) Dr. Komplex (dex), 1918 – Sophie Taeuber

The Dada phenomenon at Cabaret Voltaire was an international phenomenon, lasting only a few months, but it left indelible marks. Artists (male and female) moved on to Paris and Berlin and to Zurich itself, to the Galerie Dada, at whose opening in 1917 Sophie danced wearing a mask designed by Marcel Janco, while Hugo Ball recited his poems.

Photograph of Sophie Taeuber dancing in a mask and costume at the Galerie Dada in 1917

Combining her interest in the nascent Constructivist movement with textile design, Sophie began making textile works and non-figurative geometric paintings that she called "concrete," studied compositions of circles, squares, diagonal lines and other shapes.

Vertical-Horizontal-Composition, 1916 (sin)- Composition, 1931 (dex), Sophie Taeuber

From 1916 to 1929 she was assigned to teach textile design at the Zürich Kunstgewerbeschule (now Zurich University of the Arts), employment that enabled her to support herself and her husband. Her textile and graphic works of these years, with their pure geometric abstraction and rhythm derived from the interplay of color, form and movement, are among the earliest works of the emerging constructivism.

Wallpaper (left) - Cushion (right), 1920 - Sophie Taeuber

Half-year work (left) - Wood portrait of Jean Arp, 1918 (right) - Sophie Taeuber

In 1926, with her husband, she moved to Strasbourg, where they both took French citizenship. There Sophie received numerous commissions for interior design projects. It was to her that the Horn brothers assigned the task of decorating the Café de l'Aubette, a totally constructivist interior, an undertaking in which she generously joined Theo van Doesburg, who took credit for it, and her husband. The three artists created sets for a project that spanned four levels and included a cafeteria, restaurant, brasserie, tea room, cinema, dance hall, cabaret, and billiard room. Sophie is responsible for the Aubette-bar with Five-O'Clock Tea Room, Billiard Room, Foyer-bar, Landing, and Staircase. For the Aubette-bar, Sophie drew squares and rectangles covering the entire surface in predominantly warm colors, punctuated by areas of cool colors.

The Aubette-bar, 1926 - Sophie Taeuber

Tapestry for the Aubette tea room, 1928 - Sophie Taeuber

In 1927 she and Blanche Gauchet wrote a manual on textile art, entitled Welly Lowell. In 1928 she moved with her husband to Clamart, on the edge of the Meudon forest, to a house-atelier, designed by Sophie herself, a stone house that anticipated Le Corbusier's constructions.

Sophie Taeuber and Hans Arp's house in Meudon.

In 1930 she joined the Cercle e Carré group, a leader in non-figurative art, which merged the following year into Abstraction-Creátion. During these years she explored the form of the circle, which represented the cosmic metaphor, the form that contains all others, and was the first artist to use polka dots.

Dynamic Circles, 1934, Sophie Taeuber

She founded and directed for a few years the magazine Plastique, which aimed to connect European and American art and whose first issue was dedicated to celebrating Kazimir Malevič, who had recently passed away. Her circle of friends included Sonia and Robert Delaunay, Wassily Kandinsky, Joan Miró, and Marcel Duchamp. She was also a member of the Allianz, a union of Swiss painters. Before the Nazi occupation Taeuber and Arp fled Paris and moved to Grasse in Vichy France, where they established an art colony. At the end of 1942 they moved to Switzerland. On the night of January 13, 1943, Sophie, who had missed the last streetcar home, slept in Max Bill's house in Zurich. She died there from accidental carbon monoxide poisoning caused by a malfunctioning stove, at the age of fifty-three. Wassily Kandinsky said, "Sophie Taeuber-Arp expressed herself, especially in the last years of her life, using almost exclusively the simplest forms, the geometric shapes, inviting a language that was often only a whisper; but often even the whisper is more expressive, more convincing, more persuasive, than the loud voice that here and there is allowed to burst out." Taeuber-Arp was the only woman to be portrayed on the eighth series of Swiss banknotes, appearing on the fifty-franc banknote that ran from 1995 to 2016.

Portrait of Sophie Taeuber on the Swiss fifty-franc banknote.

On January 19, 2016, Google created a doodle to commemorate her 127th birthday.

Jan. 19, 2016, Google Doodle for Taeuber-Arp.

Many museums around the world have her works in their collections, but her consideration remained lower than that of her more famous husband for several years. She began to gain substantial recognition only after World War II, and her work is now generally accepted at the forefront of abstractionism. In 1943 she was included in the Peggy Guggenheim Exhibition by 31 Women at the Art of This Century gallery in New York. An important milestone was the exhibition of her work at Documenta 1 in 1955, the first major exhibition of contemporary art in West Germany. In 1981 MoMA in New York mounted a retrospective of her work that was subsequently shown at the Museum of Contemporary Art in Chicago, the Museum of Fine Arts in Houston, and the Musée d'art contemporain in Montréal. A traveling retrospective of her work started in Switzerland in March 2021 at Kunstmuseum Basel, then moved on to Tate Modern and then MoMA. With over four hundred pieces it was the most comprehensive and her first major exhibition. On display at the 2022 Biennial was one of her small cloth handbags with embroidered glass beads forming geometric patterns that hark back to the artist's pictorial compositions.

abric handbag created by Sophie Taeuber and exhibited at Biennale 2022.

With her, upholstery becomes dance and dance becomes architecture.

 

Inger Hanmann
Virginia Mariani

Giulia Tassi

 

Inger Hanmann era nata a Stege, in Danimarca, il 7 novembre 1918, da Niels Christoffer Clausen e Dagmar Madsen. Suo padre, veterinario, fin da piccola la incoraggiò a prendere lezioni di equitazione, e in seguito la indirizzò anche verso un’altra disciplina sportiva, la boxe. Da parte sua, Inger manifestò un vivo interesse per la musica e un grande talento per il disegno e per la pittura e furono le sue passioni ad avere la meglio. Quando suo padre si trasferì a Copenaghen, Inger infatti lo seguì, intraprendendo gli studi presso la Scuola di Design per Donne (Tegne- og Kunstindustriskolen for Kvinder) che durarono dal 1935 al 1938. Durante questo periodo fu influenzata dai dipinti di Matisse e di Picasso che poté ammirare nei musei; inoltre frequentò concerti di musica contemporanea e jazz. Inizialmente lavorò come insegnante e soltanto successivamente si dedicò alla pittura. Nel 1938 sposò l’avvocato Niels Aage Hoppe, figlio del primo insegnante Anders Christian H. e di Anna Nielsen. Con lui ebbe una figlia, Marianne. Il loro matrimonio finì con il divorzio nel 1947.

Un anno prima, nel 1946, Inger frequentò la scuola di pittura di Peter Rostrup Bøyesen a Copenaghen, completando i suoi studi nel 1952. Qui conobbe Poul Hanmann, un pittore, e lo sposò. Poul, figlio del maestro pittore Johan H. e di Antonie Christensen. Vissero in un piccolo e modesto appartamento a Sydhavnen, nel sud di Copenaghen, per trent’anni. In seguito si trasferirono a Gammel Kongevej e aprirono i loro atelier individuali. Qui insegnavano disegno, beneficiando dei guadagni che ricevevano dall'insegnamento dell'arte nei corsi serali. In questa fase della sua vita Inger Hanmann presenta anche figurini di moda sui giornali di Copenaghen, sviluppando il proprio stile artistico. Con Poul ebbe una seconda figlia, Charlotte, che in seguito divenne famosa come fotografa e pittrice.

Nel corso della sua carriera Inger Hanmann incontrò Marius Schou, direttore della C. Schous Fabrikker, che le consigliò di utilizzare lo smalto industriale per il suo lavoro artistico. Questo cambiamento portò a una nuova fase creativa, in cui Inger realizzò molte opere di argenteria smaltate, alcune intarsiate con foglie d’argento e d’oro. Gli effetti di luce e colore emanati dallo smalto esercitarono una notevole influenza sui suoi dipinti. Schou, infatti, la incoraggiò a sperimentare un utilizzo artistico della tecnica di smaltatura industriale che faceva parte della produzione dell'azienda. Inger iniziò così il lavoro su un ampio e sfaccettato numero di opere decorative innovative, alcune delle quali di grande formato. I suoi esperimenti attirarono l'attenzione di altri artisti e portarono a proficue collaborazioni con gli argentieri di A. Michelsen e Georg Jensen: qui trasferì la sua esperienza pittorica in una serie di opere originali smaltate. Le ciotole e i rilievi, lisci e in seguito anche ripiegati, sono tutti pezzi unici, decorati con smalto per gioielli e talvolta anche con fili intarsiati, foglia d'oro e argento fino. Queste opere prendono il nome di holloware, vale a dire ciotoline smaltate appunto. Le tecniche dello smalto hanno avuto un effetto sulla pittura di Inger Hanmann, che gradualmente si è quasi completamente liberata della base figurativa e ha acquisito forza e tranquillità attraverso una sempre maggiore semplificazione e immersione nella luce, nel colore e nella composizione.

Una delle grandi opere d'arte smaltata di Hanmann in relazione all'architettura dell’edificio è una scultura alla Landmandsbanken successivamente confluita nella Danske Bank, che è la più grande opera in smalto del mondo, inaugurata in occasione del 100° anniversario della banca nel 1971. Per l'aeroporto di Copenaghen, inoltre, nel 1989 ha costruito un manufatto in smalto che misura 100 metri quadrati. Ha anche realizzato diversi rilievi smaltati per la Stege School, la Virum Hall e la piscina di Hørsholm. Nel 1990 ha creato un grande dipinto a timpano a Gammel Kongevej e nel 1999 una scultura mobile alta quindici metri per la nuova ambasciata danese a Berlino.

Le opere d'arte non figurative di Hanmann sono state esposte in molte mostre e musei, a livello nazionale e internazionale. Nel 1984-85 ricevette una borsa di studio dalla National Bank Anniversary Foundation della Danimarca e nel 1988 beneficiò della borsa di studio Anne Marie Telmányi. Così, numerose mostre in patria e all'estero hanno consolidato la posizione di Inger Hanmann come interessante artista non figurativa. È stata, perciò, membro dell'associazione M59, cosa che comportò l’essere ospitata in numerosi musei e l’aver ricevuto diverse sovvenzioni, tra cui il Fondo per il Giubileo della Banca Nazionale nel 1984-85 e, nel 1988, la sovvenzione Anne Marie Telmányi. Nel corso degli anni, l'arte di Inger Hanmann ha acquisito la chiarezza e la forza tranquilla che si possono trovare nella musica, nella poesia o nella semplice ricchezza espressiva dello Zen giapponese. Dopo due matrimoni, il primo con un avvocato, il secondo con un pittore, con due figlie, dal 1981 al 1995 vivrà con un coinquilino, il pianista Boris Linderud, figlio del violinista Cone Gotfred L. e della pianista Ellen Louise Larsen.

Inger Hanmann, l’artista delle piccole grandi opere di vetro smaltato, è morta il 9 giugno 2007 ed è sepolta nel cimitero di Assistens a Copenaghen.


Traduzione francese

Lucrezia Pratesi

Inger Hanmann est née à Stege, au Danemark, le 7 novembre 1918, de Niels Christoffer Clausen et Dagmar Madsen. Son père, vétérinaire, l’encouragea dès l’enfance à suivre des cours d’équitation, puis à pratiquer également la boxe. Inger, de son côté, développa très tôt un vif intérêt pour la musique ainsi qu’un grand talent pour le dessin et la peinture, passions qui finirent par l’emporter. Lorsque son père s’installa à Copenhague, elle le suivit et intégra l’École de Design pour Femmes (Tegne- og Kunstindustriskolen for Kvinder), où elle étudia de 1935 à 1938. Durant ces années, elle fut profondément marquée par les œuvres de Matisse et Picasso qu’elle découvrit dans les musées ; elle assista également à de nombreux concerts de musique contemporaine et de jazz. Elle commença sa carrière comme enseignante, avant de se consacrer pleinement à la peinture. En 1938, elle épousa l’avocat Niels Aage Hoppe, fils du premier enseignant Anders Christian H. et d’Anna Nielsen. De cette union naquit leur fille Marianne. Le couple divorça en 1947.

En 1946, un an avant son divorce, Inger fréquente l’école de peinture de Peter Rostrup Bøyesen à Copenhague, où elle achève sa formation en 1952. C’est là qu’elle rencontra le peintre Poul Hanmann, qu’elle épousa par la suite. Fils du maître peintre Johan H. et d’Antonie Christensen, Poul s'installe avec Inger dans un petit appartement modeste à Sydhavnen, au sud de Copenhague, où ils vécurent pendant trente ans. Ils déménagèrent ensuite à Gammel Kongevej, où chacun installe son propre atelier. Ils y enseignaient le dessin, tirant leurs revenus de leurs cours du soir. C’est également durant cette période que Inger présenta des croquis de mode dans des journaux copenhaguois, affinant ainsi son style artistique. De son union avec Poul naquit leur seconde fille, Charlotte, qui devint plus tard une photographe et peintre renommée.

Au fil de sa carrière, Inger Hanmann fit la rencontre de Marius Schou, directeur de la C. Schous Fabrikker, qui lui conseilla d’utiliser l’émail industriel dans son travail artistique. Ce tournant marqua une nouvelle phase créative dans laquelle elle réalisa de nombreuses œuvres émaillées en argent, certaines incrustées de feuilles d’or et d’argent. La lumière et les couleurs diffusées par l’émail influencèrent fortement sa peinture. Schou l’encouragea à explorer artistiquement la technique de l’émaillage industriel, utilisée dans l’entreprise. Inger entama alors un vaste ensemble d’œuvres décoratives novatrices, dont certaines de très grand format. Ses expérimentations attirèrent l’attention d’autres artistes et débouchèrent sur des collaborations fécondes avec les orfèvres A. Michelsen et Georg Jensen, où elle appliqua son expérience de peintre à des créations uniques en émail. Bols et reliefs, d’abord lisses puis pliés, étaient décorés d’émail à bijoux, parfois enrichis de fils incrustés, de feuilles d’or ou d’argent pur. Ces objets, appelés holloware, désignent précisément ces petits récipients émaillés. Les techniques d’émaillage influencèrent en profondeur la peinture d’Inger Hanmann, qui abandonna peu à peu toute base figurative au profit d’une force tranquille, d’une simplicité croissante et d’une immersion dans la lumière, la couleur et la composition.

L’une de ses œuvres majeures intégrant l’émail dans l’architecture est une sculpture pour la Landmandsbanken (devenue par la suite Danske Bank), considérée comme la plus grande œuvre émaillée au monde, inaugurée en 1971 à l’occasion du centenaire de la banque. En 1989, elle réalise également une œuvre en émail de 100 mètres carrés pour l’aéroport de Copenhague. Elle créa par ailleurs plusieurs reliefs émaillés pour l’école de Stege, la salle Virum et la piscine de Hørsholm. En 1990, elle peignit un grand tympan à Gammel Kongevej, et en 1999, une sculpture mobile de quinze mètres de haut pour la nouvelle ambassade du Danemark à Berlin.

L’art non figuratif d’Inger Hanmann a été exposé dans de nombreuses galeries et musées, tant au Danemark qu’à l’étranger. En 1984-1985, elle bénéficie d’une bourse de la Fondation pour l'Anniversaire de la Banque Nationale du Danemark, et en 1988, de la bourse Anne-Marie Telmányi. Ces expositions consolidèrent sa place parmi les artistes abstraits les plus intéressants de son pays. Elle fut également membre de l’association M59, ce qui lui permit d’exposer dans divers musées et d’obtenir d’autres soutiens financiers. Avec le temps, l’art d’Inger Hanmann gagne en clarté et en sérénité, évoquant parfois la musique, la poésie ou la richesse expressive simple du zen japonais. Après deux mariages – le premier avec un avocat, le second avec un peintre – et deux filles, elle vécut, de 1981 à 1995, avec le pianiste Boris Linderud, fils du violoniste Cone Gotfred L. et de la pianiste Ellen Louise Larsen.

Inger Hanmann, l’artiste des petites grandes œuvres en verre émaillé, est décédée le 9 juin 2007. Elle repose aujourd’hui au cimetière Assistens de Copenhague.


Traduzione spagnola

Alessandra Barbagallo

Inger Hanmann nació en Stege, Dinamarca, el 7 de noviembre de 1918, hija de Niels Christoffer Clausen y Dagmar Madsen. Su padre, veterinario, la animó desde pequeña a tomar clases de equitación y más adelante también la orientó hacia otra disciplina deportiva: el boxeo. Por su parte, Inger mostró un vivo interés por la música y un gran talento para el dibujo y la pintura, y fueron estas pasiones las que prevalecieron al final. Cuando su padre se trasladó a Copenhague, Inger lo siguió, comenzando sus estudios en la Escuela de Diseño para Mujeres (Tegne- og Kunstindustriskolen for Kvinder), donde cursó entre 1935 y 1938. Durante este periodo fue influenciada por las pinturas de Matisse y Picasso, que pudo admirar en los museos; además, asistió a conciertos de música contemporánea y jazz. Inicialmente trabajó como profesora, y solo posteriormente se dedicó a la pintura. En 1938 se casó con el abogado Niels Aage Hoppe, hijo del maestro Anders Christian H. y de Anna Nielsen. Con él tuvo una hija, Marianne. El matrimonio terminó en divorcio en 1947.

Un año antes, en 1946, Inger asistió a la escuela de pintura de Peter Rostrup Bøyesen en Copenhague, completando sus estudios en 1952. Allí conoció al pintor Poul Hanmann, con quien se casó. Poul era hijo del maestro pintor Johan H. y de Antonie Christensen. Vivieron durante treinta años en un pequeño y modesto apartamento en Sydhavnen, al sur de Copenhague. Más adelante se mudaron a Gammel Kongevej y abrieron sus propios estudios. Enseñaban dibujo, beneficiándose de los ingresos obtenidos al impartir clases nocturnas de arte. En esta etapa de su vida, Inger Hanmann también presentaba figurines de moda en periódicos de Copenhague, desarrollando su estilo artístico personal. Con Poul tuvo una segunda hija, Charlotte, quien más adelante se haría famosa como fotógrafa y pintora.

Durante su carrera, Inger Hanmann conoció a Marius Schou, director de la fábrica C. Schous Fabrikker, quien le aconsejó utilizar esmalte industrial en su trabajo artístico. Este consejo marcó el inicio de una nueva fase creativa, durante la cual Inger realizó muchas obras de platería esmaltadas, algunas incrustadas con hojas de oro y plata. Los efectos de luz y color del esmalte influyeron notablemente en su pintura. De hecho Schou la animó a experimentar con un uso artístico de la técnica de esmaltado industrial, que formaba parte de la producción de la empresa. Así Inger empezó su trabajo en una amplia y variada serie de obras decorativas innovadoras, algunas de gran formato. Sus experimentaciones llamaron la atención de otros artistas y dieron lugar a fructíferas colaboraciones con los plateros A. Michelsen y Georg Jensen y trasladó su experiencia pictórica a una serie de obras originales esmaltadas. Los cuencos y los relieves, lisos y más tarde también rugosos, son piezas únicas, decoradas con esmalte para joyería y, a veces, con hilos incrustados, hojas de oro y plata fina. Estas obras se conocen como holloware, es decir, pequeños cuencos esmaltados. Las técnicas del esmalte influyeron también en la pintura de Inger Hanmann, quien poco a poco se alejó casi completamente de la base figurativa, alcanzando una fuerza y serenidad mediante una siempre más creciente simplificación e inmersión en la luz, en el color y en la composición.

Una de las grandes obras esmaltadas de Hanmann en relación con la arquitectura es una escultura en el edificio de Landmandsbanken, posteriormente integrada en Danske Bank, se trata de la mayor obra de esmalte del mundo, inaugurada con motivo del centenario del banco en 1971. Para el aeropuerto de Copenhague, además, en 1989 construyó una obra esmaltada de 100 metros cuadrados. También realizó varios relieves esmaltados para la escuela de Stege, el pabellón Virum y la piscina de Hørsholm. En 1990 creó una gran pintura en tímpano en Gammel Kongevej y en 1999 una escultura móvil de quince metros de altura para la nueva embajada danesa en Berlín.

Las obras de arte no figurativas de Hanmann han sido expuestas en muchas exposiciones y museos, tanto a nivel nacional como internacional. En 1984-85 recibió una beca de la Fundación del Aniversario del Banco Nacional de Dinamarca y en 1988 benefició de la beca Anne Marie Telmányi. Numerosas exposiciones en su país y en el extranjero consolidaron la posición de Inger Hanmann como una artista no figurativa de gran interés. Fue, por ello, miembro de la asociación M59, lo que le permitió estar presente en numerosos museos y recibir distintas subvenciones, entre ellas la del Fondo del Jubileo del Banco Nacional en 1984-85 y, en 1988, la subvención Anne Marie Telmányi. A lo largo de los años, el arte de Inger Hanmann adquirió la claridad y la fuerza serena que pueden encontrarse en la música, la poesía o en la expresiva sencillez del Zen japonés. Tras dos matrimonios, el primero con un abogado y el segundo con un pintor, y con dos hijas, vivió desde 1981 hasta 1995 con un compañero de piso, el pianista Boris Linderud, hijo del violinista Cone Gotfred L. y de la pianista Ellen Louise Larsen.

Inger Hanmann, la artista de las pequeñas grandes obras en vidrio esmaltado, murió el 9 de junio de 2007 y está enterrada en el cementerio de Assistens, en Copenhague.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Inger Hanmann was born in Stege, Denmark, on November 7, 1918, to Niels Christoffer Clausen and Dagmar Madsen. Her father, a veterinarian, encouraged her to take riding lessons from an early age, and later also directed her toward another sport, boxing. For her part, Inger manifested a keen interest in music and a great talent for drawing and painting, and it was those passions that prevailed. When her father moved to Copenhagen, Inger followed him, undertaking studies at the School of Design for Women (Tegne- og Kunstindustriskolen for Kvinder) that lasted from 1935 to 1938. During that period she was influenced by the paintings of Matisse and Picasso that she could admire in museums. She also attended contemporary music and jazz concerts. Initially she worked as a teacher and only later devoted herself to painting. In 1938 she married lawyer Niels Aage Hoppe, son of her first teacher Anders Christian H. and Anna Nielsen. With him she had a daughter, Marianne. Their marriage ended in divorce in 1947.

A year earlier, in 1946, Inger attended Peter Rostrup Bøyesen's painting school in Copenhagen, completing his studies in 1952. There she met Poul Hanmann, a painter, and married him. Poul was the son of master painter Johan H. and Antonie Christensen. They lived in a small, modest apartment in Sydhavnen, south Copenhagen, for 30 years. Later they moved to Gammel Kongevej and opened their individual studios. There they taught drawing, benefiting from the income they received from teaching art in evening classes. At this stage of her life Inger Hanmann also presented fashion sketches in Copenhagen newspapers, developing her own artistic style. With Poul she had a second daughter, Charlotte, who later became famous as a photographer and painter.

During her career Inger Hanmann met Marius Schou, director of C. Schous Fabrikker, who advised her to use industrial enamel for her artwork. This change led to a new creative phase, in which Inger produced many enameled silver works, some inlaid with silver and gold leaf. The effects of light and color emanating from the enamel exerted a considerable influence on her paintings. Schou encouraged her to experiment with an artistic use of the industrial enameling technique that was part of the company's production. Inger thus began work on a large and multifaceted number of innovative decorative works, some of them large-scale. Her experiments attracted the attention of other artists and led to fruitful collaborations with the silversmiths of A. Michelsen and Georg Jensen. There she transferred her pictorial experience to a series of original enameled works. The bowls and reliefs, plain and later also folded, are all unique pieces, decorated with jewelry enamel and sometimes also with inlaid threads, gold leaf and fine silver. These works are called holloware, meaning enameled bowls. Enamel techniques had an effect on Inger Hanmann's painting, which gradually became almost completely free of its figurative basis and gained strength and tranquility through an increasing simplification and immersion in light, color and composition.

One of Hanmann's great works of enamel art in relation to the architecture of a building is a sculpture at Landmandsbanken later merged into Danske Bank, which is the largest enamel work in the world, opened on the occasion of the bank's 100th anniversary in 1971. For Copenhagen Airport, she also built an enamel artifact measuring 100 square meters in 1989. She also made several enamel reliefs for the Stege School, Virum Hall, and the Hørsholm swimming pool. In 1990 she created a large gable painting at Gammel Kongevej and in 1999 a fifteen-meter-tall mobile sculpture for the new Danish Embassy in Berlin.

Hanmann's nonrepresentational artworks have been shown in many exhibitions and museums, nationally and internationally. In 1984-85 she received a fellowship from the National Bank Anniversary Foundation of Denmark, and in 1988 she benefited from the Anne Marie Telmányi Fellowship. Thus, numerous exhibitions at home and abroad solidified Inger Hanmann's position as an interesting non-figurative artist. She was, therefore, a member of the M59 association, which involved being hosted in numerous museums and receiving several grants, including the National Bank's Jubilee Fund in 1984-85 and, in 1988, the Anne Marie Telmányi grant. Over the years, Inger Hanmann's art has acquired the clarity and quiet strength that can be found in music, poetry or the simple expressive richness of Japanese Zen. After two marriages, the first to a lawyer, the second to a painter, with two daughters, from 1981 to 1995 she lived with a roommate, pianist Boris Linderud, son of violinist Cone Gotfred L. and pianist Ellen Louise Larsen.

Inger Hanmann, the artist of small and large enameled glass works, died June 9, 2007, and is buried in Assistens Cemetery in Copenhagen.

 

Maria Letizia e Laura Giuliani
Barbara Belotti

Giulia Tassi

 

Maria Letizia e Laura Giuliani, pittrici e maestre vetraie, sono nate a pochissimo tempo l’una dall’altra: la prima il 9 febbraio del 1908 e la seconda il 12 novembre dell’anno successivo. Insieme hanno attraversato il Novecento legate non solo da affetto e sorellanza, ma dalla stessa passione per l’arte.

Giulio Cesare Giuliani, Madonna con Bambino

Figlie di Giulio Cesare, a capo delle prestigiose Vetrerie d’arte Giuliani di Roma, e di Angelina Cisterna, figlia a sua volta del pittore Eugenio Cisterna, Maria Letizia e Laura hanno assorbito la sensibilità per le forme e per il colore dentro le mura domestiche, come fosse un nutriente pane quotidiano. Il laboratorio artistico paterno, uno dei più prolifici e rinomati della capitale fin dai primi anni del XX secolo, non fu subito lo scopo professionale e artistico delle due ragazze, indirizzate al contrario verso studi magistrali; la vicinanza con i linguaggi e i mezzi artistici del padre e del nonno alla fine però ebbe la meglio e le condusse al confronto con quel mondo.

Maria Letizia e Laura Giuliani, 1930

Aldilà degli insegnamenti in famiglia, le due sorelle frequentarono anche corsi di disegno e pittura in alcune scuole private romane, come quella delle artiste Giulia e Maria Biseo, nell’Accademia di Francia e nella Scuola Libera del Nudo, istituzione intrecciata all’Accademia di Belle Arti, dove si esercitarono nello studio dal vero di modelli maschili, esperienze e insegnamenti non così scontati per quel periodo. Siamo tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta e anche per le due giovani cominciarono le prime esperienze dirette nel mondo artistico: Maria Letizia affiancò il nonno nel ciclo di affreschi per la chiesa di San Giuseppe a Iesi, nella realizzazione della decorazione musiva della cappella funeraria della famiglia Agnelli a Villar Perosa, nei pressi di Torino, e nella cappella di San Sisto nella Cattedrale di Anagni; in collaborazione con il padre Giulio Cesare realizzarono i cartoni per le vetrate della navata centrale della chiesa di Santa Teresa d’Avila a Roma, raffiguranti immagini di santi, sante e beati dell’ordine carmelitano.

Roma, Chiesa di Santa Teresa d’Avila, cartoni di Maria Letizia e Laura Giuliani, foto di Barbara Belotti

Roma, Chiesa di Santa Teresa d’Avila, cartoni di Maria Letizia e Laura Giuliani, foto di Barbara Belotti

La pittura, soprattutto quella su cavalletto, mantenne per entrambe le sorelle un fascino particolare e, tra gli anni Trenta e Quaranta, furono diverse le partecipazioni a mostre. Cominciò Laura esponendo Paesaggio e Natura morta alla VI Mostra del Sindacato fascista Belle Arti del Lazio, nel gennaio del 1936, replicando pochi mesi dopo con Testa, ad affresco, e il dipinto Paesaggio rustico nella Mostra di Belle Arti organizzata dall’Associazione Nazionale Fascista Donne Artiste e Laureate, istituzione alla quale erano iscritte. L’anno successivo, alla VII Mostra del Sindacato fascista Belle Arti del Lazio, esposero entrambe con due opere ciascuna. Il sodalizio pittorico tra Maria Letizia e Laura si fece sempre più stretto con la personale organizzata, tra gennaio e febbraio del 1939, nella Galleria Bragaglia fuori commercio. «In quell’occasione — che vede Laura esporre trenta opere, fra oli, affreschi e disegni, e Maria Letizia undici, in maggioranza oli — la critica si esercita anche nel tentare di districare il “groviglio che annoda le due artiste”, una “specchio dell’altra”, legate da una “complicità silenziosa”, che “non ha per oggetto l’amore ma la pittura, così che il continuo riflettersi dell’una nell’altra serve, all’una e all’altra, per scandagliare meglio le tante sollecitazioni offerte dalla pittura romana degli anni Trenta e Quaranta». Questo il giudizio critico di Mario Quesada che Francesca Lombardi riporta nel suo libro Le artiste e la città, pubblicato da Anicia, col quale recentemente ha contribuito alla riscoperta artistica di Maria Letizia e Laura Giuliani. I decenni Trenta e Quaranta furono gli anni della loro migliore espressione, poi il sodalizio artistico tra le due sorelle in parte si allentò e fu la vita a farlo. L’allontanamento di Laura dalla casa paterna dopo il matrimonio con l’architetto Mario Redini, le sopraggiunte maternità con compiti e doveri nuovi, gli impegni familiari resero meno allineate quelle strade fino ad allora parallele.

Maria Letizia Giuliani, Presepe

Dopo la morte del padre Giulio Cesare, avvenuta nel 1954, Maria Letizia e Laura si dedicarono maggiormente al laboratorio di famiglia, sia realizzando i cartoni sia seguendo la realizzazione di vetrate per alcuni edifici sacri.

Roma, Chiesa di S. Eugenio, S. Gregorio VII papa e San Pio V papa, foto e rielaborazione grafica di Barbara Belotti

Ancor prima della morte del padre, nel 1949, le due sorelle avevano preso parte alla creazione di nove raffigurazioni di pontefici per la chiesa romana di Sant’Eugenio e si trovarono impegnate, tra il 1953 e il 1971, nel completamento del ciclo di vetrate per la basilica di San Giuseppe nel quartiere Trionfale di Roma; in seguito furono realizzate le vetrate colorate dell’unica navata della chiesa di Santa Barbara alle Capannelle (1957-1961), quelle dell’Istituto penale per i minori di Casal del Marmo, sempre a Roma, e il rosone del Santuario di Santa Maria della Quercia a Viterbo, opere attribuibili alla creatività di Maria Letizia. 

Maria Letizia Giuliani, Rosone del Santuario di Santa Maria della Quercia a Viterbo

Alla sola Laura sono riferibili invece le vetrate delle chiese romane di S. Ignazio di Antiochia allo Statuario (1958-1965) e Regina Mundi (1971-1972). Per quest’ultima impresa furono utilizzate le “dalles de verre”, porzioni di vetro simili a mattonelle piuttosto spesse ottenute per colatura in appositi stampi, lasciate raffreddare e infine tenute insieme con cemento o resine epossidiche. A parità di superficie il vetro “dalles”, che si presenta in forma diversa uno dall’altro per levigatezza di superficie, colore e spessore, consentiva il passaggio di una quantità inferiore di luce, rispetto alla tradizionale tecnica con legatura a piombo, ma permetteva lo sviluppo di superfici molto ampie.

Laura Giuliani, Regina Mundi, vetrata della chiesa Regina Mundi di Roma

Nell'abside della chiesa Regina Mundi Laura Giuliani rappresentò la Madonna, Regina del mondo e Madre del Carmelo come si legge nella parte inferiore della grande vetrata, secondo l’iconografia della donna vestita di luce dell'Apocalisse, « [...] con la luna ai suoi piedi e una corona di dodici stelle [...]»; al lato il profeta Elia con la spada di fuoco e san Simon Stock, protettore dell’ordine carmelitano. All’inaugurazione della vetrata presenziò Paolo VI, sotto il cui pontificato venne realizzata l’opera interamente finanziata dallo stesso papa.

Laura Giuliani col fratello Tommaso presenta il bozzetto della vetrata Regina Mundi a papa Paolo VI, 1971

«Considero la vetrata per quello che è: pezzi di vetro colorato uniti con piombo che formano il disegno» — il commento di Laura Giuliani è riportato da Francesca Lombardi nel suo libro citato ‒ «Per questo impreziosisco la forma sfaccettandola, facendo brillare pezzi chiari sugli scuri; rompo l’intero colore delle figure facendo rientrare il colore del fondo. Cerco cioè di non costruire la figura sopra il fondo, ma di frammentarla in modo che essa non appaia in piena evidenza, intagliata sul fondo, e che non sia plastica. Dal punto di vista della grafica cerco che vi sia un equilibrio di fattura sull’intera vetrata: parti più elaborate e parti meno, non insistendo troppo sui volti».

Laura Giuliani, Crocifissione

Traduzione francese

Lucrezia Pratesi

Maria Letizia et Laura Giuliani, peintres et maîtres verriers, sont nées à très peu de temps d’intervalle: la première le 9 février 1908, la seconde le 12 novembre de l’année suivante. Ensemble, elles ont traversé le XXe siècle, unies non seulement par l’affection et la sororité, mais aussi par une passion commune pour l’art.

Giulio Cesare Giuliani, Vierge à l’Enfant

Filles de Giulio Cesare, à la tête des prestigieuses Vetrerie d’arte Giuliani de Rome, et d’Angelina Cisterna, elle-même fille du peintre Eugenio Cisterna, Maria Letizia et Laura ont nourri leur sensibilité pour les formes et les couleurs dans le cadre familial, comme un pain quotidien essentiel. L’atelier de leur père, l’un des plus prolifiques et réputés de la capitale dès les premières années du XXe siècle, ne fut pas immédiatement leur objectif professionnel et artistique, les deux jeunes filles ayant été initialement orientées vers des études d’institutrices; mais la proximité des langages et des techniques artistiques du père et du grand-père l’emporta finalement, les amenant à embrasser ce monde.

Maria Letizia et Laura Giuliani, 1930

Au-delà des enseignements familiaux, les deux sœurs suivirent également des cours de dessin et de peinture dans certaines écoles privées romaines, telles que celle des artistes Giulia et Maria Biseo, à l’Académie de France, ou encore à l’École libre du nu, institution rattachée à l’Académie des Beaux-Arts, où elles pratiquèrent l’étude d’après modèle masculin — des expériences et des apprentissages loin d’être courants à l’époque. Nous sommes à la fin des années 1920 et au début des années 1930, lorsque les deux jeunes femmes firent leurs premières expériences dans le monde artistique: Maria Letizia accompagna son grand-père dans le cycle de fresques pour l’église San Giuseppe à Jesi, dans la réalisation de la mosaïque funéraire de la famille Agnelli à Villar Perosa, près de Turin, et dans la chapelle San Sisto de la cathédrale d’Anagni. Avec leur père Giulio Cesare, elles réalisent les cartons pour les vitraux de la nef centrale de l’église Santa Teresa d’Avila à Rome, représentant des images de saints, saintes et bienheureux de l’ordre carmélite.

Rome, église Santa Teresa d’Avila, cartons de Maria Letizia et Laura Giuliani, photo de Barbara Belotti

Rome, église Santa Teresa d’Avila, cartons de Maria Letizia et Laura Giuliani, photo de Barbara Belotti

La peinture, en particulier celle de chevalet, conserve un charme particulier pour les deux sœurs, qui participèrent à plusieurs expositions dans les années 1930 et 1940. Laura débuta en exposant Paysage et Nature morte à la VIe Exposition du Syndicat fasciste des Beaux-Arts du Latium, en janvier 1936, et revint quelques mois plus tard avec Tête (fresque) et Paysage rustique lors de l’exposition des Beaux-Arts organisée par l’Association nationale fasciste des femmes artistes et diplômées, à laquelle elles étaient inscrites. L’année suivante, à la VIIe Exposition du même syndicat, elles exposèrent toutes deux deux œuvres chacune. Le lien pictural entre Maria Letizia et Laura se resserra encore lors de leur exposition personnelle organisée entre janvier et février 1939 à la galerie Bragaglia fuori commercio. «À cette occasion — où Laura présente trente œuvres, parmi des huiles, des fresques et des dessins, et Maria Letizia onze, majoritairement des huiles — la critique tente de démêler le “nœud qui unit les deux artistes”, l’une étant “le miroir de l’autre”, unies par une “complicité silencieuse”, non fondée sur l’amour mais sur la peinture. Ce jeu de reflets constant leur permettait d’explorer en profondeur les nombreuses sollicitations offertes par la peinture romaine des années 1930 et 1940 », écrit Mario Quesada, cité par Francesca Lombardi dans son livre Les artistes et la ville, publié par Anicia, qui a récemment contribué à redécouvrir le travail artistique de Maria Letizia et Laura Giuliani. Les décennies 1930 et 1940 furent les plus fécondes pour leur expression artistique. Par la suite, leur collaboration se relâcha quelque peu, du fait de la vie elle-même : le départ de Laura du foyer paternel après son mariage avec l’architecte Mario Redini, la maternité avec ses nouvelles responsabilités et tâches, ainsi que les engagements familiaux, éloignèrent peu à peu leurs chemins jusque-là parallèles.

Maria Letizia Giuliani, Crèche

Après la mort de leur père Giulio Cesare, survenue en 1954, Maria Letizia et Laura se consacrent davantage à l’atelier familial, réalisant les cartons et supervisant la production de vitraux pour divers édifices religieux.

Rome, eglise S. Eugenio, saint Grégoire VII pape et saint Pie V pape, photo et composition graphique de Barbara Belotti

Dès 1949, avant même la disparition de leur père, elles avaient participé à la création de neuf représentations de papes pour l’église romaine de Sant’Eugenio, puis elles s’occupèrent, entre 1953 et 1971, de l’achèvement du cycle de vitraux pour la basilique San Giuseppe, dans le quartier Trionfale de Rome. Ensuite vinrent les vitraux colorés de la nef unique de l’église Santa Barbara alle Capannelle (1957-1961), ceux de l’Institut pénitentiaire pour mineurs de Casal del Marmo, toujours à Rome, et la rosace du Sanctuaire Santa Maria della Quercia à Viterbo — des œuvres attribuées à la créativité de Maria Letizia.

Maria Letizia Giuliani, rosace du sanctuaire Santa Maria della Quercia à Viterbo

Laura, quant à elle, est seule responsable des vitraux des églises romaines de S. Ignazio di Antiochia allo Statuario (1958-1965) et Regina Mundi (1971-1972). Pour cette dernière œuvre, elle utilisa la technique des “dalles de verre”, blocs épais obtenus par coulage dans des moules spécifiques, refroidis, puis assemblés avec du ciment ou des résines époxy. À surface égale, le verre “dalle”, dont chaque pièce varie par sa texture, sa couleur et son épaisseur, laisse passer moins de lumière que la technique traditionnelle au plomb, mais permet de couvrir de très grandes surfaces.

Laura Giuliani, Regina Mundi, vitrail de l’église Regina Mundi de Rome

Dans l’abside de cette église, Laura Giuliani représenta la Vierge, Reine du monde et Mère du Carmel — comme l’indique la base du grand vitrail — selon l’iconographie de la femme vêtue de lumière de l’Apocalypse, « [...] avec la lune à ses pieds et une couronne de douze étoiles [...]» ; à ses côtés, le prophète Élie, brandissant son épée de feu, et saint Simon Stock, protecteur de l’ordre carmélite. Paul VI assista à l’inauguration du vitrail, réalisé entièrement sous son pontificat et financé par ses soins.

Laura Giuliani avec son frère Tommaso présente l’esquisse du vitrail Regina Mundi au pape Paul VI, 1971

«Je considère le vitrail pour ce qu’il est : des morceaux de verre coloré assemblés au plomb formant un dessin », commente Laura Giuliani, citée par Francesca Lombardi dans son ouvrage. « C’est pourquoi j’enrichis la forme en la facettant, en faisant briller des morceaux clairs sur les foncés ; je casse la couleur uniforme des figures en y intégrant celle du fond. J’essaie de ne pas construire la figure au-dessus du fond, mais de la fragmenter de manière à ce qu’elle ne se détache pas de manière évidente, ni ne paraisse sculptée. Du point de vue graphique, je cherche un équilibre de traitement sur l’ensemble du vitrail : des parties plus élaborées et d’autres moins, sans trop insister sur les visages.».

Laura Giuliani, Crucifixion

Traduzione spagnola

Gabriela Zappulla

Maria Letizia y Laura Giuliani, pintoras y maestras sopladoras del vidrio, nacieron a poca distancia de tiempo: la primera nació el 9 de febrero de 1908 y la segunda el 12 de noviembre del año siguiente. Juntas atravesaron el siglo XX, unidas no sólo por el afecto y la hermandad, sino también por la misma pasión por el arte.

Giulio Cesare Giuliani, Virgen con niño

Hijas de Giulio Cesare Giuliani, director de las prestigiosas cristalerías de arte Giuliani de Roma, y de Angelica Cisterna, hija a su vez del pintor Eugenio Cisterna, Maria Letizia y Laura absorbieron la sensibilidad por las formas y por el color dentro del hogar como si fuera un nutritivo pan cotidiano. El laboratorio de arte paterno, uno de los más prolíficos y renombrados de la capital desde los primeros años del siglo XX, no fue inmediatamente el objetivo profesional y artístico de las chicas, orientadas en cambio hacia estudios para ser maestras; sin embargo, la proximidad con el lenguage y los medios artísticos de su padre y de su abuelo acabó por imponerse y las llevó a medirse con este mundo.

Maria Letizia y Laura Giuliani, 1930

Mas allá de las enseñanzas en la familia, las dos hermanas atendieron también cursos de dibujo y de pintura en algunas escuelas privadas romanas, como la de las artistas Giulia y Maria Biseo, en la Academia de Francia y en la Escuela Libre del Desnudo, institución entrelazada con la Academia de Bellas Artes, donde practicaban el estudio de modelos masculinos, experiencias y enseñanzas no tan obvias para esa época. Estamos a finales de los años veinte y principios de los años treinta y también para las dos jóvenes comienzan las primeras experiencias directas en el mundo artístico: Maria Letizia ayudó a su abuelo en el ciclo de frescos para la iglesia de San José en Iesi, en la realización de la decoración de mosaicos de la capilla funeraria de la familia Agnelli en Villar Perosa, cerca de Turín, y en la capilla de San Sixto en la catedral de Anagni; en colaboración con el padre Giulio Cesare realizaron los cartones para las vidrieras de la nave central de la iglesia de Santa Teresa de Ávila en Roma, que representan imágenes de santos, santas y beatos de la orden carmelita.

Roma, Iglesia de Santa Teresa de Ávila, cartones de Maria Letizia y Laura Giuliani, foto de Barbara Belotti

Roma, iglesia de Santa Teresa de Ávila, figuras de cartón de Maria Letizia y Laura Giuliani, foto de Barbara Belotti

La pintura, especialmente la de caballete, ejercía una fascinación particular sobre ambas hermanas y, entre los años treinta y cuarenta, participaron en varias exposiciones. Laura empezó exponiendo Paisaje y Naturaleza muerta en la VI Exposición del Sindicato Fascista Bellas Artes del Lacio, en enero de 1936, respondiendo unos meses más tarde con Cabeza, un fresco, y el cuadro Paisaje rustico en la Exposición de Bellas Artes organizada por la Asociación Nacional Fascista Mujeres Artistas y Graduadas, institución a la que ambas estaban afiliadas. El año siguiente, en la VII Exposición del Sindicato fascista Bellas Artes del Lacio, ambas expusieron dos obras cada una. La colaboración pictórica entre Maria Letizia y Laura se hizo cada vez más estrecha con la exposición personal organizada, entre enero y febrero de 1939, en la Galería Bragaglia, fuera de comercio. <>. Esta es la valoración crítica de Mario Quesada que Francesca Lombardi recoge en su obra Las artistas y la ciudad, publicado por Anicia, con la que recientemente ha contribuido al redescubrimiento artístico de Maria Letizia y Laura Giuliani. Los años Treinta y Cuarenta fueron los de su mejor expresión, después la asociación artística entre las dos hermanas se aflojó en parte y la vida también. La marcha de Laura de la casa paterna tras su matrimonio con el arquitecto Mario Redini, la llegada de la maternidad con nuevas tareas y obligaciones, y los compromisos familiares hicieron que esos caminos hasta entonces paralelos, estuvieran menos alineados.

Maria Letizia Giuliani, Pesebre

Tras la muerte del padre Giulio Cesare, ocurrida en el 1954, Maria Letizia y Laura se dedicaron más al laboratorio familiar, tanto a la realización de cartones como a la producción de vidrieras para algunos edificios sagrados

Roma, Iglesia de S. Eugenio, S. Gregorio VII papa y San Pio V papa, foto y reelaboración grafica de Barbara Belotti

Ya antes de la muerte del padre, en el 1949, las dos hermanas habían participado en la creación de nueve retratos de papas para la iglesia romana de San Eugenio y, entre 1953 y 1971, participaron en la realización del ciclo de vidrieras de la basílica de San José en el barrio Trionfale de Roma; luego fueron realizadas la vidrieras coloradas de la única nave de la iglesia Santa Barbara alle Campanelle (1957-1961), las del Instituto Penal de menores de Casal del Marmo, también en Roma, y el rosetón del Santuario de Santa Maria della Quercia de Viterbo, obras atribuibles a la creatividad de Maria Letizia.

Maria Letizia Giuliani, Rosetón del Santuario de Santa Maria della Quercia en Viterbo

Las vidrieras de las iglesias romanas de S. Ignacio de Antioquia en el Estatuario (1958-1965) y Regina Mundi (1971-1972), se deben exclusivamente a Laura. Para estas últimas empresas se utilizaron las “dalles de verre”, losas de vidrio parecidas a azulejos bastante gruesas obtenidas colando el vidrio fundido en moldes especiales, dejadas enfriar y finalmente unidas con cemento o resinas epoxídicas. Con la misma superficie las losas de vidrio “dalles”, cada una diferente de la otra por la lisura de su superficie, el color y el grosor, dejaban pasar menos luz comparadas con la técnica tradicional de pegado con plomo, pero permitían desarrollar superficies muy amplias.

Laura Giuliani, Regina Mundi, vidriera de la iglesia Regina Mundi de Roma

En el ábside de la iglesia Regina Mundi, Laura Giuliani representó a la Virgen, Reina del mundo y Madre del Carmelo, como se lee en la parte inferior de la gran vidriera, según la iconografía de la mujer vestida de luz del Apocalipsis, « [...] con la luna a sus pies y una corona de doce estrellas [...]», al lado el profeta Elia con la espada de fuego y san Simón Stock, protector de la orden carmelita. A la inauguración de la vidriera Asistió Pablo VI, bajo cuyo pontificado la obra fue realizada y enteramente financiada por el propio papa.

Laura Giuliani con el hermano Tommaso presenta el boceto de la vidriera Regina Mundi al papa Pablo VI, 1971

«Considero la vidriera por lo que es: trozos de vidrio coloreado, unidos con plomo que forman el diseño» - el comento de Laura Giuliani es recogido por Francesca Lombardi en el estudio ya citado - «Por eso embellezco la forma facetándola, haciendo brillar los trozos claros sobre los oscuros; rompo todo el color de las figuras haciendo entrar el color del fondo. Es decir, intento no construir la figura sobre el fondo, sino fragmentarla para que no aparezca plenamente a la vista, tallada en el fondo, y para que no sea plástica. Desde el punto de vista del grafismo, intento que haya un equilibrio de factura en toda la vidriera: partes más elaboradas y partes menos, sin insistir demasiados en los rostros».

Laura Giuliani, Crucifixión

Traduzione inglese

Syd Stapleton

Maria Letizia and Laura Giuliani, painters and master glassmakers, were born very close to each other - the former on February 9, 1908, and the latter on November 12 of the following year. Together they traversed the twentieth century bound not only by affection and sisterhood, but by the same passion for art.

Giulio Cesare Giuliani, Madonna and Child

Daughters of Giulio Cesare, head of the prestigious Giuliani Art Glassworks in Rome, and Angelina Cisterna, daughter in turn of the painter Eugenio Cisterna, Maria Letizia and Laura absorbed a sensitivity to form and color within the walls of their home, as if it were a nourishing daily bread. Their father's art workshop, one of the most prolific and renowned in the capital since the early 20th century, was not immediately the professional and artistic goal of the two girls, who were instead directed toward teaching studies. Their proximity to the languages and artistic means of their father and grandfather, however, eventually prevailed and led them to an engagement with that world.

Maria Letizia and Laura Giuliani, 1930

Beyond the teachings in the family, the two sisters also attended drawing and painting courses in some private schools in Rome, such as that of the artists Giulia and Maria Biseo, in the Academy of France and in the Free School of the Nude, an institution intertwined with the Academy of Fine Arts, where they practiced in the study from life of male models, experiences and teachings not so obvious for that period. In the late 1920s and early 1930s the first direct experiences in the artistic world for the two young women began. Maria Letizia joined her grandfather in a cycle of frescoes for the church of San Giuseppe in Iesi, in the realization of the mosaic decoration of the Agnelli family's funeral chapel in Villar Perosa, near Turin, and in the chapel of San Sisto in the Cathedral of Anagni. In collaboration with her father Giulio Cesare, they made the designs for the stained-glass windows of the nave of the church of Santa Teresa d'Avila in Rome, depicting images of saints, holy men and women and blessed of the Carmelite order.

Rome, Church of St. Teresa of Avila, designs by Maria Letizia and Laura Giuliani, photo by Barbara Belotti

Rome, Church of Santa Teresa d’Avila, cardboard cutouts by Maria Letizia and Laura Giuliani, photo by Barbara Belotti

Painting, especially easel painting, remained a particular fascination for both sisters, and between the 1930s and 1940s, there were several participations in exhibitions. Laura began by exhibiting Landscape and Still Life at the VI Exhibition of the Fascist Fine Arts Union of Lazio, in January 1936, replicating a few months later with Head, in fresco, and the painting Rustic Landscape in the Fine Arts Exhibition organized by the National Fascist Women Artists and Graduates Association, an institution of which they were members. The following year, at the 7th Exhibition of the Fascist Fine Arts Union of Lazio, they both exhibited two works each. The pictorial association between Maria Letizia and Laura grew closer and closer with the solo exhibition organized, between January and February 1939, at the off-trade Galleria Bragaglia. "On that occasion - which saw Laura exhibit thirty works, including oils, frescos and drawings, and Maria Letizia eleven, mostly oils - critics also exerted themselves in attempting to untangle the "tangle that knots the two artists," one "mirroring the other," linked by a "silent complicity," which "has for its object not love but painting, so that the continuous reflection of one in the other serves, for one and the other, to better fathom the many solicitations offered by Roman painting in the 1930s and 1940s." This is the critical judgment of Mario Quesada that Francesca Lombardi reports in her book Le artiste e la città, published by Anicia, with which she recently contributed to the artistic rediscovery of Maria Letizia and Laura Giuliani. The 1930s and 1940s were the years of their best expression, then the artistic partnership between the two sisters partly loosened as did the links between their lives. Laura's estrangement from her father's house after her marriage to architect Mario Redini, the onset of motherhood with new tasks and duties, and family commitments made those hitherto parallel paths less aligned.

Maria Letizia Giuliani, Nativity

After the death of their father, Giulio Cesare, in 1954, Maria Letizia and Laura devoted themselves more to the family workshop, both making designs and pursuing the creation of stained-glass windows for some sacred buildings.

Rome, Church of S. Eugenio, S. Gregory VII pope and St. Pius V pope, photo and graphic reworking by Barbara Belotti

Even before their father's death in 1949, the two sisters had taken part in the creation of nine depictions of pontiffs for the Roman church of St. Eugene and found themselves engaged, between 1953 and 1971, in completing the cycle of stained-glass windows for the basilica of St. Joseph in Rome's Trionfale district. Later they created the stained-glass windows of the single nave of the church of Santa Barbara alle Capannelle (1957-1961), those of the penal institute for minors in Casal del Marmo, also in Rome, and the rose window of the Sanctuary of Santa Maria della Quercia in Viterbo, works attributable to Maria Letizia's creativity.

Maria Letizia Giuliani, Rosone of the Sanctuary of Santa Maria della Quercia in Viterbo

The stained-glass windows of the Roman churches of S. Ignazio di Antiochia allo Statuario (1958-1965) and Regina Mundi (1971-1972), on the other hand, can be attributed to Laura alone. For the latter undertaking, "dalles de verre," portions of glass similar to rather thick tiles obtained by casting in special molds, left to cool and finally held together with cement or epoxy resins, were used. For the same surface area, "dalles" glass, which differed in shape from one another in surface smoothness, color and thickness, allowed less light to pass through, compared to the traditional lead-bonded technique, but allowed the development of very large surfaces.

Laura Giuliani, Regina Mundi, stained-glass window of the Regina Mundi church in Rome

In the apse of the Regina Mundi church Laura Giuliani represented Our Lady, Queen of the World and Mother of Carmel as seen in the lower part of the large stained-glass window, according to the iconography of the woman clothed in light of Revelation, «[...] with the moon at her feet and a crown of twelve stars [...]» ,at the side the prophet Elijah with the sword of fire and St. Simon Stock, protector of the Carmelite order. The unveiling of the stained-glass window was attended by Paul VI, under whose pontificate the work was made, financed entirely by the pope himself.

Laura Giuliani with her brother Tommaso presenting the sketch of the Regina Mundi stained-glass window to Pope Paul VI, 1971

«I consider the stained-glass window for what it is: pieces of colored glass joined with lead that form the design» - Laura Giuliani's comment is reported by Francesca Lombardi in her cited book - «For this I embellish the form by faceting it, making light pieces shine on the dark ones. I break the whole color of the figures by making the color of the background re-enter. That is, I try not to build the figure on top of the background, but to fragment it so that it does not appear in full view, carved into the background, and so that it is not plastic. From the point of view of graphics, I try for there to be a balance of workmanship on the whole stained-glass window: more elaborate parts and less elaborate parts, not insisting too much on the faces»..

Laura Giuliani, Crucifixion

 

Clara Driscoll
Laura Candiani

Giulia Tassi

 

Insolito mestiere davvero, quello di Clara Driscoll, esperta nel taglio e nella lavorazione del vetro, nonché abilissima disegnatrice di lampade passate alla storia dell'arredamento. Era nata il 15 dicembre 1861 a Tallmadge, in Ohio, con il nome Clara Pierce Wolcott; nonostante sia rimasta orfana di padre precocemente, ebbe l'opportunità ― rara per l'epoca ― di poter studiare, insieme alle tre sorelle minori, tutte brillanti e dotate. Frequentò la scuola di disegno femminile (oggi Cleveland Institute of Art), vista la sua disposizione per le materie artistiche, mentre lavorava presso un mobilificio locale. Si trasferì quindi a New York per studiare alla Metropolitan Museum Art School, istituzione nata da poco. In breve venne assunta, per le sue doti innegabili, dal celebre artista e designer Louis Comfort Tiffany, colui che nel 1888 aveva dato vita alla Tiffany Glass Company. Clara vi lavorò più di un ventennio, anche se con alcune pause, disegnando lampade dalla forma inconfondibile e oggetti d'arredo e dirigendo il settore femminile dedicato al delicato compito del taglio del vetro. 

Clara Driscoll nel 1890

Quando sposò Francis Driscoll, nel 1889, fu costretta, secondo le stringenti regole di quel periodo storico, a licenziarsi; tuttavia le nozze furono di breve durata a causa della inaspettata morte del marito avvenuta nel 1892. Clara riprese il suo posto; rischiò in seguito un nuovo licenziamento perché aveva trovato un fidanzato, il quale tuttavia, non si sa come, un bel giorno scomparve. Intanto si esprimeva tutta la sua creatività, alla guida delle cosiddette "ragazze di Tiffany" fra cui si distinsero Lillian Palmié e Alice Carmen Gouvy, con cui nacque una bella amicizia e la condivisione di piacevoli soggiorni estivi.

Le ragazze di Tiffany

Le ragazze erano circa 35, abili e precise, dotate di enorme pazienza e di quel buon gusto tipicamente femminile che le fece preferire ai lavoratori maschi dell'azienda, addirittura ci fu uno sciopero degli uomini per questa disparità di genere e perché vedevano in pericolo il proprio ruolo per l'emergere delle colleghe tanto apprezzate. Il fatto che le opere non fossero "firmate" non deve però stupire perché il proprietario voleva far risaltare il marchio di fabbrica, non tanto il singolo ideatore, o meglio ideatrice. Un caso eccezionale è rappresentato, nel 1904, dalla attribuzione a Clara, sulle pagine di una rivista, della delicata lampada con le libellule che aveva avuto un premio all'esposizione mondiale del 1900.

Clara Driscoll al lavoro nel 1901con Joseph Briggs

Nel 1909 Clara si sposò nuovamente e lasciò il lavoro. Morì il 6 novembre 1944. Quello che va raccontato è piuttosto il graduale riemergere, nel XXI secolo, del suo specifico ruolo nell'ideazione e successiva realizzazione di quelle lampade tanto celebri che basta farne il nome per vederle nella nostra mente: le Tiffany, appunto, capolavori dell'Art Nouveau. Ma non sono tutte uguali, ovviamente. A Clara se ne attribuiscono di bellissime:la Daffodil, prima in ordine di tempo, la Wisteria, la Dragonfly, la Peony. A lungo però il suo contributo, e quello delle altre ragazze, è rimasto sotto traccia, e non è un fatto nuovo perché ancora una volta un uomo, il signor Tiffany in questo caso, si era appropriato più o meno tacitamente del talento altrui. Ci sono voluti studi, ricerche appassionate, ritrovamenti casuali per mettere finalmente le cose in chiaro. Si comincia con un volume edito nel 2002: Tiffany Desk Treasures (I tesori da tavolo di Tiffany) di George Kemeny e Donald Miller in cui a Driscoll viene chiaramente attribuito il disegno della lampada Dragonfly e si fa menzione del suo compenso, uno dei più alti per una donna all'epoca.

La celebre lampada Daffodil

Quattro anni dopo due studiose e un docente universitario diedero conto delle loro ricerche e pubblicarono a Londra un saggio critico, curato dalla New York Historical Society, dal titolo emblematico A New Light of Tiffany: Clara Driscoll and the Tiffany Girls. Nina Gray si era infatti imbattuta in un ricco carteggio fra Clara e le sorelle da cui emergeva chiaramente che, durante la pausa pranzo, alla geniale disegnatrice era venuta l'idea della Daffodil. Intanto indagava anche il prof. Eidelberg che, al termine di una conferenza, era stato avvicinato da un discendente di Clara e aveva cominciato ad approfondire l'argomento; ai due si è poi unita Margaret Hofer e insieme hanno fatto il punto della situazione, confrontando i propri risultati. Dopo la pubblicazione delle loro ricerche congiunte, fu organizzata una mostra che rendeva giustizia al lavoro di Clara e delle sue colleghe e che fu ampiamente trattata sulla stampa americana, spiegando le varie fasi della delicata lavorazione e il ruolo di questo gruppo di lavoratrici tutto al femminile.

Poppy Inkwell, The Cleveland Museum of Art

Nell'occasione, insieme alle lampade e altre suppellettili: calamai, vasi, specchi, piccole scatole, ciotole vuota tasche, candelieri, completi da scrivania, servizi da tè, oggetti ornamentali, persino gioielli, furono esposte le lettere da cui emergevano tanti dettagli: la ragazza girava per New York in bicicletta e portava le gonne più corte per comodità, adorava l'opera, seguiva la politica, si immergeva con passione nella vita cittadina, sia nei quartieri alti sia nei rioni abitati da immigrati poveri e donne prive di istruzione e non emancipate. Fu attiva anche nelle prime manifestazioni delle suffragiste e convinta nel sostenere i diritti femminili. Una visitatrice in particolare rimase colpita dal suo caso e dalla sua vivace personalità: si trattava della scrittrice Susan Vreeland (1946-2017) che pubblicò nel 2010 il romanzo Una ragazza da Tiffany (Clara and Mr.Tiffany), un enorme successo tradotto in 26 lingue.

Finalmente si faceva luce sull'opera di questa creatrice che aveva anche contribuito con le sue idee all'innovazione tecnica, come l'utilizzo della ceramica e del rame per legare fra loro i pezzi di vetro, dopo averli avvolti in una sottile lamina che poi veniva saldata; aveva dato vita ad almeno una trentina di modelli di lampade da tavolo, introducendo quei decori floreali, quelle farfalle o altri insetti dalle ali impalpabili, accanto ad audaci motivi geometrici, e gli intrecci di colori che faranno epoca e saranno simboli dell'Art Déco. Pensiamo ad esempio a Dragonfly con le ali di libellula ben delineate, a Fruit decorata da fiori e frutta primaverile ed estiva, oppure a Poppy, a Peony, a Glicine, ancora oggi apprezzate e piacevolmente attuali. Meravigliosa Wisteria, con il gioco delle sfumature di azzurro e giallo, tanto da formare una gioiosa cascata di luce, di cui furono fatti 123 esemplari, tutti rigorosamente a mano, utilizzando circa 2000 (avete letto bene) pezzetti di vetro per ciascuno; nel 1906 costava 400 dollari. Questo non era artigianato, pur di classe, questa si chiama arte.

Dragonfly, circa 1900

Cerchiamo ora di fornire qualche dettaglio in più sulla tecnica adottata, che Tiffany rivolse inizialmente a grandi vetrate per chiese, palazzi, musei e arredi interni. Innanzitutto occorre il vetro che appartiene a svariati tipi secondo le sfumature che si vogliono realizzare, le combinazioni di colore, gli effetti di luce e di trasparenza; si possono usare il vetro opalescente, assai diffuso nelle lampade, il favrile (brevettato da Tiffany) che risulta iridescente, il marezzato, il fratturato, il chiazzato, il plissettato, lo striato. I singoli pezzi, più o meno grandi, si legano fra di loro solitamente con lo stagno, di colore argenteo, metallo facilmente malleabile, che non si ossida e resiste bene alla corrosione, formando così il vero e proprio mosaico. Le basi originali sono quasi sempre in bronzo, soprattutto quando si tratta di lampade da tavolo.

Woodbine Table Lamp, The Cleveland Museum of Art

Varie aziende oggi si vantano di seguire l'impostazione data dal fondatore e dalle sue esperte maestranze; tuttavia il montaggio, che richiede molte ore di lavoro manuale, per abbassare i costi è stato spesso trasferito in Paesi emergenti, la Cina in particolare, dove il personale si assicura sia stato formato appositamente. Una differenza rispetto al passato è dovuta alla totale eliminazione del piombo nelle saldature, come pure del mercurio, ora si utilizzano solo fili di rame e stagno e, per le basi più solide e robuste, si preferisce un materiale metallico tinto colore del bronzo e perfettamente equivalente, almeno così viene pubblicizzato. Naturalmente sul mercato si trovano ancora pezzi originali, ma il loro costo può arrivare fino a 100 mila euro all'asta, su internet abbiamo trovato prezzi che superano i mille euro, mentre le lampade moderne si possono acquistare a cifre decisamente abbordabili: dai 30 ai 400 euro, anche se la qualità resta tutta da verificare. Chi vuole, comunque, può godersi in casa propria un po' della bellezza che Clara contribuì a creare.


Traduzione francese

Rachele Stanchina

Le métier de Clara Driscoll est vraiment insolite: elle a été experte dans la taille et la fabrication du verre pour des lampes qui ont marqué l’histoire du décor, dont elle était au même temps styliste et créatrice habile. Claire naît le 15 décembre 1861 à Tallmadge, en Ohio, sous le nom de Clara Pierce Wolcott. Malgrè la perte de son père, survenue lorsqu’elle était toute petite, elle peut étudier (chose remarquable à l’époque) ainsi que ses trois sœures plus jeunes, qui étaient brillantes et douées. Grâce à sa disposition vers les matières artistiques, elle fréquente l’école féminine de dessin (l’actuel Cleveland Institute of Art) tout en travaillant pour une fabrique des meubles. Ensuite, elle s’installe à New York pour étudier chez la Metropolitan Museum Art School, Institution née récemment. Bientôt le célèbre artiste et designer Louis Comfort Tiffany, qui en 1888 avait créé la Tiffany Glass Company, une fois remarquées ses dotes incontestables, embauche la jeune fille. Clara travaille pour lui pendant plus que vingt ans, même si avec des pauses, en dessinant des lampes aux formes uniques ainsi que des objets de décor, tout en dirigéant le secteur féminin qui s’occupait de la tâche délicate de la coupe du verre.

Clara Driscoll en 1890

A la suite de son mariage avec Francis Driscoll, en 1889, Clara est contrainte, selon les convenctions de l’époque, à dimissioner. Cependant l’union est courte à cause le la mort imprévue de son époux, survenue en 1892. Clara reprends alors sa place, mais elle risque un nouveau licenciement pour les fiançailles avec un jeune homme qui, cependant, après peu de temps disparaît on ne sait pas comment. C’est dans cette période que toute sa créativité s’épanouit: elle dirige les ainsi-dites “Demoiselles de Tiffany”, parmi lesquelles se signalent Lillian Palmié et Alice Carmen Gouvy: avec elles naît une belle amitié, partagée tout au long d’agréables séjours d’été.

Les demoiselles de Tiffany

Le groupe compte environs 35 jeunes filles,habiles et minutieuses, douées d’une énorme patience et d’un bon goût typiquement féminin qui les fait préférer aux hommes. Les travailleurs de l’entreprise arrivent même à une grève à cause de cette inégalité des genres, leur position étant ménacée par des collègues si appréciéés. Les pièces réalisées ne portaient pas de signature et on ne doit pas s’étonner:Tiffany voulait souligner la marque de fabrique au lieu du nom du créateur, ou bien de la créatrice. Cependant en 1904 on attribue à Clara, par les pages d’un magazine, une lampe délicate avec un décor à libellule qui avait gagnée un prix à l’occasion de l’Exposition Mondiale du 1900, mais c’est un cas d’exception.

Clara Driscoll au travail en 1901 avec Joseph Briggs

En 1909 Clara se marie à nouveau et quitte son travail. Elle meurt le 6 novembre 1944. Au cours du XXI siècle, peu à peu on prend conscience de l’importance de la contribution de son travail au sein soit du projet que de la réalisation de ces lampes, tellement célèbres qu’il suffit de les nommer pour qu’elles nous viennent aux yeux: en peu de mots “Les Tiffany”, chefs- d’œuvres de l’Art Nouveau. Elles ne sont pas toutes pareilles, bien évidemment. On attribue à Clara les plus belles: la Daffodil, la prémière réalisée, et ensuite en date la Wisteria, la Dragonfly, la Peony. Son apport a été longuement caché, ainsi que celui de ses camarades, et ce n’est pas une nouveauté. Encore une fois un homme, Monsieur Tiffany dans ce cas, s’est emparé du talent autrui d’une façon plus ou moins voilée. Les choses sont devenues claires à la suite d’études, de recherches passionnées ou bien de découvertes fortuites. Le départ est marqué par le livre Tiffany desk treasures (Les trésors pour le bureau de Tiffany), édité en 2002 par George Kemeny et Donald Miller: le dessin de la lampe Dragonfly est clairement attribué à Driscoll et l’on fait mention à la rémunération de la styliste, une des plus élévées pour une femme de l’époque.

La célèbre Daffodil

Quatre ans après, c’est le tour de deux étudiantes et de leur professeur à l’Université, qui à la suite des enquêtes menées ensemble, publient à Londres un essai critique édité par la New York Historical Society au titre emblématique A New Light of Tiffany: Clara Driscoll and the Tiffany girls. Nina Gray découvre la prémière les lettres que Clara envoye à ses sœurs, lettres qui témoignent clairement que l’origine de l’idée de la Daffodil était survenue à Clara lors d’une pause-repas. Au même temps, le professeur Eidelberg mène, lui aussi, des recherches après avoir été interrogé à la fin d’une conférence par un descendant de Clara: ses questions l’intriguent et il se passionne au point de vouloir approfondir le sujet. Avec Margaret Hofer, les trois chercheurs comparent les résultats des leurs enquêtes individuelles et font le point de la situation. A la suite de la publication de leurs travaux, on organise une exposition qui rends justice à Clara et à ses camarades: la presse américaine en parle longuement, tout en expliquant les différentes et délicates phases de travail ainsi que l’apport de ce groupe de travailleuses tout au féminin.

Poppy Inkwell, The Cleveland Museum of Art

Au sein de cette exposition on étale avec les lampes d’autres objets: encriers, vases, miroirs, petites boîtes, vides poches, bougeoirs, nécéssaires pour le bureau, services à thé, bibelots, même des bijoux. Mais on peut y admirer aussi les lettres, qui racontent en détail la singularité de Clara par raport à l’époque: la jeune fille parcourt New York à vélo, porte des jupes plus courtes que d’habitude pour plus de commodité, adore l’Opéra, s’occupe de politique et suit passionemment la vie de la ville, soit au milieu des quartiers les plus riches que des bas-fonds habités par les immigrés, hommes pauvres ou femmes dépourvues d’instruction et non émancipées. Clara participe aussi aux prémières rassemblements des suffragettes et soutient les droits des femmes avec convinction. Parmi les visiteurs à l’axposition, une femme en particulier est frappée par l’histoire et la bruyante personnalité de Clara: il s’agit de l’écrivain Susan Vreeland (1946-2017) autrice du livre Une jeune fille chez Tiffany (Clara and Mr. Tiffany) publié en 2010 et, à cause de son succés, traduit en 26 langues.

C’est finalement le moment de mettre en lumière l’oeuvre de cette créatrice qui, avec ses idées, a aussi contribué aux innovations techniques, telles que l’utilisation de la céramique et du cuivre pour assembler les morceaux de verre, une fois les avoir enveloppés dans une feuille légère qui vient successivement soudée. Claire réalise au moins une trentaine de modèles de lampe en verre pour bureau, décorées soit à motifs floraux,à papillons ou d’autres insects aux ailes impalpables, soit à motifs géométriques audacieux: les mélanges de couleur vont marquer une époque et deviendront les symboles de l’art Déco. Il suffit de penser à Dragonfly aux ailes de libéllule ou bien à Fruits avec ses décors à fleurs et fruits du Printemps et d’été, ou encore à Poppy, à Peony, à Glycines, lampes qui encore aujourd’hui sont appreciées et à la mode. Wisteria est simplement merveilleuse, avec son jeu de nuances en bleu ciel et jaune,qui crée une joyeuse cascade de lumière. On en réalise seulement 123 exemplaires, tous strictement fait main, utilisant pour chacun environ 2000 morceaux de verre (mais oui, vous avez bien lu). En 1906 le prix était 400 dollars.: il ne s’agit pas d’artisanat, même si de grand classe, ici il fait parler d’art.

Dragonfly, 1900 environ

Et maintenant, c’est le moment de quelque détail sur la technique adoptée: Tiffany l’utilise d’abord pour les grands vitraux des églises, des palais, des musées et du mobilier. D’abord, il faut repérer plusieurs types différents de verre, selon les nuances, les combinaisons de couleur, les effects de lumière et de transparence que l’on veut réaliser. On peut choisir parmi le verre opalescent, très utililisé pour les lampes, le favrile irisé (bréveté par Tiffany), le marbré, le brisé, le tacheté, le plissé, le rayé. Les morceaux, à tailles différentes, sont généralement assemblés avec de l’étain argenté, métal facilement malléable qui ne s’oxyde pas et marqué par une bonne résistance à la corrosion. C’est ainsi que naît la véritable mosaique. Les pieds originaux sont presque toujours en bronze, surtout quand il s’agit de lampes à bureau.

Woodbine Table Lamp, The Cleveland Museum of Art

Aujourd’hui il y a plusieurs ateliers qui produisent ces lampes et déclarent utiliser les mêmes processus définis par Tiffany. Cependant,pour réduire les prix, l’assemblage (qui requiert un grand nombre d’heures de travail manuel) est souvent deplacé au sein de Pays où le personnel a reçu une formation spécialisée, tels que la Chine. Par rapport au passé, on a totallement eliminé le plomb et le mercure de la soudure: aujourd’hui on utilise des fils en cuivre et étain. Pour les pieds, qui sont plus résistants et forts, on préfère utiliser un métal peint dans la couleur du bronze et parfaitement semblable à ce dernier. Bien évidemment, sur le marché on peut trouver encore del pièces originelles, mais leur prix aux enchères peut joindre les cent mille euros. Sur le web on trouve des pièces qui dépassent les mille euros, tandis que l’on peut acheter des lampes modernes à des prix plus raisonnables: entre les 30 et les 400 euros, même si la qualité est à vérifier. En tout cas, qui veut peut en profiter et apprécier chez soi un peu de la beauté créée par Clara.


Traduzione spagnola

Alessandra Barbagallo

Una profesión verdaderamente insólita, la de Clara Driscoll, experta en el corte y en la lavoracion del vidrio, además de una muy hábil diseñadora de lámparas que han pasado a la historia del mobiliario. Nació el 15 de diciembre de 1861 en Tallmadge, Ohio, como Clara Pierce Wolcott; a pesar de haber perdido a su padre a una edad temprana, tuvo la oportunidad - rara para la época- de estudiar, junto con sus tres hermanas menores, todas brillantes y talentosas. Asistió a la Escuela de dibujo para mujeres (ahora Cleveland Institute of Art), debido a su aptitud para los temas artísticos, mientras trabajaba en una fábrica de muebles local. Luego se mudó a Nueva York para estudiar en la Metropolitan Museum Art School, una institución recién nacida. Pronto fue contratada, debido a sus innegables habilidades, por el famoso artista y diseñador Louis Comfort Tiffany, quien en 1888 había fundado la Tiffany Glass Company. Clara trabajó allí durante más de veinte años, aunque con algunas pausas, diseñando lámparas de forma inconfundible y objetos de decoración y dirigiendo el sector femenino dedicado a la delicada tarea del corte del vidrio.

Clara Driscoll en 1890

Cuando se casó con Francis Driscoll, en 1889, se vio obligada, según las estrictas reglas de ese período histórico, a dimitir; sin embargo, el matrimonio duró poco debido a la muerte inesperada de su marido en 1892. Clara retomó su cargo; más tarde corrió el riesgo de ser despedida otra vez porque había encontrado un novio, que, sin embargo, nadie sabe cómo, desapareció un buen día. Mientras tanto, expresó toda su creatividad, dirigiendo a las llamadas "chicas Tiffany" entre las que destacaron Lillian Palmié y Alice Carmen Gouvy, con quienes nació una hermosa amistad y el compartir agradables estancias de verano. 

chicas Tiffany

Eran unas 35 chicas, hábiles y precisas, dotadas de una enorme paciencia y ese buen gusto típicamente femenino que hizo que las prefirieran a los varones que trabajaban en la empresa, incluso hubo una huelga de hombres por esa disparidad de género y porque veían su posición en peligro debido a la aparición de sus muy apreciadas compañeras . El hecho de que las obras no estuvieran "firmadas" no debe sorprender, ya que el propietario quería resaltar la marca, no tanto al creador individual o, mejor dicho, a la creadora. Un caso excepcional fue representado, en 1904, por la atribución a Clara, en las páginas de una revista, de la delicada lámpara con libélulas que había recibido un premio en la exposición mundial de 1900.

Clara Driscoll trabajando en 1901 con Joseph Briggs.

En 1909 Clara se volvió a casar y dejó su trabajo. Murió el 6 de noviembre de 1944. Lo que hay que contar es más bien el gradual resurgimiento, en el siglo XXI, de su papel específico en la concepción y posterior creación de aquellas lámparas tan famosas que sólo mencionar su nombre es suficiente para visualizarlas en nuestra mente: las Tiffany, precisamente, obras maestras del Art Nouveau. Pero no todas son iguales, por supuesto. A Clara se le atribuyen algunas hermosas: el Narciso, primero en orden de tiempo, la Glicinia, la Libélula, la Peonía. Pero durante mucho tiempo su contribución, y la de las otras chicas, pasó desapercibida, y esto no es un hecho nuevo porque una vez más un hombre, el señor Tiffany en este caso, se había apropiado más o menos tácitamente del talento de otros. Fueron necesarios estudios, investigaciones apasionadas y descubrimientos aleatorios para aclarar finalmente las cosas. Comienza con un volumen publicado en 2002: Tiffany Desk Treasures de George Kemeny y Donald Miller en el que se atribuye claramente a Driscoll el diseño de la lámpara Dragonfly y se hace mención a su salario, uno de los más altos para una mujer en aquella época.

La célebre lámpara Daffodil

Cuatro años después, dos académicas y un profesor universitario se dieron cuenta de sus investigaciones y publicaron un ensayo crítico en Londres, editado por la Sociedad Histórica de Nueva York, con el título emblemático Una nueva luz de Tiffany: Clara Driscoll y las chicas Tiffany. De hecho, Nina Gray había encontrado una rica correspondencia entre Clara y sus hermanas, de la que se desprendía claramente que, durante la pausa para el almuerzo, a la brillante diseñadora se le había ocurrido la idea del Daffodil. Mientras tanto, estaba investigando también el profesor Eidelberg, que, al final de una conferencia, había sido abordado por un descendiente de Clara y había comenzado a profundizar en el tema; se unió Margaret Hofer a los dos y juntos hicieron un balance de la situación y compararon sus resultados. Tras la publicación de su investigación conjunta, se organizó una exposición que hacía justicia al trabajo de Clara y sus colegas y fue ampliamente tratado por la prensa estadounidense, explicando las distintas fases del delicado proceso y la posición de este grupo exclusivamente femenino de trabajadoras.

Poppy Inkwell, The Cleveland Museum of Art

En esa ocasión, junto con las lámparas y otros objetos decorativos –tinteros, jarrones, espejos, pequeñas cajas, cuencos vaciabolsillos, candelabros, juegos de escritorio, juegos de té, objetos ornamentales, e incluso joyas— se expusieron también las cartas de las que emergían muchos detalles: la joven recorría por Nueva York en bicicleta y usaba faldas más cortas por comodidad, adoraba la ópera, seguía la política, se sumergía con pasión en la vida de la ciudad, tanto en los barrios altos como en los distritos habitados por inmigrantes pobres y mujeres sin educación ni emancipación. También participó activamente en las primeras manifestaciones de las sufragistas y fue una sólida defensora de los derechos femeninos. Una visitante en particular quedó impresionada por su historia y su vivaz personalidad: se trataba de la escritora Susan Vreeland (1946-2017), quien en 2010 publicó la novela Una chica de Tiffany (Clara and Mr. Tiffany), un enorme éxito traducido en 26 idiomas.

Finalmente se arrojaba luz sobre la obra de esta creadora, que también había contribuido con sus ideas a la innovación técnica, como el uso de cerámica y cobre para unir las piezas de vidrio, después de envolverlas en una fina lámina que luego era soldada; creó al menos una treintena de modelos de lámparas de mesa, introduciendo esos adornos florales, mariposas u otros insectos de alas impalbables, junto con audaces motivos geométricos y combinaciones de colores que marcarían una época y se convertirían en símbolos del Art Déco. Pensemos, por ejemplo, en Dragonfly con las alas de libélula bien delineadas, en Fruit decorada con flores y frutas de primavera y verano, o en Poppy, Peony, Wisteria, aún hoy apreciadas y sorprendentemente actuales. Maravillosa Wisteria, con el juego de matices de azul y amarillo, hasta formar una alegre cascada de luz, de la cual se realizaron 123 ejemplares, todos rigurosamente hechos a mano, utilizando alrededor de 2000 (sí, habéis leido bien) piezas de vidrio para cada uno; en 1906 costaba 400 dólares. Esto no era artesanía, aunque de calidad: esto se llama arte.

Lámpara Dragonfly, hacia 1900

Veamos ahora algunos detalles más sobre la técnica utilizada, que Tiffany aplicó inicialmente a grandes ventanas de iglesias, palacios, museos y decoraciones interiores. Ante todo, se necesita el vidrio, que puede ser de varios tipos según los matices que se quieran lograr, las combinaciones de colores, los efectos de luz y transparencia; se pueden usar vidrio opalescente, muy común en las lámparas, el favrile (patentado por Tiffany), que resulta iridiscente, el jaspeado, el fracturado, el moteado, el plisado, el estriado. Las piezas individuales, más o menos grandes, se unen entre sí normalmente con estaño, de color plateado, un metal fácilmente maleable, que no se oxida y resiste bien a la corrosión, formando así el auténtico mosaico. Las bases originales son casi siempre de bronce, sobre todo cuando se trata de lámparas de mesa.

Woodbine Table Lamp, The Cleveland Museum of Art

Varias empresas hoy en día presumen de seguir el enfoque dado por el fundador y sus expertas manos artesanas; sin embargo, el montaje, que requiere muchas horas de trabajo manual, ha sido trasladado con frecuencia a países emergentes, especialmente a China, donde se garantiza que el personal ha sido debidamente formado. Una diferencia con respecto al pasado es la eliminación total del plomo en las soldaduras, así como del mercurio; hoy solo se utilizan hilos de cobre y estaño, y para las bases más sólidas y resistentes se prefiere un material metálico teñido en color bronce y presentado como perfectamente equivalente, al menos según la publicidad. Naturalmente, todavía hay en el mercado piezas originales, pero su precio puede alcanzar los 100 mil euros en subhastas; en internet hemos encontrado precios que superan los mil euros, mientras que las lámparas modernas pueden adquirirse por precios mucho más accesibles: entre 30 y 400 euros, aunque la calidad queda por verificar. De todas formas, quien lo desea puede disfrutar en su propia casa un poco de la belleza que Clara ayudó a crear.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

An unusual profession indeed - that of Clara Driscoll, an expert in cutting and working with glass, as well as a skilled designer of lamps that have gone down in furniture history. She was born on December 15, 1861, in Tallmadge, Ohio, with the name Clara Pierce Wolcott. Although her father died when she was only 12 years old, she had the opportunity - rare for the time - to be able to study, along with her three younger sisters, all of whom were bright and gifted. Given her disposition for artistic subjects, she attended the Women's Drawing School (now the Cleveland Institute of Art) while working at a local furniture factory. She then moved to New York to study at the Metropolitan Museum Art School, a newly established institution. Before long she was hired, because of her undeniable talents, by renowned artist and designer Louis Comfort Tiffany, the man who had started the Tiffany Glass Company in 1888. Clara worked there for more than two decades, albeit with some breaks, designing unmistakably shaped lamps and decorative objects and directing the women's department devoted to the delicate task of glass cutting.

Clara Driscoll in 1890

When she married Francis Driscoll in 1889, she was forced, according to the stringent rules of that historical period, to resign. However, the nuptials were short-lived due to her husband's unexpected death in 1892. Clara resumed her post, although she later risked a new dismissal because she had found a boyfriend, who, however, no one knows how, disappeared one fine day. Meanwhile, all her creativity was expressed as the head of the so-called "Tiffany's girls" among whom stood out Lillian Palmié and Alice Carmen Gouvy, with whom a beautiful friendship was born and the sharing of pleasant summer sojourns .

The Tiffany Girls

The girls numbered about 35, skillful and precise, endowed with enormous patience and the typically feminine good taste that made them preferred to the male workers in the company. There was even a strike by the men because of this gender disparity and because they saw their own role being endangered by the emergence of their much-appreciated female colleagues. The fact that the works were not "signed" should not come as a surprise, however, because the owner wanted to focus on the trademark, not so much the individual designer, or rather creator. One exceptional case is the attribution to Clara, in 1904, in the pages of a magazine, of the delicate lamp with dragonflies that had won a prize at the 1900 World's Fair.

Clara Driscoll working in 1901 with Joseph Briggs.

In 1909 Clara married again and quit her job. She died on November 6, 1944. What needs to be recounted is the gradual re-emergence, in the 21st century, of her specific role in the conception and subsequent creation of those lamps - so famous that we need only name them to see them in our minds. The Tiffanys - masterpieces of Art Nouveau. But they are not all the same, of course. Clara is credited with beautiful ones - the Daffodil, first in order of time, the Wisteria, the Dragonfly, and the Peony. For a long time, however, her contribution, and that of the other girls, remained under the radar, and this is not a new fact because once again a man, Mr. Tiffany in this case, had more or less tacitly appropriated the talents of others. It took studies, passionate research, and chance finds to finally set the record straight. It began with a volume published in 2002 - Tiffany Desk Treasures by George Kemeny and Donald Miller, in which Driscoll is clearly credited with the design of the Dragonfly lamp and mention is made of her financial reward, one of the highest for a woman at the time.

The famous Daffodil lamp

Four years later two scholars and a university professor gave an account of their research and published a critical essay in London, edited by the New York Historical Society, with the emblematic title A New Light on Tiffany: Clara Driscoll and the Tiffany Girls. Indeed, Nina Gray had come across a rich correspondence between Clara and her sisters from which it was clear that, during her lunch break, the brilliant designer had come up with the idea for the Daffodil. Meanwhile, Prof. Eidelberg, who at the end of a lecture had been approached by a descendant of Clara’s, was also investigating. These two were later joined by Margaret Hofer and together they took stock of the situation, comparing their findings. After the publication of their joint research, an exhibition was organized that did justice to the work of Clara and her colleagues and was covered extensively in the American press, explaining the various stages of delicate workmanship and the role of this all-female group of workers.

Poppy Inkwell, The Cleveland Museum of Art

On the occasion, along with the lamps and other furnishings, including inkwells, vases, mirrors, small boxes, bowls, candlesticks, desk sets, tea sets, ornaments, even jewelry, letters from which so many details emerged were displayed. She rode around New York on a bicycle and wore the shortest skirts for comfort, she loved opera, she followed politics, and she immersed herself passionately in city life, both uptown and in neighborhoods inhabited by poor immigrants and uneducated, unemancipated women. She was also active in early suffragist demonstrations and active in advocating women's rights. One visitor in particular was impressed by her case and her lively personality - the writer Susan Vreeland (1946-2017) - who published in 2010 the novel Clara and Mr.Tiffany, a huge success translated into 26 languages.

Light was finally shed on the work of this creator who had also contributed her ideas to technical innovation, such as the use of ceramics and copper to bind pieces of glass together, after wrapping them in a thin foil that was then soldered. She had given birth to at least thirty models of table lamps, introducing those floral decorations, those butterflies or other insects with impalpable wings, alongside bold geometric patterns, and the interweavings of colors that would become epoch-making and symbols of Art Deco. Think, for example, of Dragonfly with its well-delineated dragonfly wings, Fruit decorated with spring and summer flowers, or Poppy, Peony, and Wisteria, still appreciated and pleasingly relevant today. Wonderful Wisteria, with the play of shades of blue and yellow, so much so as to form a joyous cascade of light, of which 123 examples were made, all strictly by hand, using about 2,000 (you read that right) pieces of glass for each. In 1906 it sold for $400. This was not classy craftsmanship - this is called art.

Dragonfly lamp, circa 1900

Let us now try to provide a few more details about the technique adopted, which Tiffany initially used to create large stained-glass windows for churches, palaces, museums and interior furnishings. First of all, one needs the glass, which belongs to a variety of types according to the shades one wants to achieve, the color combinations, and the effects of light and transparency. One can use opalescent glass, which is very common in lamps, favrile (patented by Tiffany) which results in iridescence, marbled, fractured, mottled, pleated, and streaked. The individual pieces, more or less large, are usually bonded together with tin, which is silvery in color, an easily malleable metal that does not oxidize and resists corrosion well, thus forming the actual mosaic. The original bases were almost always made of bronze, especially when it came to table lamps.

Woodbine Table Lamp, The Cleveland Museum of Art

Various companies today pride themselves on following the approach given by the founder and her skilled workers. However, the assembly, which requires many hours of manual labor, has often been transferred to emerging countries to lower costs, China in particular, where the staff is assured to have been specially trained. One difference from the past is due to the total elimination of lead in the soldering, as well as mercury. Now only copper and tin wires are used, and, for more solid and sturdy bases, a metal material dyed the color of bronze and somewhat equivalent is preferred, at least that’s how it’s advertised. Of course, original pieces can still be found on the market, but they can cost up to 100 thousand euros at auction. On the Internet we have found prices that exceed a thousand euros, while modern lamps can be bought for decidedly affordable amounts: from 30 to 400 euros, although the quality remains to be verified. Those who want to, however, can enjoy in their own homes some of the beauty that Clara helped to create.

 

Suzanne de Court
Barbara Belotti

Giulia Tassi

 

L’arte della smaltatura è un’arte antica, antichissima, che affonda le sue origini nel bacino del Mediterraneo del II millennio a. C., tra Micene e Cipro.

Carta-nautica-di- cartografo portoghese Diogo-Homem1570

Manifestazione del potere di imperatori e imperatrici, re, regine e condottieri, è stata anche espressione dell’autorità religiosa sia in Oriente, con Bisanzio, che in Occidente, spesso utilizzata in modo complementare nell’oreficeria. Principali vie di diffusione degli smalti sono state le rotte dei traffici commerciali, ma anche quelle delle invasioni e delle conquiste militari, in un intreccio di ricchezza e avidità, sangue e bellezza che spesso costituisce una parte importante della storia dell’arte. L’Europa è stata una delle culle della lavorazione degli smalti, con diversi centri regionali come l’area renana vicino alla città di Colonia, la zona intorno a Liegi, dove fiorì la scuola mosana, e il territorio di Limonges. Chissà quante donne avranno lavorato con gusto e precisione i preziosi oggetti destinati a corti e cattedrali, creatrici raffinate ma sconosciute: se spesso gli artisti delle arti cosiddette minori restano protagonisti senza nome, per le artiste questa legge vale ancora di più. Una di loro però è riuscita a uscire dalle pieghe della storia della smaltatura, a divenire talmente importante e famosa da essere ricordata. Il suo nome è Suzanne de Court, di professione pittrice di smalti, attiva tra il XVI e il XVII secolo.

Cofanetto con scene della genesi primo quarto del XVII secolo, Metropolitan Museum

Poche le notizie biografiche. Si pensa che sia stata figlia di Jean, anch’egli pittore di smalti e discendente di una genia di artisti proprietari per molte generazioni di un’efficiente bottega di Limonges, nella Francia sud-occidentale. Proprio perché figlia d’arte, Suzanne avrebbe avuto modo di conoscere in casa i materiali e la tecnica. In altro modo non sarebbe stato possibile: mai una ragazza sarebbe potuta andare in un laboratorio ad apprendere l’arte da un maestro, mai sarebbe stata libera di sedersi con gli altri apprendisti su uno sgabello della bottega, mai avrebbe potuto misurarsi con gli strumenti del mestiere; mai, in seguito, sarebbe potuta diventare artista-artigiana indipendente, guidare una propria bottega con maestranze per lo più maschili, acquistare materiali, confrontarsi con la committenza, ricevere pagamenti. Al contrario, se si apparteneva a una dinastia artistica, la carriera si apriva anche per una donna che poteva raggiungere, non senza difficoltà, pregiudizi e discriminazioni, successo e benessere economico. Questo è quanto sembra essere accaduto a Suzanne de Court, che dal padre Jean avrebbe ereditato lavoro e laboratorio insieme ai fratelli.

Suzanne de Court, San Marco, Medaglione o retro di specchio, smalto dipinto su rame parzialmente dorato, primo quarto del XVII secolo, New York, Metropolitan Museum of Art

Esiste una seconda ipotesi, che Suzanne abbia preso il cognome de Court per matrimonio; in questo caso si dovrebbe supporre che anche la sua famiglia d’origine avesse a che fare con il mondo dell’arte della smaltatura e che, all’interno di quei legami familiari, fosse avvenuta la sua formazione artistica e tecnica. Gli studi e le ricerche di settore hanno individuato tra il 1575 e il 1625 il periodo in cui sarebbe stata attiva, il suo nominativo è pressoché solitario in mezzo a quelli di tanti uomini. La figura di Suzanne, scomparsi o non ancora rinvenuti altri documenti su di lei, è stata identificata anche grazie alla firma apposta su alcune creazioni, come il piatto raffigurante Apollo sul Monte Elicona con le Muse appartenuto alla collezione Waddesdon Besquet che il barone Ferdinand Anselm de Rothschild lasciò al British Museum di Londra alla fine dell’Ottocento. Il nome Susanne Court appare chiaramente leggibile sulla superficie blu del piatto, racchiusa in una elegante cornice dorata.

La firma di Suzanne de Court sul piatto Apollo sul Monte Elicona con le Muse, 1600 ca., collezione Waddesdon Besquet, Londra, British Museum

Si tratta di una creazione di carattere mitologico, tratta da una stampa dell’incisore mantovano Giorgio Ghisi (1520-1582):

Suzanne de Court, Apollo sul Monte Elicona con le Muse, smalto dipinto su rame, 1600 ca., collezione Waddesdon Besquet, Londra, British Museum

Apollo, in alto e al centro, domina la scena suddivisa in due parti dal serpentino corso d’acqua; a sinistra e a destra si distribuiscono le nove Muse intente a suonare, guidate dal dio alle prese con un liuto e non con la più tradizionale cetra. Emerge la cifra stilistica della pittrice: l’uso dei colori blu e verde stesi in numerose varianti tonali, i riflessi bianchi per gli incarnati delle figure rese vivaci non solo attraverso la sicura ed elegante tecnica pittorica, ma anche grazie all’attenzione rivolta ai tratti delle fisionomie, come testimoniano numerose altre opere.

Suzanne de Court, San Giovanni Battista, particolare della tazza in smalto dipinto su rame parzialmente dorato, primo quarto del XVII secolo, coll. privata

Spesso Suzanne de Court si è lasciata ispirare dal mondo mitologico e dalla cultura classica, lo dimostrano alcuni pezzi conservati nella Waddesdon Mannor, come gli specchi raffiguranti Giunone con le Furie di fronte a Cerbero di guardia all’ingresso degli inferi; Minerva sul monte Elicona con le Muse; Orfeo che incanta gli animali con la cetra, temi ispirati da stampe cinquecentesche di Bernard Salomon presenti nel libro La Métamorphose d’Ovide figurée pubblicato alla metà del Cinquecento. Nella stessa istituzione museale Waddesdon Mannor sono conservate due lastre rettangolari dedicate alla vita di Cristo con la Natività e l’Annunciazione.

Suzanne de Court, Orfeo incanta gli animali, Medaglione o retro di specchio, smalto dipinto su rame parzialmente dorato, 1600 ca., Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

Suzanne de Court, Annunciazione (part.), 1600 ca., smalto dipinto su rame, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

In quest’ultima scena, alla base dell’inginocchiatoio sul quale si trova Maria, compare ancora una volta la firma Susanne Court F., dove la “f”, per fecit, indica la cognizione del proprio agire artistico. Forse la pittrice era anche consapevole che la sola maestria non sarebbe bastata a renderla immortale, che la firma sulla superficie delle sue creazioni avrebbe potuto salvarla dall’oblio: più volte infatti ha voluto testimoniare il suo nome sulle opere, in alcuni casi in modo esteso, altre volte con le sole iniziali. Forse prefigurava la repentina sospensione dal ricordo nel suo destino di donna artista.

Suzanne de Court, Annunciazione, 1600 ca., smalto dipinto su rame, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

La firma di Suzanne de Court sul cofanetto con storie della Genesi, primo quarto del XVII secolo, New York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court sembra aver avuto un proprio spazio sociale ed essere stata interprete del gusto raffinato di molti (e probabilmente anche molte) committenti di rango, che potevano permettersi oggetti di devozione o di uso comune ‒ come saliere, specchi, casse per orologi ‒ impreziositi da quella mano inconfondibile e brillante;

Suzanne de Court, Cassa per orologio, ottone con placche di smalto dipinto su rame e finimenti in argento, primo quarto del XVII secolo, New York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court, Orologio, ottone con placche di smalto dipinto su rame e finimenti in argento, primo quarto del XVII secolo, New York, Metropolitan Museum of Art

successivamente le sue creazioni hanno attirato l’attenzione di collezionisti e collezioniste d’arte, come la baronessa Alice de Rothschild, che amarono arricchire le loro raccolte coi suoi capolavori di smalto.

Alice Charlotte de Rothschild (1847-1922)

Ora le opere di Suzanne de Court sono conservate in molti musei europei e statunitensi come, solo per citarne alcuni, il British Museum, il Metropolitan Museum of Art e la Frick Collection di New York, il Walters Arts Museum di Baltimora.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

L'art de l'émaillage est une pratique ancienne, très ancienne, qui plonge ses racines dans le bassin méditerranéen du IIe millénaire av. J.-C., entre Mycènes et Chypre.

Carte nautique du cartographe portugais Diogo Homem, 1570

Manifestation du pouvoir des empereurs et impératrices, rois, reines et chefs militaires, elle a également été l'expression de l'autorité religieuse tant en Orient, avec Byzance, qu'en Occident, souvent utilisée de manière complémentaire dans l'orfèvrerie. Les principales voies de diffusion des émaux ont été les routes commerciales, mais aussi celles des invasions et des conquêtes militaires, dans un enchevêtrement de richesse et d'avidité, de sang et de beauté qui constitue souvent une part importante de l'histoire de l'art. L'Europe a été l'un des berceaux du travail de l'émail, avec plusieurs centres régionaux comme la région rhénane près de la ville de Cologne, la zone autour de Liège, où a prospéré l'école mosane, et le territoire de Limoges. Combien de femmes ont travaillé avec goût et précision sur les précieux objets destinés aux cours et aux cathédrales, créatrices raffinées mais inconnues : si souvent les artistes des arts dits mineurs restent des protagonistes sans nom, pour les femmes artistes cette règle est encore plus valable. L'une d'elles, cependant, a réussi à sortir des plis de l'histoire de l'émaillage, à devenir si importante et célèbre qu'elle est encore rappelée. Son nom est Suzanne de Court, de profession peintre d'émaux, active entre le XVIe et le XVIIe siècle.

Suzanne de Court, Coffret avec scènes de la Genèse, émail peint sur cuivre, partiellement doré et montures en argent, premier quart du XVIIe siècle, New York, Metropolitan Museum of Art

Les informations biographiques sont rares. On pense qu'elle était la fille de Jean, lui aussi peintre d'émaux et descendant d'une lignée d'artistes propriétaires pendant de nombreuses générations d'un atelier efficace à Limoges, dans le sud-ouest de la France. Justement parce qu'elle était fille d'artiste, Suzanne aurait eu l'occasion de connaître à la maison les matériaux et la technique. Autrement, cela n'aurait pas été possible : jamais une jeune fille n'aurait pu aller dans un atelier pour apprendre l'art d'un maître, jamais elle n'aurait été libre de s'asseoir avec les autres apprentis sur un tabouret de l'atelier, jamais elle n'aurait pu se mesurer aux outils du métier ; jamais, par la suite, elle n'aurait pu devenir une artiste-artisane indépendante, diriger son propre atelier avec des ouvriers principalement masculins, acheter des matériaux, se confronter à la clientèle, recevoir des paiements. Au contraire, si l'on appartenait à une dynastie artistique, la carrière s'ouvrait aussi pour une femme qui pouvait atteindre, non sans difficultés, préjugés et discriminations, succès et bien-être économique. C'est ce qui semble être arrivé à Suzanne de Court, qui aurait hérité du travail et de l'atelier de son père Jean avec ses frères.

Suzanne de Court, Saint Marc, Médaillon ou dos de miroir, émail peint sur cuivre partiellement doré, premier quart du XVIIe siècle, New York, Metropolitan Museum of Art

Il existe une seconde hypothèse, selon laquelle Suzanne aurait pris le nom de famille de Court par mariage ; dans ce cas, on devrait supposer que sa famille d'origine avait également un lien avec le monde de l'art de l'émaillage et que, au sein de ces liens familiaux, sa formation artistique et technique aurait eu lieu. Les études et recherches du secteur ont identifié la période entre 1575 et 1625 comme celle où elle aurait été active, son nom étant pratiquement solitaire au milieu de ceux de nombreux hommes. La figure de Suzanne, d'autres documents sur elle ayant disparu ou n'ayant pas encore été retrouvés, a été identifiée également grâce à la signature apposée sur certaines créations, comme l'assiette représentant Apollon sur le mont Hélicon avec les Muses ayant appartenu à la collection Waddesdon Besquet que le baron Ferdinand Anselm de Rothschild a laissée au British Museum de Londres à la fin du XIXe siècle. Le nom Susanne Court apparaît clairement lisible sur la surface bleue de l'assiette, encadré dans un élégant cadre doré.

La signature de Suzanne de Court sur l'assiette Apollon sur le mont Hélicon avec les Muses, vers 1600, collection Waddesdon Besquet, Londres, British Museum

Il s'agit d'une création de caractère mythologique, tirée d'une gravure du graveur mantouan Giorgio Ghisi (1520-1582).

Suzanne de Court, Apollon sur le mont Hélicon avec les Muses, émail peint sur cuivre, vers 1600, collection Waddesdon Besquet, Londres, British Museum

Apollon, en haut et au centre, domine la scène divisée en deux parties par le cours d'eau sinueux ; à gauche et à droite se répartissent les neuf Muses occupées à jouer, guidées par le dieu aux prises avec un luth et non avec la plus traditionnelle cithare. Émerge la signature stylistique de la peintre : l'utilisation des couleurs bleues et vertes appliquées en de nombreuses variantes tonales, les reflets blancs pour les carnations des figures rendues vivantes non seulement grâce à la technique picturale sûre et élégante, mais aussi grâce à l'attention portée aux traits des physionomies, comme en témoignent de nombreuses autres œuvres.

Suzanne de Court, Saint Jean-Baptiste, détail de la coupe en émail peint sur cuivre partiellement doré, premier quart du XVIIe siècle, collection privée

Souvent, Suzanne de Court s'est laissée inspirer par le monde mythologique et la culture classique, comme le montrent certaines pièces conservées à Waddesdon Manor, telles que les miroirs représentant Junon avec les Furies face à Cerbère gardant l'entrée des enfers; Minerve sur le mont Hélicon avec les Muses ; Orphée charmant les animaux avec la cithare, des thèmes inspirés de gravures du XVIe siècle de Bernard Salomon présentes dans le livre La Métamorphose d'Ovide figurée publié au milieu du XVIe siècle. Dans la même institution muséale Waddesdon Manor sont conservées deux plaques rectangulaires dédiées à la vie du Christ avec la Nativité et l'Annonciation.

Suzanne de Court, Orphée charme les animaux, Médaillon ou dos de miroir, émail peint sur cuivre partiellement doré, vers 1600, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

Suzanne de Court, Annonciation (détail) (part.), 1vers 1600, émail peint sur cuivre, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

Dans cette dernière scène, à la base du prie-Dieu sur lequel se trouve Marie, apparaît encore une fois la signature Susanne Court F., où le "f", pour fecit, indique la conscience de son action artistique. Peut-être la peintre était-elle également consciente que seule la maîtrise ne suffirait pas à la rendre immortelle, que la signature sur la surface de ses créations pourrait la sauver de l'oubli : à plusieurs reprises, en effet, elle a voulu témoigner de son nom sur les œuvres, dans certains cas de manière étendue, d'autres fois avec les seules initiales. Peut-être préfigurait-elle la suspension soudaine du souvenir dans son destin de femme artiste.

Suzanne de Court, Annonciation, vers 1600, émail peint sur cuivre, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

La signature de Suzanne de Court sur le coffret avec histoires de la Genèse, premier quart du XVIIe siècle, New York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court semble avoir eu son propre espace social et avoir été l'interprète du goût raffiné de nombreux (et probablement aussi de nombreuses) commanditaires de rang, qui pouvaient se permettre des objets de dévotion ou d'usage courant – comme des salières, des miroirs, des boîtiers pour montres – embellis par cette main inimitable et brillante;

Suzanne de Court, Boîtier pour montre ,aiton avec plaques d'émail peint sur cuivre et garnitures en argent, premier quart du XVIIe siècle, New York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court, Boîtier, Montre, laiton avec plaques d'émail peint sur cuivre et garnitures en argent, premier quart du XVIIe siècle, New York, Metropolitan Museum of Art

 Par la suite, ses créations ont attiré l'attention de collectionneurs et collectionneuses d'art, comme la baronne Alice de Rothschild, qui ont aimé enrichir leurs collections de ses chefs-d'œuvre en émail.

Alice Charlotte de Rothschild (1847-1922)

Aujourd'hui, les œuvres de Suzanne de Court sont conservées dans de nombreux musées européens et américains, tels que, pour n'en citer que quelques-uns, le British Museum, le Metropolitan Museum of Art et la Frick Collection de New York, le Walters Art Museum de Baltimore.


Traduzione spagnola

Maria Carreras Goicoechea

El arte del esmaltado es un arte antiguo, antiquísimo, que hunde sus orígenes en la cuenca del Mediterráneo del segundo milenio a. C., entre Micenas y Chipre.

Carte nautique du cartographe portugais Diogo Homem, 1570

Manifestación del poder de emperadores y emperatrices, reyes, reinas y caudillos, el esmaltado también fue expresión de la autoridad religiosa –tanto en Oriente, con Bizancio, como en Occidente–, y a menudo fue usado de forma complementaria en la orfebrería. Las principales vías de difusión de los esmaltes fueron las rutas del comercio, pero también las de las invasiones y conquistas militares, en un entramado de riqueza y codicia, sangre y belleza que a menudo constituye una parte importante de la historia del arte. Europa fue una de las cunas del trabajo del esmalte, con diversos centros regionales como el área del Rin, cerca de la ciudad de Colonia: la zona en torno a Lieja, donde floreció la escuela mosana, y el territorio de Limoges. Quién sabe cuántas mujeres habrán trabajado con gusto y precisión los objetos preciosos destinados a cortes y catedrales, creadoras refinadas pero desconocidas: si a menudo los artistas de las llamadas artes menores permanecen como protagonistas sin nombre, para las artistas esta ley se cumple aún más. Sin embargo, una de ellas logró salir de los pliegues de la historia del esmaltado, llegando a ser tan importante y famosa como para ser recordada. Su nombre es Suzanne de Court, de profesión pintora de esmaltes, activa entre los siglos XVI y XVII.

Suzanne de Court, Cofre con escenas del Génesis, esmalte pintado sobre cobre, en parte dorado y con monturas de plata, primer cuarto del siglo XVII, Nueva York, Metropolitan Museum of Art

Son escasas las noticias biográficas. Se piensa que fue hija de Jean, también pintor de esmaltes y descendiente de una dinastía de artistas propietarios durante muchas generaciones de un eficiente taller en Limoges, en el suroeste de Francia. Precisamente por ser hija de artistas, Suzanne podría haber tenido la oportunidad de conocer en casa los materiales y la técnica. De otro modo no habría sido posible: jamás una joven hubiera podido acudir a un taller a aprender el arte de un maestro, jamás habría podido sentarse con otros aprendices en un banco del taller, jamás habría podido familiarizarse con las herramientas del oficio; jamás, después, habría podido convertirse en una artista-artesana independiente, dirigir su propio taller con trabajadores en su mayoría hombres, comprar materiales, tratar con la clientela, recibir pagos. En cambio, si se pertenecía a una dinastía artística, la carrera se abría también para una mujer, que podía alcanzar, no sin dificultades, prejuicios y discriminaciones, el éxito y el bienestar económico. Esto es lo que parece haber ocurrido con Suzanne de Court, quien se supone que geredó de su padre Jean el trabajo y el taller junto con sus hermanos.

Suzanne de Court, San Marcos, Medallón o reverso de espejo, esmalte pintado sobre cobre parcialmente dorado, primer cuarto del siglo XVII, Nueva York, Metropolitan Museum of Art

Existe una segunda hipótesis, que Suzanne adoptara el apellido de Court con el matrimonio; en tal caso, se debería suponer que también su familia de origen tenía relación con el mundo del arte del esmaltado y que dentro de esos lazos familiares se produjo su formación artística y técnica. Los estudios e investigaciones del sector han identificado entre 1575 y 1625 el período en el que debió ser activa; su nombre aparece prácticamente solo entre tantos hombres. La figura de Suzanne, desaparecidos o inéditos otros documentos sobre ella, ha sido identificada también gracias a la firma estampada en algunas de sus creaciones, como el plato que representa a Apolo en el monte Helicón con las Musas, perteneciente a la colección Waddesdon Besquet que el barón Ferdinand Anselm de Rothschild legó al British Museum de Londres a finales del siglo XIX. El nombre Susanne Court se puede leer claramente en la superficie azul del plato, enmarcado elegantemente en dorado.

La firma de Suzanne de Court en el plato Apolo en el monte Helicón con las Musas, ca. 1600, colección Waddesdon Besquet, Londres, British Museum

Se trata de una creación de carácter mitológico, tomada de un grabado del artista mantuano Giorgio Ghisi (1520-1582)

Suzanne de Court, Apolo en el monte Helicón con las Musas, esmalte pintado sobre cobre, ca. 1600, colección Waddesdon Besquet, Londres, British Museum

Apolo, en la parte superior y central, domina la escena dividida en dos partes por un serpenteante curso de agua; a la izquierda y derecha se distribuyen las nueve Musas tocando instrumentos, guiadas por el dios con un laúd en lugar de la más tradicional cítara. Emerge el sello estilístico de la pintora: el uso de los colores azul y verde aplicados en múltiples tonalidades, los reflejos blancos en los rostros de las figuras, animadas no solo a través de una técnica pictórica segura y elegante, sino también gracias a la atención prestada a los rasgos de las fisonomías, como lo demuestran numerosas otras obras:

Suzanne de Court, San Juan Bautista, detalle de la taza en esmalte pintado sobre cobre parcialmente dorado, primer cuarto del siglo XVII, colección privada

A menudo Suzanne de Court se inspiró en el mundo mitológico y en la cultura clásica, como demuestran algunas piezas conservadas en Waddesdon Manor, como los espejos que representan a Juno con las Furias frente a Cerbero guardando la entrada del inframundo; Minerva en el monte Helicón con las Musas; Orfeo encantando a los animales con la cítara; temas inspirados en grabados del siglo XVI de Bernard Salomon presentes en el volumen La Métamorphose d’Ovide figurée publicado a mediados del siglo XVI. En la misma institución museística Waddesdon Manor se conservan dos placas rectangulares dedicadas a la vida de Cristo con la Natividad y la Anunciación.

Suzanne de Court, Orfeo encanta a los animales, Medallón o reverso de espejo, esmalte pintado sobre cobre parcialmente dorado, ca. 1600, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

Suzanne de Court, Anunciación (detalle) ca. 1600, esmalte pintado sobre cobre, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

En esta última escena, en la base del reclinatorio sobre el que se encuentra María, aparece una vez más la firma Susanne Court F., donde la "f", de fecit, indica la conciencia de su propio hacer artístico. Tal vez la pintora también era consciente de que solo la maestría no era suficiente para hacerla inmortal, y de que la firma en la superficie de sus creaciones podría salvarla del olvido: de hecho, en varias ocasiones quiso dejar testimonio de su nombre en las obras, a veces de forma completa, otras solo con iniciales. Quizás presentía que su destino de mujer artista conllevaba una rápida desaparición del recuerdo.

Suzanne de Court, Anunciación, ca. 1600, esmalte pintado sobre cobre, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

La firma de Suzanne de Court en el cofre con historias del Génesis, primer cuarto del siglo XVII, Nueva York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court parece haber tenido su propio espacio social y haber sido intérprete del gusto refinado de muchos (y probablemente también muchas) comitentes de alto rango, que podían permitirse objetos de devoción o de uso común –como saleros, espejos, cajas para relojes– embellecidos con esa mano inconfundible y brillante;

Suzanne de Court, Caja para reloj, latón con placas de esmalte pintado sobre cobre y adornos de plata, primer cuarto del siglo XVII, Nueva York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court, Reloj, latón con placas de esmalte pintado sobre cobre y adornos de plata, primer cuarto del siglo XVII, Nueva York, Metropolitan Museum of Art

posteriormente sus creaciones atrajeron la atención de coleccionistas de arte, como la baronesa Alice de Rothschild, que amaron enriquecer sus colecciones con sus obras maestras en esmalte.

Alice Charlotte de Rothschild (1847-1922)

Hoy las obras de Suzanne de Court se conservan en muchos museos europeos y estadounidenses como, para citar solo algunos, el British Museum, el Metropolitan Museum of Art, y la Frick Collection de Nueva York y el Walters Arts Museum de Baltimore.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

The art of enameling is an ancient, very ancient, art that has its origins in the Mediterranean basin of the 2nd millennium B.C., between Mycenae and Cyprus.

Nautical chart by Portuguese cartographer Diogo Homem, 1570

A manifestation of the power of emperors and empresses, kings, queens and leaders, it was also an expression of religious authority both in the East, with Byzantium, and in the West, often used in complementary ways in goldsmithing. The main routes for the spread of enamels were the trade routes, but also those of invasions and military conquests, in an interweaving of wealth and greed, blood and beauty that often forms an important part of art history. Europe was one of the cradles of enamel work, with several regional centers such as the Rhineland area near the city of Cologne, the area around Liège, where the Mosan school flourished, and the Limonges area. Who knows how many women will have worked, with taste and precision, the precious objects destined for courts and cathedrals, refined but unknown creators: if artists in the so-called minor arts often remain nameless protagonists, for women artists this law applies even more. One of them, however, managed to get out of the folds of enameling history, to become so important and famous that she is remembered. Her name is Suzanne de Court, an enamel painter by profession, active between the 16th and 17th centuries.

Casket with scenes from Genesis, enamel painted on copper, partly gilded and silver mounts, first quarter of the 17th century, New York, Metropolitan Museum of Art

Biographical information is scarce. She is thought to have been the daughter of Jean, also an enamel painter and a descendant of a line of artists who owned a productive workshop in Limonges, southwestern France, for many generations. Precisely because she was a child of art, Suzanne would have been familiar with the materials and technique at home. Otherwise it would not have been possible: never would a girl have been able to go to a workshop and learn the art from a master, never would she have been free to sit with other apprentices on a workshop stool, never would she have been able to measure herself with the tools of the trade. Never, later, would she have been able to become an independent artist-craftswoman, run her own workshop with mostly male workers, buy materials, deal with clients, and receive payments. Conversely, if one belonged to an artistic dynasty, the career also opened up for a woman who could achieve, not without difficulty, prejudice and discrimination, success and economic well-being. This is what seems to have happened to Suzanne de Court, who would inherit work and a workshop from her father Jean along with her brothers.

Suzanne de Court, St. Mark, Medallion or back of mirror, painted enamel on partially gilded copper, first quarter of the 17th century, New York, Metropolitan Museum of Art

There is a second hypothesis, that Suzanne took the surname de Court by marriage; in this case it should be assumed that her family of origin also had something to do with the world of enameling art and that, within those family ties, her artistic and technical training took place. Studies and research in the field have identified 1575 to 1625 as the period in which she would have been active; her name is almost solitary among those of so many men. The figure of Suzanne, who has disappeared or other documents about her have not yet been found, has also been identified through her signature on some creations, such as the plate depicting Apollo on Mount Helicon with the Muses that belonged to the Waddesdon Besquet collection that Baron Ferdinand Anselm de Rothschild left to the British Museum in London at the end of the 19th century. The name Susanne Court appears clearly legible on the blue surface of the plate, enclosed in an elegant gilt frame.

Suzanne de Court's signature on the plate Apollo on Mount Helicon with the Muses, c. 1600, Waddesdon Besquet collection, London, British Museum

This is a mythological creation from a print by Mantuan engraver Giorgio Ghisi (1520-1582)

Suzanne de Court, Apollo on Mount Helicon with the Muses, enamel painted on copper, c. 1600, Waddesdon Besquet collection, London, British Museum

Apollo, top and center, dominates the scene divided into two parts by the serpentine watercourse; to the left and right are distributed the nine Muses intent on playing, led by the god grappling with a lute and not the more traditional zither. The painter's stylistic signature emerges: the use of blue and green colors spread in numerous tonal variations, the white highlights for the flesh tones of the figures made lively not only through the confident and elegant painting technique, but also thanks to the attention paid to the features of the physiognomies, as evidenced by numerous other works.

Suzanne de Court, Saint John the Baptist, detail of enamel cup painted on partially gilded copper, first quarter of the 17th century, private coll.

Suzanne de Court was often inspired by the world of mythology and classical culture, as evidenced by some pieces preserved in the Waddesdon Mannor, such as the mirrors depicting Juno with the Furies facing Cerberus guarding the entrance to the underworld; Minerva on Mount Helicon with the Muses; and Orpheus enchanting animals with a zither, themes inspired by sixteenth-century prints by Bernard Salomon featured in the book La Métamorphose d'Ovide figurée published in the mid-sixteenth century. Two rectangular plates dedicated to the life of Christ with the Nativity and Annunciation are preserved in the same Waddesdon Mannor museum institution.

Suzanne de Court, Orpheus enchants animals, Medallion or mirror back, painted enamel on partially gilded copper, c. 1600, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

Suzanne de Court, Annunciation (part.), c. 1600, painted enamel on copper, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

In the latter scene, at the base of the kneeler on which Mary stands, the signature Susanne Court F. appears again, where the “f,” for fecit, indicates the cognition of one's artistic action. Perhaps the painter was also aware that mastery alone would not be enough to make her immortal, that a signature on the surface of her creations might save her from oblivion: in fact, several times she wished to bear witness to her name on the works, in some cases extensively, at other times with only initials. Perhaps it foreshadowed the sudden suspension from memory in her destiny as a woman artist.

Suzanne de Court, Annunciation, 1c. 1600, painted enamel on copper, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

signature on the casket with stories from Genesis, first quarter of the 17th century, New York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court seems to have had her own social space and to have been an interpreter of the refined taste of many (and probably very many) high-ranking patrons, who could afford objects of devotion or common use-such as salt cellars, mirrors, watch cases-embellished by that unmistakable and brilliant hand

Suzanne de Court, Clock case, brass with enamel plates painted on copper and silver finials, first quarter of the 17th century, New York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court, Clock, brass with enamel plates painted on copper and silver finials, first quarter of the 17th century, New York, Metropolitan Museum of Art

Later her creations attracted the attention of collectors and art collectors, such as Baroness Alice de Rothschild, who loved to enrich their collections with her enamel masterpieces

Alice Charlotte de Rothschild (1847-1922)

Now Suzanne de Court's works are held in many European and U.S. museums such as, to name a few, the British Museum, the Metropolitan Museum of Art and the Frick Collection in New York, and the Walters Arts Museum in Baltimore.

 

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