Ladi Kwali
Laura Candiani

Caori Murata

 

 Ladi era nata nel 1925 e morì il 12 agosto 1984 a Minna, in Nigeria. Il suo destino fu segnato dal luogo di nascita, infatti il villaggio di Kwali, situato nella regione di Gwari, tradizionalmente ha sempre assegnato alle donne la lavorazione della ceramica, quindi fin da bambina imparò a creare vasellame per uso domestico grazie alla tecnica antichissima dell'avvolgimento, diffusa sia in Africa sia in Grecia, in Cina e nel New Mexico, che non necessita del tornio, ma è interamente manuale. Si gira infatti una sottile striscia tubolare e si modella sbattendola dall'interno con una paletta di legno. Le piaceva poi abbellire ciotole, vasi, recipienti per l'acqua, pentole con disegni geometrici e figure stilizzate di animali, fra cui serpenti, scorpioni, coccodrilli, camaleonti, pesci. Il suo era uno stile personale e originale, perfettamente simmetrico, a dimostrazione di una mentalità logico-matematica. Secondo le testimonianze dei familiari e del fratello minore, eccelleva davvero in quest'arte tanto che talvolta i suoi lavori venivano venduti prima ancora di essere realizzati.

Gradualmente le opere vennero sempre più apprezzate e alcune furono acquistate dall'emiro della capitale Abuja, nella cui abitazione furono notate nel 1950 da Michael Ambrose Cardew, un inglese studioso di ceramica che visse in Africa una ventina di anni, incaricato dal suo Paese di occuparsi proprio del commercio e dell'industria del settore. Nella capitale, all'epoca chiamata ancora Suleja, aveva stabilito il centro della lavorazione della ceramica tradizionale e lì entrò nel 1954 Ladi, prima donna a venire ammessa. Con il tempo imparò a usare il tornio e tecniche per lei nuove come la smaltatura, la cottura in forno, la protezione dei pezzi fragili con l'utilizzo di appositi contenitori, avendo spesso ruoli di istruttrice per gli altri lavoranti (al momento tutti uomini). Cominciò pure a utilizzare inedite forme di "sgraffio" per decorare vasi, tingendo di rosso o di bianco la superficie per poi graffiarla per far emergere la tinta sottostante, utilizzando aculei di porcospino. Quando Cardew lasciò l'incarico, nel 1965, al centro affluirono altre quattro donne provenienti da Gwari: Halima Audu, Lami Toto, Assibi Iddo e Kande Ushafa. Il gruppo lavorò in una sorta di bottega artistica che chiamarono Dakin Gwari (la stanza di Gwari) per realizzare a mano grandi contenitori per l'acqua. Modellavano e raschiavano l'interno con un guscio di lumaca, o un baccello duro, oppure la buccia di una zucca. Utilizzavano i motivi decorativi tradizionali, che graffiavano e poi riempivano con minuscole striscioline bianche, e spesso rendevano lucida la superficie con il celadonio, mentre si servivano di contrasti fra colori come il verde chiaro e il verde scuro, oppure il rosso ferro applicato ad alta temperatura. Si può dire dunque che queste tecniche erano un connubio fra i metodi tradizionali del loro popolo e del luogo di origine e le moderne applicazioni provenienti dall'occidente europeo. Le opere risultanti agli occhi del pubblico inglese e continentale erano simbolo e metafora del continente africano.

Ladi continuava con la consueta originalità ornando i vasi sia con disegni verticali sia con fasce in orizzontale, sia con figure che con elementi geometrici, per i quali si serviva di legnetti dentellati o di rotolini di spago che faceva ruotare sulla superficie, seguendo metodi risalenti alla lontanissima età neolitica. Anche la cottura era eseguita in modi tradizionali, utilizzando un forno con legna secca.

Ben presto si capì che questi oggetti non erano solo utili e belli, ma erano vere e proprie opere d'arte che vennero esposte nella capitale in varie mostre, quelle del 1958, 1959, 1962, organizzate da Cardew. Nel 1961 Kwali fu invitata in Gran Bretagna e dette dimostrazione pratica del suo metodo al Royal College, a Farnham, e a Wenford Bridge; si spostò poi in Francia e in Germania dove realizzò pubblicamente alcune opere. Una mostra dei suoi lavori, che riscosse grandi apprezzamenti, fu organizzata a Londra, alle Gallerie Berkeley, all'interno del British Museum. Nel 1963 ebbe l'onore di venire nominata Membro dell'Ordine dell'Impero Britannico. Nel 1972 andò con Cardew negli Usa dove venne riconosciuta la sua straordinaria capacità creativa. Nel 1977 ricevette la laurea ad honorem dall'Università di Zaria, in Nigeria. Tre anni dopo il governo del suo Paese le attribuì l'Ordine al merito (Nnom) e, nel 1981, divenne anche Ufficiale al merito del Niger (Oon). La sua immagine compare su una banconota nigeriana da 20 naira e la via principale della capitale le è stata intitolata. All'interno dell'Hotel Sheraton il centro congressi, dotato di dieci sale per convegni e cinque sale da ballo, ha preso il suo nome e lì vengono organizzati eventi di grande rilievo e conferenze. A partire dagli anni Ottanta per definire le ceramiche di Abuja si dice semplicemente "Ladi Kwali Pottery".

Il 16 marzo 2022 Google le ha dedicato il doodle del giorno. Quello stesso anno, a Londra, si tenne una importante mostra al Two Temple Place (detto anche Astor House) consistente in lavori realizzati da ceramiste di colore per fare il punto sull'arte femminile degli ultimi 70 anni; il titolo era: Body Vessel Clay, Black Women, Ceramics and Contemporary Art; fra queste naturalmente era presente la produzione di Ladi Kwali. Oggi alcuni suoi pezzi unici si trovano presso importanti musei: il Victoria and Albert Museum, a Londra, lo Smithsonian National Museum of African Art, a Washington, la galleria dell'Università di Aberystwyth, in Gran Bretagna.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

Ladi était née en 1925 et elle est morte le 12 août 1984 à Minna, au Nigeria. Son destin a été marqué par son lieu de naissance : en effet, le village de Kwali, situé dans la région de Gwari, a toujours attribué aux femmes la tâche de travailler la céramique. Ainsi, dès son enfance, elle a appris à créer de la vaisselle pour un usage domestique grâce à l’ancienne technique de l’enroulement, répandue en Afrique, mais aussi en Grèce, en Chine et au Nouveau-Mexique. Cette technique ne nécessite pas l’usage du tour de potier, car elle est entièrement manuelle. On forme en effet une fine bande tubulaire que l’on modèle en la frappant de l’intérieur à l’aide d’une palette en bois. Elle aimait ensuite décorer bols, vases, récipients pour l’eau et casseroles avec des motifs géométriques et des figures stylisées d’animaux, tels que des serpents, des scorpions, des crocodiles, des caméléons ou encore des poissons. Son style était personnel et original, parfaitement symétrique, ce qui témoignait d’un esprit logique et mathématique. Selon les témoignages de sa famille et de son frère cadet, elle excellait vraiment dans cet art, à tel point que parfois ses œuvres étaient vendues avant même d’être réalisées.

Peu à peu, ses pièces ont été de plus en plus appréciées, et certaines ont été achetées par l’émir de la capitale Abuja. C’est dans sa résidence qu’elles ont été remarquées, en 1950, par Michael Ambrose Cardew, un céramiste britannique qui a vécu en Afrique pendant une vingtaine d’années. Il avait été chargé par son pays de s’occuper du commerce et de l’industrie liés à la céramique. Dans la capitale, appelée encore Suleja à l’époque, il avait fondé un centre de production de céramique traditionnelle. C’est là que Ladi a été admise en 1954, devenant la première femme à intégrer le centre. Avec le temps, elle a appris à utiliser le tour et à découvrir des techniques nouvelles pour elle, telles que l’émaillage, la cuisson au four, ou encore la protection des pièces fragiles grâce à des contenants spécifiques. Elle a souvent occupé des rôles d’instructrice pour les autres artisans, qui étaient alors tous des hommes. Elle a aussi commencé à utiliser des formes inédites de sgraffito pour décorer les vases, en teignant la surface en rouge ou en blanc, puis en la grattant pour faire ressortir la couleur inférieure, à l’aide de piquants de porc-épic. Lorsque Cardew a quitté ses fonctions en 1965, quatre autres femmes originaires de Gwari sont arrivées au centre : Halima Audu, Lami Toto, Assibi Iddo et Kande Ushafa. Le groupe a travaillé dans une sorte d’atelier artistique qu’elles ont appelé Dakin Gwari (la chambre de Gwari), pour fabriquer à la main de grands récipients à eau. Elles modelaient et grattaient l’intérieur à l’aide d’une coquille d’escargot, d’une gousse dure ou de la peau d’une calebasse. Elles utilisaient les motifs décoratifs traditionnels, qu’elles gravaient avant de les remplir de minuscules bandes blanches, et elles rendaient souvent la surface brillante avec du céladon, en jouant sur des contrastes de couleurs comme le vert clair et le vert foncé, ou bien le rouge ferrique appliqué à haute température. On peut donc dire que ces techniques représentaient un mélange entre les méthodes traditionnelles de leur peuple et de leur région d’origine, et les apports modernes venus d’Europe occidentale. Aux yeux du public anglais et européen, les œuvres produites étaient perçues comme un symbole et une métaphore du continent africain

Ladi poursuivait son travail avec son originalité habituelle, en décorant les vases aussi bien avec des motifs verticaux qu’avec des bandes horizontales, des figures ou des éléments géométriques. Pour cela, elle utilisait de petits bâtons dentelés ou des rouleaux de ficelle qu’elle faisait tourner sur la surface, en suivant des techniques remontant à l’époque néolithique. La cuisson se faisait également selon des méthodes traditionnelles, à l’aide d’un four alimenté avec du bois sec.

Très rapidement, on a compris que ces objets n’étaient pas seulement utiles et esthétiques, mais qu’ils constituaient de véritables œuvres d’art. Ils ont été exposés dans la capitale lors de plusieurs expositions, en 1958, 1959 et 1962, organisées par Cardew. En 1961, Kwali a été invitée au Royaume-Uni, où elle a fait une démonstration pratique de sa méthode au Royal College, à Farnham, ainsi qu’à Wenford Bridge. Elle s’est ensuite rendue en France et en Allemagne, où elle a réalisé certaines œuvres en public. Une exposition de ses œuvres, qui a rencontré un grand succès, a été organisée à Londres, aux galeries Berkeley, au sein du British Museum. En 1963, elle a eu l’honneur d’être nommée Membre de l’Ordre de l’Empire britannique. En 1972, elle est partie avec Cardew aux États-Unis, où son talent créatif exceptionnel a été reconnu. En 1977, elle a reçu un doctorat honorifique de l’Université de Zaria, au Nigeria. Trois ans plus tard, le gouvernement nigérian lui a décerné l’Ordre du Mérite national (NNOM), et en 1981, elle est devenue également Officière de l’Ordre du Niger (OON). Son portrait figure sur un billet nigérian de 20 nairas, et l’avenue principale de la capitale porte désormais son nom. À l’intérieur de l’hôtel Sheraton, le centre de conférences – doté de dix salles de réunion et de cinq salles de bal – a été baptisé en son honneur ; il accueille régulièrement des événements majeurs et des conférences de haut niveau. Depuis les années 1980, lorsqu’on parle de la céramique d’Abuja, on utilise simplement l’expression «Ladi Kwali Pottery».

Le 16 mars 2022, Google lui a consacré le Doodle du jour. La même année, une grande exposition s’est tenue à Londres, au Two Temple Place (aussi appelé Astor House). Elle présentait des œuvres réalisées par des céramistes noires, dans le but de faire le point sur l’art féminin des soixante-dix dernières années. L’exposition s’intitulait Body Vessel Clay, Black Women, Ceramics and Contemporary Art. Parmi les artistes représentées, la production de Ladi Kwali occupait naturellement une place importante. Aujourd’hui, certaines de ses pièces uniques sont conservées dans des musées prestigieux : le Victoria and Albert Museum à Londres, le Smithsonian National Museum of African Art à Washington, et la galerie de l’Université d’Aberystwyth au Royaume-Uni.


Traduzione spagnola

Laura Cavallaro

Ladi nació en 1925 y falleció el 12 de agosto de 1984 en Minna, Nigeria. Su destino estuvo marcado por su lugar de nacimiento, ya que el pueblo de Kwali, situado en la región de Gwari, ha asignado tradicionalmente a las mujeres la elaboración de la cerámica. Por ello, desde niña aprendió a crear vajilla para uso doméstico mediante la antiquísima técnica del enrollado, difundida tanto en África como en Grecia, China y Nuevo México, que no requiere torno, sino que es completamente manual. Consiste en formar una tira tubular delgada que se moldea golpeándola desde el interior con una paleta de madera. Le gustaba embellecer cuencos, jarras, recipientes para agua y ollas con diseños geométricos y figuras estilizadas de animales como serpientes, escorpiones, cocodrilos, camaleones y peces. Su estilo era personal y original, perfectamente simétrico, reflejo de una mentalidad lógico-matemática. Según testimonios de familiares y de su hermano menor, destacaba verdaderamente en este arte, tanto que a veces sus obras se vendían antes incluso de estar acabadas.

Poco a poco, sus piezas fueron cada vez más valoradas y algunas fueron adquiridas por el emir de la capital, Abuya. En su residencia las vio, en 1950, Michael Ambrose Cardew, un británico experto en cerámica que vivió unos veinte años en África, encargado por su país de supervisar el comercio y la industria del sector. En la capital, que entonces aún se llamaba Suleja, había establecido un centro de trabajo de cerámica tradicional, al cual ingresó Ladi en 1954, convirtiéndose en la primera mujer admitida. Con el tiempo, aprendió a usar el torno y técnicas nuevas para ella, como el esmaltado, la cocción en horno o la protección de piezas frágiles mediante recipientes especiales y a menudo desempeñaba el papel de instructora para los demás trabajadores (que en ese momento eran todos hombres). También comenzó a aplicar técnicas inéditas de “esgrafiado” para decorar jarras, tiñendo la superficie de rojo o blanco y luego rascándola para revelar el color de fondo, utilizando púas de puercoespín. Cuando Cardew dejó su cargo en 1965, llegaron al centro otras cuatro mujeres procedentes de Gwari: Halima Audu, Lami Toto, Assibi Iddo y Kande Ushafa. El grupo trabajó en una especie de taller artístico que llamaron Dakin Gwari (la habitación de Gwari) para realizar a mano grandes recipientes para agua. Modelaban y raspaban el interior con una concha de caracol, una vaina dura o la cáscara de una calabaza. Utilizaban motivos decorativos tradicionales, que grababan y luego rellenaban con finísimas tiras blancas, y a menudo pulían la superficie con calcedonia y también hacían uso de contrastes entre colores como el verde claro y el verde oscuro, o el rojo hierro aplicado a alta temperatura. Se puede decir, por tanto, que estas técnicas eran una fusión entre los métodos tradicionales de su pueblo y lugar de origen, y las aplicaciones modernas procedentes de Europa occidental. Las obras resultantes, a ojos del público británico y europeo continental, eran símbolo y metáfora del continente africano.

Ladi continuaba con su habitual originalidad decorando los jarrones tanto con dibujos verticales como con franjas horizontales, utilizando tanto figuras como elementos geométricos y, para estos últimos, se servía de pequeños palos dentados o de rollitos de cuerda que hacía rodar sobre la superficie, siguiendo métodos que se remontan a la lejana era neolítica. También la cocción se realizaba con métodos tradicionales, usando un horno alimentado con leña seca.

Muy pronto se comprendió que estos objetos no solo eran útiles y bellos, sino verdaderas obras de arte, que fueron expuestas en la capital en varias exposiciones, las de 1958, 1959 y 1962, organizadas por Cardew. En 1961, Kwali fue invitada al Reino Unido, donde ofreció demostraciones prácticas de su método en el Royal College, en Farnham, y en el estudio de Wenford Bridge; posteriormente viajó a Francia y Alemania, donde también realizó obras en público. Una exposición de sus trabajos, que recibió gran reconocimiento, fue organizada en Londres, en las Galerías Berkeley, dentro del Museo Británico. En 1963 tuvo el honor de ser nombrada Miembro de la Orden del Imperio Británico. En 1972 viajó con Cardew a Estados Unidos, donde se reconoció su extraordinaria capacidad creativa. En 1977 recibió el título honoris causa por parte de la Universidad de Zaria, en Nigeria. Tres años después, el gobierno de su país le concedió la Orden al Mérito (Nnom) y, en 1981, también fue nombrada Oficial al Mérito de Níger (Oon). Su imagen aparece en un billete nigeriano de 20 nairas, y la calle principal de la capital lleva su nombre. Dentro del Hotel Sheraton, el centro de congresos, dotado de diez salas de reuniones y cinco salones de baile, ha sido nombrado en su honor, y allí se organizan eventos importantes y conferencias. Desde los años ochenta, para referirse a la cerámica de Abuja, simplemente se dice “Ladi Kwali Pottery”.

El 16 de marzo de 2022, Google le dedicó el doodle del día. Ese mismo año, en Londres, se celebró una importante exposición en el Two Temple Place (también conocido como Astor House), que consistía en obras realizadas por ceramistas negras con el objetivo de reflexionar sobre el arte femenino de los últimos 70 años. El título era: Body Vessel Clay, Black Women, Ceramics and Contemporary Art; entre las artistas representadas, naturalmente, se encontraba Ladi Kwali. Hoy en día, algunas de sus piezas únicas se encuentran en importantes museos: el Victoria and Albert Museum, en Londres; el Smithsonian National Museum of African Art, en Washington; y la galería de la Universidad de Aberystwyth, en el Reino Unido.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Ladi was born in 1925 and died on August 12, 1984, in Minna, Nigeria. Her destiny was marked by her birthplace. The village of Kwali, located in the Gwari region, has traditionally assigned pottery making to women, so from an early age she learned to create pottery for domestic use, using the very ancient technique of coiling, widespread in Africa as well as in Greece, China and New Mexico, which does not require a potter's wheel but is entirely manual. A thin tubular strip is turned and shaped by pressing on it from the inside with a wooden paddle. She then liked to embellish bowls, vases, water vessels, and pots with geometric designs and stylized figures of animals, including snakes, scorpions, crocodiles, chameleons, and fish. This was a personal and original style, perfectly symmetrical, demonstrating a logical/mathematical mindset. According to the accounts of family members and her younger brother, she excelled in this art, so much so that sometimes her works were sold before they were even made.

Gradually her works became more and more appreciated, and some were purchased by the Emir of the capital Abuja, in whose home they were noticed in 1950 by Michael Ambrose Cardew, an English pottery scholar who lived in Africa some 20 years, and who was commissioned by his country to deal with the trade and industry in the field. In the capital, then still called Suleja, he had established a center for traditional pottery making, and there Ladi entered in 1954, the first woman to be admitted. Over time she learned to use the potter's wheel and techniques new to her such as glazing, firing in the kiln, and protecting fragile pieces using special containers, often having roles as an instructor for the other workers (at the time all men). She also began to use novel forms of "scoring" to decorate vases, dyeing the surface red or white and then scratching it to bring out the underlying color, using porcupine quills. When Cardew left his position in 1965, four other women from Gwari joined the center: Halima Audu, Lami Toto, Assibi Iddo and Kande Ushafa. The group worked in a kind of art workshop they called Dakin Gwari (Gwari's room) to make large water containers by hand. They shaped and scraped the inside with a snail shell, or a hard pod, or the skin of a gourd. They used traditional decorative motifs, which they scratched and then filled with tiny white strips, and often made the surface shiny with celadonium, while using contrasts between colors such as light and dark green, or iron red applied at high temperature. Thus, it can be said that these techniques were a combination of the traditional methods of their people and place of origin and modern applications from Western Europe. The resulting works, in the eyes of English and continental audiences, were a symbol and metaphor for the African continent.

Ladi continued with her usual originality by ornamenting the vessels with both vertical designs and horizontally banded figures and geometric elements, for which she made use of notched timbers or rolls of twine that she rotated over the surface, following methods dating back to the very distant Neolithic age. Firing was also done in traditional ways, using a kiln with dry wood.

It was soon realized that these objects were not only useful and beautiful, but were true works of art, displayed in the capital in various exhibitions, including those of 1958, 1959, 1962, organized by Cardew. In 1961 Kwali was invited to Britain and gave practical demonstrations of her method at the Royal College, Farnham, and Wenford Bridge. She then moved on to France and Germany where she publicly produced a number of works. An exhibition of her work, which was highly praised, was organized in London, at the Berkeley Galleries, inside the British Museum. In 1963 she had the honor of being made a Member of the Order of the British Empire. In 1972 she went with Cardew to the U.S. where her extraordinary creative ability was recognized. In 1977 she received an honorary degree from the University of Zaria, Nigeria. Three years later her country's government awarded her the Order of Merit (Nnom) and, in 1981, she also became an Officer of Merit of Niger (Oon). Her image appears on a 20 naira Nigerian banknote and the capital's main street was named after her. Inside the Sheraton Hotel, a convention center, equipped with ten conference rooms and five ballrooms, was named after her, and major events and conferences are held there. Since the 1980s, the term for Abuja pottery has simply been "Ladi Kwali Pottery."

On March 16, 2022, Google dedicated the doodle of the day to her. That same year, in London, a major exhibition was held at Two Temple Place (also known as Astor House) consisting of works made by Black women potters to take stock of women's art of the past 70 years. The title was Body Vessel Clay, Black Women, Ceramics and Contemporary Art. Among the works, of course, was Ladi Kwali's production. Today some of her unique pieces can be found at major museums: the Victoria and Albert Museum, London; the Smithsonian National Museum of African Art, Washington; and the gallery at Aberystwyth University, Britain.

 

Füreya Koral
Annamaria Vicini

Caori Murata

 

Füreya Koral è stata un’artista turca con una personalità molto originale e una produzione prolifica. Nota soprattutto per le sue notevoli realizzazioni in ceramica, fu in realtà un’artista a tutto tondo: agli studi letterari presso la facoltà di Filosofia dell’Università di Istanbul affiancava infatti lo studio del violino e la realizzazione di composizioni musicali. Nel 1951 tenne la sua prima mostra a Parigi, composta principalmente da murali tridimensionali, ma dove trovarono posto anche i suoi lavori di pittura e di litografia. Era la prima artista turca a tenere un’esposizione di questo genere ma non fu questo il suo solo primato. Alla fine del 1951 aprì il suo primo studio di ceramica, dove erano accolti gli/le intellettuali e il pubblico. A lei si deve l’aver trasportato l’arte tradizionale della ceramica in una dimensione contemporanea e alla morte lascerà un nutrito gruppo di artiste e artisti talentuosi formatisi alla sua scuola.

Füreya Koral nel suo studio, 1965.

Era nata il 2 giugno 1910 a Büyükada, Istanbul. Suo padre era Emin Paşa, soldato e statista dell'Impero Ottomano e poi compagno di Mustafa Kemal Atatürk, generale e politico turco, fondatore e primo Presidente della Repubblica turca considerato l'eroe nazionale e il padre della Turchia moderna. Sua madre era Hakkiye Hanım e suo nonno era Mehmed Şakır Paşa, statista e storico ottomano. Füreya ereditò la passione per la musica, la pittura e la letteratura dalle zie Fahrelnissa Zeid, Aliye Berger e Ayşe Erdem, e dallo zio Cevat Şakir Kabaağaçlıi. Studiò al Lycée Notre Dame de Sion di Istanbul e conseguì il diploma di un liceo ebraico privato nel 1928. Si iscrisse poi al Dipartimento di Filosofia della Facoltà di Lettere dell'Università di Istanbul nel 1929, ma la malattia del padre e il conseguente suo pensionamento obbligatorio la costrinsero ad abbandonare l'università prima di laurearsi a causa del peggioramento della situazione finanziaria della famiglia. Nel 1930 si trasferì a Bursa dopo aver sposato il proprietario di una fattoria di nome Selahattin Karacabey. Il matrimonio però durò solo due anni e nel 1932 la coppia divorziò. Tre anni dopo Füreya si risposò con Kılıç Ali, un caro amico di Kemal Atatürk, alla cui morte la coppia tornò a Istanbul.

Una decina di anni dopo, un evento negativo legato alla salute determinò un cambiamento nella sua vita. Immediatamente dopo aver aiutato sua zia, l'artista Fahrelnissa Zeid, ad aprire la sua prima mostra personale nella propria casa al condominio Ralli, a Füreya fu diagnosticata la tubercolosi. Per curare la malattia si trasferì in Svizzera, dove prese lezioni di pittura da un artista polacco. In quel periodo iniziò a sperimentare con la ceramica utilizzando i materiali inviatile dalle zie. Nel 1949 frequentò un laboratorio di ceramica a Losanna. Trasferitasi a Parigi nel 1950 incontrò il ceramista Georges Serré (1889–1956) e, su suo consiglio, iniziò a lavorare sulle tecniche di cottura. Conobbe allora anche i critici d'arte Jacques Lassaigne e Charles Estienne che le consigliarono di allestire una mostra.

Füreya Koral, Pannello da parete Ka Han, 1957, ceramica, 250 x 400 cm, Istanbul o Elmadağ, foto Ara Güler Doğuş Sanat  Füreya Koral, Pannello murale, 1966, ceramica, 270 x 1000 cm, Arts Hotel Istanbul (ex edificio della compagnia di assicura

La sua prima personale venne inaugurata alla Galerie MAI di Parigi e fu seguita da una mostra personale in Turchia presso la Galleria Maya fondata da Adalet Cimcoz. Questa mostra presentava ceramiche murali ispirate alla tradizione e altre opere che trattavano temi folcloristici. Tornata a Istanbul nel 1953 fondò uno dei primi studi privati di ceramica in Turchia. Anche il secondo matrimonio però era destinato a non durare e, dopo aver divorziato da Kılıç Ali nel 1954, Füreya trasferì la sua casa e il suo studio al piano terra del condominio Şakir Pasha che ben presto diventò luogo di incontro per giovani artiste/i della ceramica, personaggi della cultura, scrittrici e scrittori. Nel 1957 Füreya ricevette una borsa di studio Rockefeller per studiare negli Stati Uniti. Questo le diede l’occasione di visitare il vicino Messico, dove si dedicò a svolgere ricerche sulle culture azteca e maya. L'incontro con la tradizione murale del Messico rafforzò la sua convinzione che l'arte non dovrebbe restare chiusa nei musei aprendo la strada ai grandi pannelli che avrebbe poi realizzato per gli spazi pubblici: per il Marmara Hotel nel parco della fattoria forestale Atatürk ad Ankara, per la facoltà di Medicina dell’Università di Hacettepe, per la Ziraat bank, per la Basąk insurance, per il mercato dei commercianti tessili a Istanbul, per il mercato Anafartalar, per il Divan Hotel.

Ritratto di Füreka Koral, foto Ara Güler Doğuş Sanat ve Muzecilik A.Ş., per gentile concessione dell'Archivio e del Ce

Nel 1960-61 Füreya Koral fu invitata a fornire una serie di tavolini e sgabelli intarsiati in ceramica per arredare il nuovo edificio dell'Assemblea nazionale ad Ankara. Negli anni Settanta si concentrò sulla progettazione di oggetti utilizzando la tecnica del gres e nel 1973 creò una serie esclusiva per la fabbrica di porcellana di Istanbul a Tuzla. Lo stesso anno, le sue opere furono esposte allo Yapı Endüstri Merkezi (Centro dell'edilizia). Tra i suoi lavori più noti la serie intitolata Houses, ispirata alle case a schiera che poteva vedere dal suo condominio Arif Paşa, esposta nel 1985 alla Maçka art gallery di Istanbul e successivamente premiata con il Sedat Simavi Visual Arts Prize. Nel corso della vita ha partecipato a numerose mostre in diverse città tra cui Parigi, Città del Messico, Praga, Washington DC. Una retrospettiva postuma del suo lavoro venne inaugurata nell'autunno del 2017: comprendeva oltre 200 pezzi, presentati insieme a materiali d'archivio come lettere e fotografie. Organizzata da Károly Aliotti, Nilüfer Şaşmazer e Farah Aksoy, la mostra mirava a presentare uno studio completo del suo lavoro, che è stato, forse, messo in ombra dal suo genere e dall'importante ruolo della sua famiglia nella tarda storia ottomana e nella prima storia turca.

Nel giugno 2022 alcuni dei tavolini e degli sgabelli di Füreya della Collezione d'arte della Grande Assemblea Nazionale turca (Türkiye Büyük Millet Meclisi Sanat Koleksiyonu) sono stati esposti nel nuovo terminal crociere Karaköy come parte del festival Beyoğlu Cultural Road insieme a fotografie di famiglia, cimeli e copie di fotografie dell'artista scattate da Ara Güler. Pur essendo nata e cresciuta in una famiglia borghese, Füreya Koral rivelò una sensibilità particolare nei confronti delle classi sociali più umili. Lo dimostrano le parole da lei pronunciate e riportate in un reportage a lei dedicato in occasione di una sua mostra dallo scrittore Yaşar Kemal: «Voglio che anche il più povero di tutti mangi nel piatto di ceramica che ho fatto io, che le mie opere siano di tutti. […] Che ci siano tazzine in tutti i caffè, in tutte le case, ricche o povere, belle o brutte. […] L’arte non si imprigiona nei musei. Quella è arte morta». Parole dalle quali traspare non solo la sua profonda umanità ma anche il desiderio di rivoluzionare l’arte ceramica, sottraendola all’immagine di un’arte legata al superfluo per trasporla in una dimensione legata alla quotidianità e alla utilità, rendendola a disposizione di tutte e tutti.

Füreya Koral, Piatto. Hittite Sun, 1953, ceramica, raggio 30 cm, collezione Sara Koral Aykar, Courtesy Sara Koral Aykar

Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

Füreya Koral était une artiste turque avec une personnalité très originale et une production prolifique. Connue surtout pour ses réalisations remarquables en céramique, elle était en réalité une artiste complète: à ses études littéraires à la faculté de philosophie de l’Université d’Istanbul, elle associait l’étude du violon et la création de compositions musicales. En 1951, elle a tenu sa première exposition à Paris, composée principalement de fresques tridimensionnelles, mais où ses travaux de peinture et de lithographie ont également trouvé leur place. Elle fut la première artiste turque à organiser une exposition de ce genre, mais ce ne fut pas son seul record. À la fin de 1951, elle ouvrit son premier atelier de céramique, où intellectuels et public étaient accueillis. On lui doit d’avoir transporté l’art traditionnel de la céramique dans une dimension contemporaine et, à sa mort, elle laissera un groupe important d’artistes talentueux formés dans son école.

Füreya Koral dans son atelier, 1965.

Elle est née le 2 juin 1910 à Büyükada, Istanbul. Son père était Emin Paşa, soldat et homme d’État de l’Empire ottoman puis compagnon de Mustafa Kemal Atatürk, général et homme politique turc, fondateur et premier président de la République turque, considéré comme héros national et père de la Turquie moderne. Sa mère était Hakkiye Hanım et son grand-père Mehmed Şakır Paşa, homme d’État et historien ottoman. Füreya a hérité de la passion pour la musique, la peinture et la littérature de ses tantes Fahrelnissa Zeid, Aliye Berger et Ayşe Erdem, ainsi que de son oncle Cevat Şakir Kabaağaçlı. Elle a étudié au Lycée Notre Dame de Sion à Istanbul et a obtenu son diplôme dans un lycée juif privé en 1928. Elle s’est ensuite inscrite au département de philosophie de la Faculté des Lettres de l’Université d’Istanbul en 1929, mais la maladie de son père et son départ à la retraite forcé l’ont contrainte à abandonner l’université avant d’obtenir son diplôme, à cause de la détérioration de la situation financière de la famille. En 1930, elle a déménagé à Bursa après avoir épousé le propriétaire d’une ferme nommé Selahattin Karacabey. Le mariage a toutefois duré seulement deux ans et le couple a divorcé en 1932. Trois ans plus tard, Füreya s’est remariée avec Kılıç Ali, un ami proche de Kemal Atatürk, et à la mort de ce dernier, le couple est retourné à Istanbul.

Une dizaine d’années plus tard, un problème de santé a provoqué un changement dans sa vie. Juste après avoir aidé sa tante, l’artiste Fahrelnissa Zeid, à organiser sa première exposition personnelle dans sa maison du condominium Ralli, on a diagnostiqué à Füreya la tuberculose. Pour soigner la maladie, elle s’est installée en Suisse, où elle a pris des cours de peinture avec un artiste polonais. Pendant cette période, elle a commencé à expérimenter avec la céramique en utilisant les matériaux envoyés par ses tantes. En 1949, elle a fréquenté un atelier de céramique à Lausanne. Installée à Paris en 1950, elle rencontre le céramiste Georges Serré (1889–1956) et, sur ses conseils, commence à travailler sur les techniques de cuisson. Elle fait alors la connaissance des critiques d’art Jacques Lassaigne et Charles Estienne, qui lui recommandent d’organiser une exposition.

Füreya Koral, Panneau mural Ka Han, 1957, céramique, 250 x 400 cm, Istanbul ou Elmadağ, photo Ara Güler Doğuş Sanat.  Füreya Koral, Panneau mural, 1966, céramique, 270 x 1000 cm, Arts Hotel Istanbul (ancien bâtiment de la compagnie d’assurances

Sa première exposition personnelle est inaugurée à la Galerie MAI de Paris, suivie d’une exposition personnelle en Turquie, à la Galerie Maya, fondée par Adalet Cimcoz. Cette exposition présente des céramiques murales inspirées par la tradition ainsi que d’autres œuvres traitant de thèmes folkloriques. De retour à Istanbul en 1953, elle fonde l’un des premiers ateliers privés de céramique en Turquie. Cependant, son second mariage ne dure pas non plus et, après avoir divorcé de Kılıç Ali en 1954, Füreya transfère sa maison et son atelier au rez-de-chaussée du condominium Şakir Pasha, qui devient rapidement un lieu de rencontre pour les jeunes artistes de la céramique, les personnalités culturelles, les écrivains et écrivaines. En 1957, Füreya reçoit une bourse Rockefeller pour étudier aux États-Unis. Cela lui donne l’occasion de visiter le Mexique voisin, où elle se consacre à des recherches sur les cultures aztèque et maya. La rencontre avec la tradition murale du Mexique renforce sa conviction que l’art ne devrait pas rester enfermé dans les musées, ouvrant ainsi la voie aux grands panneaux qu’elle réalisera ensuite pour les espaces publics: pour l’Hôtel Marmara dans le parc de la ferme forestière Atatürk à Ankara, pour la faculté de médecine de l’Université de Hacettepe, pour la banque Ziraat, pour l’assurance Basąk, pour le marché des commerçants de textile à Istanbul, pour le marché Anafartalar, pour l’Hôtel Divan.

Portrait de Füreya Koral, photo Ara Güler Doğuş Sanat ve Müzecilik A.Ş., avec l’aimable autorisation des Archives et du Centre de Documentation

En 1960-61, Füreya Koral est invitée à fournir une série de petites tables et tabourets en céramique incrustée pour décorer le nouvel édifice de l’Assemblée nationale à Ankara. Dans les années 70, elle se concentre sur la conception d’objets en utilisant la technique du grès et, en 1973, crée une série exclusive pour la manufacture de porcelaine d’Istanbul à Tuzla. La même année, ses œuvres sont exposées au Yapı Endüstri Merkezi (Centre de l’Industrie de la Construction). Parmi ses travaux les plus connus, la série intitulée Houses, inspirée des maisons en rangée qu’elle pouvait voir depuis son condominium Arif Paşa, exposée en 1985 à la Maçka Art Gallery d’Istanbul et ensuite récompensée par le Prix Sedat Simavi des Arts Visuels. Au cours de sa vie, elle a participé à de nombreuses expositions dans différentes villes, notamment Paris, Mexico, Prague, Washington DC. Une rétrospective posthume de son œuvre est inaugurée à l’automne 2017 : elle comprend plus de 200 pièces, présentées avec des documents d’archives tels que lettres et photographies. Organisée par Károly Aliotti, Nilüfer Şaşmazer et Farah Aksoy, l’exposition vise à présenter une étude complète de son travail, qui a peut-être été éclipsé par son genre et par le rôle important de sa famille dans la fin de l’histoire ottomane et le début de l’histoire turque.

En juin 2022, certains des petits tables et tabourets de Füreya, provenant de la Collection d’art de la Grande Assemblée Nationale turque (Türkiye Büyük Millet Meclisi Sanat Koleksiyonu), sont exposés dans le nouveau terminal de croisière de Karaköy dans le cadre du festival Beyoğlu Cultural Road, accompagnés de photographies de famille, d’objets précieux et de copies de photographies de l’artiste prises par Ara Güler. Bien qu'elle soit née et ait grandi dans une famille bourgeoise, Füreya Koral a révélé une sensibilité particulière envers les classes sociales les plus modestes. Cela se manifeste dans les paroles qu'elle a prononcées et qui sont rapportées dans un reportage consacré à une de ses expositions par l’écrivain Yaşar Kemal : «Je veux que même le plus pauvre de tous mange dans l’assiette en céramique que j’ai faite, que mes œuvres appartiennent à tout le monde. […] Qu’il y ait des tasses dans tous les cafés, dans toutes les maisons, riches ou pauvres, belles ou laides. […] L’art ne s’enferme pas dans les musées. Celui-là est de l’art mort.» Ces mots révèlent non seulement sa profonde humanité, mais aussi le désir de révolutionner l’art de la céramique, en le détachant de l’image d’un art lié au superflu pour le transposer dans une dimension liée au quotidien et à l’utilité, le rendant accessible à toutes et à tous.

Füreya Koral, Assiette. Hittite Sun, 1953, céramique, rayon 30 cm, collection Sara Koral Aykar, avec l’aimable autorisation de Sara Koral Aykar.

Traduzione spagnola

Daniela Leonardi

 Füreya Koral fue una artista turca con una personalidad muy original y una producción prolífica. Conocida sobre todo por sus notables creaciones en cerámica, fue en realidad una artista polifacética: además de sus estudios literarios en la Facultad de Filosofía de la Universidad de Estambul, estudió violín y compuso música. En 1951 tuvo su primera exposición en París, compuesta principalmente por murales tridimensionales, pero en la que también encontraron lugar sus de pintura y litografía. Fue la primera artista turca en celebrar una exposición de este tipo, pero no fue su único récord. A finales de 1951 abrió su primer taller de cerámica, donde recibía a los /las intelectuales y al público en general. A ella se le debe haber llevado el arte tradicional de la cerámica a una dimensión contemporánea y, a su muerte, dejó un nutrido grupo de artistas talentosos formados en su escuela.

Füreya Koral en su estudio, 1965.

Nació el 2 de junio de 1910 en Büyükada, Estambul. Su padre era Emin Paşa, soldado y estadista del Imperio Otomano y posteriormente compañero de Mustafa Kemal Atatürk, general y político turco, fundador y primer presidente de la República Turca, considerado héroe nacional y padre de la Turquía moderna. Su madre era Hakkiye Hanım y su abuelo era Mehmed Şakır Paşa, estadista e historiador otomano. Füreya heredó la pasión por la música, la pintura y la literatura de sus tías Fahrelnissa Zeid, Aliye Berger y Ayşe Erdem, y de su tío Cevat Şakir Kabaağaçlıi. Estudió en el Lycée Notre Dame de Sion de Estambul y obtuvo el título de secundaria en un instituto judío privado en 1928. En 1929 se matriculó en el Departamento de Filosofía de la Facultad de Letras de la Universidad de Estambul, pero la enfermedad de su padre y su consiguiente jubilación obligatoria la obligaron a abandonar la universidad antes de graduarse debido al empeoramiento de la situación financiera de la familia. En 1930 se mudó a Bursa tras casarse con el propietario de una granja llamado Selahattin Karacabey. Sin embargo, el matrimonio solo duró dos años y en 1932 la pareja se divorció. Tres años más tarde, Füreya se volvió a casar con Kılıç Ali, un buen amigo de Kemal Atatürk, y tras la muerte de este, la pareja regresó a Estambul.

Una década más tarde, un acontecimiento negativo relacionado con la salud supuso un cambio en su vida. Inmediatamente después de ayudar a su tía, la artista Fahrelnissa Zeid, a inaugurar su primera exposición individual en su casa del edificio Ralli, a Füreya le diagnosticaron tuberculosis. Para curar su enfermedad, se trasladó a Suiza, donde tomó clases de pintura con un artista polaco. En esa época comenzó a experimentar con la cerámica utilizando los materiales que le enviaban sus tías. En 1949 asistió a un taller de cerámica en Lausana. Tras mudarse a París en 1950, conoció al ceramista Georges Serré (1889-1956) y, siguiendo su consejo, comenzó a trabajar en las técnicas de cocción. También conoció a los críticos de arte Jacques Lassaigne y Charles Estienne, quienes le aconsejaron que organizara una exposición.

Füreya Koral, Panel mural Ka Han, 1957, cerámica, 250 x 400 cm, Estambul o Elmadağ, foto de Ara Güler Doğuş Sanat. Füreya Koral, Panel mural, 1966, cerámica, 270 x 1000 cm, Arts Hotel Istanbul (antiguo edificio de la compañía de seguros).

Su primera exposición individual se inauguró en la Galerie MAI de París a la que siguió una exposición individual en Turquía en la Galería Maya, fundada por Adalet Cimcoz. Esta exposición presentaba cerámicas murales inspiradas en la tradición y otras obras que trataban temas folclóricos. De vuelta a Estambul en 1953, fundó uno de los primeros estudios privados de cerámica en Turquía. Sin embargo, su segundo matrimonio tampoco duró y, tras divorciarse de Kılıç Ali en 1954, Füreya trasladó su casa y su estudio a la planta baja del edificio Şakir Pasha, que pronto se convirtió en un lugar de encuentro para jóvenes artistas ceramistas, personalidades de la cultura, escritores y escritoras. En 1957, Füreya recibió una beca Rockefeller para estudiar en Estados Unidos. Esto le dio la oportunidad de visitar el vecino México, donde se dedicó a investigar las culturas azteca y maya. El encuentro con la tradición muralista de México reforzó su convicción de que el arte no debía permanecer encerrado en los museos, lo que le abrió el camino a los grandes paneles que luego realizaría para espacios públicos: para el Hotel Marmara en el parque de la granja forestal Atatürk en Ankara, para la Facultad de Medicina de la Universidad de Hacettepe, para el banco Ziraat, para la aseguradora Basąk, para el mercado de comerciantes textiles de Estambul, para el mercado Anafartalar y para el Hotel Divan.

Retrato de Füreya Koral, foto de Ara Güler Doğuş Sanat ve Müzecilik A.Ş., cortesía del Archivo y Centro de Documentación.

En 1960-61, Füreya Koral fue invitada a suministrar una serie de mesitas y taburetes con incrustaciones de cerámica para amueblar el nuevo edificio de la Asamblea Nacional en Ankara. En los años setenta se centró en el diseño de objetos utilizando la técnica del gres y en 1973 creó una serie exclusiva para la fábrica de porcelana de Estambul en Tuzla. Ese mismo año, sus obras se expusieron en el Yapı Endüstri Merkezi (Centro de la Construcción). Entre sus obras más conocidas se encuentra la serie titulada Houses, inspirada en las casas adosadas que podía ver desde su edificio Arif Paşa, expuesta en 1985 en la galería de arte Maçka de Estambul y posteriormente galardonada con el Premio Sedat Simavi de Artes Visuales. A lo largo de su vida participó en numerosas exposiciones en diferentes ciudades, entre ellas París, Ciudad de México, Praga y Washington D. C. En otoño de 2017 se inauguró una retrospectiva póstuma de su obra, que incluía más de 200 piezas, presentadas junto con material de archivo, como cartas y fotografías. Organizada por Károly Aliotti, Nilüfer Şaşmazer y Farah Aksoy, la exposición tenía como objetivo presentar un estudio completo de su trabajo, que quizá quedó eclipsado por su género y por el importante papel de su familia en la historia otomana tardía y en la historia turca temprana.

En junio de 2022, algunas de las mesas y taburetes de Füreya de la Colección de Arte de la Gran Asamblea Nacional Turca (Türkiye Büyük Millet Meclisi Sanat Koleksiyonu) se expusieron en la nueva terminal de cruceros Galataport en Karaköy como parte del festival Beyoğlu Cultural Road, junto con fotografías familiares, recuerdos y copias de fotografías de la artista tomadas por Ara Güler. A pesar de haber nacido y crecido en una familia burguesa, Füreya Koral reveló una sensibilidad especial hacia las clases sociales más humildes. Así lo demuestran las palabras que pronunció y que se recogen en un reportaje dedicado a ella con ocasión de una exposición suya por el escritor Yaşar Kemal: «Quiero que incluso el más pobre de todos coma en el plato de cerámica que yo he hecho, que mis obras sean de todos. […] Que haya tazas en todas las cafeterías, en todas las casas, ricas o pobres, bonitas o feas. […] El arte no se aprisiona en los museos. Eso es arte muerto». Palabras que reflejan no solo su profunda humanidad, sino también su deseo de revolucionar el arte cerámico, alejándolo de la imagen de un arte vinculado a lo superfluo para trasladarlo a una dimensión ligada a la vida cotidiana y a la utilidad, poniéndolo al alcance de todos y todas.

Füreya Koral, Plato. Hittite Sun, 1953, cerámica, radio 30 cm, colección Sara Koral Aykar, cortesía de Sara Koral Aykar.

Traduzione inglese

Syd Stapleton

 Füreya Koral was a Turkish artist with a highly original personality and prolific output. Best known for her remarkable ceramic achievements, she was actually a well-rounded artist. In fact, she combined her literary studies at Istanbul University's Faculty of Philosophy with the study of the violin and the creation of musical compositions. In 1951 she held her first exhibition in Paris, consisting mainly of three-dimensional murals, but where her painting and lithography works also found a place. She was the first Turkish artist to hold such an exhibition, but this was not her only record. In late 1951 she opened her first ceramic studio, where intellectuals and the public were welcomed. She is credited with transporting the traditional art of ceramics into a contemporary dimension, and at her death she would leave behind a large group of talented women artists trained at her school.

Füreya Koral in her studio, 1965.

She was born on June 2, 1910, in Büyükada, Istanbul. Her father was Emin Paşa, a soldier and statesman in the Ottoman Empire and later a comrade of Mustafa Kemal Atatürk, Turkish general and politician, founder and first president of the Turkish Republic - considered a national hero and the father of modern Turkey. Her mother was Hakkiye Hanım and her grandfather was Mehmed Şakır Paşa, Ottoman statesman and historian. Füreya inherited a passion for music, painting and literature from her aunts Fahrelnissa Zeid, Aliye Berger and Ayşe Erdem, and her uncle Cevat Şakir Kabaağaçlıi. She studied at the Lycée Notre Dame de Sion in Istanbul and graduated from a private Jewish high school in 1928. She then enrolled in the Philosophy Department of the Faculty of Humanities at Istanbul University in 1929, but her father's illness and his subsequent mandatory retirement forced her to drop out of the university before graduating, due to the family's worsening financial situation. In 1930 she moved to Bursa after marrying a farm owner named Selahattin Karacabey. The marriage lasted only two years, however, and in 1932 the couple divorced. Three years later Füreya remarried Kılıç Ali, a close friend of Kemal Atatürk, upon whose death the couple returned to Istanbul.

A decade later, a negative health-related event brought about a change in her life. Immediately after helping her aunt, artist Fahrelnissa Zeid, open her first solo exhibition in her own home at the Ralli apartment building, Füreya was diagnosed with tuberculosis. To treat the disease, she moved to Switzerland, where she took painting lessons from a Polish artist. At that time she began experimenting with ceramics using materials sent to her by her aunts. In 1949 she attended a pottery workshop in Lausanne. She moved to Paris in 1950 and met the ceramist Georges Serré (1889-1956) and, on his advice, began working on firing techniques. She then also met art critics Jacques Lassaigne and Charles Estienne, who advised her to set up an exhibition.

Füreya Koral, Wall panel Ka Han, 1957, ceramic, 250 x 400 cm, Istanbul or Elmadağ, photo by Ara Güler Doğuş Sanat. Portrait of Füreya Koral, photo by Ara Güler Doğuş Sanat ve Müzecilik A.Ş., courtesy of the Archive and Documentation Center.

Her first solo exhibition opened at Galerie MAI in Paris and was followed by a solo show in Turkey at the Maya Gallery founded by Adalet Cimcoz. This exhibition featured wall ceramics inspired by tradition and other works dealing with folkloric themes. She returned to Istanbul in 1953 and founded one of the first private ceramic studios in Turkey. Her second marriage, however, was also destined not to last, and after divorcing Kılıç Ali in 1954, Füreya moved her home and studio to the ground floor of the Şakir Pasha apartment building, which soon became a meeting place for young female ceramic artists, cultural figures, and writers. In 1957 Füreya received a Rockefeller scholarship to study in the United States. This gave her the opportunity to visit neighboring Mexico, where she devoted herself to researching Aztec and Mayan cultures. Her encounter with Mexico's mural tradition strengthened her conviction that art should not remain locked in museums, paving the way for the large panels she would later create for public spaces - for the Marmara Hotel in the Atatürk Forest Farm Park in Ankara, for the Faculty of Medicine at Hacettepe University, for the Ziraat bank, for Basąk insurance, for the textile merchants' market in Istanbul, for the Anafartalar market, and for the Divan Hotel.

Portrait of Füreya Koral, photo by Ara Güler Doğuş Sanat ve Müzecilik A.Ş., courtesy of the Archive and Documentation Center.

In 1960-61 Füreya Koral was invited to provide a series of inlaid ceramic tables and stools to furnish the new National Assembly building in Ankara. In the 1970s she focused on designing objects using the stoneware technique and in 1973 created an exclusive series for the Istanbul Porcelain Factory in Tuzla. That same year, her works were exhibited at the Yapı Endüstri Merkezi (Construction Center). Among her best-known works is the series entitled Houses, inspired by the terraced houses she could see from her Arif Paşa apartment building, exhibited in 1985 at the Maçka art gallery in Istanbul and later awarded the Sedat Simavi Visual Arts Prize. During her lifetime she participated in numerous exhibitions in different cities including Paris, Mexico City, Prague, and Washington DC. A posthumous retrospective of her work was opened in the fall of 2017. It included more than 200 pieces, presented together with archival materials such as letters and photographs. Organized by Károly Aliotti, Nilüfer Şaşmazer and Farah Aksoy, the exhibition aimed to present a comprehensive study of her work, which has, perhaps, been overshadowed by her gender and her family's important role in late Ottoman and early Turkish history.

In June 2022, some of Füreya's small tables and stools from the Turkish Grand National Assembly Art Collection (Türkiye Büyük Millet Meclisi Sanat Koleksiyonu) were exhibited in the new Galataport cruise terminal in Karaköy as part of the Beyoğlu Cultural Road festival along with family photographs, memorabilia, and copies of photographs of the artist taken by Ara Güler. Although born and raised in a middle-class family, Füreya Koral revealed a special sensitivity to the humbler social classes. This is evidenced by the words she spoke and reported in a report dedicated to her on the occasion of one of her exhibitions by writer Yaşar Kemal: "I want even the poorest of all to eat in the ceramic dish that I made, that my works belong to everyone. [...] Let there be cups in all cafes, in all homes, rich or poor, beautiful or ugly. [...] Art is not imprisoned in museums. That is dead art." Words from which not only her deep humanity shines through but also her desire to revolutionize ceramic art, removing it from the image of an art linked to the superfluous to transpose it into a dimension linked to everyday life and utility, making it available to all and sundry.

Füreya Koral, Plate. Hittite Sun, 1953, ceramic, radius 30 cm, Sara Koral Aykar Collection, courtesy of Sara Koral Aykar.

 

Maria Montoya Martinez
Livia Capasso

Caori Murata

 

La sperimentazione artistica con gli stili e le tecniche tradizionali dell’antica ceramica Pueblo operata da Maria Montoya Martinez ha contribuito a preservare l'arte culturale della sua gente e l’ha portata a realizzare ceramiche di fama internazionale. Maria Poveka Montoya è nata il 1887 (secondo alcuni invece il 1885) a San Ildefonso Pueblo, nel Nuovo Messico, in una comunità di nativi americani, situata a poco più di venti miglia a nord-ovest di Santa Fe. In tenera età apprese l'arte della ceramica da sua zia Nicolasa, che le insegnò a lavorare l'argilla, e lei imparò osservando sua zia, sua nonna e il cugino del padre lavorare la ceramica. Maria e tutte e quattro le sue sorelle, Maximiliana (Ana), Juanita, Desideria e Clara, impararono e producevano ceramiche. Inizialmente, Maria realizzò la tradizionale ceramica policroma del suo villaggio, con il nero e altri colori su uno sfondo bianco o marrone chiaro. Modellava i vasi arrotolando con cura l'argilla, quindi levigandola con raschietti. I suoi vasi erano riconosciuti come i più sottili e dalla forma più bella. Suo marito, Julian Martinez, un artista affermato a pieno titolo, li decorava. 

Ciotola, 1914/15 - Maria Montoya Martinez

In questa ciotola un serpente cornuto, l’Avanyu, divinità Tewa, circonda la superficie centrale del vaso e con la lingua tocca quasi la punta della coda, muovendo il corpo tanto da sembrare vivo. Il popolo Pueblo ha un metodo particolare per lavorare l’argilla, non usa il tornio per modellare i vasi, che risultano da stratificazioni di materiale, aggiunte a spirale una sopra l’altra.

Lavorazione a mano, a spirale

Ogni pueblo poi ha una sua sottocultura, proprie tradizioni, mitologia, storia, rituali. Anche i simboli che decorano i vasi sono diversi, e non sempre è possibile individuarne il significato. Un’altra differenza consiste nel fatto che ogni pueblo ha il suo luogo segreto per la ricerca di argilla, quindi, anche le proprietà fisiche dei vasi prodotti da vari pueblos sono diverse. I nativi americani hanno tradizioni ceramiche da molti millenni. Sono stati trovati vasi di terracotta risalenti a 30.000 anni fa. Durante uno scavo nel 1908 condotto da Edgar Lee Hewett, professore di archeologia e fondatore e direttore del Museo del New Mexico a Santa Fe, furono scoperti nella terra sabbiosa e l'argilla rossa del terreno desertico del New Mexico pezzi rotti di ceramiche preistoriche dei Pueblo, con originali decorazioni nere su fondo nero. Hewett cercava tra i pueblo chi potesse ricreare vasi di questa tipologia, cioè nero su nero, con l’intenzione di preservare così l'antica forma d'arte. Maria Montoya Martinez era conosciuta nel pueblo Tewa di San Ildefonso per la produzione di vasi pregiati; pertanto, Hewett individuò in lei l’artista che poteva dare vita alla sua idea. Dopo molti tentativi ed errori, Maria cominciò a produrre vasi di ceramica nera. I primi vasi per un museo furono cotti intorno al 1913. Questi pezzi non erano decorati, non firmati e di qualità generalmente rozza. La sua abilità migliorava, però, con ogni vaso e la sua arte iniziò a suscitare molto scalpore tra i collezionisti e si trasformò in un business, che portò nel 1918 alla prima creazione di pezzi nero su nero di elevata qualità. La prima testimonianza di questa ceramica risale a una mostra del luglio 1920 tenutasi al Museo d'arte del New Mexico.

Nero su nero con disegni geometrici - Maria e Julian Martinez, c. 1920

È stato necessario un lungo processo di sperimentazione e di superamento delle sfide per ricreare con successo lo stile della ceramica nera su nero e soddisfare gli standard rigorosi di Maria. Una sfida specifica è stata quella di trovare un modo per far assumere all'argilla il colore nero desiderato.

Vaso nuziale di Maria e Julian Martinez in ceramica nera, 1929

Il processo lungo consiste in molti passaggi che richiedono pazienza e abilità. Il primo passo è raccogliere l'argilla, operazione che viene effettuata una volta all'anno, solitamente nel mese di ottobre quando è asciutta. L'argilla viene quindi conservata in una struttura di mattoni dove la temperatura rimane costante. Il passo successivo è iniziare a modellare l'argilla impastata insieme a sabbia e acqua. L'impasto viene lasciato asciugare leggermente per un giorno o due. Si lavora poi utilizzando solo le mani, con una costruzione a spirale: lunghe bobine a forma di serpente costruiscono gradualmente le pareti dei vasi; con movimenti incrociati la parete viene levigata e resa sottile e uniforme, mentre il vaso aumenta di altezza. Finita la lavorazione, si passa all’essiccazione e alla cottura.Maria ha utilizzato una tecnica di cottura chiamata "cottura di riduzione". Un'atmosfera riducente si verifica quando l'aria che circonda il vaso non contiene abbastanza ossigeno per alimentare le fiamme. Ciò provoca una reazione chimica che scurisce l’argilla, conferendole quel colore nero, o a volte canna di fucile. I vasi posti nel focolare venivano ricoperti con cura con pezzi rotti di ceramica e fogli di alluminio o rottami metallici per evitare che la fiamma toccandoli bruciasse la ceramica, facendole assumere un colore rosso-marrone. Dopo che il forno si era raffreddato abbastanza, i vasi venivano infine rimossi con cura.

Due vasi in ceramica nero su nero di Maria Montoya Martinez, 1939 (sin), 1945 (dex)

Vaso alto, 1934 - Maria Montoya Martinez
Firme alla base dei vasi

Maria e Julian furono riconosciuti per aver rivitalizzato un’antica tradizione della ceramica, e vinsero riconoscimenti internazionali, quando Julian morì nel 1943. La popolarità di Maria come artista la portò a ricoprire un ruolo importante nella sua comunità, e a favorire rapporti amichevoli con i soldati e gli scienziati del Progetto Manhattan quando arrivarono a Los Alamos. I militari occupavano il terreno per stabilirvi laboratori scientifici e impianti di produzione industriale, sottraendo ai nativi americani i loro tradizionali terreni di caccia, pesca e campeggio o i siti sacri ancestrali. La mediazione di Maria creò un’opportunità, perché il progetto favorì l’attività di lavorazione della ceramica con la creazione di un laboratorio che divenne una realtà permanente per la regione. Senza contare che, avendo il progetto un notevole bisogno di personale addetto alla manutenzione e alla custodia, molti nativi americani furono assunti, generalmente impiegati come camionisti, operai edili, falegnami e giardinieri, il figlio stesso di Maria fu assunto come macchinista, mentre le donne, attratte dagli alti salari, venivano reclutate come cameriere e assistenti all'infanzia. Si diffuse tra gli occupanti una “mania del collezionista” che rese molto richieste le ceramiche, soprattutto quelle di Maria Montoya Martinez. Tuttavia, per stare al passo con la domanda, si iniziò la produzione in serie dei vasi, annullando la tradizione secolare che prevedeva la realizzazione degli oggetti uno alla volta.

Ciotole in ceramica nera, 1950-59 - Maria Montoya Martinez

Maria espose la sua ceramica in ogni fiera mondiale fino alla Seconda guerra mondiale e formò tre generazioni di giovani della sua famiglia. Con la crescente domanda, si rese conto che il suo lavoro poteva arricchire artisticamente ed economicamente la vita dell'intero pueblo, e generosamente condivise le sue tecniche. In questa foto, scattata da Susan Peterson nel 1975, Maria è seduta, a destra con la sua famiglia a San Ildefonso. Cinque generazioni hanno continuato questa ricca tradizione di abilità artistica e design innovativo, ultima la pronipote, Barbara Gonzales, nella foto in piedi, maglietta gialla, con i suoi figli, Cavan e Aaron.

La famiglia Martinez - Foto di Susan Peterson, 1975

Vaso policromo con disegno di serpente Avanyu, 1960 - Maria Montoya Martinez

Ritorna su questo vaso l’Avanyu, divinità Tewa, guardiana dell'acqua, rappresentata come un serpente cornuto o piumato con curve che suggeriscono il flusso dell'acqua o lo zig-zag dei fulmini. Le opere di Maria Montoya Martinez, e in particolare le sue ceramiche nere, sono nelle collezioni di molti musei, tra cui lo Smithsonian, il Metropolitan Museum of Art a New York, il Denver Art Museum, il Penn Museum di Filadelfia e altri ancora. È morta il 20 luglio del 1980 a San Ildefonso Pueblo. Maria Montoya Martinez ha ricevuto dottorati onorari durante la sua vita all'Università del Colorado e all'Università del New Mexico. Malvina Hoffman, una pregevole scultrice americana, realizzò il suo ritratto. Nel 1978 tenne un'importante mostra personale alla Renwick Gallery della Smithsonian Institution. Nel 2022 è stata inclusa in un libro sul lavoro delle donne di Ferren Gipson: Women's Work: From feminine arts to feminist art.


Traduzione francese

Lucrezia Pratesi

L’expérimentation artistique menée par Maria Montoya Martinez à partir des styles et des techniques traditionnelles de la céramique ancestrale Pueblo a permis de préserver l’art culturel de son peuple, tout en lui offrant une renommée internationale grâce à ses œuvres en céramique. Maria Poveka Montoya est née en 1887 (selon certaines sources en 1885) à San Ildefonso Pueblo, au Nouveau-Mexique, dans une communauté amérindienne située à un peu plus de vingt milles au nord-ouest de Santa Fe. Dès son plus jeune âge, elle apprit l’art de la poterie auprès de sa tante Nicolasa, qui lui enseigna le travail de l’argile. Elle observait aussi sa grand-mère et le cousin de son père façonner la terre. Maria et ses quatre sœurs — Maximiliana (Ana), Juanita, Desideria et Clara — apprirent également la poterie et en produisirent. Au départ, Maria créait de la céramique polychrome traditionnelle de son village, utilisant le noir et d’autres couleurs sur un fond blanc ou brun clair. Elle modelait ses pots en enroulant soigneusement l’argile, qu’elle polissait ensuite à l’aide de grattoirs. Ses pièces étaient reconnues pour leur finesse et leur élégance. Son mari, Julian Martinez, artiste à part entière, les décorait.

Bol, 1914/15 – Maria Montoya Martinez

Sur ce bol, un serpent cornu, l’Avanyu — divinité Tewa — entoure le centre du vase et effleure presque le bout de sa queue avec sa langue, dans un mouvement si fluide qu’il semble vivant. Le peuple Pueblo utilise une méthode particulière pour travailler l’argile, sans tour de potier : les pots sont formés à partir de couches superposées en spirale.

Travail à la main, en spirale

Chaque pueblo possède sa propre sous-culture, ses traditions, sa mythologie, son histoire et ses rituels. Les symboles décorant les vases varient donc et leur signification n’est pas toujours identifiable. Une autre différence réside dans le fait que chaque pueblo garde secret l’emplacement où il recueille son argile ; ainsi, les propriétés physiques des céramiques varient d’un village à l’autre. Les traditions céramiques des peuples amérindiens remontent à plusieurs millénaires : des vases en terre cuite datant de 30 000 ans ont été découverts. Lors de fouilles menées en 1908 par Edgar Lee Hewett, professeur d’archéologie et fondateur du Musée du Nouveau-Mexique à Santa Fe, des fragments de poteries préhistoriques Pueblo, à décor noir sur fond noir, furent mis au jour dans la terre sablonneuse et l’argile rouge du désert. Hewett rechercha alors parmi les Pueblo un·e artiste capable de recréer ce type de poterie, dans le but de préserver cet art ancien. Maria Montoya Martinez, déjà connue à San Ildefonso pour la qualité de ses vases, fut choisie pour cette mission. Après de nombreux essais et erreurs, Maria parvint à créer de la poterie noire. Les premiers vases destinés à un musée furent cuits vers 1913. Ils étaient alors bruts, non signés et de qualité rudimentaire. Mais ses compétences s’amélioraient avec chaque pièce, suscitant l’intérêt des collectionneurs. Son travail devint une véritable entreprise, et dès 1918 elle produisit les premiers objets noir sur noir de grande qualité. Une première exposition de cette céramique eut lieu au Musée des beaux-arts du Nouveau-Mexique en juillet 1920.

Noir sur noir aux motifs géométriques – Maria et Julian Martinez, v. 1920

Il fallut un long processus d’expérimentation et de dépassement des obstacles pour recréer avec succès le style noir sur noir tout en répondant aux exigences rigoureuses de Maria. Une difficulté particulière consistait à obtenir la teinte noire souhaitée pour l’argile.

Vase nuptial noir – Maria et Julian Martinez, 1929

Le procédé est long et comprend de nombreuses étapes nécessitant patience et habileté. La première consiste à recueillir l’argile, ce qui a lieu une fois par an, en octobre généralement, lorsque la terre est sèche. L’argile est ensuite stockée dans une structure en briques où la température reste constante. Elle est ensuite mélangée avec du sable et de l’eau pour former une pâte qui repose un ou deux jours avant d’être modelée. La poterie se fait à la main selon une construction en spirale : de longs boudins d’argile construisent progressivement les parois des vases. Celles-ci sont ensuite lissées à l’aide de mouvements croisés afin d’en affiner l’épaisseur. Une fois modelé, le vase est séché puis cuit. Maria utilisait une technique appelée « cuisson en réduction ». Elle consiste à créer une atmosphère pauvre en oxygène autour du vase, ce qui provoque une réaction chimique assombrissant l’argile, lui donnant une teinte noire ou parfois gris fusil. Les vases étaient placés dans un foyer, recouverts soigneusement de tessons, de feuilles d’aluminium ou de déchets métalliques pour les protéger de la flamme, évitant ainsi qu’ils ne deviennent rougeâtres. Une fois le four refroidi, les vases étaient retirés avec précaution.

Deux vases noir sur noir – Maria Montoya Martinez, 1939 (gauche), 1945 (droite)

Vase haut, 1934 – Maria Montoya Martinez
Signatures au revers des vases

Maria et Julian furent reconnus pour avoir revitalisé une tradition céramique ancienne et reçurent des prix à l’échelle internationale. Julian mourut en 1943. La notoriété de Maria lui conféra un rôle important dans sa communauté. Elle facilita les relations entre les siens et les soldats ou scientifiques du projet Manhattan, arrivés à Los Alamos. Ce projet militaire occupait des terres ancestrales utilisées par les Amérindiens pour la chasse, la pêche, le camping ou les rituels sacrés. Grâce à Maria, un atelier de céramique vit le jour, devenant par la suite une institution régionale durable. Le projet requérant une main-d’œuvre importante, de nombreux Amérindiens furent employés comme chauffeurs, ouvriers, menuisiers, jardiniers. Le fils de Maria travailla comme machiniste. Attirées par des salaires élevés, des femmes furent recrutées comme domestiques ou nourrices. Une véritable fièvre du collectionneur gagna les nouveaux venus, et les céramiques — surtout celles de Maria — furent très prisées. Pour répondre à la demande, une production en série fut lancée, rompant avec la tradition séculaire du travail pièce par pièce.

Bols en céramique noire, 1950–59 – Maria Montoya Martinez

Maria expose ses œuvres à toutes les expositions universelles jusqu’à la Seconde Guerre mondiale. Elle forme trois générations de jeunes de sa famille. Face à la demande croissante, elle comprit que son savoir-faire pouvait enrichir toute la communauté de San Ildefonso, tant sur le plan artistique qu’économique, et elle partagea généreusement ses techniques. Sur cette photo prise par Susan Peterson en 1975, Maria est assise à droite, entourée de sa famille à San Ildefonso. Cinq générations ont perpétué cette riche tradition d’habileté et d’innovation, jusqu’à son arrière-petite-fille Barbara Gonzales, debout au centre en t-shirt jaune, avec ses fils Cavan et Aaron.

La famille Martinez – Photo de Susan Peterson, 1975

Vase polychrome avec motif de serpent Avanyu, 1960 – Maria Montoya Martinez

Le motif de l’Avanyu réapparaît ici : divinité Tewa, gardienne des eaux, elle est représentée sous la forme d’un serpent cornu ou emplumé aux courbes évoquant le courant de l’eau ou l’éclair en zigzag. Les œuvres de Maria Montoya Martinez, notamment ses poteries noires, font partie des collections de nombreux musées : le Smithsonian, le Metropolitan Museum of Art à New York, le Denver Art Museum, le Penn Museum de Philadelphie, entre autres. Elle est décédée le 20 juillet 1980 à San Ildefonso Pueblo. Elle reçut plusieurs doctorats honorifiques au cours de sa vie, notamment de l’Université du Colorado et de l’Université du Nouveau-Mexique. La sculptrice américaine Malvina Hoffman réalise son portrait. En 1978, une importante exposition personnelle lui fut consacrée à la Renwick Gallery de la Smithsonian Institution. En 2022, elle a été incluse dans l’ouvrage de Ferren Gipson Women’s Work: From Feminine Arts to Feminist Art.


Traduzione spagnola

Graziana Santoro

 La experimentación artística con estilos y técnicas tradicionales de la antigua cerámica ‘Pueblo’ por María Montoya Martínez, contribuyó a proteger el arte cultural de su gente y la llevó a realizar cerámicas de fama internacional. María Poveka Montoya nació en 1887 (algunos piensan en 1885) en San Idelfonso Pueblos, en Nuevo México, en una comunidad de nativos americanos situada a poco más de veinte millas al noroeste de Santa Fe. A una edad temprana aprendió el arte de la cerámica de su tía Nicolasa, que le enseñó a trabajar la arcilla; ella aprendió observando a su tía, su abuela y un primo de su padre trabajando la cerámica. María y sus cuatros hermanas, Maximiliana (Ana), Juanita, Desideria y Clara, aprendieron y empezaron a producir cerámicas. Inicialmente, María realizó la tradicional cerámica policroma de su pueblo, con negro y otros colores sobre un fondo blanco o marrón claro. Modelaba las vasijas enrollando con cuidado la arcilla, y luego alisándola con espátulas. Sus vasijas eran reconocidas como las más delgadas y de la forma más linda. Su marido, Julián Martínez, un artista consolidado con todos los méritos, las decoraba.

Cuenco, 1914/15 - Maria Montoya Martinez

En este cuenco hay una serpiente cornuda, el Avanyu, divinidad Tewa, que rodea la superficie central de la vasija y con la lengua casi se toca la punta de la cola, moviendo el cuerpo hasta el punto que parece vivo. La población Pueblo tiene un método único para trabajar la arcilla: no utiliza el torno para modelar las vasijas, que resultan de estratificaciones de material, añadidas en espiral una sobre otra.

Modelado a mano en espiral

Cada pueblo tiene su propia subcultura, propias tradiciones, mitología, historia, rituales. Los símbolos que adornan las vasijas también son diferentes, y no es posible identificar su significado cada vez. Otra diferencia consiste en que cada pueblo tiene su propio lugar secreto para buscar arcilla y, por lo tanto, también las propiedades físicas de las vasijas producidas por los distintos pueblos son diferentes. Los nativos americanos tienen unas tradiciones cerámicas milenarias. Se han encontrado vasijas de terracota que se remontan a 30.000 años atrás. Durante una excavación en 1908 dirigida por Edgar Lee Hewett, profesor de arqueología y fundador y director del Museo de Nuevo México en Santa Fe, se descubrieron en la tierra arenosa y en la arcilla roja del terreno desértico de Nuevo México fragmentos rotos de cerámica prehistórica de los Pueblo, con auténticas decoraciones negras sobre fondo negro. Hewett buscaba entre los Pueblo quien pudiese reproducir vasijas de este tipo, o sea negro sobre negro, con la intención de proteger esta antigua forma de arte. María Montoya Martínez se conocía en el pueblo Tewa de San Idelfonso por la producción de vasijas preciadas; por esta razón, Hewett identificó en ella la artista capaz de materializar su idea. Tras muchos intentos y errores, María empezó a crear vasijas de cerámica negra. Las primeras vasijas destinadas a un museo fueron cocidas alrededor de 1913. Estas piezas no eran adornadas, ni firmadas y de calidad generalmente rudimentaria. Su destreza mejoraba con cada jarrón, y su arte empezó a causar gran revuelo entre los coleccionistas y se convirtió en un negocio, lo que llevó en 1918 a la creación de las primeras piezas negro sobre negro de alta calidad. El primer testimonio de esta cerámica se remonta a una exhibición en julio 1920 que tuvo lugar en el Museo de Arte de Nuevo México.

Negro sobre negro con dibujos geométricos – María e Julián Martínez, c. 1920

Fue necesario un largo proceso de experimentación y de superación de desafíos, para recrear con éxito el estilo de la cerámica negro sobre negro y así satisfacer los estándares exigentes de María. Un desafío específico fue encontrar una manera de lograr que la arcilla adquiriera el color negro deseado.

Vasija nupcial de María y Julián Martínez en cerámica negra, 1929

El largo proceso consiste en muchos pasos que exigen paciencia y destreza. El primer paso es recoger la arcilla, operación que se realiza una vez al año, típicamente durante el mes de octubre cuando es seca. La arcilla, luego, se guarda en una estructura de ladrillos, donde la temperatura se mantiene constante. El paso siguiente es empezar a modelar la arcilla amasada junto con arena y agua. La mezcla se deja secar ligeramente por uno o dos días. Luego se moldea utilizando solo las manos, con una construcción en espiral: largas bobinas en forma de serpiente van formando gradualmente las paredes de las vasijas; con movimientos cruzados, la superficie se alisa y se vuelve delgada y uniforme, mientras el cuenco o jarrón crece en altura. Terminada la elaboración, se pasa al secado y a la cocción. María utilizó una técnica de cocción llamada “cocción de reducción”. Se obtiene una atmósfera reductora cuando el aire que rodea la vasija no contiene suficiente oxígeno para alimentar las llamas. Esto provoca una reacción química que oscurece la arcilla, dándole ese color negro, o a veces gris metálico. Las vasijas colocadas en el hogar se cubrían cuidadosamente con pedazos rotos de cerámica y hojas de aluminio o restos metálicos, para evitar que la llama las tocara y quemara la cerámica, haciendo que tomara un color marrón rojizo. Una vez que el horno se había enfriado lo suficiente, por último las vasijas se retiraban con cuidado.

Dos vasijas en cerámica negro sobre negro de María Montoya Martínez, 1939 (izq.), 1945 (dcha.)

Vasija alta, 1934 - María Montoya Martínez  Firmas en la base de las vasijas

A María y Julián le fue reconocido haber revitalizado una antigua tradición cerámica, y recibieron reconocimientos internacionales, cuando Julián falleció en 1943. La popularidad de María como artista le permitió desempeñar un papel importante en su comunidad, y fomentar relaciones amistosas con los soldados y científicos del Proyecto Manhattan cuando llegaron a Los Álamos. El ejército ocupaba el terreno para establecer laboratorios científicos e instalaciones de producción industrial, quitándoles a los nativos americanos sus tradicionales tierras de caza, pesca y acampada o sus sitios sagrados ancestrales. La mediación de María creó una oportunidad, ya que el proyecto fomentó la actividad de elaboración de cerámica mediante la creación de un taller que se convirtió en una realidad duradera para la región. Sin mencionar que, debido a las amplias necesidades de personal de mantenimiento y vigilancia que presentaba el proyecto, muchos nativos americanos fueron contratados, generalmente empleados como camioneros, obreros de la construcción, carpinteros y jardineros, incluso el propio hijo de María fue contratado como maquinista; mientras que las mujeres, atraídas por los altos salarios, eran reclutadas como camareras y asistentes a la infancia. Entre los ocupantes se difundió una 'fiebre de coleccionismo', la que hizo que la cerámica fuera muy solicitada, especialmente la de María Montoya Martínez. Sin embargo, para mantener el ritmo de la demanda, se comenzó con la producción en serie de las vasijas, anulando la tradición secular que consistía en elaborar las piezas una por una.

Cuencos en cerámica negra, 1950-59 - María Montoya Martínez

María exhibió su cerámica en cada feria mundial hasta la Segunda Guerra Mundial y formó a tres generaciones de jóvenes de su familia. Con la creciente demanda, se dio cuenta de que su trabajo podía enriquecer la vida artística y económica de todo el pueblo, y compartió generosamente sus técnicas. En esta foto, tomada por Susan Peterson en 1975, María está sentada, a la derecha, con su familia en San Ildefonso. Cinco generaciones han seguido con esta rica tradición de habilidad artística y diseño innovador; la última fue su bisnieta, Bárbara Gonzales, quien aparece de pie en la foto con una camiseta amarilla, junto a sus hijos, Cavan y Aaron.

La familia Martínez - Fotografía de Susan Peterson, 1975

Vasija policromática con dibujo de serpiente Avanyu, 1960 – María Montoya Martínez

En esta vasija vuelve el Avanyu, deidad Tewa, guardiana del agua, representada como una serpiente con cuernos o plumas, cuyas curvas evocan el flujo del agua o el zigzag de los relámpagos. Las obras de María Montoya Martínez, y sobre todo sus cerámicas negras, se hallan en las colecciones de muchos museos, incluyendo el Smithsonian, el Museo de Arte Moderno de Nueva York, el Museo de Arte de Denver, el Museo Penn de Philadelphia y otros más. Falleció el 20 de julio de 1980 en el Pueblo de San Ildefonso. María Montoya Martínez recibió un doctorados honorarios por parte de la Universidad de Colorado y otro de la Universidad de Nuevo México. Malvina Hoffman, destacada escultora estadounidense, realizó su retrato. En 1978, presentó una importante exposición individual en la Renwick Gallery de la Smithsonian Institution. En 2022 fue incluida en un libro de Ferren Gipson sobre el trabajo de las mujeres: Women's Work: From Feminine Arts to Feminist Art.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Maria Montoya Martinez's artistic experimentation with the traditional styles and techniques of ancient Pueblo pottery has helped to preserve the cultural art of her people and has led her to create internationally renowned ceramics. Maria Poveka Montoya was born in 1887 (some say 1885 instead) in San Ildefonso Pueblo, New Mexico, in a Native American community located just over twenty miles northwest of Santa Fe. At an early age she learned the art of pottery from her Aunt Nicolasa, who taught her how to work with clay, and she learned by watching her aunt, her grandmother, and her father's cousin work pottery. Maria and all four of her sisters, Maximiliana (Ana), Juanita, Desideria and Clara, learned and made pottery. Initially, Maria made the traditional polychrome pottery of her village, with black and other colors on a white or light brown background. She shaped the pots by carefully rolling the clay, then smoothing it with scrapers. Her pots were recognized as the thinnest and most beautifully shaped. Her husband, Julian Martinez, an accomplished artist in his own right, decorated them.

Bowl, 1914/15 - Maria Montoya Martinez

In this bowl a horned snake, the Avanyu, Tewa deity, encircles the central surface of the bowl and with its tongue almost touches the tip of the tail, moving its body enough to look alive. The Pueblo people have a particular method of working with clay - they do not use a potter's wheel to shape the pots, which result from layers of material, added spirally one on top of the other.

Handworked, spiral work.

Each pueblo then has its own subculture, its own traditions, mythology, history, rituals. The symbols that decorate the vessels are also different, and it is not always possible to identify their meaning. Another difference lies in the fact that each pueblo has its own secret place for finding clay, therefore, the physical properties of pots produced by various pueblos are also different. Native Americans have had pottery traditions for many millennia. Clay pots have been found dating back 30,000 years. During an excavation in 1908 conducted by Edgar Lee Hewett, professor of archaeology and founder and director of the New Mexico Museum in Santa Fe, broken pieces of prehistoric Pueblo pottery, with original black decoration on a black background, were discovered in the sandy soil and red clay of the New Mexico desert terrain. Hewett sought among the Pueblo people who could recreate pots of this type, that is, black on black, with the intention of thus preserving the ancient art form. Maria Montoya Martinez was known in the Tewa pueblo of San Ildefonso for making fine vessels, therefore, Hewett identified her as the artist who could bring his idea to life. After much trial and error, Maria began to produce black ceramic vases. The first vases for a museum were fired around 1913. These pieces were undecorated, unsigned and of generally crude quality. Her skill improved, however, with each vase, and her art began to cause quite a stir among collectors and turned into a business, leading to the first creation of high quality black-on-black pieces in 1918. The first evidence of this pottery was in a July 1920 exhibition held at the New Mexico Museum of Art.

Black on black with geometric designs - Maria and Julian Martinez, c. 1920

It took a long process of experimentation and overcoming challenges to successfully recreate the style of black on black ceramics and meet Maria's exacting standards. One specific challenge was to find a way to make the clay take on the desired black color.

Maria and Julian Martinez's black ceramic wedding vase, 1929

The lengthy process consists of many steps that require patience and skill. The first step is to collect the clay, an operation that is done once a year, usually in October when it is dry. The clay is then stored in a brick structure where the temperature remains constant. The next step is to start shaping the kneaded clay together with sand and water. The dough is allowed to dry slightly for a day or two. It is then worked using only the hands, with a spiral construction: long, snake-shaped coils gradually build the walls of the pots; with crisscrossing movements, the wall is smoothed and made thin and even as the pot increases in height. Once the workmanship is finished, it is dried and fired. Maria used a firing technique called "reduction firing." A reducing atmosphere occurs when the air surrounding the pot does not contain enough oxygen to feed the flames. This causes a chemical reaction that darkens the clay, giving it that black, or sometimes gunmetal, color. Pots placed in the hearth were carefully covered with broken pieces of pottery and aluminum foil or scrap metal to prevent the flame touching them from burning the pottery, causing it to turn a red-brown color. After the kiln had cooled enough, the pots were finally carefully removed.

Two black-on-black ceramic vases by Maria Montoya Martinez, 1939 (sin), 1945 (dex)

Tall vase, 1934 - Maria Montoya Martinez  Signatures on the base of the vases

Maria and Julian were recognized for revitalizing an ancient tradition of ceramics, and won international recognition when Julian died in 1943. Maria's popularity as an artist led her to play an important role in her community, and to foster friendly relations with Manhattan Project soldiers and scientists when they arrived at Los Alamos. The military occupied the land to establish science laboratories and industrial production facilities there, taking away from Native Americans their traditional hunting, fishing and camping grounds or ancestral sacred sites. Mary's mediation created an opportunity, because the project fostered pottery making with the establishment of a workshop that became a permanent fixture for the region. Not to mention that because the project had a significant need for maintenance and custodial staff, many Native Americans were hired, generally employed as truck drivers, construction workers, carpenters and gardeners, Mary's own son was hired as a machinist, while women, attracted by the high wages, were recruited as maids and childcare workers. A "collector's craze" spread among the occupants, making ceramics, especially those by Maria Montoya Martinez, in high demand. However, in order to keep up with demand, mass production of the pots began, undoing the centuries-old tradition of making the objects one at a time.

Black ceramic bowls, 1950-59 - Maria Montoya Martinez

Maria exhibited her pottery at every world fair until World War II and trained three generations of young people in her family. As demand grew, she realized that her work could artistically and economically enrich the lives of the entire pueblo, and she generously shared her techniques. In this photo, taken by Susan Peterson in 1975, Maria is seated, right with her family in San Ildefonso. Five generations have continued this rich tradition of artistry and innovative design, last the great-granddaughter, Barbara Gonzales, pictured standing, yellow T-shirt, with her sons, Cavan and Aaron.

The Martinez family - Photo by Susan Peterson, 1975

Polychrome vase with Avanyu snake design, 1960 - Maria Montoya Martinez

Returning on this vase is the Avanyu, Tewa deity, guardian of water, depicted as a horned or feathered serpent with curves suggesting the flow of water or the zig-zag of lightning. Maria Montoya Martinez's works, particularly her black ceramics, are in the collections of many museums, including the Smithsonian, the Metropolitan Museum of Art in New York, the Denver Art Museum, the Penn Museum in Philadelphia, and others. She died on July 20, 1980, in San Ildefonso Pueblo. Maria Montoya Martinez received honorary doctorates during her lifetime at the University of Colorado and the University of New Mexico. Malvina Hoffman, a fine American sculptor, created portrait of her. In 1978 she held a major solo exhibition at the Smithsonian Institution's Renwick Gallery. In 2022 she was included in a book on the work of women by Ferren Gipson: Women's Work: From feminine arts to feminist art.

 

Ōtagaki Rengetsu
Cinzia Boschiero

Caori Murata

 

 Ōtagaki Rengetsu (大田垣 蓮月) non ebbe una vita facile. Poeta, calligrafa, ceramista, si manteneva con la produzione di bellissime tazze e teiere, su cui incideva, oppure scriveva sullo smalto, i suoi waka. Con il termine waka (和歌 letteralmente "poesia giapponese") si intende una forma poetica in 31 sillabe divise in 5 versi di 5-7-5-7-7 sillabe rispettivamente. Nacque il 10 febbraio 1791 a Kyot e nella medesima città morì il 10 dicembre 1875. Pare sia stata figlia segreta di una geisha, e quando sia la madre che il fratellastro morirono, fu adottata da una famiglia di samurai. Trascorse la sua prima infanzia nel tempio principale della scuola Jōdo e a dieci anni si trasferì nella zona di Hirado, dove lavorò come dama di corte. Sposò Mochihisa, un giovane samurai adottato dal padre e, nell’anno successivo al matrimonio, diede alla luce tre bambini, che però morirono di lì a poco. Il marito era dedito all’alcol e non le era fedele. Si separarono dopo poco tempo, e in seguito rimase vedova.

Fino all’età di sedici anni visse nel castello di Kameoka come dama di corte; durante la sua permanenza, Otagaki eccelse nella poesia waka, in quanto era un modo classico di comporre versi particolarmente popolare tra le donne durante il periodo Edo. Quando anche il secondo marito e i due figli nati dal loro matrimonio morirono, divenne una monaca buddhista. Proprio nella notte in cui morì il secondo marito, lei si tagliò i capelli, palesando, in tal modo, la decisione di dedicarsi alla vita monacale e di non sposarsi mai più. Aveva trentatré anni e aveva perso tutti i suoi cinque figli; affranta decise di prendere il nome di Rengetsu, Loto di Luna, e divenne monaca della setta buddista della Terra Pura. Non a caso scelse tale nome visto che il significato spirituale del fiore di loto è purezza, gentilezza, compassione, buon cuore e illuminazione del sentiero spirituale. Il fiore di loto cresce al di sopra di un'acqua fangosa, granulosa e sporca e questo parallelismo con la sua esistenza cupa evidenzia come lei volesse superare le difficoltà vissute, elevarsi e rifiorire nel suo animo proprio come un fiore di loto. Le radici si sviluppano in acque impure, ma la bellezza del fiore rimane intatta.

Conosciuta per le sue, diciamo così, “tre dimensioni”: monaca buddhista, poeta e ceramista, è ricordata come una delle più straordinarie figure del panorama artistico giapponese del diciannovesimo secolo. Il suo stile di ceramica, detto Rengetsu, è diventato molto popolare dopo la sua morte e si è tramandato fino a oggi, la superficie è ruvida e irregolare e lei modellava principalmente vasi, tazze per il tè e bottiglie di sakè incidendovi versi sparsi con kana rotondeggianti che infondevano a ogni opera uno stile unico e che tendeva a una semplicità intensa. Amava la natura e da essa traeva emozioni che condivideva. Lo testimoniano diverse sue opere e scritti. Ne ricordiamo uno ad esempio sui ciliegi, alberi tanto legati alla cultura giapponese:

«I fiori di ciliegio
cadono all’apice della loro bellezza
per insegnare in questo mondo
ai nostri cuori
a liberarci dagli attaccamenti»
.

In quanto alla calligrafia sulle tazze e nei tanzaku possiamo senz’altro dire che rispecchia pienamente il suo caratteristico stile, che unisce eleganza e delicatezza a una rotondità dei tratti che evoca subito un senso di grande apertura. Era un donna molto umile e delicata, sensibile nei rapporti umani. Tra gli esempi c’è una lettera diretta a Tomioka Tessai (1836-1924) che in seguito sarebbe diventato il più famoso letterato di Kyoto, particolarmente capace nella pittura e nella calligrafia, ma che allora era un giovane letterato che Ōtagaki Rengetsu aiutava scrivendo waka su alcuni suoi dipinti, e nella lettera gli scrive: «Ti immagino molto occupato, ma ti prego lo stesso di dipingere per me su questi cinque fogli. Mi rammarica sapere che non ne ricaverai molto, comunque mi auguro che tu possa accontentare la mia richiesta. Ti pregherei di dipingere bambù e pini sui fogli contrassegnati e dei kinuta sui due fogli non contrassegnati. Verrò a trovarti presto».

Rengetsu, ormai avanti con gli anni, aveva conquistato più fama di quanta ne desiderasse, mentre Tessai era ancora uno sconosciuto. In queste poche righe traspare quanta delicatezza lei avesse nel lasciar intendere che fosse lui a fare un piacere a lei! Le sue opere sia in ceramica che negli scritti risultano assai delicate e sofisticate, con calligrafie leggere che non rispecchiano affatto la durezza della vita dell’artista anzi sembrano quasi volerla esorcizzare. Nella sua poetica, Rengetsu prediligeva la celebrazione di ciò che sperimentava nella vita di tutti i giorni, univa gli aspetti spirituali con quelli tangibili. Molto della sua peculiarità si deve all'istruzione poliedrica: infatti imparò fin da adolescente le arti marziali come l'uso di spada, lancia, falce e catena, ma anche letteratura, poesia, calligrafia, ikebana, la cerimonia del tè. Come ceramista fu autodidatta. Amava conoscere il mondo e si procurava da sola l’argilla per creare le sue ceramiche da lavorare proprio durante i suoi viaggi. Così come Bashō e altri poeti itineranti, Rengetsu accettava le difficoltà di ogni viaggio e rimaneva colpita dalla magnificenza della natura, che la ispirava; questo traspare soprattutto nelle sue poesie. Rengetsu cercò di guadagnarsi da vivere come insegnante, ma per la sua natura solitaria, preferì rinunciarvi.

Il suo aspetto fisico pare fosse talmente bello che, nonostante la veste monacale, veniva spesso importunata dagli uomini. Al fine di rendersi meno attraente, intorno ai quarant’anni prese la drastica decisione di estrarsi tutti i denti. Tomioka Tessai fece un ritratto di Rengetsu come monaca anziana nella primavera del 1877, circa due anni dopo la sua morte, con questa iscrizione: «Dall’infanzia era saggia, brava nelle poesie giapponesi e imparò le arti militari». Durante la sua travagliata esistenza la poeta perse pure due fratelli adottivi; nelle sue opere dunque espresse spesso intensa malinconia dovuta a queste perdite durante l’arco come in questi dolenti versi:

«I miei figli...
Io ero solita accarezzare
I loro capelli dormienti nel mattino
Sdraiata sulla mia manica –
La rugiada bianca sui fiori di rosa».

Nel 1832, quando Rengetsu aveva 42 anni, Saishin, l'unico padre che avesse mai conosciuto, morì all'età di 78 anni. Rengetsu, pur affranta dal dolore e, sola, in una cultura nipponica del tutto maschilista, dovette mettersi in gioco ancora per potersi mantenere. Dai suoi scritti, sia da monaca che come artista, emerge nonostante tutto una insita capacità di autoironia, molta onestà di intenti e uno stile semplice sia di vita che di contenuti che traspare pure nella linearità delle sue ceramiche. Visse in umiltà, vendeva le sue opere ovunque potesse, come espresso in questa poesia:

«Come un passatempo
Portare goffo
Cose fragili da vendere
Mercato di Uruma –
Che sola!»

Persone di ogni ceto sociale seppero apprezzare le sue opere, tanto che l’artista dovette muoversi costantemente per evitare di avere il suo lavoro interrotto dalle richieste, e decise di trascorrere la maggior parte del tempo nel distretto di Okazaki vicino alle montagne orientali di Kyoto. Non a caso perché molti dei grandi forni di Kyoto (come Kiyomizu e Awataguchi) erano abbastanza vicini. Di conseguenza, collaborò con diversi noti ceramisti, tra cui Kuroda Kouryou del forno Koryouzan e Kinkouzan VI (1824-1884). Anche la sua abilità con il pennello negli anni crebbe. La sua delicatezza di linee iniziò ad assumere un ritmo magistrale e a riflettere la grazia e l’energia interiore della sua vita. Incise i dipinti di molti famosi pittori di Kyoto, in particolare quelli della scuola Shijou, una linea fondata da Matsumura Goshun (1752-1811) e Maruyama Okyo (1733-1795). Tra loro c'era Tomioka Tessai (1837-1924), con il quale aveva una relazione straordinariamente stretta, Wada Gozan (1800-1875), Nakajima Raisho (1796-1871), Mori Kansai (1814-1894), Kishi Chikudo (1826-1897), Hasegawa Gyokuho (1822-1879), Shiokawa Bunrin (1801-1877) e Reizei Tamika (1823). Divenne anche ben nota nei circoli ecclesiastici, viaggiando in molti templi per riunioni e brevi soggiorni. Era un'avida corrispondente e sono a noi pervenute oltre trecento lettere conservate in vari luoghi.

Dai suoi scritti emerge che era filo-monarchica. Non era affezionata allo shogunato Tokugawa e nutriva grande simpatia per l'imperatore, sperando che avrebbe preso di nuovo il timone degli affari di governo. Soprattutto era una pacifista, che sosteneva il rispetto reciproco e la gentile persuasione nella risoluzione dei conflitti. Passò alla storia come lei si prodigò e implorò alla moderazione il generale Shimazu Tadayoshi (1840-1897). L’artista infatti credeva nella bontà dell’essere umano e promuoveva il dialogo come mezzo per risolvere controversie. Celebre è l’episodio in cui prega Shimazu Tadayoshi, daimyō di Satsuma, di evitare la violenza vista la rivolta in atto. Lei nascose un monarchico, che aveva fatto arrabbiare lo Shogun ed era in fuga. La sua dolce fede nella buona volontà umana è evidente in questa poesia, composta intorno all'arrivo delle navi nere dell'ammiraglio Perry nel 1853 e al suo ritorno nel 1854:

«In arrivo
Come la pioggia di primavera che cade
L'America sarà gentile
Come umidità per la terra
Per il bene della nostra gente»
.

Traeva ispirazione per le sue opere da ogni situazione, ogni fiore, animale o persona incontrati sulla sua strada che le era preziosa. Il risultato sono poesie e opere d'arte che non risultano essere puramente decorative o di qualità estetica apprezzabile, ma che trasmettono forza e sono infuse di energia, rappresentano lo spirito di chi ha visto e sperimentato la vita con tutto il suo essere. Con l’avanzare degli anni, l’artista iniziò ad esprimere, a volte comicamente, a volte malinconicamente, le difficoltà, fisiche ed emotive, dell’invecchiamento. In questa poesia mostra la sua continua sorpresa mentre ogni nuovo anno arriva, richiedendole, come dice l'usanza, di mangiare più fagioli (uno per ogni anno) a Setsubun, un festival intorno all'inizio della primavera.

«Quando ho visto i fagioli
Riempire i miei palmi
E fuoriuscire
Ho dovuto chiedermi: -
È stato per qualcun altro?»

Nella seguente Renegstu lamenta l'invecchiamento del proprio corpo:

«Quante volte devo dormire
Prima che arrivi la primavera?
Conto sempre i giorni sulle dita
Ma ora, alla fine di un altro anno
La mia schiena è più piegata di loro»
.

Intorno ai 75 anni, Rengetsu sapeva che i suoi lunghi periodi di viaggio e i suoi movimenti costanti avrebbero dovuto cedere il passo a una vita più tranquilla. Fu così che l'abate Wada Gozan (1800-1870), noto anche come Gesshin (Luna Mente), le offrì di stare nel suo santuario. Nel 1865 si stabilì in una piccola capanna nei recinti di Jinkou’in (Tempio della Luce Celeste), nel piccolo villaggio di Nishigamo, a poca distanza da Kyoto, dove visse fino al decesso o meglio da lei chiamato “passaggio” nel 1875. Gli ultimi dieci anni dell'esistenza sono stati di gran lunga il periodo più artisticamente produttivo: lavorava con poche interruzioni in un luogo remoto, tranquillo, spirituale, circondato da pini, uccelli e stagni. Collaborò con Gozan che era un pittore e poeta, e quando lui morì nel 1870, lei soggiornò a Jinkou’in con il patrocinio di suo figlio, Wada Chiman (1835-1910). L’artista, in tutti i luoghi dove è stata, ha lasciato un buon ricordo, ma soprattutto a Nishigamo, era stata molto amata, dove aveva vissuto per un decennio e aveva prestato particolare attenzione a bambine e bambini del villaggio, usando le sue risorse per alleviare la sofferenza e fornire insegnamento a molti. La sua morte fu motivo di grande dolore tra gli abitanti del villaggio, che si prodigarono per la preparazione del suo corpo per la sepoltura. Ancora oggi è comunque rammentata come una delle “luci più brillanti” del XIX secolo di Kyoto. Tuttora nella processione annuale del Jidai Matsuri (Festival delle Ere) si presenta un attore in costume che interpreta la giovane Rengetsu. I suoi atti di carità sono anche ricordati, come quando lei e Wada Gozan hanno prodotto 1.000 immagini di Kan’non, Bodhisattva della Misericordia, e li hanno venduti per raccogliere fondi per le vittime delle inondazioni. Le sue opere sono diffuse ampiamente e sono state esposte nel corso degli anni e i sacerdoti di Jinkou’in sono tradizionalmente utilizzati per la loro perizia di autenticatori. Vi sono diverse leggende e storie su di lei pure attraverso la tradizione orale di Kyoto e la leggenda narra, ad esempio, che una volta ogni famiglia locale avesse un esemplare di una sua opera d'arte.

Più di 900 poesie sono disponibili in inglese e giapponese nel database di ricerca online (www.rengetsu.org). Sono in corso piani per tradurle in altre lingue nei prossimi anni, a partire dal tedesco e dall’italiano, e aggiungerle alla banca dati. La Fondazione evidenzia: «crediamo che il suo spirito rimanga accessibile… tenendo una delle sue ciotole da tè, le persone possono sentire, con la punta delle dita, le impressioni che Rengetsu ha lasciato di e con sé quando lo ha modellato. Leggere una sua lettera su una visita in un giardino ricorda un modo di pensare prevalente nella storia umana, ma quasi perso in questa epoca moderna: l’assunto che le nostre vite siano intrecciate con la natura. Infine, le sue poesie continuano a offrire il semplice piacere del verso e la dimostrazione di un’idea profonda: che la sofferenza e la gioia, prese insieme, ci danno la capacità di vedere con amore».


Traduzione francese

Angela Incorvaia

Ôtagaki Rengetsu (大田垣 蓮月) n'a pas eu une vie facile. Poète, calligraphe, céramiste, elle subvenait à ses besoins produisant de très belles tasses et théières, sur lesquelles elle gravait ou bien elle écrivait sur l’émail, ses waka. Le terme waka (littéralment cela signifie poesie japonaise ), ça veut dire forme poètique en 31 syllabes partagées en 5 vers, respectivement de 5-7-5-7-7 syllabes. Elle est née le 10 février 1791 à Kyoto et elle est morte dans la même ville le 10 décembre 1875.Il semble qu’elle était la fille secrète d’une geisha et quand la mère et son demi- frère sont morts, elle fut adoptée par une famille de samourai. Elle a passé sa petite enfance dans le temple principal de l’école Jõdo et à 10 ans elle a déménagé dans la région de Hirado, où elle a travaillé comme dame de la cour. Elle épousa Mochihisa, un jeune samourai adopté par son père et l’année après son mariage elle a donné naissance à 3 enfants, qui malheureusement sont morts peu de temps après. Son mari était alcolique et infidèle. Ils se sont séparés peu de temps après et par la suite était restée veuve.

Jusqu’à l'âge de 16 ans elle a vécu dans le château de Kameoka comme dame de la cour; pendant son séjour, Otagaki excellait dans la poésie waka, car c’était un moyen classique de composer des vers particulièrement populaires parmi les femmes pendant la période Edo.Quand le deuxième mari et les 2 emfants nés par leur mariage sont morts, elle est devenue une religieuse bouddhiste. La nuit même où son deuxième mari est mort, elle se coupa les cheveux, pour exprimer de cette manière, la dêcision de se consacrer à la vie monastique et de ne plus jamais se remarier. Elle avait 33 ans et avait perdu tous ses 5 enfants; le coeur brisé de prendre le nom de Rengetsu, Lotus Lunaire, et elle devint religieuse de la secte bouddhiste de la Terre Pure.C'è n’est pas un hasard qu’elle choisit tel nom étant donné que la signification spirituelle de la fleur de l'opus est la pureté, la gentillesse, la compassion, le bon coeur et l’illumination du sentier spirituel. La fleur de lotus pousse au- dessus d’une eau boueuse, granuleuse et sale et ce parallélisme avec sa sombre existence; ceci met en évidence comment elle voulait surmonter les difficultés vécues, s’élever et refleurir dans son âme propre comme une fleur de lotus. Les racines se développent dans les eaux impures, mais la beauté de la fleur de lotus reste intacte.

Comme pars es, "disons ainsi", trois dimensions: religieuse bouddhiste, poète et céramiste; elle est considérée comme une des figures les plus extraordinaires du panorama artistique japonais du XIX siècle. Son style céramique, appelé Rengetsu , est devenu très popolaire après sa mort et cela a été transmis jusqu’à aujourd’hui; la surface est rugueuse et irrégulière et elle modelait principalement des Vases, des tasses de thé, des bouteilles de saké où elle y gravait des vers dispersés avec des kana arrondis qui a imprégné dans chaque oeuvre un style unique et qui tendait vers une simplicité intense. Elle aimait la nature et elle en tirait des émotions qu’elle a partagées.Ses oeuvres variées et ses écrits en témoignent.On se souvient d’ un écrit, par exemple, sur les cerisiers, des arbres très liés à la culture japonaise:

«les fleurs de cerisiers
tombent au sommet de leur beauté
pour enseigner à ce monde,
à nos coeur de nou libérer des attachements».

En ce qui concerne la calligraphie sur les tasses et dans les tanzaku nous pouvons certainement dire qu’elle reflète pleinement son style caractéristique, qui unit élégance et dêlicatesse a une rondeur des traits qui évoque tout de suite un sens de grande ouverture. C’était une femme très humble et délicate, sensible aux rapports humains. Parmi les exemples il y a une lettre adréssée à Tomioka Tessai qui par la suite serait devenu l’écrivain le plus fameux de Kyoto. Il était particulièrement doué en peinture et en calligraphie, mais à l’époque c’était un jeune homme de lettres que Ôtagaki Rengetsu aidait en écrivant waka sur certaines de ses peintures, et dans la lettre elle lui écrit: «je t’imagine très occupé, mais je te prie quand même de peindre pour moi sur ces 5 feuilles. Je suis désolée d’apprendre que vous n’en tirerez pas grand chose; de toute façon je souhaite que tu puisses répondre à ma demande. Je te prierais de peindre des bambù et des pins sur des feuilles marquées et des kinuta sur 2 feuilles qui ne sont pas marquées. Je viendrai te rendre visite bientôt».

Rengtsu, maintenant avancée en âge, avait acquis plus de renommée qu’elle ne le souhaitait, pendant que Tessai était encore plus inconnu.Dans ces quelques lignes on voit combien de délicatesse elle avait à faire comprendre que c’était lui qui lui rendait service! Ses oeuvres tant qu’en céramique que dans les écrits sont très délicates et sophistiquées, avec une légère calligraphie qui ne reflète pas du tout la dureté de la vie de l’artiste, au contraire, elle semble presque vouloir l’exociser. Dans sa poétique Rengtsu privilégie la célébration de ce qu’elle vit tous les jours; elle unissait les aspects spirituels avec les aspects tangibiles. Une grande partie de sa particularité est dùe à l’éducation multiforme: en effet elle a appris dès son adolèscence les arts martiaux tels que l’utilisation de l’épée, de la lance, de la faucille, de la chaîne, mais elle s’est interessée aussi à la littérature, la poésie, la calligrahie, Ikebana et la cérémonie du thé. Comme céramiste, elle était autodidacte. Elle aimait découvrir le monde et toute seule elle se procurait l’argile pour créer ses céramiques qu’elle travaillait pendant ses voyages. Ainsi, comme Bashò et d’autres poètes itinérants, Rengetsu acceptait les difficultés de chaque voyage et elle a été frappée par la magnificence de la nature, qui l’inspirait; tout cela transparaît surtout dans ses poèmes.Rengetsu a checché de gagner sa vie comme enseignante mais à cause de sa nature solitaire, elle a préféré y renoncer.

Son aspect physique était tellement beau que malgrè l’habit monastique, elle était souvent harcelée par les hommes. Afin de se rendre moins attirante, vers l’âge de 40 ans, elle a pris la décision de se faire arracher toutes les dents. Tomioko Tessai a fait un portrait de Rengetsu devenue une ancienne religieuse au printemps 1877, environ deux ans après sa mort, avec comme inscription. «Depuis l’enfance elle était sage, douée pour les poésies japonaises et elle a appris les arts militaires». Pendant son existence troublée, elle a aussi perdu 2 frères adoptifs; donc dans ses oeuvres elle exprimait une profonde mélancolie dùe à ces pertes pendant l’arc de sa vie commedans ces vers douloureux:

«Mes enfants...
J'avais l’habitude de caresser
leurs cheveux endormis le matin
allongée sur ma manche -
La rosée blanche sur les fleurs roses»

En 1832, quand Rengetsu avit 42 ans, Saishin, le seul père que j’avais jamais connu, était mort à l’âge de 78 ans.Rengetsu , bien que accablée de chagrin et seule dans une culture japonaise entièrement dominée par les hommes et qui a quand même besoin d’avancer pour pouvoir se maintenir. D’après ses écrits comme religieuse et comme artiste, malgré tout cela on remarque une capacité inhérente à l’auto- ironie et une grande honnêteté. Une honnêteté d’intention et un style de vie et de contenu simple qui transparaît aussi dans la linéarité e ses céramiques. Elle a vécu dans l 'humilité et elle vendait ses oeuvres partout où elle pouvait comme elle l’exprimait dans ce poème:

«comme un passe- temps
à porter maladroitement
des choses fragiles à vendre
Marché de Urama -
Quel gaspillage!»

Des gens de chaque niveau social ont apprécié ses oeuvres à tel point qu’elle a dù se déplacer constamment pour éviter une intérruption de son travail malgré les demandes. Elle décide de passer plus de temps dans le quartier de Okazaki, près des montagnes orientales de Kyoto; et ce n’est pas par hasard parce que de nombreux forse de Kyoto ( comme Kiyomizu et Awataguchi ) étaient assez près. Par conséquent, elle a collaboré avec plusieurs célèbres céramistes comme Kuroda Kouryou du four de Kouyouzan et Kinkouzan VI (1824- 1884). Dans les années, ses compétences se sont également améliorées. La délicatesse de ses lignes s’est transformée en un rhytme magistral tout en reflètant la grãce et l’énergie intérieure de sa vie. Elle a gravé les peintures de nombreux artistes célèbres de Kyoto, en particulier ceux de l’école Shijou, une ligne fondée par Matsumura Goshun (1752-1811) et Maruyama Okyo (1733 -1795). Parmi eux il y avait Tomioka Tessai (1837- 1924), avec lequel elle avait une relation extraordinairement étroite, Wada Gozan (1800- 1875) Nakajima Raisho (1796-1871), Mori Kansai (1814-1894)Kishi Chikudo (1826-1897) Hasegawa Gyokuno (1822-1879), Shiokawa Bunrin (1801-1817) et Reizei Tamika (1823). Elle est également devenue célèbre dans les associations ecclésiastiques, voyageant et visitant de nombreux temples; participant aussi aux réunions et aux brefs séjours. C’était une correspondante passionée et plus de 300 lettres bien conservées dans divers lieux nous sont parvenues.

D’après ses écrits on se rend compte qu’elle était pro- monarchiste. Elle n’aimait pas le shogunato Tokugawa et elle avait une grande sympathie envers l’Empereur, en espèrant qu’il aurait de nouveau pris la barre des affaires du gouvernement.C 'était surtout une pacifiste, qui soutenait le respect réciproque et la douce persuasion pour la résolution des conflits. Elle est entrée dans l’histoire parce qu’elle a fait de son mieux et parce qu’elle a supplié une modération de la part du général Shimuzu Tadayoshi (1840-1897). En fait l’artiste croyait en la bonté de l’être humain et elle a insisté pour promouvoir le dialogue pour résoudre enfin les conflits. Dans un célèbre épisode elle prie Shimazu Tadayoshi, daimyó de Satsuma d’éviter la violence étant donné l’émeute en cours.Elle avait caché un monarchiste, qui avait mis en colère le Shogun et qui était en fuite.Sa douce foi envers la bontà humaine est évidente dans ce poème composé à l’arrivée des bâteaux noirs de l’amiral Perry en 1853 et à son retour en 1854:

«À venir
Comme la pluie du printemps qui tombe
L'Amérique sera gentille
comme humidité pour la Terre
pour le bien de nos gens».

Elle s’est inspirée de ses oeuvres pour chaque situation, chaque fleur, chaque animal ou chaque personne rencontrés sur son chemin; tout cela lui était prècieux. Le résultat sont les poésies et les oeuvres d’art qui ne sont pas vraiment décoratives ou d’une qualitativi esthétique appréciée, mais qui transmettent une certaine force et beaucoup d 'énergie. Tout cela représente l’esprit de celui qui a vécu et a expérimenté la vie de tout son être. Au fil des années, l’artiste a commencé à s’exprimer, parfois de façon comique et parfois avec mélancolie; on apercevait déjà les difficultés physiques et émotives du vieillissement. Dans cette poésie, elle démontre une surprise continue au fur et à mesure que une nouvelle année arrive, lui demandant, comme dit I' une coutume de manger plus de haricots ( un pour chaque année) à Setsubun, un festival organisé au début du printemps.

«Quand j’ai vu les haricots
remplir mes paumes
et déborder
J'ai du me demander: -
c’est pour quelqu’un d’autre?».

Dans ce qui suit Rengtsu se plaint du vieillissement de son corps:

«Combien de fois je dois dormir
Avant que le printemps arrive ?
Je conpte les jours sur les doigts
Mais maintenant, à la fin d’une autre année
Mon dos est encore plus plié que le leur»

Vers ses 75 ans, Rengtsu savait que ses longs voyages et tous ses mouvements auraient dù céder le pas à une vie plus tranquille. C 'est ainsi que I’abbé Wada Gozan( 1800-1870 )connu aussi comme Gesshin (Lune Esprit), lui a offert de vivre dans son sanctuaire. En 1865 elle s’établit dans une petite cabane dans les enclos de Jinkou’In (Temple de la lLumière Celeste), dans le petit village de Nishigamo, pas très loin de Kyoto, où elle a vécu jusqu’à son décés ou bien comme elle l’appelait "passage" en 1875. Les dernières années de son existence ont été de très loin la période la plus productive du côté artistique: elle travaillait dans un endroit éloigné et avec peu d’interruptions; c’était un lieu tranquille, spirituel, entouré de pins, d’oiseaux et d’étangs. Elle a collaboré avec Gozan qui était un peintre et poète, et quand il est mort en 1870, elle a séjourné à Jinkou'In en collaboration de son fils, Wada Chiman (1835-1910). Dans tous les endroits où elle a vécu, elle a laissé un bon souvenir d’elle, mais surtout à Nishigamo où elle était très aimée et où elle a habité pendant une dizaine d’années. Elle s’occupait attentivement et en particulier des enfants du village en utilisant ses ressources pour soulager leur souffrance et pour fournir des enseignements à ces nombreuses personnes. Sa mort fut une cause de grande tristesse pour les habitants du village, qui cosacrèrent leus éffots à la préparation de son corps pour l’enterrement.on se souvient encore aujourd’hui d’elle comme une des "lumières très brillantes" du XIX siècle de Kyoto. Toujours à la procession annuelle du Jidai Masturi ( Festival des Àges ) un acteur en costume se présete et interprète la jeune Rengtsu. On se rappelle encore de ses actes de charité, òu elle a produit avec son ami Wada Gozan 1000 images de Kan’non, Bodhisattva de la Miséricorde , et ils les ont vendu pour recueillir des fonds pour les victimes des inondations. Ses oeuvres sont largement diffusées et elles ont été exposées au fil des années. Les prêtes de Jinkou 'In comme par tradition sont utilisés pour leur expertise de certifications authentiques. Il y a plusieurs légendes et histoires qui parlent d’elle et surtout à travers la tradition orale de Kyoto; la légende raconte par exemple qu’autrefois chaque famille avait un exemplaire d’une de ses oeuvres d’art.

De nos jours, il existe 2 éditions, 2 volumes particuliers qui ont été publié sur son travail: À Poetry Album of Ladies (Rengetsu Shikibu Nijo Wakashuu), publié par Kinbyoudou en 1868 et qui contient 99 poèmes, 48 de Rengetsu et 51 de son ami Takabatake. Shikibou (1785-1881) et Seaweed Diver’Harvest (Ama no Karumo ), publié par San’eidou, c 1871, et qui contient 310 poèmes. Ses poèmes recoivent des éloges encore aujourd'hui et sont importants parmi les précurseurs de Tanka ( vers moderne en mètre traditionnel ) et même aussi du shousetsu waka kushi (i.novel).Comme ces formes littéraires, en effet le poème de Rengetsu repousse les limites du vocabulaire traditionnel, de la syntaxe et de la forme, souvent utilisant l’expérience émotive de l’auteur comme sujet. Les maîtres modernes et pratiquants de la céré monie du thé continuent à utiliser des ustensiles et des parchemins.Et récemment sa poésie et ses ouvrages ont rejoint la scène internazionale. Les Musées en Australie et aux Etats Unis ont accueilli des expositions de son travail et d’autres sont programmées en Europe, en Amérique Latine et en Afrique. La Fondation Rengetsu a traduit toutes ses oeuvres publiées et queles nouvelles poésies découvertes sur ses mêmes oeuvres d’art.

Plus de 900 poèmes sont dsponlibles en anglais et en japonais dans les bases de données de recherche online www.rengetsu.org. Il y a en projet de les traduire dans d’autres langues dans les prochaines années surtout en allemand et en italien afin de les ajouter à la base de données.la Fondation met en évidence:«nous croyons que son esprit reste accessibile...en tenant un de ses bols de thé, les personnes peuvent sentir, à la pointe des doigs, les impréssions que Rengetsu a laissé d’elle quand elle les a moulé. Lire une letrre de Rengetsu où elle visite un jardin nous rappelle une façon de penser répendue dans l’histoire humaine mais presque disparue dans cette époque moderne: l’hypothèse selon laquelle nos vies sont étroitement liées à la nature. À la fin ses poèmes continuent à nous offrir un simple plaisir du vers et la démonstration d’une idée profonde: que la souffrance et la joie mises ensemble, nous donne la capacité de tout voir avec amour».


Traduzione spagnola

Francesco Rapisarda

 Ōtagaki Rengetsu (大田垣 蓮月) no tuvo una vida fácil. Poeta, calígrafa y ceramista, se mantenía elaborando hermosas tazas y teteras, sobre las cuales grababa o escribía con esmalte sus waka. Con el término waka (和歌, literalmente "poesía japonesa") se hace referencia a una forma poética de 31 sílabas, divididas en 5 versos de 5-7-5-7-7 sílabas respectivamente. Nació el 10 de febrero de 1791 en Kioto y en esa misma ciudad falleció el 10 de diciembre de 1875. Se dice que fue hija secreta de una geisha, y cuando tanto su madre como su hermanastro murieron, fue adoptada por una familia de samuráis. Pasó su primera infancia en el templo principal de la escuela Jōdo y, a los diez años, se mudó a la zona de Hirado, donde trabajó como dama de la corte. Se casó con Mochihisa, un joven samurái adoptado por su padre, y al año siguiente del matrimonio dio a luz a tres hijos, que murieron poco tiempo después. Su esposo era alcohólico y no le era fiel. Se separaron al poco tiempo y más tarde quedó viuda.

Hasta los dieciséis años vivió en el castillo de Kameoka como dama de la corte; durante su estancia allí, Ōtagaki se destacó en la poesía waka, que era una forma clásica de componer versos muy popular entre las mujeres durante el período Edo. Cuando también fallecieron su segundo marido y los dos hijos nacidos de ese matrimonio, se hizo en monja budista. Justo la noche en que murió su segundo marido, ella se cortó el cabello, manifestando así su decisión de dedicarse a la vida monástica y de no volver a casarse nunca más. Tenía treinta y tres años y había perdido a sus cinco hijos; desolada, decidió tomar el nombre de Rengetsu, que significa “Loto de Luna”, y se hizo monja de la secta budista de la Tierra Pura. No eligió ese nombre por casualidad, ya que el significado espiritual de la flor de loto es pureza, gentileza, compasión, buen corazón e iluminación del camino espiritual. El loto crece por encima de aguas fangosas, turbias y sucias, y este paralelismo con su sombría existencia evidencia cómo ella deseaba superar las dificultades vividas, elevarse y florecer nuevamente en su interior, tal como lo hace una flor de loto. Sus raíces se desarrollan en aguas impuras, pero la belleza de la flor permanece intacta.

Conocida por sus, digamos, “tres dimensiones”: monja budista, poeta y ceramista, es recordada como una de las figuras más extraordinarias del panorama artístico japonés del siglo XIX. Su estilo de cerámica, llamado con su nombre, Rengetsu, se volvió muy popular tras su muerte y se ha transmitido hasta hoy. La superficie de sus piezas es rugosa e irregular, y ella moldeaba principalmente jarrones, tazas para el té y botellas de sake, en las que grababa versos dispersos con kana de trazos redondeados que infundía a cada obra un estilo único, tendente a una intensa simplicidad. Amaba la naturaleza, y de ella extraía emociones que luego compartía. Esto lo demuestran varias de sus obras y escritos. Por ejemplo, recordamos uno dedicado a los cerezos, árboles profundamente ligados a la cultura japonesa:

«Las flores del cerezo
caen en el punto culminante de su belleza
para enseñar a nuestros corazones,
en este mundo,
a liberarse de los apegos».

En cuanto a la caligrafía que realizaba sobre las tazas y en los tanzaku, podemos decir sin duda que refleja plenamente su estilo característico: una fusión de elegancia y delicadeza con una redondez en los trazos que inmediatamente evoca una gran apertura espiritual. Fue una mujer muy humilde y delicada, sensible en las relaciones humanas. Un ejemplo de ello es una carta dirigida a Tomioka Tessai (1836–1924), quien más tarde se convertiría en el literato más célebre de Kioto, especialmente destacado en pintura y caligrafía, aunque en ese entonces aún era un joven escritor. Ōtagaki Rengetsu lo ayudaba escribiendo waka sobre algunas de sus pinturas, y en la carta le escribe: «Te imagino muy ocupado, pero aun así te ruego que pintes para mí en estas cinco hojas. Lamento saber que no obtendrás mucho por ello, sin embargo, espero que puedas complacer mi petición. Te pediría que pintaras bambúes y pinos en las hojas marcadas, y unos kinuta en las dos hojas no marcadas. Iré a visitarte pronto».

Rengetsu, ya en edad avanzada, había alcanzado más fama de la que deseaba, mientras que Tessai aún era un desconocido. En estas pocas líneas se percibe cuánta delicadeza tenía ella al insinuar que era él quien le estaba haciendo un favor a ella. Sus obras, tanto en cerámica como en escritura, resultan sumamente delicadas y sofisticadas, con caligrafías ligeras que en absoluto reflejan la dureza de la vida de la artista; al contrario, parecen casi querer exorcizarla. En su poética, Rengetsu prefería celebrar aquello que experimentaba en la vida cotidiana, uniendo los aspectos espirituales con los tangibles. Mucho de su singularidad se debe a su educación polifacética: desde adolescente aprendió artes marciales como el uso de la espada, la lanza, la hoz y la cadena, pero también literatura, poesía, caligrafía, ikebana y la ceremonia del té. Como ceramista, fue autodidacta. Amaba conocer el mundo y recolectaba personalmente la arcilla con la que elaboraba sus piezas durante sus viajes. Al igual que Bashō y otros poetas itinerantes, Rengetsu aceptaba las dificultades de cada viaje y se maravillaba por la grandeza de la naturaleza, que la inspiraba profundamente; esto se refleja especialmente en sus poemas. Rengetsu intentó ganarse la vida como maestra, pero debido a su naturaleza solitaria prefirió renunciar a ello.

Se dice que su aspecto físico era tan bello que, a pesar de vestir hábito monacal, era con frecuencia acosada por los hombres. Para volverse menos atractiva, hacia los cuarenta años tomó la drástica decisión de arrancarse todos los dientes. Tomioka Tessai realizó un retrato de Rengetsu como anciana monja en la primavera de 1877, aproximadamente dos años después de su muerte, con esta inscripción: «Desde la infancia fue sabia, buena en la poesía japonesa y aprendió las artes marciales». Durante su angustiada existencia, la poeta también perdió a dos hermanos adoptivos; por ello, en sus obras expresó a menudo una intensa melancolía provocada por estas pérdidas a lo largo de su vida. Como en estos dolientes versos:

«Mis hijos…
Solía acariciar
su cabello dormido por la mañana
acostada sobre mi manga –
El rocío blanco sobre las flores de rosa».

En 1832, cuando Rengetsu tenía 42 años, Saishin, el único padre que había conocido, murió a los 78 años. Rengetsu, afligida por el dolor y sola en una cultura japonesa profundamente machista, tuvo que reinventarse una vez más para poder mantenerse. De sus escritos, tanto como monja como artista, emerge —a pesar de todo— una congénita capacidad de autoironía, mucha honestidad en sus intenciones y un estilo de vida y de expresión simple, que también se refleja en la sobriedad de sus cerámicas. Vivió con humildad y vendía sus obras dondequiera que podía, como expresa en este poema:

«Como un pasatiempo
llevar torpemente
cosas frágiles para vender
al mercado de Uruma –
¡Qué sola!»

Personas de todas las clases sociales supieron apreciar sus obras, tanto que la artista se veía obligada a desplazarse constantemente para evitar que las solicitudes interrumpieran su trabajo. Decidió entonces pasar la mayor parte del tiempo en el distrito de Okazaki, cerca de las montañas orientales de Kioto. No fue una elección casual: muchos de los grandes hornos de cerámica de Kioto (como los de Kiyomizu y Awataguchi) estaban lo suficientemente cerca. Como resultado, colaboró con varios ceramistas conocidos, entre ellos Kuroda Kōryō del horno Kōryōzan, y Kinkōzan VI (1824–1884). También su habilidad con el pincel fue mejorando con los años. La delicadeza de sus líneas comenzó a adquirir un ritmo magistral, reflejando la gracia y la energía interior de su vida. Grabó poemas en las pinturas de muchos artistas famosos de Kioto, especialmente los de la escuela Shijō, una corriente fundada por Matsumura Goshun (1752–1811) y Maruyama Ōkyo (1733–1795). Entre estos artistas se encontraban:

  • Tomioka Tessai (1837–1924), con quien mantenía una relación extraordinariamente estrecha;
  • Wada Gozan (1800–1875);
  • Nakajima Raishō (1796–1871);
  • Mori Kansai (1814–1894);
  • Kishi Chikudō (1826–1897);
  • Hasegawa Gyokuho (1822–1879);
  • Shiokawa Bunrin (1801–1877);
  • Reizei Tamika (1823).

También se hizo muy conocida en los círculos religiosos, viajando por numerosos templos para reuniones y breves estancias. Fue una ávida correspondiente, y hoy en día se conservan más de trescientas cartas suyas en diversos lugares. De sus escritos se desprende que era pro-monárquica. No sentía afecto por el shogunato Tokugawa y tenía gran simpatía por el emperador, con la esperanza de que este volviera a tomar las riendas del gobierno. Sobre todo, fue una pacifista, que promovía el respeto mutuo y la persuasión gentil como medios para la resolución de conflictos. Pasó a la historia por haberse esforzado e incluso suplicado por la moderación al general Shimazu Tadayoshi (1840–1897). Esta artista creía firmemente en la bondad del ser humano y fomentaba el diálogo como vía para resolver las disputas. Es célebre el episodio en el que le ruega a Shimazu Tadayoshi, daimyō de Satsuma, que evite la violencia ante una revuelta en curso. Rengetsu incluso escondió a un partidario del emperador que había enfurecido al shōgun y estaba huyendo. Su dulce fe en la buena voluntad humana se refleja claramente en este poema, compuesto en torno a la llegada de los barcos negros del almirante Perry en 1853 y su regreso en 1854:

«Al llegar,
como la lluvia de primavera que cae,
América será amable,
como la humedad para la tierra,
por el bien de nuestro pueblo».

Rengetsu encontraba inspiración para sus obras en cada situación: cada flor, animal o persona que encontraba en su camino era valiosa para ella. El resultado son poemas y obras de arte que no son meramente decorativos o estéticamente agradables, sino que transmiten fuerza, están impregnados de energía y representan el espíritu de alguien que ha visto y experimentado la vida con todo su ser. Con el paso de los años, la artista empezó a expresar —a veces con humor, a veces con melancolía— las dificultades físicas y emocionales del envejecimiento. En este poema muestra su continua sorpresa al llegar cada nuevo año, que según la costumbre japonesa debe celebrarse comiendo un frijol por cada año de vida durante el festival de Setsubun, que marca el inicio de la primavera:

«Cuando vi los frijoles
llenar mis palmas
y desbordarse,
tuve que preguntarme: —
¿Eran para otra persona?»

En el siguiente poema, Rengetsu lamenta el envejecimiento de su cuerpo:

«¿Cuántas veces debo dormir
antes de que llegue la primavera?
Siempre cuento los días con los dedos,
pero ahora, al final de otro año,
mi espalda está más encorvada que ellos».

Alrededor de los 75 años, Rengetsu sabía que sus largos periodos de viaje y sus movimientos constantes debían dar paso a una vida más tranquila. Fue entonces cuando el abad Wada Gozan (1800–1870), también conocido como Gesshin ("Mente de Luna"), le ofreció hospedarse en su santuario. En 1865 se estableció en una pequeña cabaña dentro del recinto del Jinkō’in ("Templo de la Luz Celestial"), en el pequeño pueblo de Nishigamo, a poca distancia de Kioto, donde vivió hasta su fallecimiento —o, mejor dicho, como ella lo llamaba, su “pasaje”— en 1875. Los últimos diez años de su vida fueron, sin duda, su periodo más productivo artísticamente: trabajaba sin casi interrupciones, en un lugar apartado, sereno y espiritual, rodeada de pinos, aves y estanques. Colaboró con Gozan, quien también era pintor y poeta, y tras su muerte en 1870, Rengetsu permaneció en Jinkō’in con el patrocinio de su hijo, Wada Chiman (1835–1910). En todos los lugares donde vivió, la artista dejó un grato recuerdo, pero especialmente en Nishigamo, donde fue profundamente querida. Allí vivió una década, dedicándose especialmente a niñas y niños del pueblo, usando sus propios recursos para aliviar sufrimientos y brindarles enseñanza. Su muerte causó gran tristeza entre los habitantes, quienes se esforzaron en preparar con esmero su cuerpo para el entierro. Aún hoy, Rengetsu es recordada como una de las “luces más brillantes” del siglo XIX en Kioto. En la procesión anual del Jidai Matsuri (“Festival de las Eras”), un actor vestido con ropas tradicionales interpreta a la joven Rengetsu. También se recuerdan sus actos de caridad, como cuando, junto a Wada Gozan, produjeron mil imágenes de Kan’non, el Bodhisattva de la Misericordia, para venderlas y recaudar fondos en favor de las víctimas de las inundaciones. Sus obras son muy conocidas y han sido expuestas a lo largo de los años. Los sacerdotes del Jinkō’in han sido tradicionalmente reconocidos por su experiencia en la autenticación de sus piezas. En Kioto circulan muchas leyendas y relatos orales sobre Rengetsu, y una de ellas dice que cada familia local llegó a poseer una de sus obras de arte.

Hasta hoy se han publicado dos volúmenes destacados de su obra:

  • A Poetry Album of Two Ladies (Rengetsu Shikibu Nijō Wakashū), publicado por Kinbyōdō en 1868, que contiene 99 poemas —48 de Rengetsu y 51 de su amigo Takabatake Shikibu (1785–1881);
  • A Seaweed Diver’s Harvest (Ama no Karumo), publicado por San’eidō, alrededor de 1871, que contiene 310 poemas.

Sus poemas siguen siendo valorados en la actualidad, y Rengetsu es considerada una precursora tanto del tanka moderno (verso moderno en métrica tradicional), como del shōsetsu watakushi (i-novel, o novela del yo). Como estas formas literarias, la poesía de Rengetsu expande los límites del vocabulario, la sintaxis y la forma tradicional, utilizando con frecuencia la experiencia emocional del propio autor o autora como tema central. Las maestras y los maestros actuales de la ceremonia del té y quienes la practican siguen utilizando sus utensilios y pergaminos. Y recientemente, su poesía y sus obras artesanales han alcanzado la escena internacional. Museos en Australia y en Estados Unidos han albergado exposiciones de su trabajo, y otras están programadas en Europa, América Latina y África. La Rengetsu Foundation ha traducido todas sus obras publicadas y también algunos poemas nuevos descubiertos en las propias piezas de arte.

Más de 900 poemas están disponibles en inglés y japonés en la base de datos de investigación en línea (www.rengetsu.org). Hay planes en curso para traducirlos a otros idiomas en los próximos años, comenzando por el alemán y el italiano, y añadirlos al archivo digital. La Fundación destaca: «Creemos que su espíritu sigue siendo accesible… al sostener una de sus tazas de té, las personas pueden sentir, con la yema de los dedos, las impresiones que Rengetsu dejó de sí misma y consigo misma al modelarla. Leer una de sus cartas sobre una visita a un jardín evoca una forma de pensar prevalente en la historia de la humanidad, pero casi perdida en esta época moderna: la suposición de que nuestras vidas están entrelazadas con la naturaleza. Por último, sus poemas continúan ofreciendo el sencillo placer del verso y la manifestación de una idea profunda: que el sufrimiento y la alegría, en conjunto, nos otorgan la capacidad de ver con amor».


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 

Iela Mari
Donatella Caione

Marika Banci

 

 Iela Mari, pseudonimo di Gabriela Ferrario, è nata a Milano nel 1931. È stata una illustratrice e scrittrice che ha lasciato un segno potente nella storia della letteratura dell’infanzia, ma anche del design, dell’illustrazione e in particolare nell’evoluzione degli albi illustrati. Ha frequentato il corso di pittura presso l'Accademia di Brera, dove ha conosciuto Enzo Mari, che a quel tempo stava studiando scenografia, e che, oltre che suo marito, è divenuto nel 1955 suo compagno di condivisione nella ricerca figurativa ed espressiva. La coppia ha avuto due figli e il primo libro di Iela, La mela e la farfalla, è il risultato di un lavoro a quattro mani. Insieme hanno realizzato numerosi altri albi illustrati di grande innovazione grafica. In seguito, mentre suo marito si è dedicato alla creazione di giochi, oggetti e mobili, lei ha continuato a illustrare libri, ideando un linguaggio basato sull’immagine, destinato ai bambini e alle bambine. Nel 1965 sono terminati sia il matrimonio che il sodalizio artistico.

Nel 1968 ha pubblicato Il palloncino rosso, un libro che ha rivoluzionato la letteratura per l’infanzia, un testo che riproduce il processo naturale di bambine e bambini nella scoperta della realtà. Non è un caso che a pubblicarlo sia stata Emme Edizioni, una casa editrice nata in quegli anni, fondata da Rosellina Archinto, che è stata visionaria nel valorizzare opere che il pubblico italiano allora non era in grado di apprezzare. È stata una piccola rivoluzione per l’editoria: una lezione per chi, allora come oggi, lavorava con l’illustrazione, la grafica, il design. Al primo volume ne sono seguiti altri, sempre per Emme Edizioni, in un contesto particolare per l’editoria: quello della Milano di fine anni Sessanta. La particolarità principale delle opere di Iela Mari è l’uso essenziale ed efficacissimo delle forme e dei colori che diventa un linguaggio carico di senso. Sono gli anni in cui cominciano a diffondersi quelli che con espressione inglese vengono chiamati silent book, cioè libri silenziosi. Un’espressione che non amo usare perché questa tipologia di albi illustrati, quando realizzata con maestria, non è affatto composta da libri silenziosi ma semplicemente da libri senza parole, nei quali è fortissima la potenza comunicativa delle illustrazioni che, grazie appunto a un sapiente utilizzo delle forme e dei colori, creano un vero e proprio linguaggio.

La narrazione senza parole di Iela Mari dunque costituisce un nuovo modo di raccontare la bellezza delle forme e dei cicli della natura, suscitando in chi legge la libertà nell’interpretazione. Il suo segno grafico, che a vederlo pare estremamente semplice nella sua nitidezza, è in realtà il frutto di una tecnica elaborata. Infatti lo stile di Mari, al tempo stesso minimalista e dettagliatissimo, è frutto di un metodo di lavoro rigoroso, ben descritto da Agostina e Michele, figlia e figlio dell'artista:

«Quando nostra madre lavorava ai suoi primi libri, La mela e la farfalla e L’uovo e la gallina, eravamo poco più che bambini: eppure ricordiamo che ad affascinarci, nel suo lavoro, non era tanto il risultato, splendido per la purezza e l’eleganza del segno, quanto il metodo. Tutto doveva essere religiosamente a posto e in ordine: il cartoncino bristol su cui era proibito appoggiare i polpastrelli; la carta da lucido fissata con puntine (rigorosamente a tre denti, mai a due); la colla, che poteva essere solo la Cow-Gum, da spalmare solo con una certa spatolina flessibile da cui poi si “scapperavano” via grumi brunastri di colla rappresa destinata a essere usata come gomma da cancellare (ricordiamo agglomerati grossi come meteoriti)…».

Gli albi di Iela nascono rivolti al mondo dell'infanzia ma non sono libri solo per bambine e bambini, come non lo sono tutti gli albi illustrati d'autore, come ad esempio quelli di Bruno Munari che però hanno lasciato una traccia molto più potente. Indubbiamente il lavoro di Munari è stato straordinario e innovativo ma quello di Iela Mari non è stato meno importante. Sin da qualche anno prima della scomparsa, avvenuta nel 2014, sono state organizzate molte mostre delle sue opere in Italia e all’estero. Nel 2010 la Bologna Children's Book Fair le ha dedicato la prima mostra monografica: Il mondo attraverso una lente. Venne portato a conoscenza del pubblico un patrimonio di rilevanza sconcertante, ignorato fino a quel momento: tavole originali e prove di stampa di tutti i progetti realizzati, conservati in ottimo stato dall'autrice; un numero cospicuo di menabò; pellicole in 35 mm; disegni per tessuti stampati, destinati a diventare oggetti di arredamento nelle camerette.

Con i suoi menabò, Iela Mari entrava nelle scuole d’infanzia e capiva insieme a bambini e bambine se le sue storie potessero funzionare o meno e perché e nello stesso tempo testi e manuali si svecchiavano grazie al suo contributo, infatti negli anni Settanta i suoi libri sono ripresi e citati. L’albero farà parte di un’antologia scolastica, intitolata Osservare leggere inventare, composta da albi illustrati rivolti alle seconde elementari (Emme Edizioni, 1979) ed è stata importante la sua attività di progettazione grafica per l’editoria rivolta alle scuole. Forse l'essere rimasta molto legata al mondo infantile e scolastico è stato un limite per la sua notorietà che sarebbe stata sicuramente maggiore se si fossa occupata di design e comunicazione visiva rivolta a un pubblico adulto, come è successo al marito Enzo Mari o all'ancora più noto Bruno Munari ma non possiamo che provare gratitudine per il suo splendido lavoro dedicato all'infanzia.


Traduzione spagnola

Alessandra Barbagallo

Iela Mari, seudónimo de Gabriela Ferrario, nació en Milán en 1931. Fue una ilustradora y escritora que dejó una huella poderosa en la historia de la literatura infantil, pero también en el diseño, la ilustración y, en particular, en la evolución de los álbumes ilustrados. Atendió el curso de pintura en la Academia de Brera, donde conoció a Enzo Mari, quien en ese momento estudiaba escenografía y que, además de convertirse en su marido, a partir de 1955 fue su compañero de intercambio en la búsqueda figurativa y expresiva. La pareja tuvo dos hijos y el primer libro de Iela, La mela e la farfalla (traducido al español como La manzana y la mariposa), fue el resultado de un trabajo a cuatro manos. Juntos realizaron muchos otros álbumes ilustrados de gran innovación gráfica. Más adelante, mientras su marido se dedicaba a la creación de juegos, objetos y muebles, ella continuó ilustrando libros, desarrollando un lenguaje basado en la imagen destinado a niños y niñas. En 1965 terminaron tanto el matrimonio como la colaboración artística.

En 1968 publicó Il palloncino rosso (traducido al español como El globito rojo), un libro que revolucionó la literatura infantil, un texto que reproduce el proceso natural de descubrimiento de la realidad por parte de los niños y niñas. No es casualidad que en Italia fuera publicado por Emme Edizioni, una editorial nacida en aquellos años, fundada por Rosellina Archinto, quien tuvo la visión de dar valor a obras que el público italiano de entonces no estaba preparado para apreciar. Fue una pequeña revolución editorial: una lección para quienes trabajaban –entonces como ahora– con la ilustración, el diseño gráfico y el diseño industrial. A ese primer volumen le siguieron otros, también de Emme Edizioni, en un contexto particular para la edición: el de la Milán de finales de los años sesenta. La principal característica de las obras de Iela Mari es el uso esencial y sumamente eficaz de las formas y los colores, que se convierte en un lenguaje cargado de significado. Son los años en que empiezan a difundirse los llamados silent books, o libros silenciosos. Es una expresión que no me gusta utilizar, porque este tipo de álbum ilustrado, cuando está bien hecho, no es para nada un libro silencioso, sino simplemente un libro sin palabras, donde es muy fuerte la potencia comunicativa de las ilustraciones que, gracias a un uso sabio de formas y colores, crean un verdadero lenguaje.

La narración sin palabras de Iela Mari representa, por tanto, una nueva manera de contar la belleza de las formas y de los ciclos de la naturaleza, despertando en quien lee la libertad de interpretación. Su trazo gráfico, que a simple vista parece extremadamente simple por su nitidez, es en realidad fruto de una técnica elaborada. De hecho, el estilo de Mari, al mismo tiempo minimalista y muy detallado, es el resultado de un método de trabajo riguroso, bien descrito por Agostina y Michele, hija e hijo de la artista:

«Cuando nuestra madre trabajaba en sus primeros libros, La manzana y la mariposa y El huevo y la gallina, nosotros éramos poco más que niños: sin embargo, recordamos que lo que nos fascinaba de su trabajo no era tanto el resultado, espléndido por la pureza y la elegancia del trazo, sino el método. Todo tenía que estar religiosamente en orden: el cartón Bristol, en el que estaba prohibido apoyar las yemas de los dedos; el papel vegetal fijado con chinchetas (rigurosamente de tres puntas); el pegamento, que solo podía ser el Cow-Gum, aplicado exclusivamente con una espátula flexible determinada, de la que luego se desprendían grumos parduzcos de cola endurecida destinados a usarse como goma de borrar (recordamos aglomerados tan grandes como meteoritos)…».

Los álbumes de Iela están dirigidos al mundo infantil pero no son libros solo para niños y niñas, como no lo son todos los álbumes ilustrados de autor, como por ejemplo los de Bruno Munari, aunque estos hayan dejado una huella mucho más potente. Sin duda, la obra de Munari fue extraordinaria e innovadora, pero la de Iela Mari no fue menos importante. Ya desde algunos años antes de su fallecimiento, ocurrido en 2014, se organizaron muchas exposiciones de sus obras en Italia y en el extranjero. En 2010, la Feria del Libro Infantil de Bolonia le dedicó la primera muestra monográfica: El mundo a través de una lente. Se dio a conocer al público un patrimonio de relevancia asombrosa, ignorado hasta entonces: láminas originales y pruebas de impresión de todos los proyectos realizados, conservados en excelente estado por la autora; un considerable número de maquetas (menabò); películas en 35 mm; dibujos para tejidos estampados, destinados a convertirse en objetos de decoración para habitaciones infantiles.

Con sus menabò, Iela Mari entraba en las escuelas infantiles y comprobaba junto a los niños y niñas si sus historias funcionaban o no, y por qué. Al mismo tiempo, los textos y manuales se renovaban gracias a su aportación; de hecho, en los años setenta sus libros fueron retomados y citados. L’albero formará parte de una antología escolar titulada Osservare leggere inventare, compuesta por álbumes ilustrados dirigidos al segundo grado de primaria (Emme Edizioni, 1979), y fue importante su actividad de diseño gráfico para la edición escolar. Tal vez el hecho de haberse mantenido muy vinculada al mundo infantil y escolar haya sido un límite para su notoriedad, que habría sido seguramente mayor si se hubiera dedicado al diseño y a la comunicación visual dirigida a un público adulto, como sucedió con su marido Enzo Mari o con el aún más conocido Bruno Munari. Pero no podemos más que sentir gratitud por su espléndido trabajo dedicado a la infancia.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Iela Mari, pseudonym of Gabriela Ferrario, was born in Milan in 1931. She was an illustrator and writer who left a powerful mark in the history of children's literature, but also in the history of design, illustration, and particularly in the evolution of illustrated books. She attended the painting course at the Brera Academy of Fine Arts, where she met Enzo Mari, who at that time was studying set design, and who, in addition to being her husband, became in 1955 her sharing partner in figurative and expressive research. The couple had two children, and Iela's first book, The Apple and the Butterfly, was the result of four-handed work. Together they produced several other illustrated books of great graphic innovation. Later, while her husband devoted himself to the creation of toys, objects and furniture, she continued to illustrate books, devising an image-based language aimed at boys and girls. In 1965 both the marriage and the artistic partnership ended.

In 1968 she published The Red Balloon, a book that revolutionized children's literature, a text that mimics the natural process of little girls and boys in discovering reality. It is no coincidence that it was published by Emme Edizioni, a publishing house born in those years, founded by Rosellina Archinto, who was visionary in enhancing works that the Italian public was then unable to appreciate. It was a small revolution for publishing - a lesson for those who, then as now, worked with illustration, graphics, and design. The first volume was followed by others, again for Emme Edizioni, in a particular context for publishing, that of Milan in the late 1960s. The main distinction of Iela Mari's works is the essential and highly effective use of shapes and colors that becomes a language charged with meaning. These are the years when, what in an English expression are called silent books, began to spread. An expression that I don’t like to use because this type of illustrated book, when skilfully crafted, is not a silent book at all but simply a book without words, in which the communicative power of the illustrations is very strong and, thanks to a skillful use of shapes and colors, they create a real language.

Iela Mari's wordless narration therefore constitutes a new way of telling the beauty of the forms and cycles of nature, arousing in the reader freedom in interpretation. Her graphic sign, which to the eye seems extremely simple in its sharpness, is actually the result of an elaborate technique. In fact, Mari's style, at once minimalist and highly detailed, is the result of a rigorous working method, well described by Agostina and Michele, the artist's daughter and son:

«When our mother worked on her first books, The Apple and the Butterfly and The Egg and the Hen, we were little more than children - yet we remember that what fascinated us in her work was not so much the result, splendid for the purity and elegance of the sign, as the method. Everything had to be religiously in place and in order: the bristol cardboard on which it was forbidden to rest one's fingertips; the tracing paper fixed with thumbtacks (strictly three-toothed, never two); the glue, which could only be Cow-Gum, to be spread only with a certain flexible spatula from which one then "carved" away brownish lumps of congealed glue intended to be used as a pencil eraser (we remember clusters as big as meteorites)...».

Iela's albums were born aimed at the world of childhood, but they are not books just for little girls and boys, nor are all the author's illustrated albums, like those of Bruno Munari, who, however, left a much more powerful mark. Undoubtedly Munari's work was extraordinary and innovative, but that of Iela Mari was no less important. Since a few years before her death in 2014, many exhibitions of her works have been organized in Italy and abroad. In 2010 the Bologna Children's Book Fair dedicated the first monographic exhibition to her: The World through a Lens. A heritage of staggering significance, ignored until then, was brought to the public's attention - original plates and print proofs of all the projects she created, preserved in excellent condition by the author, a conspicuous number of models, 35 mm films, and drawings for printed textiles, destined to become furnishing objects in children's rooms.

With her models, Iela Mari went into kindergartens and figured out together with boys and girls whether her stories could work or not and why, and at the same time texts and manuals were being debunked thanks to her contributions. In the 1970s her books were revived and cited. The tree would be part of a school anthology, entitled Observing Reading Inventing, consisting of illustrated albums aimed at second graders (Emme Edizioni, 1979) and her graphic design work for publishing aimed at schools was important. Perhaps having remained very attached to the world of children and schools has been a limitation for her recognition, which would certainly have been greater if she had been involved in design and visual communication aimed at an adult audience, as was the case with her husband Enzo Mari or the even more famous Bruno Munari, but we cannot but feel gratitude for her splendid work dedicated to childhood.

 

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