Clara Driscoll
Laura Candiani

Giulia Tassi

 

Insolito mestiere davvero, quello di Clara Driscoll, esperta nel taglio e nella lavorazione del vetro, nonché abilissima disegnatrice di lampade passate alla storia dell'arredamento. Era nata il 15 dicembre 1861 a Tallmadge, in Ohio, con il nome Clara Pierce Wolcott; nonostante sia rimasta orfana di padre precocemente, ebbe l'opportunità ― rara per l'epoca ― di poter studiare, insieme alle tre sorelle minori, tutte brillanti e dotate. Frequentò la scuola di disegno femminile (oggi Cleveland Institute of Art), vista la sua disposizione per le materie artistiche, mentre lavorava presso un mobilificio locale. Si trasferì quindi a New York per studiare alla Metropolitan Museum Art School, istituzione nata da poco. In breve venne assunta, per le sue doti innegabili, dal celebre artista e designer Louis Comfort Tiffany, colui che nel 1888 aveva dato vita alla Tiffany Glass Company. Clara vi lavorò più di un ventennio, anche se con alcune pause, disegnando lampade dalla forma inconfondibile e oggetti d'arredo e dirigendo il settore femminile dedicato al delicato compito del taglio del vetro. 

Clara Driscoll nel 1890

Quando sposò Francis Driscoll, nel 1889, fu costretta, secondo le stringenti regole di quel periodo storico, a licenziarsi; tuttavia le nozze furono di breve durata a causa della inaspettata morte del marito avvenuta nel 1892. Clara riprese il suo posto; rischiò in seguito un nuovo licenziamento perché aveva trovato un fidanzato, il quale tuttavia, non si sa come, un bel giorno scomparve. Intanto si esprimeva tutta la sua creatività, alla guida delle cosiddette "ragazze di Tiffany" fra cui si distinsero Lillian Palmié e Alice Carmen Gouvy, con cui nacque una bella amicizia e la condivisione di piacevoli soggiorni estivi.

Le ragazze di Tiffany

Le ragazze erano circa 35, abili e precise, dotate di enorme pazienza e di quel buon gusto tipicamente femminile che le fece preferire ai lavoratori maschi dell'azienda, addirittura ci fu uno sciopero degli uomini per questa disparità di genere e perché vedevano in pericolo il proprio ruolo per l'emergere delle colleghe tanto apprezzate. Il fatto che le opere non fossero "firmate" non deve però stupire perché il proprietario voleva far risaltare il marchio di fabbrica, non tanto il singolo ideatore, o meglio ideatrice. Un caso eccezionale è rappresentato, nel 1904, dalla attribuzione a Clara, sulle pagine di una rivista, della delicata lampada con le libellule che aveva avuto un premio all'esposizione mondiale del 1900.

Clara Driscoll al lavoro nel 1901con Joseph Briggs

Nel 1909 Clara si sposò nuovamente e lasciò il lavoro. Morì il 6 novembre 1944. Quello che va raccontato è piuttosto il graduale riemergere, nel XXI secolo, del suo specifico ruolo nell'ideazione e successiva realizzazione di quelle lampade tanto celebri che basta farne il nome per vederle nella nostra mente: le Tiffany, appunto, capolavori dell'Art Nouveau. Ma non sono tutte uguali, ovviamente. A Clara se ne attribuiscono di bellissime:la Daffodil, prima in ordine di tempo, la Wisteria, la Dragonfly, la Peony. A lungo però il suo contributo, e quello delle altre ragazze, è rimasto sotto traccia, e non è un fatto nuovo perché ancora una volta un uomo, il signor Tiffany in questo caso, si era appropriato più o meno tacitamente del talento altrui. Ci sono voluti studi, ricerche appassionate, ritrovamenti casuali per mettere finalmente le cose in chiaro. Si comincia con un volume edito nel 2002: Tiffany Desk Treasures (I tesori da tavolo di Tiffany) di George Kemeny e Donald Miller in cui a Driscoll viene chiaramente attribuito il disegno della lampada Dragonfly e si fa menzione del suo compenso, uno dei più alti per una donna all'epoca.

La celebre lampada Daffodil

Quattro anni dopo due studiose e un docente universitario diedero conto delle loro ricerche e pubblicarono a Londra un saggio critico, curato dalla New York Historical Society, dal titolo emblematico A New Light of Tiffany: Clara Driscoll and the Tiffany Girls. Nina Gray si era infatti imbattuta in un ricco carteggio fra Clara e le sorelle da cui emergeva chiaramente che, durante la pausa pranzo, alla geniale disegnatrice era venuta l'idea della Daffodil. Intanto indagava anche il prof. Eidelberg che, al termine di una conferenza, era stato avvicinato da un discendente di Clara e aveva cominciato ad approfondire l'argomento; ai due si è poi unita Margaret Hofer e insieme hanno fatto il punto della situazione, confrontando i propri risultati. Dopo la pubblicazione delle loro ricerche congiunte, fu organizzata una mostra che rendeva giustizia al lavoro di Clara e delle sue colleghe e che fu ampiamente trattata sulla stampa americana, spiegando le varie fasi della delicata lavorazione e il ruolo di questo gruppo di lavoratrici tutto al femminile.

Poppy Inkwell, The Cleveland Museum of Art

Nell'occasione, insieme alle lampade e altre suppellettili: calamai, vasi, specchi, piccole scatole, ciotole vuota tasche, candelieri, completi da scrivania, servizi da tè, oggetti ornamentali, persino gioielli, furono esposte le lettere da cui emergevano tanti dettagli: la ragazza girava per New York in bicicletta e portava le gonne più corte per comodità, adorava l'opera, seguiva la politica, si immergeva con passione nella vita cittadina, sia nei quartieri alti sia nei rioni abitati da immigrati poveri e donne prive di istruzione e non emancipate. Fu attiva anche nelle prime manifestazioni delle suffragiste e convinta nel sostenere i diritti femminili. Una visitatrice in particolare rimase colpita dal suo caso e dalla sua vivace personalità: si trattava della scrittrice Susan Vreeland (1946-2017) che pubblicò nel 2010 il romanzo Una ragazza da Tiffany (Clara and Mr.Tiffany), un enorme successo tradotto in 26 lingue.

Finalmente si faceva luce sull'opera di questa creatrice che aveva anche contribuito con le sue idee all'innovazione tecnica, come l'utilizzo della ceramica e del rame per legare fra loro i pezzi di vetro, dopo averli avvolti in una sottile lamina che poi veniva saldata; aveva dato vita ad almeno una trentina di modelli di lampade da tavolo, introducendo quei decori floreali, quelle farfalle o altri insetti dalle ali impalpabili, accanto ad audaci motivi geometrici, e gli intrecci di colori che faranno epoca e saranno simboli dell'Art Déco. Pensiamo ad esempio a Dragonfly con le ali di libellula ben delineate, a Fruit decorata da fiori e frutta primaverile ed estiva, oppure a Poppy, a Peony, a Glicine, ancora oggi apprezzate e piacevolmente attuali. Meravigliosa Wisteria, con il gioco delle sfumature di azzurro e giallo, tanto da formare una gioiosa cascata di luce, di cui furono fatti 123 esemplari, tutti rigorosamente a mano, utilizzando circa 2000 (avete letto bene) pezzetti di vetro per ciascuno; nel 1906 costava 400 dollari. Questo non era artigianato, pur di classe, questa si chiama arte.

Dragonfly, circa 1900

Cerchiamo ora di fornire qualche dettaglio in più sulla tecnica adottata, che Tiffany rivolse inizialmente a grandi vetrate per chiese, palazzi, musei e arredi interni. Innanzitutto occorre il vetro che appartiene a svariati tipi secondo le sfumature che si vogliono realizzare, le combinazioni di colore, gli effetti di luce e di trasparenza; si possono usare il vetro opalescente, assai diffuso nelle lampade, il favrile (brevettato da Tiffany) che risulta iridescente, il marezzato, il fratturato, il chiazzato, il plissettato, lo striato. I singoli pezzi, più o meno grandi, si legano fra di loro solitamente con lo stagno, di colore argenteo, metallo facilmente malleabile, che non si ossida e resiste bene alla corrosione, formando così il vero e proprio mosaico. Le basi originali sono quasi sempre in bronzo, soprattutto quando si tratta di lampade da tavolo.

Woodbine Table Lamp, The Cleveland Museum of Art

Varie aziende oggi si vantano di seguire l'impostazione data dal fondatore e dalle sue esperte maestranze; tuttavia il montaggio, che richiede molte ore di lavoro manuale, per abbassare i costi è stato spesso trasferito in Paesi emergenti, la Cina in particolare, dove il personale si assicura sia stato formato appositamente. Una differenza rispetto al passato è dovuta alla totale eliminazione del piombo nelle saldature, come pure del mercurio, ora si utilizzano solo fili di rame e stagno e, per le basi più solide e robuste, si preferisce un materiale metallico tinto colore del bronzo e perfettamente equivalente, almeno così viene pubblicizzato. Naturalmente sul mercato si trovano ancora pezzi originali, ma il loro costo può arrivare fino a 100 mila euro all'asta, su internet abbiamo trovato prezzi che superano i mille euro, mentre le lampade moderne si possono acquistare a cifre decisamente abbordabili: dai 30 ai 400 euro, anche se la qualità resta tutta da verificare. Chi vuole, comunque, può godersi in casa propria un po' della bellezza che Clara contribuì a creare.


Traduzione francese

Rachele Stanchina

Le métier de Clara Driscoll est vraiment insolite: elle a été experte dans la taille et la fabrication du verre pour des lampes qui ont marqué l’histoire du décor, dont elle était au même temps styliste et créatrice habile. Claire naît le 15 décembre 1861 à Tallmadge, en Ohio, sous le nom de Clara Pierce Wolcott. Malgrè la perte de son père, survenue lorsqu’elle était toute petite, elle peut étudier (chose remarquable à l’époque) ainsi que ses trois sœures plus jeunes, qui étaient brillantes et douées. Grâce à sa disposition vers les matières artistiques, elle fréquente l’école féminine de dessin (l’actuel Cleveland Institute of Art) tout en travaillant pour une fabrique des meubles. Ensuite, elle s’installe à New York pour étudier chez la Metropolitan Museum Art School, Institution née récemment. Bientôt le célèbre artiste et designer Louis Comfort Tiffany, qui en 1888 avait créé la Tiffany Glass Company, une fois remarquées ses dotes incontestables, embauche la jeune fille. Clara travaille pour lui pendant plus que vingt ans, même si avec des pauses, en dessinant des lampes aux formes uniques ainsi que des objets de décor, tout en dirigéant le secteur féminin qui s’occupait de la tâche délicate de la coupe du verre.

Clara Driscoll en 1890

A la suite de son mariage avec Francis Driscoll, en 1889, Clara est contrainte, selon les convenctions de l’époque, à dimissioner. Cependant l’union est courte à cause le la mort imprévue de son époux, survenue en 1892. Clara reprends alors sa place, mais elle risque un nouveau licenciement pour les fiançailles avec un jeune homme qui, cependant, après peu de temps disparaît on ne sait pas comment. C’est dans cette période que toute sa créativité s’épanouit: elle dirige les ainsi-dites “Demoiselles de Tiffany”, parmi lesquelles se signalent Lillian Palmié et Alice Carmen Gouvy: avec elles naît une belle amitié, partagée tout au long d’agréables séjours d’été.

Les demoiselles de Tiffany

Le groupe compte environs 35 jeunes filles,habiles et minutieuses, douées d’une énorme patience et d’un bon goût typiquement féminin qui les fait préférer aux hommes. Les travailleurs de l’entreprise arrivent même à une grève à cause de cette inégalité des genres, leur position étant ménacée par des collègues si appréciéés. Les pièces réalisées ne portaient pas de signature et on ne doit pas s’étonner:Tiffany voulait souligner la marque de fabrique au lieu du nom du créateur, ou bien de la créatrice. Cependant en 1904 on attribue à Clara, par les pages d’un magazine, une lampe délicate avec un décor à libellule qui avait gagnée un prix à l’occasion de l’Exposition Mondiale du 1900, mais c’est un cas d’exception.

Clara Driscoll au travail en 1901 avec Joseph Briggs

En 1909 Clara se marie à nouveau et quitte son travail. Elle meurt le 6 novembre 1944. Au cours du XXI siècle, peu à peu on prend conscience de l’importance de la contribution de son travail au sein soit du projet que de la réalisation de ces lampes, tellement célèbres qu’il suffit de les nommer pour qu’elles nous viennent aux yeux: en peu de mots “Les Tiffany”, chefs- d’œuvres de l’Art Nouveau. Elles ne sont pas toutes pareilles, bien évidemment. On attribue à Clara les plus belles: la Daffodil, la prémière réalisée, et ensuite en date la Wisteria, la Dragonfly, la Peony. Son apport a été longuement caché, ainsi que celui de ses camarades, et ce n’est pas une nouveauté. Encore une fois un homme, Monsieur Tiffany dans ce cas, s’est emparé du talent autrui d’une façon plus ou moins voilée. Les choses sont devenues claires à la suite d’études, de recherches passionnées ou bien de découvertes fortuites. Le départ est marqué par le livre Tiffany desk treasures (Les trésors pour le bureau de Tiffany), édité en 2002 par George Kemeny et Donald Miller: le dessin de la lampe Dragonfly est clairement attribué à Driscoll et l’on fait mention à la rémunération de la styliste, une des plus élévées pour une femme de l’époque.

La célèbre Daffodil

Quatre ans après, c’est le tour de deux étudiantes et de leur professeur à l’Université, qui à la suite des enquêtes menées ensemble, publient à Londres un essai critique édité par la New York Historical Society au titre emblématique A New Light of Tiffany: Clara Driscoll and the Tiffany girls. Nina Gray découvre la prémière les lettres que Clara envoye à ses sœurs, lettres qui témoignent clairement que l’origine de l’idée de la Daffodil était survenue à Clara lors d’une pause-repas. Au même temps, le professeur Eidelberg mène, lui aussi, des recherches après avoir été interrogé à la fin d’une conférence par un descendant de Clara: ses questions l’intriguent et il se passionne au point de vouloir approfondir le sujet. Avec Margaret Hofer, les trois chercheurs comparent les résultats des leurs enquêtes individuelles et font le point de la situation. A la suite de la publication de leurs travaux, on organise une exposition qui rends justice à Clara et à ses camarades: la presse américaine en parle longuement, tout en expliquant les différentes et délicates phases de travail ainsi que l’apport de ce groupe de travailleuses tout au féminin.

Poppy Inkwell, The Cleveland Museum of Art

Au sein de cette exposition on étale avec les lampes d’autres objets: encriers, vases, miroirs, petites boîtes, vides poches, bougeoirs, nécéssaires pour le bureau, services à thé, bibelots, même des bijoux. Mais on peut y admirer aussi les lettres, qui racontent en détail la singularité de Clara par raport à l’époque: la jeune fille parcourt New York à vélo, porte des jupes plus courtes que d’habitude pour plus de commodité, adore l’Opéra, s’occupe de politique et suit passionemment la vie de la ville, soit au milieu des quartiers les plus riches que des bas-fonds habités par les immigrés, hommes pauvres ou femmes dépourvues d’instruction et non émancipées. Clara participe aussi aux prémières rassemblements des suffragettes et soutient les droits des femmes avec convinction. Parmi les visiteurs à l’axposition, une femme en particulier est frappée par l’histoire et la bruyante personnalité de Clara: il s’agit de l’écrivain Susan Vreeland (1946-2017) autrice du livre Une jeune fille chez Tiffany (Clara and Mr. Tiffany) publié en 2010 et, à cause de son succés, traduit en 26 langues.

C’est finalement le moment de mettre en lumière l’oeuvre de cette créatrice qui, avec ses idées, a aussi contribué aux innovations techniques, telles que l’utilisation de la céramique et du cuivre pour assembler les morceaux de verre, une fois les avoir enveloppés dans une feuille légère qui vient successivement soudée. Claire réalise au moins une trentaine de modèles de lampe en verre pour bureau, décorées soit à motifs floraux,à papillons ou d’autres insects aux ailes impalpables, soit à motifs géométriques audacieux: les mélanges de couleur vont marquer une époque et deviendront les symboles de l’art Déco. Il suffit de penser à Dragonfly aux ailes de libéllule ou bien à Fruits avec ses décors à fleurs et fruits du Printemps et d’été, ou encore à Poppy, à Peony, à Glycines, lampes qui encore aujourd’hui sont appreciées et à la mode. Wisteria est simplement merveilleuse, avec son jeu de nuances en bleu ciel et jaune,qui crée une joyeuse cascade de lumière. On en réalise seulement 123 exemplaires, tous strictement fait main, utilisant pour chacun environ 2000 morceaux de verre (mais oui, vous avez bien lu). En 1906 le prix était 400 dollars.: il ne s’agit pas d’artisanat, même si de grand classe, ici il fait parler d’art.

Dragonfly, 1900 environ

Et maintenant, c’est le moment de quelque détail sur la technique adoptée: Tiffany l’utilise d’abord pour les grands vitraux des églises, des palais, des musées et du mobilier. D’abord, il faut repérer plusieurs types différents de verre, selon les nuances, les combinaisons de couleur, les effects de lumière et de transparence que l’on veut réaliser. On peut choisir parmi le verre opalescent, très utililisé pour les lampes, le favrile irisé (bréveté par Tiffany), le marbré, le brisé, le tacheté, le plissé, le rayé. Les morceaux, à tailles différentes, sont généralement assemblés avec de l’étain argenté, métal facilement malléable qui ne s’oxyde pas et marqué par une bonne résistance à la corrosion. C’est ainsi que naît la véritable mosaique. Les pieds originaux sont presque toujours en bronze, surtout quand il s’agit de lampes à bureau.

Woodbine Table Lamp, The Cleveland Museum of Art

Aujourd’hui il y a plusieurs ateliers qui produisent ces lampes et déclarent utiliser les mêmes processus définis par Tiffany. Cependant,pour réduire les prix, l’assemblage (qui requiert un grand nombre d’heures de travail manuel) est souvent deplacé au sein de Pays où le personnel a reçu une formation spécialisée, tels que la Chine. Par rapport au passé, on a totallement eliminé le plomb et le mercure de la soudure: aujourd’hui on utilise des fils en cuivre et étain. Pour les pieds, qui sont plus résistants et forts, on préfère utiliser un métal peint dans la couleur du bronze et parfaitement semblable à ce dernier. Bien évidemment, sur le marché on peut trouver encore del pièces originelles, mais leur prix aux enchères peut joindre les cent mille euros. Sur le web on trouve des pièces qui dépassent les mille euros, tandis que l’on peut acheter des lampes modernes à des prix plus raisonnables: entre les 30 et les 400 euros, même si la qualité est à vérifier. En tout cas, qui veut peut en profiter et apprécier chez soi un peu de la beauté créée par Clara.


Traduzione spagnola

Alessandra Barbagallo

Una profesión verdaderamente insólita, la de Clara Driscoll, experta en el corte y en la lavoracion del vidrio, además de una muy hábil diseñadora de lámparas que han pasado a la historia del mobiliario. Nació el 15 de diciembre de 1861 en Tallmadge, Ohio, como Clara Pierce Wolcott; a pesar de haber perdido a su padre a una edad temprana, tuvo la oportunidad - rara para la época- de estudiar, junto con sus tres hermanas menores, todas brillantes y talentosas. Asistió a la Escuela de dibujo para mujeres (ahora Cleveland Institute of Art), debido a su aptitud para los temas artísticos, mientras trabajaba en una fábrica de muebles local. Luego se mudó a Nueva York para estudiar en la Metropolitan Museum Art School, una institución recién nacida. Pronto fue contratada, debido a sus innegables habilidades, por el famoso artista y diseñador Louis Comfort Tiffany, quien en 1888 había fundado la Tiffany Glass Company. Clara trabajó allí durante más de veinte años, aunque con algunas pausas, diseñando lámparas de forma inconfundible y objetos de decoración y dirigiendo el sector femenino dedicado a la delicada tarea del corte del vidrio.

Clara Driscoll en 1890

Cuando se casó con Francis Driscoll, en 1889, se vio obligada, según las estrictas reglas de ese período histórico, a dimitir; sin embargo, el matrimonio duró poco debido a la muerte inesperada de su marido en 1892. Clara retomó su cargo; más tarde corrió el riesgo de ser despedida otra vez porque había encontrado un novio, que, sin embargo, nadie sabe cómo, desapareció un buen día. Mientras tanto, expresó toda su creatividad, dirigiendo a las llamadas "chicas Tiffany" entre las que destacaron Lillian Palmié y Alice Carmen Gouvy, con quienes nació una hermosa amistad y el compartir agradables estancias de verano. 

chicas Tiffany

Eran unas 35 chicas, hábiles y precisas, dotadas de una enorme paciencia y ese buen gusto típicamente femenino que hizo que las prefirieran a los varones que trabajaban en la empresa, incluso hubo una huelga de hombres por esa disparidad de género y porque veían su posición en peligro debido a la aparición de sus muy apreciadas compañeras . El hecho de que las obras no estuvieran "firmadas" no debe sorprender, ya que el propietario quería resaltar la marca, no tanto al creador individual o, mejor dicho, a la creadora. Un caso excepcional fue representado, en 1904, por la atribución a Clara, en las páginas de una revista, de la delicada lámpara con libélulas que había recibido un premio en la exposición mundial de 1900.

Clara Driscoll trabajando en 1901 con Joseph Briggs.

En 1909 Clara se volvió a casar y dejó su trabajo. Murió el 6 de noviembre de 1944. Lo que hay que contar es más bien el gradual resurgimiento, en el siglo XXI, de su papel específico en la concepción y posterior creación de aquellas lámparas tan famosas que sólo mencionar su nombre es suficiente para visualizarlas en nuestra mente: las Tiffany, precisamente, obras maestras del Art Nouveau. Pero no todas son iguales, por supuesto. A Clara se le atribuyen algunas hermosas: el Narciso, primero en orden de tiempo, la Glicinia, la Libélula, la Peonía. Pero durante mucho tiempo su contribución, y la de las otras chicas, pasó desapercibida, y esto no es un hecho nuevo porque una vez más un hombre, el señor Tiffany en este caso, se había apropiado más o menos tácitamente del talento de otros. Fueron necesarios estudios, investigaciones apasionadas y descubrimientos aleatorios para aclarar finalmente las cosas. Comienza con un volumen publicado en 2002: Tiffany Desk Treasures de George Kemeny y Donald Miller en el que se atribuye claramente a Driscoll el diseño de la lámpara Dragonfly y se hace mención a su salario, uno de los más altos para una mujer en aquella época.

La célebre lámpara Daffodil

Cuatro años después, dos académicas y un profesor universitario se dieron cuenta de sus investigaciones y publicaron un ensayo crítico en Londres, editado por la Sociedad Histórica de Nueva York, con el título emblemático Una nueva luz de Tiffany: Clara Driscoll y las chicas Tiffany. De hecho, Nina Gray había encontrado una rica correspondencia entre Clara y sus hermanas, de la que se desprendía claramente que, durante la pausa para el almuerzo, a la brillante diseñadora se le había ocurrido la idea del Daffodil. Mientras tanto, estaba investigando también el profesor Eidelberg, que, al final de una conferencia, había sido abordado por un descendiente de Clara y había comenzado a profundizar en el tema; se unió Margaret Hofer a los dos y juntos hicieron un balance de la situación y compararon sus resultados. Tras la publicación de su investigación conjunta, se organizó una exposición que hacía justicia al trabajo de Clara y sus colegas y fue ampliamente tratado por la prensa estadounidense, explicando las distintas fases del delicado proceso y la posición de este grupo exclusivamente femenino de trabajadoras.

Poppy Inkwell, The Cleveland Museum of Art

En esa ocasión, junto con las lámparas y otros objetos decorativos –tinteros, jarrones, espejos, pequeñas cajas, cuencos vaciabolsillos, candelabros, juegos de escritorio, juegos de té, objetos ornamentales, e incluso joyas— se expusieron también las cartas de las que emergían muchos detalles: la joven recorría por Nueva York en bicicleta y usaba faldas más cortas por comodidad, adoraba la ópera, seguía la política, se sumergía con pasión en la vida de la ciudad, tanto en los barrios altos como en los distritos habitados por inmigrantes pobres y mujeres sin educación ni emancipación. También participó activamente en las primeras manifestaciones de las sufragistas y fue una sólida defensora de los derechos femeninos. Una visitante en particular quedó impresionada por su historia y su vivaz personalidad: se trataba de la escritora Susan Vreeland (1946-2017), quien en 2010 publicó la novela Una chica de Tiffany (Clara and Mr. Tiffany), un enorme éxito traducido en 26 idiomas.

Finalmente se arrojaba luz sobre la obra de esta creadora, que también había contribuido con sus ideas a la innovación técnica, como el uso de cerámica y cobre para unir las piezas de vidrio, después de envolverlas en una fina lámina que luego era soldada; creó al menos una treintena de modelos de lámparas de mesa, introduciendo esos adornos florales, mariposas u otros insectos de alas impalbables, junto con audaces motivos geométricos y combinaciones de colores que marcarían una época y se convertirían en símbolos del Art Déco. Pensemos, por ejemplo, en Dragonfly con las alas de libélula bien delineadas, en Fruit decorada con flores y frutas de primavera y verano, o en Poppy, Peony, Wisteria, aún hoy apreciadas y sorprendentemente actuales. Maravillosa Wisteria, con el juego de matices de azul y amarillo, hasta formar una alegre cascada de luz, de la cual se realizaron 123 ejemplares, todos rigurosamente hechos a mano, utilizando alrededor de 2000 (sí, habéis leido bien) piezas de vidrio para cada uno; en 1906 costaba 400 dólares. Esto no era artesanía, aunque de calidad: esto se llama arte.

Lámpara Dragonfly, hacia 1900

Veamos ahora algunos detalles más sobre la técnica utilizada, que Tiffany aplicó inicialmente a grandes ventanas de iglesias, palacios, museos y decoraciones interiores. Ante todo, se necesita el vidrio, que puede ser de varios tipos según los matices que se quieran lograr, las combinaciones de colores, los efectos de luz y transparencia; se pueden usar vidrio opalescente, muy común en las lámparas, el favrile (patentado por Tiffany), que resulta iridiscente, el jaspeado, el fracturado, el moteado, el plisado, el estriado. Las piezas individuales, más o menos grandes, se unen entre sí normalmente con estaño, de color plateado, un metal fácilmente maleable, que no se oxida y resiste bien a la corrosión, formando así el auténtico mosaico. Las bases originales son casi siempre de bronce, sobre todo cuando se trata de lámparas de mesa.

Woodbine Table Lamp, The Cleveland Museum of Art

Varias empresas hoy en día presumen de seguir el enfoque dado por el fundador y sus expertas manos artesanas; sin embargo, el montaje, que requiere muchas horas de trabajo manual, ha sido trasladado con frecuencia a países emergentes, especialmente a China, donde se garantiza que el personal ha sido debidamente formado. Una diferencia con respecto al pasado es la eliminación total del plomo en las soldaduras, así como del mercurio; hoy solo se utilizan hilos de cobre y estaño, y para las bases más sólidas y resistentes se prefiere un material metálico teñido en color bronce y presentado como perfectamente equivalente, al menos según la publicidad. Naturalmente, todavía hay en el mercado piezas originales, pero su precio puede alcanzar los 100 mil euros en subhastas; en internet hemos encontrado precios que superan los mil euros, mientras que las lámparas modernas pueden adquirirse por precios mucho más accesibles: entre 30 y 400 euros, aunque la calidad queda por verificar. De todas formas, quien lo desea puede disfrutar en su propia casa un poco de la belleza que Clara ayudó a crear.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

An unusual profession indeed - that of Clara Driscoll, an expert in cutting and working with glass, as well as a skilled designer of lamps that have gone down in furniture history. She was born on December 15, 1861, in Tallmadge, Ohio, with the name Clara Pierce Wolcott. Although her father died when she was only 12 years old, she had the opportunity - rare for the time - to be able to study, along with her three younger sisters, all of whom were bright and gifted. Given her disposition for artistic subjects, she attended the Women's Drawing School (now the Cleveland Institute of Art) while working at a local furniture factory. She then moved to New York to study at the Metropolitan Museum Art School, a newly established institution. Before long she was hired, because of her undeniable talents, by renowned artist and designer Louis Comfort Tiffany, the man who had started the Tiffany Glass Company in 1888. Clara worked there for more than two decades, albeit with some breaks, designing unmistakably shaped lamps and decorative objects and directing the women's department devoted to the delicate task of glass cutting.

Clara Driscoll in 1890

When she married Francis Driscoll in 1889, she was forced, according to the stringent rules of that historical period, to resign. However, the nuptials were short-lived due to her husband's unexpected death in 1892. Clara resumed her post, although she later risked a new dismissal because she had found a boyfriend, who, however, no one knows how, disappeared one fine day. Meanwhile, all her creativity was expressed as the head of the so-called "Tiffany's girls" among whom stood out Lillian Palmié and Alice Carmen Gouvy, with whom a beautiful friendship was born and the sharing of pleasant summer sojourns .

The Tiffany Girls

The girls numbered about 35, skillful and precise, endowed with enormous patience and the typically feminine good taste that made them preferred to the male workers in the company. There was even a strike by the men because of this gender disparity and because they saw their own role being endangered by the emergence of their much-appreciated female colleagues. The fact that the works were not "signed" should not come as a surprise, however, because the owner wanted to focus on the trademark, not so much the individual designer, or rather creator. One exceptional case is the attribution to Clara, in 1904, in the pages of a magazine, of the delicate lamp with dragonflies that had won a prize at the 1900 World's Fair.

Clara Driscoll working in 1901 with Joseph Briggs.

In 1909 Clara married again and quit her job. She died on November 6, 1944. What needs to be recounted is the gradual re-emergence, in the 21st century, of her specific role in the conception and subsequent creation of those lamps - so famous that we need only name them to see them in our minds. The Tiffanys - masterpieces of Art Nouveau. But they are not all the same, of course. Clara is credited with beautiful ones - the Daffodil, first in order of time, the Wisteria, the Dragonfly, and the Peony. For a long time, however, her contribution, and that of the other girls, remained under the radar, and this is not a new fact because once again a man, Mr. Tiffany in this case, had more or less tacitly appropriated the talents of others. It took studies, passionate research, and chance finds to finally set the record straight. It began with a volume published in 2002 - Tiffany Desk Treasures by George Kemeny and Donald Miller, in which Driscoll is clearly credited with the design of the Dragonfly lamp and mention is made of her financial reward, one of the highest for a woman at the time.

The famous Daffodil lamp

Four years later two scholars and a university professor gave an account of their research and published a critical essay in London, edited by the New York Historical Society, with the emblematic title A New Light on Tiffany: Clara Driscoll and the Tiffany Girls. Indeed, Nina Gray had come across a rich correspondence between Clara and her sisters from which it was clear that, during her lunch break, the brilliant designer had come up with the idea for the Daffodil. Meanwhile, Prof. Eidelberg, who at the end of a lecture had been approached by a descendant of Clara’s, was also investigating. These two were later joined by Margaret Hofer and together they took stock of the situation, comparing their findings. After the publication of their joint research, an exhibition was organized that did justice to the work of Clara and her colleagues and was covered extensively in the American press, explaining the various stages of delicate workmanship and the role of this all-female group of workers.

Poppy Inkwell, The Cleveland Museum of Art

On the occasion, along with the lamps and other furnishings, including inkwells, vases, mirrors, small boxes, bowls, candlesticks, desk sets, tea sets, ornaments, even jewelry, letters from which so many details emerged were displayed. She rode around New York on a bicycle and wore the shortest skirts for comfort, she loved opera, she followed politics, and she immersed herself passionately in city life, both uptown and in neighborhoods inhabited by poor immigrants and uneducated, unemancipated women. She was also active in early suffragist demonstrations and active in advocating women's rights. One visitor in particular was impressed by her case and her lively personality - the writer Susan Vreeland (1946-2017) - who published in 2010 the novel Clara and Mr.Tiffany, a huge success translated into 26 languages.

Light was finally shed on the work of this creator who had also contributed her ideas to technical innovation, such as the use of ceramics and copper to bind pieces of glass together, after wrapping them in a thin foil that was then soldered. She had given birth to at least thirty models of table lamps, introducing those floral decorations, those butterflies or other insects with impalpable wings, alongside bold geometric patterns, and the interweavings of colors that would become epoch-making and symbols of Art Deco. Think, for example, of Dragonfly with its well-delineated dragonfly wings, Fruit decorated with spring and summer flowers, or Poppy, Peony, and Wisteria, still appreciated and pleasingly relevant today. Wonderful Wisteria, with the play of shades of blue and yellow, so much so as to form a joyous cascade of light, of which 123 examples were made, all strictly by hand, using about 2,000 (you read that right) pieces of glass for each. In 1906 it sold for $400. This was not classy craftsmanship - this is called art.

Dragonfly lamp, circa 1900

Let us now try to provide a few more details about the technique adopted, which Tiffany initially used to create large stained-glass windows for churches, palaces, museums and interior furnishings. First of all, one needs the glass, which belongs to a variety of types according to the shades one wants to achieve, the color combinations, and the effects of light and transparency. One can use opalescent glass, which is very common in lamps, favrile (patented by Tiffany) which results in iridescence, marbled, fractured, mottled, pleated, and streaked. The individual pieces, more or less large, are usually bonded together with tin, which is silvery in color, an easily malleable metal that does not oxidize and resists corrosion well, thus forming the actual mosaic. The original bases were almost always made of bronze, especially when it came to table lamps.

Woodbine Table Lamp, The Cleveland Museum of Art

Various companies today pride themselves on following the approach given by the founder and her skilled workers. However, the assembly, which requires many hours of manual labor, has often been transferred to emerging countries to lower costs, China in particular, where the staff is assured to have been specially trained. One difference from the past is due to the total elimination of lead in the soldering, as well as mercury. Now only copper and tin wires are used, and, for more solid and sturdy bases, a metal material dyed the color of bronze and somewhat equivalent is preferred, at least that’s how it’s advertised. Of course, original pieces can still be found on the market, but they can cost up to 100 thousand euros at auction. On the Internet we have found prices that exceed a thousand euros, while modern lamps can be bought for decidedly affordable amounts: from 30 to 400 euros, although the quality remains to be verified. Those who want to, however, can enjoy in their own homes some of the beauty that Clara helped to create.

 

Suzanne de Court
Barbara Belotti

Giulia Tassi

 

L’arte della smaltatura è un’arte antica, antichissima, che affonda le sue origini nel bacino del Mediterraneo del II millennio a. C., tra Micene e Cipro.

Carta-nautica-di- cartografo portoghese Diogo-Homem1570

Manifestazione del potere di imperatori e imperatrici, re, regine e condottieri, è stata anche espressione dell’autorità religiosa sia in Oriente, con Bisanzio, che in Occidente, spesso utilizzata in modo complementare nell’oreficeria. Principali vie di diffusione degli smalti sono state le rotte dei traffici commerciali, ma anche quelle delle invasioni e delle conquiste militari, in un intreccio di ricchezza e avidità, sangue e bellezza che spesso costituisce una parte importante della storia dell’arte. L’Europa è stata una delle culle della lavorazione degli smalti, con diversi centri regionali come l’area renana vicino alla città di Colonia, la zona intorno a Liegi, dove fiorì la scuola mosana, e il territorio di Limonges. Chissà quante donne avranno lavorato con gusto e precisione i preziosi oggetti destinati a corti e cattedrali, creatrici raffinate ma sconosciute: se spesso gli artisti delle arti cosiddette minori restano protagonisti senza nome, per le artiste questa legge vale ancora di più. Una di loro però è riuscita a uscire dalle pieghe della storia della smaltatura, a divenire talmente importante e famosa da essere ricordata. Il suo nome è Suzanne de Court, di professione pittrice di smalti, attiva tra il XVI e il XVII secolo.

Cofanetto con scene della genesi primo quarto del XVII secolo, Metropolitan Museum

Poche le notizie biografiche. Si pensa che sia stata figlia di Jean, anch’egli pittore di smalti e discendente di una genia di artisti proprietari per molte generazioni di un’efficiente bottega di Limonges, nella Francia sud-occidentale. Proprio perché figlia d’arte, Suzanne avrebbe avuto modo di conoscere in casa i materiali e la tecnica. In altro modo non sarebbe stato possibile: mai una ragazza sarebbe potuta andare in un laboratorio ad apprendere l’arte da un maestro, mai sarebbe stata libera di sedersi con gli altri apprendisti su uno sgabello della bottega, mai avrebbe potuto misurarsi con gli strumenti del mestiere; mai, in seguito, sarebbe potuta diventare artista-artigiana indipendente, guidare una propria bottega con maestranze per lo più maschili, acquistare materiali, confrontarsi con la committenza, ricevere pagamenti. Al contrario, se si apparteneva a una dinastia artistica, la carriera si apriva anche per una donna che poteva raggiungere, non senza difficoltà, pregiudizi e discriminazioni, successo e benessere economico. Questo è quanto sembra essere accaduto a Suzanne de Court, che dal padre Jean avrebbe ereditato lavoro e laboratorio insieme ai fratelli.

Suzanne de Court, San Marco, Medaglione o retro di specchio, smalto dipinto su rame parzialmente dorato, primo quarto del XVII secolo, New York, Metropolitan Museum of Art

Esiste una seconda ipotesi, che Suzanne abbia preso il cognome de Court per matrimonio; in questo caso si dovrebbe supporre che anche la sua famiglia d’origine avesse a che fare con il mondo dell’arte della smaltatura e che, all’interno di quei legami familiari, fosse avvenuta la sua formazione artistica e tecnica. Gli studi e le ricerche di settore hanno individuato tra il 1575 e il 1625 il periodo in cui sarebbe stata attiva, il suo nominativo è pressoché solitario in mezzo a quelli di tanti uomini. La figura di Suzanne, scomparsi o non ancora rinvenuti altri documenti su di lei, è stata identificata anche grazie alla firma apposta su alcune creazioni, come il piatto raffigurante Apollo sul Monte Elicona con le Muse appartenuto alla collezione Waddesdon Besquet che il barone Ferdinand Anselm de Rothschild lasciò al British Museum di Londra alla fine dell’Ottocento. Il nome Susanne Court appare chiaramente leggibile sulla superficie blu del piatto, racchiusa in una elegante cornice dorata.

La firma di Suzanne de Court sul piatto Apollo sul Monte Elicona con le Muse, 1600 ca., collezione Waddesdon Besquet, Londra, British Museum

Si tratta di una creazione di carattere mitologico, tratta da una stampa dell’incisore mantovano Giorgio Ghisi (1520-1582):

Suzanne de Court, Apollo sul Monte Elicona con le Muse, smalto dipinto su rame, 1600 ca., collezione Waddesdon Besquet, Londra, British Museum

Apollo, in alto e al centro, domina la scena suddivisa in due parti dal serpentino corso d’acqua; a sinistra e a destra si distribuiscono le nove Muse intente a suonare, guidate dal dio alle prese con un liuto e non con la più tradizionale cetra. Emerge la cifra stilistica della pittrice: l’uso dei colori blu e verde stesi in numerose varianti tonali, i riflessi bianchi per gli incarnati delle figure rese vivaci non solo attraverso la sicura ed elegante tecnica pittorica, ma anche grazie all’attenzione rivolta ai tratti delle fisionomie, come testimoniano numerose altre opere.

Suzanne de Court, San Giovanni Battista, particolare della tazza in smalto dipinto su rame parzialmente dorato, primo quarto del XVII secolo, coll. privata

Spesso Suzanne de Court si è lasciata ispirare dal mondo mitologico e dalla cultura classica, lo dimostrano alcuni pezzi conservati nella Waddesdon Mannor, come gli specchi raffiguranti Giunone con le Furie di fronte a Cerbero di guardia all’ingresso degli inferi; Minerva sul monte Elicona con le Muse; Orfeo che incanta gli animali con la cetra, temi ispirati da stampe cinquecentesche di Bernard Salomon presenti nel libro La Métamorphose d’Ovide figurée pubblicato alla metà del Cinquecento. Nella stessa istituzione museale Waddesdon Mannor sono conservate due lastre rettangolari dedicate alla vita di Cristo con la Natività e l’Annunciazione.

Suzanne de Court, Orfeo incanta gli animali, Medaglione o retro di specchio, smalto dipinto su rame parzialmente dorato, 1600 ca., Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

Suzanne de Court, Annunciazione (part.), 1600 ca., smalto dipinto su rame, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

In quest’ultima scena, alla base dell’inginocchiatoio sul quale si trova Maria, compare ancora una volta la firma Susanne Court F., dove la “f”, per fecit, indica la cognizione del proprio agire artistico. Forse la pittrice era anche consapevole che la sola maestria non sarebbe bastata a renderla immortale, che la firma sulla superficie delle sue creazioni avrebbe potuto salvarla dall’oblio: più volte infatti ha voluto testimoniare il suo nome sulle opere, in alcuni casi in modo esteso, altre volte con le sole iniziali. Forse prefigurava la repentina sospensione dal ricordo nel suo destino di donna artista.

Suzanne de Court, Annunciazione, 1600 ca., smalto dipinto su rame, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

La firma di Suzanne de Court sul cofanetto con storie della Genesi, primo quarto del XVII secolo, New York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court sembra aver avuto un proprio spazio sociale ed essere stata interprete del gusto raffinato di molti (e probabilmente anche molte) committenti di rango, che potevano permettersi oggetti di devozione o di uso comune ‒ come saliere, specchi, casse per orologi ‒ impreziositi da quella mano inconfondibile e brillante;

Suzanne de Court, Cassa per orologio, ottone con placche di smalto dipinto su rame e finimenti in argento, primo quarto del XVII secolo, New York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court, Orologio, ottone con placche di smalto dipinto su rame e finimenti in argento, primo quarto del XVII secolo, New York, Metropolitan Museum of Art

successivamente le sue creazioni hanno attirato l’attenzione di collezionisti e collezioniste d’arte, come la baronessa Alice de Rothschild, che amarono arricchire le loro raccolte coi suoi capolavori di smalto.

Alice Charlotte de Rothschild (1847-1922)

Ora le opere di Suzanne de Court sono conservate in molti musei europei e statunitensi come, solo per citarne alcuni, il British Museum, il Metropolitan Museum of Art e la Frick Collection di New York, il Walters Arts Museum di Baltimora.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

L'art de l'émaillage est une pratique ancienne, très ancienne, qui plonge ses racines dans le bassin méditerranéen du IIe millénaire av. J.-C., entre Mycènes et Chypre.

Carte nautique du cartographe portugais Diogo Homem, 1570

Manifestation du pouvoir des empereurs et impératrices, rois, reines et chefs militaires, elle a également été l'expression de l'autorité religieuse tant en Orient, avec Byzance, qu'en Occident, souvent utilisée de manière complémentaire dans l'orfèvrerie. Les principales voies de diffusion des émaux ont été les routes commerciales, mais aussi celles des invasions et des conquêtes militaires, dans un enchevêtrement de richesse et d'avidité, de sang et de beauté qui constitue souvent une part importante de l'histoire de l'art. L'Europe a été l'un des berceaux du travail de l'émail, avec plusieurs centres régionaux comme la région rhénane près de la ville de Cologne, la zone autour de Liège, où a prospéré l'école mosane, et le territoire de Limoges. Combien de femmes ont travaillé avec goût et précision sur les précieux objets destinés aux cours et aux cathédrales, créatrices raffinées mais inconnues : si souvent les artistes des arts dits mineurs restent des protagonistes sans nom, pour les femmes artistes cette règle est encore plus valable. L'une d'elles, cependant, a réussi à sortir des plis de l'histoire de l'émaillage, à devenir si importante et célèbre qu'elle est encore rappelée. Son nom est Suzanne de Court, de profession peintre d'émaux, active entre le XVIe et le XVIIe siècle.

Suzanne de Court, Coffret avec scènes de la Genèse, émail peint sur cuivre, partiellement doré et montures en argent, premier quart du XVIIe siècle, New York, Metropolitan Museum of Art

Les informations biographiques sont rares. On pense qu'elle était la fille de Jean, lui aussi peintre d'émaux et descendant d'une lignée d'artistes propriétaires pendant de nombreuses générations d'un atelier efficace à Limoges, dans le sud-ouest de la France. Justement parce qu'elle était fille d'artiste, Suzanne aurait eu l'occasion de connaître à la maison les matériaux et la technique. Autrement, cela n'aurait pas été possible : jamais une jeune fille n'aurait pu aller dans un atelier pour apprendre l'art d'un maître, jamais elle n'aurait été libre de s'asseoir avec les autres apprentis sur un tabouret de l'atelier, jamais elle n'aurait pu se mesurer aux outils du métier ; jamais, par la suite, elle n'aurait pu devenir une artiste-artisane indépendante, diriger son propre atelier avec des ouvriers principalement masculins, acheter des matériaux, se confronter à la clientèle, recevoir des paiements. Au contraire, si l'on appartenait à une dynastie artistique, la carrière s'ouvrait aussi pour une femme qui pouvait atteindre, non sans difficultés, préjugés et discriminations, succès et bien-être économique. C'est ce qui semble être arrivé à Suzanne de Court, qui aurait hérité du travail et de l'atelier de son père Jean avec ses frères.

Suzanne de Court, Saint Marc, Médaillon ou dos de miroir, émail peint sur cuivre partiellement doré, premier quart du XVIIe siècle, New York, Metropolitan Museum of Art

Il existe une seconde hypothèse, selon laquelle Suzanne aurait pris le nom de famille de Court par mariage ; dans ce cas, on devrait supposer que sa famille d'origine avait également un lien avec le monde de l'art de l'émaillage et que, au sein de ces liens familiaux, sa formation artistique et technique aurait eu lieu. Les études et recherches du secteur ont identifié la période entre 1575 et 1625 comme celle où elle aurait été active, son nom étant pratiquement solitaire au milieu de ceux de nombreux hommes. La figure de Suzanne, d'autres documents sur elle ayant disparu ou n'ayant pas encore été retrouvés, a été identifiée également grâce à la signature apposée sur certaines créations, comme l'assiette représentant Apollon sur le mont Hélicon avec les Muses ayant appartenu à la collection Waddesdon Besquet que le baron Ferdinand Anselm de Rothschild a laissée au British Museum de Londres à la fin du XIXe siècle. Le nom Susanne Court apparaît clairement lisible sur la surface bleue de l'assiette, encadré dans un élégant cadre doré.

La signature de Suzanne de Court sur l'assiette Apollon sur le mont Hélicon avec les Muses, vers 1600, collection Waddesdon Besquet, Londres, British Museum

Il s'agit d'une création de caractère mythologique, tirée d'une gravure du graveur mantouan Giorgio Ghisi (1520-1582).

Suzanne de Court, Apollon sur le mont Hélicon avec les Muses, émail peint sur cuivre, vers 1600, collection Waddesdon Besquet, Londres, British Museum

Apollon, en haut et au centre, domine la scène divisée en deux parties par le cours d'eau sinueux ; à gauche et à droite se répartissent les neuf Muses occupées à jouer, guidées par le dieu aux prises avec un luth et non avec la plus traditionnelle cithare. Émerge la signature stylistique de la peintre : l'utilisation des couleurs bleues et vertes appliquées en de nombreuses variantes tonales, les reflets blancs pour les carnations des figures rendues vivantes non seulement grâce à la technique picturale sûre et élégante, mais aussi grâce à l'attention portée aux traits des physionomies, comme en témoignent de nombreuses autres œuvres.

Suzanne de Court, Saint Jean-Baptiste, détail de la coupe en émail peint sur cuivre partiellement doré, premier quart du XVIIe siècle, collection privée

Souvent, Suzanne de Court s'est laissée inspirer par le monde mythologique et la culture classique, comme le montrent certaines pièces conservées à Waddesdon Manor, telles que les miroirs représentant Junon avec les Furies face à Cerbère gardant l'entrée des enfers; Minerve sur le mont Hélicon avec les Muses ; Orphée charmant les animaux avec la cithare, des thèmes inspirés de gravures du XVIe siècle de Bernard Salomon présentes dans le livre La Métamorphose d'Ovide figurée publié au milieu du XVIe siècle. Dans la même institution muséale Waddesdon Manor sont conservées deux plaques rectangulaires dédiées à la vie du Christ avec la Nativité et l'Annonciation.

Suzanne de Court, Orphée charme les animaux, Médaillon ou dos de miroir, émail peint sur cuivre partiellement doré, vers 1600, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

Suzanne de Court, Annonciation (détail) (part.), 1vers 1600, émail peint sur cuivre, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

Dans cette dernière scène, à la base du prie-Dieu sur lequel se trouve Marie, apparaît encore une fois la signature Susanne Court F., où le "f", pour fecit, indique la conscience de son action artistique. Peut-être la peintre était-elle également consciente que seule la maîtrise ne suffirait pas à la rendre immortelle, que la signature sur la surface de ses créations pourrait la sauver de l'oubli : à plusieurs reprises, en effet, elle a voulu témoigner de son nom sur les œuvres, dans certains cas de manière étendue, d'autres fois avec les seules initiales. Peut-être préfigurait-elle la suspension soudaine du souvenir dans son destin de femme artiste.

Suzanne de Court, Annonciation, vers 1600, émail peint sur cuivre, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

La signature de Suzanne de Court sur le coffret avec histoires de la Genèse, premier quart du XVIIe siècle, New York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court semble avoir eu son propre espace social et avoir été l'interprète du goût raffiné de nombreux (et probablement aussi de nombreuses) commanditaires de rang, qui pouvaient se permettre des objets de dévotion ou d'usage courant – comme des salières, des miroirs, des boîtiers pour montres – embellis par cette main inimitable et brillante;

Suzanne de Court, Boîtier pour montre ,aiton avec plaques d'émail peint sur cuivre et garnitures en argent, premier quart du XVIIe siècle, New York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court, Boîtier, Montre, laiton avec plaques d'émail peint sur cuivre et garnitures en argent, premier quart du XVIIe siècle, New York, Metropolitan Museum of Art

 Par la suite, ses créations ont attiré l'attention de collectionneurs et collectionneuses d'art, comme la baronne Alice de Rothschild, qui ont aimé enrichir leurs collections de ses chefs-d'œuvre en émail.

Alice Charlotte de Rothschild (1847-1922)

Aujourd'hui, les œuvres de Suzanne de Court sont conservées dans de nombreux musées européens et américains, tels que, pour n'en citer que quelques-uns, le British Museum, le Metropolitan Museum of Art et la Frick Collection de New York, le Walters Art Museum de Baltimore.


Traduzione spagnola

Maria Carreras Goicoechea

El arte del esmaltado es un arte antiguo, antiquísimo, que hunde sus orígenes en la cuenca del Mediterráneo del segundo milenio a. C., entre Micenas y Chipre.

Carte nautique du cartographe portugais Diogo Homem, 1570

Manifestación del poder de emperadores y emperatrices, reyes, reinas y caudillos, el esmaltado también fue expresión de la autoridad religiosa –tanto en Oriente, con Bizancio, como en Occidente–, y a menudo fue usado de forma complementaria en la orfebrería. Las principales vías de difusión de los esmaltes fueron las rutas del comercio, pero también las de las invasiones y conquistas militares, en un entramado de riqueza y codicia, sangre y belleza que a menudo constituye una parte importante de la historia del arte. Europa fue una de las cunas del trabajo del esmalte, con diversos centros regionales como el área del Rin, cerca de la ciudad de Colonia: la zona en torno a Lieja, donde floreció la escuela mosana, y el territorio de Limoges. Quién sabe cuántas mujeres habrán trabajado con gusto y precisión los objetos preciosos destinados a cortes y catedrales, creadoras refinadas pero desconocidas: si a menudo los artistas de las llamadas artes menores permanecen como protagonistas sin nombre, para las artistas esta ley se cumple aún más. Sin embargo, una de ellas logró salir de los pliegues de la historia del esmaltado, llegando a ser tan importante y famosa como para ser recordada. Su nombre es Suzanne de Court, de profesión pintora de esmaltes, activa entre los siglos XVI y XVII.

Suzanne de Court, Cofre con escenas del Génesis, esmalte pintado sobre cobre, en parte dorado y con monturas de plata, primer cuarto del siglo XVII, Nueva York, Metropolitan Museum of Art

Son escasas las noticias biográficas. Se piensa que fue hija de Jean, también pintor de esmaltes y descendiente de una dinastía de artistas propietarios durante muchas generaciones de un eficiente taller en Limoges, en el suroeste de Francia. Precisamente por ser hija de artistas, Suzanne podría haber tenido la oportunidad de conocer en casa los materiales y la técnica. De otro modo no habría sido posible: jamás una joven hubiera podido acudir a un taller a aprender el arte de un maestro, jamás habría podido sentarse con otros aprendices en un banco del taller, jamás habría podido familiarizarse con las herramientas del oficio; jamás, después, habría podido convertirse en una artista-artesana independiente, dirigir su propio taller con trabajadores en su mayoría hombres, comprar materiales, tratar con la clientela, recibir pagos. En cambio, si se pertenecía a una dinastía artística, la carrera se abría también para una mujer, que podía alcanzar, no sin dificultades, prejuicios y discriminaciones, el éxito y el bienestar económico. Esto es lo que parece haber ocurrido con Suzanne de Court, quien se supone que geredó de su padre Jean el trabajo y el taller junto con sus hermanos.

Suzanne de Court, San Marcos, Medallón o reverso de espejo, esmalte pintado sobre cobre parcialmente dorado, primer cuarto del siglo XVII, Nueva York, Metropolitan Museum of Art

Existe una segunda hipótesis, que Suzanne adoptara el apellido de Court con el matrimonio; en tal caso, se debería suponer que también su familia de origen tenía relación con el mundo del arte del esmaltado y que dentro de esos lazos familiares se produjo su formación artística y técnica. Los estudios e investigaciones del sector han identificado entre 1575 y 1625 el período en el que debió ser activa; su nombre aparece prácticamente solo entre tantos hombres. La figura de Suzanne, desaparecidos o inéditos otros documentos sobre ella, ha sido identificada también gracias a la firma estampada en algunas de sus creaciones, como el plato que representa a Apolo en el monte Helicón con las Musas, perteneciente a la colección Waddesdon Besquet que el barón Ferdinand Anselm de Rothschild legó al British Museum de Londres a finales del siglo XIX. El nombre Susanne Court se puede leer claramente en la superficie azul del plato, enmarcado elegantemente en dorado.

La firma de Suzanne de Court en el plato Apolo en el monte Helicón con las Musas, ca. 1600, colección Waddesdon Besquet, Londres, British Museum

Se trata de una creación de carácter mitológico, tomada de un grabado del artista mantuano Giorgio Ghisi (1520-1582)

Suzanne de Court, Apolo en el monte Helicón con las Musas, esmalte pintado sobre cobre, ca. 1600, colección Waddesdon Besquet, Londres, British Museum

Apolo, en la parte superior y central, domina la escena dividida en dos partes por un serpenteante curso de agua; a la izquierda y derecha se distribuyen las nueve Musas tocando instrumentos, guiadas por el dios con un laúd en lugar de la más tradicional cítara. Emerge el sello estilístico de la pintora: el uso de los colores azul y verde aplicados en múltiples tonalidades, los reflejos blancos en los rostros de las figuras, animadas no solo a través de una técnica pictórica segura y elegante, sino también gracias a la atención prestada a los rasgos de las fisonomías, como lo demuestran numerosas otras obras:

Suzanne de Court, San Juan Bautista, detalle de la taza en esmalte pintado sobre cobre parcialmente dorado, primer cuarto del siglo XVII, colección privada

A menudo Suzanne de Court se inspiró en el mundo mitológico y en la cultura clásica, como demuestran algunas piezas conservadas en Waddesdon Manor, como los espejos que representan a Juno con las Furias frente a Cerbero guardando la entrada del inframundo; Minerva en el monte Helicón con las Musas; Orfeo encantando a los animales con la cítara; temas inspirados en grabados del siglo XVI de Bernard Salomon presentes en el volumen La Métamorphose d’Ovide figurée publicado a mediados del siglo XVI. En la misma institución museística Waddesdon Manor se conservan dos placas rectangulares dedicadas a la vida de Cristo con la Natividad y la Anunciación.

Suzanne de Court, Orfeo encanta a los animales, Medallón o reverso de espejo, esmalte pintado sobre cobre parcialmente dorado, ca. 1600, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

Suzanne de Court, Anunciación (detalle) ca. 1600, esmalte pintado sobre cobre, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

En esta última escena, en la base del reclinatorio sobre el que se encuentra María, aparece una vez más la firma Susanne Court F., donde la "f", de fecit, indica la conciencia de su propio hacer artístico. Tal vez la pintora también era consciente de que solo la maestría no era suficiente para hacerla inmortal, y de que la firma en la superficie de sus creaciones podría salvarla del olvido: de hecho, en varias ocasiones quiso dejar testimonio de su nombre en las obras, a veces de forma completa, otras solo con iniciales. Quizás presentía que su destino de mujer artista conllevaba una rápida desaparición del recuerdo.

Suzanne de Court, Anunciación, ca. 1600, esmalte pintado sobre cobre, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

La firma de Suzanne de Court en el cofre con historias del Génesis, primer cuarto del siglo XVII, Nueva York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court parece haber tenido su propio espacio social y haber sido intérprete del gusto refinado de muchos (y probablemente también muchas) comitentes de alto rango, que podían permitirse objetos de devoción o de uso común –como saleros, espejos, cajas para relojes– embellecidos con esa mano inconfundible y brillante;

Suzanne de Court, Caja para reloj, latón con placas de esmalte pintado sobre cobre y adornos de plata, primer cuarto del siglo XVII, Nueva York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court, Reloj, latón con placas de esmalte pintado sobre cobre y adornos de plata, primer cuarto del siglo XVII, Nueva York, Metropolitan Museum of Art

posteriormente sus creaciones atrajeron la atención de coleccionistas de arte, como la baronesa Alice de Rothschild, que amaron enriquecer sus colecciones con sus obras maestras en esmalte.

Alice Charlotte de Rothschild (1847-1922)

Hoy las obras de Suzanne de Court se conservan en muchos museos europeos y estadounidenses como, para citar solo algunos, el British Museum, el Metropolitan Museum of Art, y la Frick Collection de Nueva York y el Walters Arts Museum de Baltimore.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

The art of enameling is an ancient, very ancient, art that has its origins in the Mediterranean basin of the 2nd millennium B.C., between Mycenae and Cyprus.

Nautical chart by Portuguese cartographer Diogo Homem, 1570

A manifestation of the power of emperors and empresses, kings, queens and leaders, it was also an expression of religious authority both in the East, with Byzantium, and in the West, often used in complementary ways in goldsmithing. The main routes for the spread of enamels were the trade routes, but also those of invasions and military conquests, in an interweaving of wealth and greed, blood and beauty that often forms an important part of art history. Europe was one of the cradles of enamel work, with several regional centers such as the Rhineland area near the city of Cologne, the area around Liège, where the Mosan school flourished, and the Limonges area. Who knows how many women will have worked, with taste and precision, the precious objects destined for courts and cathedrals, refined but unknown creators: if artists in the so-called minor arts often remain nameless protagonists, for women artists this law applies even more. One of them, however, managed to get out of the folds of enameling history, to become so important and famous that she is remembered. Her name is Suzanne de Court, an enamel painter by profession, active between the 16th and 17th centuries.

Casket with scenes from Genesis, enamel painted on copper, partly gilded and silver mounts, first quarter of the 17th century, New York, Metropolitan Museum of Art

Biographical information is scarce. She is thought to have been the daughter of Jean, also an enamel painter and a descendant of a line of artists who owned a productive workshop in Limonges, southwestern France, for many generations. Precisely because she was a child of art, Suzanne would have been familiar with the materials and technique at home. Otherwise it would not have been possible: never would a girl have been able to go to a workshop and learn the art from a master, never would she have been free to sit with other apprentices on a workshop stool, never would she have been able to measure herself with the tools of the trade. Never, later, would she have been able to become an independent artist-craftswoman, run her own workshop with mostly male workers, buy materials, deal with clients, and receive payments. Conversely, if one belonged to an artistic dynasty, the career also opened up for a woman who could achieve, not without difficulty, prejudice and discrimination, success and economic well-being. This is what seems to have happened to Suzanne de Court, who would inherit work and a workshop from her father Jean along with her brothers.

Suzanne de Court, St. Mark, Medallion or back of mirror, painted enamel on partially gilded copper, first quarter of the 17th century, New York, Metropolitan Museum of Art

There is a second hypothesis, that Suzanne took the surname de Court by marriage; in this case it should be assumed that her family of origin also had something to do with the world of enameling art and that, within those family ties, her artistic and technical training took place. Studies and research in the field have identified 1575 to 1625 as the period in which she would have been active; her name is almost solitary among those of so many men. The figure of Suzanne, who has disappeared or other documents about her have not yet been found, has also been identified through her signature on some creations, such as the plate depicting Apollo on Mount Helicon with the Muses that belonged to the Waddesdon Besquet collection that Baron Ferdinand Anselm de Rothschild left to the British Museum in London at the end of the 19th century. The name Susanne Court appears clearly legible on the blue surface of the plate, enclosed in an elegant gilt frame.

Suzanne de Court's signature on the plate Apollo on Mount Helicon with the Muses, c. 1600, Waddesdon Besquet collection, London, British Museum

This is a mythological creation from a print by Mantuan engraver Giorgio Ghisi (1520-1582)

Suzanne de Court, Apollo on Mount Helicon with the Muses, enamel painted on copper, c. 1600, Waddesdon Besquet collection, London, British Museum

Apollo, top and center, dominates the scene divided into two parts by the serpentine watercourse; to the left and right are distributed the nine Muses intent on playing, led by the god grappling with a lute and not the more traditional zither. The painter's stylistic signature emerges: the use of blue and green colors spread in numerous tonal variations, the white highlights for the flesh tones of the figures made lively not only through the confident and elegant painting technique, but also thanks to the attention paid to the features of the physiognomies, as evidenced by numerous other works.

Suzanne de Court, Saint John the Baptist, detail of enamel cup painted on partially gilded copper, first quarter of the 17th century, private coll.

Suzanne de Court was often inspired by the world of mythology and classical culture, as evidenced by some pieces preserved in the Waddesdon Mannor, such as the mirrors depicting Juno with the Furies facing Cerberus guarding the entrance to the underworld; Minerva on Mount Helicon with the Muses; and Orpheus enchanting animals with a zither, themes inspired by sixteenth-century prints by Bernard Salomon featured in the book La Métamorphose d'Ovide figurée published in the mid-sixteenth century. Two rectangular plates dedicated to the life of Christ with the Nativity and Annunciation are preserved in the same Waddesdon Mannor museum institution.

Suzanne de Court, Orpheus enchants animals, Medallion or mirror back, painted enamel on partially gilded copper, c. 1600, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

Suzanne de Court, Annunciation (part.), c. 1600, painted enamel on copper, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

In the latter scene, at the base of the kneeler on which Mary stands, the signature Susanne Court F. appears again, where the “f,” for fecit, indicates the cognition of one's artistic action. Perhaps the painter was also aware that mastery alone would not be enough to make her immortal, that a signature on the surface of her creations might save her from oblivion: in fact, several times she wished to bear witness to her name on the works, in some cases extensively, at other times with only initials. Perhaps it foreshadowed the sudden suspension from memory in her destiny as a woman artist.

Suzanne de Court, Annunciation, 1c. 1600, painted enamel on copper, Waddesdon (UK), Waddesdon Manor

signature on the casket with stories from Genesis, first quarter of the 17th century, New York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court seems to have had her own social space and to have been an interpreter of the refined taste of many (and probably very many) high-ranking patrons, who could afford objects of devotion or common use-such as salt cellars, mirrors, watch cases-embellished by that unmistakable and brilliant hand

Suzanne de Court, Clock case, brass with enamel plates painted on copper and silver finials, first quarter of the 17th century, New York, Metropolitan Museum of Art

Suzanne de Court, Clock, brass with enamel plates painted on copper and silver finials, first quarter of the 17th century, New York, Metropolitan Museum of Art

Later her creations attracted the attention of collectors and art collectors, such as Baroness Alice de Rothschild, who loved to enrich their collections with her enamel masterpieces

Alice Charlotte de Rothschild (1847-1922)

Now Suzanne de Court's works are held in many European and U.S. museums such as, to name a few, the British Museum, the Metropolitan Museum of Art and the Frick Collection in New York, and the Walters Arts Museum in Baltimore.

 

Marietta Barovier
Nadia Cario

Giulia Tassi

 

Le perle di vetro sono piccoli oggetti artistici dal grandissimo fascino. Belle, colorate, amate, ricercate, al collo di donne e di uomini, presenti nei santuari e nelle sepolture, usate in cerimonie tribali, di iniziazione e religiose, applicate nei vestiti, collezionate. Scambiate negli acquisti: pare che l’olandese Peter Minuit nel 1626 abbia aggiunto una manciata di perle per concludere con i nativi Lenape l’acquisto dell’isola di Minnahanock, quella che oggi è conosciuta come l’isola di Manhattan. L’origine dell’arte veneziana del vetro è probabilmente legata al mondo romano. Tra le prime testimonianze dirette nell’Italia settentrionale ci sono due bottiglie di vetro facenti parte di un corredo funerario del II sec. d.C. ritrovate in una tomba in Austria. Sul fondo delle bottiglie un bollo che rappresenta il marchio “di fabbrica” della produttrice: Sentia Secunda facit Aquileiae (Sentia Secunda fece Aquileia). Ma l’arte veneziana del vetro assume ben presto caratteri propri dovuti alle influenze tecniche asiatiche e arabe facilitate dalla intensa attività di scambi commerciale della Repubblica marinara di Venezia nei porti dell’Impero Bizantino.

Dopo la conquista di Costantinopoli (1204), giunsero a Venezia maestri vetrai greci e turchi, detti phiolieri, poiché soffiavano fiales de vin: nacquero così le bottiglie veneziane, contraddistinte da un cerchio azzurro sul collo e dal bollo della Repubblica che garantiva alla Serenissima un esclusivo monopolio valido per tutte le varianti locali: bucae, fiole, inghistere. Le prime notizie su imprenditrici del vetro a Venezia risalgono al 1279, quando Molfina, padrona di una fornace che produceva bottiglie e bicchieri, viene citata sui documenti locali per non aver rispettato il periodo di riposo annuale delle fornaci. Dagli atti risulta che nel Trecento Daniota era amministratrice di una fornace di grani da rosario – paternostri, perle e gemme in vetro – veriselli. Altre presenze le troviamo nel 1350 quando Francesca di Pianiga e Bionda di Strata gestivano le fornaci ereditate e i relativi vincoli lavorativi con i dipendenti. Nelle fornaci e nelle botteghe artistiche, tutta la famiglia era impiegata nell’attività, dove figlie e figli imparavano l’arte con la prospettiva di garantire, anche alla Repubblica, la continuità nel tempo della produzione. Nonostante la figura maschile fosse quella ufficiale, le donne non erano escluse dalla gestione del lavoro. Lo comprovano le testimonianze che tra il 1386 e il 1393 Lucia Barovier Galliera, Lucia Sbraia Schiavo e Margherita D’Arpo ereditarono e gestirono le fornaci di famiglia e Lucia Bartolomei ricevette l’ordine di fornire misure di vetro alle taverne. Nello stesso secolo, a Benvenuta da Santa Maria Nova fu ingiunto di sospendere la sua produzione cittadina di pietre per anelli. Per il timore di incendi, con un decreto del Maggior Consiglio del 1291, quasi tutte le fornaci di Venezia furono concentrate nell’isoletta di Murano, anche per garantire che i segreti dell’arte vetraria non potessero essere esportati. Tra le fornaci più importanti risalta quella della famiglia Barovier o Berroviero impegnata nella produzione del vetro dal XIII sec.

In questa famiglia nasce Maria Barovier, detta Marietta, figlia di Polonia che ne attesta l’esistenza citandola nel testamento del 13 settembre 1431 quando le assegna la somma di sessanta ducati in caso di matrimonio. A Venezia, e non solo, all'epoca era uso fare testamento prima di ciascun parto dato l’alto rischio di incorrere in complicazioni. Pertanto si può presumere, non avendo fonti scritte al riguardo, che Maria, essendo secondogenita di cinque e già vivente nel 1431, possa essere nata tra il 1426 e il 1428, mentre non si hanno indicazioni sulla data di morte. Il padre Angelo è un maestro vetraio di eclettica cultura umanistica, filosofo e alchimista. Le sue sperimentazioni basate sugli studi di chimica gli fanno raggiungere un traguardo inedito: “inventa” infatti il vetro cristallo. Questo nuovissimo prodotto trova da subito la tutela del Governo di Venezia per impedire il trafugamento del segreto di lavorazione, concedendone la fabbricazione anche nei mesi di inattività delle fornaci e garantendo prestigio e soldi alla città.

Coppa Barovier_bagno nella fontana dell'amore e della giovinezza coppa barovier da libro Decorazione coppa Barovier Fanciulle a cavallo

Maria continua a produrre e lavorare nella fornace e, a seguito della morte del padre, nel 1460, ne divenne titolare insieme al fratello Giovanni. È una artista innovativa, cerca una combinazione di colori con una forma che incanti lo sguardo. Intorno al 1480 dà alla luce le perle a rosetta e rivoluziona il mondo delle perle di vetro. Dalla sovrapposizione di sei strati concentrici di vetro di colore bianco avorio, rosso coppo e blu, con disegni interni a forma di stella a dodici punte, intarsiate o a mosaico, crea una lunga e sottile canna di vetro forata da tagliare in cilindretti. I cilindri forati vengono successivamente molati e arrotondati, assumendo la caratteristica forma a botticella. Questo tipo di perla ha contribuito a cambiare i destini del mondo poiché ben presto diviene il simbolo di una sorta di “nobiltà” di un piccolo oggetto capace di influire enormemente sulle scelte degli esseri umani. È diventata la perla di scambio più usata al mondo a cui sono stati anche attribuiti poteri magici, usata nei mercati di tutti i continenti, e pure per liberare prigionieri o ottenere privilegi e concessioni.  

Chevron rosetta Collana rosette
Chevron rosetta

Maria Barovier a questo punto della sua vita sente il desiderio e la necessità di avere una fornace “tutta per sé” dove esprimere liberamente la sua arte e chiede l’autorizzazione al Doge di costruire una piccola fornace a proprio uso esclusivo dove poter cuocere i vetri smaltati ornati che le venivano commissionati. E il Doge la autorizza con Decreto del 26 luglio 1487 con parole di elogio per l’opera della maestra vetraia:

«Marietta gratissima ob eius mirum artificium manus in conficiendis laboreriis sive operibus vitreis pulcherrimis valde, quorum ipsa fuit inventrix […] opera sua inconsueta et non sufflata, in quandam sua fornace parvula ad hoc studiose confecta». «Marietta è una delle preferite per il suo straordinario lavoro manuale nella realizzazione di bellissime opere in vetro, di cui lei fu l'inventrice […] le sue opere furono insolite e non soffiato in una specie di piccola fornace per questo scopo finito»

Alla fine di questo scritto su di una artista che ha prodotto e contribuito a produrre opere “immortali” e scosso il mondo economico e politico con una “semplice” perlina dal potere magico scaturita dal suo ingegno, non possiamo che constatare la sua grandezza sottovalutata anche da chi ne ha avuto largo beneficio.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

Les perles de verre sont de petits objets artistiques d’un immense charme. Belles, colorées, aimées, recherchées, elles ornent les cous des femmes et des hommes, se trouvent dans les sanctuaires et les sépultures, sont utilisées dans les cérémonies tribales, d’initiation et religieuses, appliquées aux vêtements, collectionnées. Elles sont échangées dans les transactions : il paraît que le Hollandais Peter Minuit, en 1626, a ajouté une poignée de perles pour conclure avec les autochtones Lenapes l’achat de l’île de Minnahanock, connue aujourd’hui sous le nom de Manhattan. L’origine de l’art vénitien du verre est probablement liée au monde romain. Parmi les premières preuves directes dans le nord de l’Italie, on trouve deux bouteilles en verre faisant partie d’un mobilier funéraire du IIe siècle après J.-C., découvertes dans une tombe en Autriche. Au fond des bouteilles, un sceau indique la marque de la productrice: Sentia Secunda facit Aquileiae (Sentia Secunda a fabriqué [cela] à Aquilée). Mais l’art du verre vénitien a acquis très tôt des caractéristiques propres, influencées par des techniques asiatiques et arabes, facilitées par l’intense activité commerciale de la République maritime de Venise dans les ports de l’Empire byzantin.

Après la conquête de Constantinople (1204), des maîtres verriers grecs et turcs, appelés phiolieri parce qu’ils soufflaient des fiales de vin, sont arrivés à Venise. Ainsi sont nées les bouteilles vénitiennes, reconnaissables par un cercle bleu sur le col et par le sceau de la République, garantissant à la Sérénissime un monopole exclusif valable pour toutes les variantes locales : bucae, fiole, inghistere. Les premières traces de femmes entrepreneures dans le verre à Venise remontent à 1279, quand Molfina, propriétaire d’un four produisant des bouteilles et des verres, est mentionnée dans les documents locaux pour ne pas avoir respecté la période annuelle de repos des fours. Selon les actes, au XIVe siècle, Daniota gérait un four de production de grains de chapelet – paternostri, perles et pierres en verre – appelés veriselli. En 1350, Francesca de Pianiga et Bionda de Strata géraient des fours hérités ainsi que les obligations liées aux employés. Dans les fours et les ateliers artistiques, toute la famille participait à l’activité : filles et fils y apprenaient le métier, dans la perspective de garantir, y compris à la République, la continuité de la production. Bien que la figure masculine fût officiellement reconnue, les femmes ne restaient pas exclues de la gestion du travail. Des documents attestent qu’entre 1386 et 1393, Lucia Barovier Galliera, Lucia Sbraia Schiavo et Margherita D’Arpo héritèrent des fours familiaux et les dirigèrent. Lucia Bartolomei reçut l’ordre de fournir des mesures de verre aux tavernes. Au cours du même siècle, Benvenuta de Santa Maria Nova fut contrainte de suspendre sa production de pierres pour bagues. Par crainte d’incendies, un décret du Grand Conseil, en 1291, a ordonné que presque tous les fours de Venise soient transférés sur l’île de Murano, également afin de préserver les secrets de l’art verrier de toute exportation. Parmi les fours les plus importants se distinguait celui de la famille Barovier (ou Berroviero), active dans la production du verre depuis le XIIIe siècle.

C’est dans cette famille que naquit Maria Barovier, dite Marietta, fille de Polonia, qui atteste de son existence dans son testament du 13 septembre 1431, en lui léguant une somme de soixante ducats en cas de mariage. À Venise – et pas seulement – il était d’usage à l’époque de rédiger un testament avant chaque accouchement, à cause des risques élevés de complications. Ainsi, on peut supposer, faute de sources écrites, que Maria, étant la deuxième de cinq enfants et déjà vivante en 1431, soit née entre 1426 et 1428. Aucune indication ne nous est parvenue sur la date de sa mort. Son père Angelo était un maître verrier doté d’une vaste culture humaniste, philosophe et alchimiste. Ses expérimentations, fondées sur des études de chimie, l’ont mené à une innovation majeure: il a “inventé” le verre cristal. Ce produit tout à fait nouveau a immédiatement été protégé par le gouvernement vénitien afin d’empêcher le vol de son secret de fabrication. Sa production a été autorisée même durant les périodes d’inactivité des fours, apportant prestige et richesse à la ville.

Coupe Barovier_bain dans la fontaine de l'amour et de la jeunesse Coupe Barovier tirée d’un livre Décoration de la coupe Barovier Jeunes filles à cheval

À Murano, les verres soufflés ont seulement à cette époque acquis des formes artistiques, enrichies par des peintures à l’émail et des dorures, des innovations héritées de l’Orient. C’est dans le four où Maria travaillait qu’a été réalisée l’actuelle pièce emblématique du Musée du Verre de Murano: la coupe Barovier, une coupe nuptiale en verre bleu cobalt, décorée à l’émail par elle-même. Cette précieuse création est l’un des exemples les plus célèbres de verre artistique de la Renaissance, grâce à la légèreté de ses décorations polychromes et à sa couleur unique. Maria y peint de gracieux motifs de bon augure en utilisant des couleurs précieuses – rouge rubis, vert émeraude, améthyste, blanc laiteux, calcédoine – pour représenter, d’un côté, un groupe de jeunes filles à cheval, et de l’autre, le bain dans la fontaine de l’amour et de la jeunesse. Elle ne se limite pas à cette coupe : elle peint d’autres objets semblables, caractérisés par leurs couleurs raffinées, une grande variété d’ornements et de décors – à thèmes sacrés ou profanes – et des portraits des époux pour lesquels les pièces étaient réalisées. Maria continue à produire et travailler au four. Après la mort de son père en 1460, elle prend la direction de la verrerie avec son frère Giovanni. Artiste innovante, elle cherche à combiner les couleurs avec des formes capables d’enchanter le regard. Vers 1480, elle met au point les perles à rosette, révolutionnant le monde des perles de verre. À partir de six couches concentriques de verre – ivoire blanc, rouge sombre et bleu – avec des motifs internes en forme d’étoile à douze pointes, incrustés ou en mosaïque, elle crée une longue canne de verre percée, qu’on coupe ensuite en petits cylindres. Ces derniers, une fois meulés et arrondis, prennent la forme typique de baril. Ce type de perle a changé le destin du monde: elle est rapidement devenue le symbole d’une sorte de “noblesse” d’un petit objet capable d’influencer fortement les décisions humaines. C’est devenu la perle d’échange la plus utilisée au monde, à laquelle on a même attribué des pouvoirs magiques, utilisée sur tous les continents, y compris pour libérer des prisonniers ou obtenir des privilèges.

Chevron rosette Collier de rosettes
Chevron rosette

À ce stade de sa vie, Maria ressent le besoin et le désir d’avoir un four “à elle seule” pour exprimer librement son art. Elle demande l’autorisation au Doge de construire un petit four destiné uniquement à la cuisson de ses verres émaillés décorés sur commande. Et le Doge l’autorise, avec un décret daté du 26 juillet 1487, dans lequel il loue l’œuvre de la maîtresse verrière:

«Marietta, très estimée pour son merveilleux talent manuel dans la réalisation d’œuvres en verre très belles, dont elle a été l’inventrice […] ses œuvres furent inhabituelles et non soufflées, dans un petit four qu’elle fit construire spécialement à cette fin.»

En conclusion de ce récit sur une artiste qui a produit et contribué à créer des œuvres “immortelles” et bouleversé le monde économique et politique avec une “simple” petite perle dotée d’un pouvoir magique, fruit de son génie, on ne peut que constater combien sa grandeur a été sous-estimée, y compris par ceux qui en ont largement bénéficié.


Traduzione spagnola

Alexandra Paternò

Las perlas de vidrio son pequeños objetos artísticos de gran atractivo. Bellas, pintadas, amadas, buscadas, se encuentran en el cuello de mujeres y hombres, están presentes en santuarios y enterramientos, utilizadas en ceremonias tribales, de iniciación y religiosas, se aplicaban a la ropa y son motivo de colección. Moneda de pago: parece que en 1626 el holandés Peter Minuit añadió un puñado de perlas para concluir con los nativos Lenapes la compra de la isla de Minnahanock, la que hoy se conoce como isla de Manhattan. El origen de la vidriería veneciana probablemente está vinculado al mundo romano: entre las primeras pruebas directas en el norte de Italia se encuentran dos botellas de vidrio que formaban parte de un ajuar funerario del siglo II d.C. halladas en una tumba de Austria; en el fondo de las botellas hay un sello que representa la marca “de fábrica” de la productora: Sentia Secunda facit Aquileiae (Sentia Secunda hizo Aquilea). Pero el arte vidriero veneciano pronto adquirió características propias debido a las influencias técnicas asiáticas y árabes, facilitadas por la intensa actividad comercial de la República Marinera de Venecia en los puertos del Imperio Bizantino.

Después de la conquista de Constantinopla (1204), llegaron a Venecia maestros vidrieros griegos y turcos, llamados phiolieri, ya que soplaban fiales de vino: nacieron así las botellas venecianas, reconocibles gracias a un círculo azul en el cuello y por el sello de la República que le aseguraba a la Serenísima un monopolio exclusivo válido para todas las variantes locales: bucae, fiole, inghistere. Las primeras noticias sobre mujeres vidrieras en Venecia se remontan a 1279, cuando Molfina, propietaria de un horno que producía botellas y vasos, fue mencionada en documentos locales por no respetar el periodo anual de descanso de los hornos. Otros documentos muestran que, en el siglo XIV, Daniota era la administradora de un horno que fabricaba cuentas de rosario – paternostri–, cuentas de vidrio y gemas –veriselli–. Otras presencias se encuentran en 1350, cuando Francesca di Pianiga y Bionda di Strata administraban los hornos que habían heredado y los respectivos vínculos laborales con sus empleados. En los hornos y talleres de arte, toda la familia estaba empleaba en el negocio, donde hijas e hijos aprendían el arte con la perspectiva de garantizar a largo plazo, también a la República, la continuidad de la producción. Aunque los hombres eran las figuras oficiales, las mujeres no estaban excluidas de la gestión del trabajo. Prueba de ello es que, entre 1386 y 1393, Lucia Barovier Galliera, Lucia Sbraia Schiavo y Margherita D'Arpo heredaron y gestionaron los hornos familiares, y Lucia Bartolomei recibió el encargo de suministrar misure de vidrio (recipientes y vasos) a las tabernas. En el mismo siglo, Benvenuta da Santa Maria Nova recibió la orden de suspender la producción de piedras para anillos en la ciudad. Debido al miedo de los incendios, por decreto del Consejo Mayor de 1291, casi todos los hornos de Venecia se reunieron en la pequeña isla de Murano, también para garantizar que los secretos del arte vidriero no fueran difundidos. Entre los hornos más importantes, destaca el de la familia Barovier o Berroviero, dedicada a la producción de vidrio desde el siglo XIII.

En esta familia nació Maria Barovier, conocida como Marietta, hija de Polonia, quien demuestra su existencia citándola en su testamento del 13 de septiembre de 1431, cuando le asignó la suma de sesenta ducados en caso de matrimonio. En Venecia, y en otros lugares, era costumbre de la época hacer testamento antes de cada nacimiento debido al alto riesgo de complicaciones. Por lo tanto, ya que no existen fuentes escritas al respecto, cabe suponer que Maria, que era la segunda hija de cinco y vivía ya en 1431, pudo nacer entre 1426 y 1428, mientras que no hay indicación sobre la fecha de su fallecimiento. Su padre Angelo es un maestro vidriero de cultura humanista ecléctica, filósofo y alquimista. Sus experimentos, basados en estudios de química, le llevaron a un éxito sin precedentes: de hecho «inventó» el cristal. Este novísimo producto encontró inmediatamente la protección del gobierno veneciano para evitar que se robara el secreto de su fabricación, lo que permitió fabricarlo incluso durante los meses en que los hornos estaban parados y garantizó prestigio y dinero a la ciudad.

Copa Barovier_Baño en la Fuente del Amor y la Juventud Copa Barovier del libro Decoración de la Copa Barovier: Doncellas a caballo

Solamente en aquel siglo, en Murano, el vidrio soplado adquirió formas artísticas, con la adición de pinturas de esmalte y adornos dorados, innovaciones que los ciudadanos de Murano heredaron de Oriente. Del horno donde trabaja Maria procede también el actual objeto símbolo del Museo de la Vidriería de Murano: la copa Barovier, una copa nupcial de vidrio azul cobalto con decoraciones de esmalte pintadas por ella. Esta preciada obra de artesanía es uno de los ejemplos más famosos del vidrio artístico renacentista por la ligereza de sus decoraciones polícromas, por su color único. Maria pinta los elegantes motivos de buen agüero y utiliza colores de valor, del rojo rubí al verde esmeralda, pasando por el amatista, el blanco lechoso y el calcedonia, para representar, en un lado, un grupo de doncellas a caballo y, en el otro, el baño en la fuente del amor y la juventud. No pintó solamente esta copa, sino todos los objetos de la misma época caracterizados por colores refinados y una extraordinaria variedad de ornamentos y embellecimientos, de temas sagrados y profanos así como el retrato de los novios para quienes se realizaba cada objeto. Maria continuó produciendo y trabajando en el horno y, tras la muerte de su padre en 1460, se convirtió en su propietaria junto con su hermano Giovanni. Era una artista innovadora, que buscaba una combinación de colores con una forma que detuviera la mirada. Alrededor de 1480 creó las perle a rosetta (perlas rosetas) y revolucionó el mundo de las perlas de vidrio. A partir de la superposición de seis capas concéntricas de vidrio blanco marfil, rojo cobrizo y azul, con dibujos internos en forma de estrella de doce puntas, incrustada o en mosaico, crea una larga y delgada caña de vidrio perforada que se corta en pequeños cilindros. Después, los cilindros perforados se esmerilan y redondean, adoptando su característica forma ovalada. Este tipo de perla contribuyó a cambiar los destinos del mundo, ya que pronto se convirtió en el símbolo de una especie de «nobleza» de un pequeño objeto capaz de influir enormemente en las decisiones humanas. Se convirtió en la perla comercial más utilizada en el mundo, a la que también se atribuyeron poderes mágicos, usada en los mercados de todos los continentes, y también para liberar prisioneros u obtener privilegios y concesiones.

Rosa de Chevron Collar de rosetas
Collar de rosetas

En aquel momento de su vida, Maria Barovier sintió el deseo y la necesidad de disponer de un horno «sólo para ella» donde poder expresar libremente su arte, y pidió permiso al Doge para construir un pequeño horno de uso exclusivo, donde poder cocer los vidrios esmaltados decorados que se le encargaban. Y este lo autorizó por decreto de 26 de julio de 1487 con palabras de elogio hacia el trabajo de la maestra vidriera:

«Marietta gratissima ob eius mirum artificium manus in conficiendis laboreriis sive operibus vitreis pulcherrimis valde, quorum ipsa fuit inventrix [...] opera sua inconsueta et non sufflata, in quandam sua fornace parvula ad hoc studiose confecta». «Marietta muy estimada por su extraordinario trabajo manual en la creación de preciosas obras de vidrio, de las que ella misma fue inventora […], realizaba sus obras insólitas, no sopladas, en cierto pequeño horno suyo completado para este fin».

Al final de este texto sobre una artista que produjo y contribuyó a producir obras «inmortales» y trastornó el mundo económico y político con una «simple» perla de poder mágico surgida de su ingenio, sólo podemos constatar su grandeza subvalorada incluso por los que beneficiaron enormemente de ella.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Glass beads are small artistic objects of great charm. Beautiful, colorful, beloved, sought after, around the necks of women and men, found in shrines and burials, used in tribal, initiation and religious ceremonies, applied to clothing and collected. And exchanged in purchases - it appears that Dutchman Peter Minuit in 1626 added a handful of beads to conclude with the Lenape natives the purchase of Minnahanock Island, what is now known as Manhattan Island. The origin of Venetian glass art is probably linked to the Roman world. Among the earliest direct evidence in northern Italy are two glass bottles that were part of a 2nd-century A.D. funerary outfit found in a tomb in Austria. On the bottom of the bottles is a stamp representing the maker's "trademark" - Sentia Secunda facit Aquileiae. But the Venetian art of glass soon took on a character of its own due to Asian and Arabian technical influences facilitated by the intense trading activity of the Maritime Republic of Venice in the ports of the Byzantine Empire.

After the conquest of Constantinople (1204), Greek and Turkish master glassmakers, known as phiolieri, arrived in Venice because they blew flasks for wine. Thus, Venetian bottles were born, distinguished by a blue circle on the neck and the Republic's stamp that guaranteed the Serenissima an exclusive monopoly valid for all local variants: bucae, fiole, inghistere. The earliest records of female glass entrepreneurs in Venice date back to 1279, when Molfina, the owner of a furnace that produced bottles and glasses, is mentioned in local documents for not respecting the annual rest period of the furnaces. Records show that in the 14th century Daniota was administrator of a furnace for rosary beads -paternostri - glass beads and gems - veriselli. Other presences are found in 1350 when Francesca di Pianiga and Bionda di Strata managed the inherited furnaces and related labor ties with employees. In the furnaces and artistic workshops, the whole family was employed in the business, where daughters and sons learned the art with the prospect of ensuring, even to the Republic, the continuity of production over time. Although the male figure was the official one, women were not excluded from managing the work. This is demonstrated by the evidence that between 1386 and 1393 Lucia Barovier Galliera, Lucia Sbraia Schiavo and Margherita D'Arpo inherited and managed the family furnaces, and Lucia Bartolomei was ordered to supply measuring glasses to the taverns. In the same century, Benvenuta da Santa Maria Nova was ordered to suspend her town production of ring stones. Because of the fear of fire, by a decree of the Great Council in 1291, almost all of Venice's furnaces were concentrated on the small island of Murano, partly to ensure that the secrets of the art of glassmaking could not be exported. Among the most important furnaces, that of the Barovier or Berroviero family - engaged in glassmaking since the 13th century - stand out.

Into this family was born Maria Barovier, known as Marietta, daughter of Polonia, who attests to her existence by mentioning it in his will of September 13, 1431 when he assigned her the sum of sixty ducats in the event of marriage. In Venice, and not only in those days, it was customary to make a will before each childbirth given the high risk of incurring complications. Therefore, it can be assumed, since we have no written sources on the matter, that Maria, being the second child of five and already living in 1431, may have been born between 1426 and 1428, while there is no indication of the date of her death. Her father Angelo was a master glassmaker of eclectic humanistic culture, philosopher and alchemist. His experiments based on his studies of chemistry lead him to an unprecedented achievement - in fact he "invented" crystal glass. This brand-new product immediately found the protection of the Venetian government to prevent the theft of the manufacturing secret, allowing its manufacture even during the months of inactivity of the furnaces, and guaranteeing prestige and money to the city.

Barovier Cup_Bathing in the Fountain of Love and Youth Barovier Cup from Book Decoration of Barovier Cup: Maidens on Horseback

In Murano, blown glass only in this century took artistic forms with the addition of enamel paintings and gilding, innovations that the Muranese inherited from the East. From the furnace where Maria worked also came the current iconic object of the Murano Glass Museum - the Barovier cup, a cobalt blue glass wedding cup with enamel decorations painted by her. The precious artifact is one of the most celebrated examples of Renaissance art glass because of the lightness of its polychrome decorations and its unique color. Maria painted the elegant auspicious motifs and used precious colors, from ruby red to emerald green, from amethyst to milky white to chalcedony, to depict a group of maidens - on one side on horseback, and on the other bathing in the fountain of love and youth. She painted not only this cup, but all similar coeval objects characterized by refined colors and an extraordinary variety of ornamentation and embellishments, with sacred and profane themes and the portrait of the bride and groom for whom the object was made. Maria continued to produce and work in the kiln and, following her father's death in 1460, became its owner along with her brother Giovanni. She was an innovative artist, seeking a combination of colors with a form that enchants the eye. Around 1480 she created the first rosette beads and revolutionized the world of glass beads. From the superimposition of six concentric layers of ivory-white, coppery-red and blue glass, with internal designs in the shape of a twelve-pointed star, inlaid or mosaic, she created a long, thin perforated glass rod to be cut into small cylinders. The pierced cylinders were then ground and rounded, taking on the characteristic barrel shape. This type of bead helped change the destinies of the world as it soon became the symbol of a kind of "nobility" of a small object capable of greatly influencing the choices of human beings. It became the most widely used trading bead in the world, to which magical powers were also attributed, used in markets on every continent, and as well to free prisoners or obtain privileges and concessions.

Chevron rosette Collana rosette
Rosette Necklace

Maria Barovier, at this point in her life, felt the desire and need to have a kiln "all to herself" where she could freely express her art. She asked the Doge's permission to build a small kiln for her own exclusive use where she could bake the ornate enameled glass that was commissioned. And the Doge authorized her by Decree of July 26, 1487 with words of praise for the work of the master glassmaker:

«Marietta gratissima ob eius mirum artificium manus in conficiendis laboreriis sive operibus vitreis pulcherrimis valde, quorum ipsa fuit inventrix [...] opera sua inconsueta et non sufflata, in quandam sua fornace parvula ad hoc studiose confecta" (“Marietta is a favorite for her extraordinary handiwork in making beautiful glass works, of which she was the inventor [...] her works were unusual and not blown in a kind of small furnace for this finished purpose»

At the end of this writing about an artist who produced and helped produce "immortal" works and shook the economic and political world with a "simple" bead of magical power that sprang from her ingenuity, we can only note how her greatness was underestimated even by those who benefited greatly from it.

Suzanne Belperron
Laura Candiani

Carola Pignati

 

Dalle immagini che ne abbiamo è immediato comprendere la sua eleganza, il suo buon gusto, la sua finezza e la sua innegabile creatività. Era una aristocratica per il nome altisonante e la grazia innata, ma di fatto era figlia di un commerciante, Madeleine Suzanne Marie Claire Vuillerme, nata il 26 settembre 1900 nella cittadina di Saint Claude, nell'area montuosa del Giura francese, non lontano dalla Svizzera. La località, fredda e isolata, si era distinta nel tempo per una particolare abilità, ovvero il taglio dei diamanti. La bambina dimostrava spiccate doti nel disegno, così fu incoraggiata dalla madre Marie Clarisse Faustine a frequentare la Scuola di Belle Arti a Besançon, fondata nel Settecento e di notevole prestigio. Non è un caso se proprio accanto all'istituto sorga fino dal 1694 il più antico museo pubblico di Francia, dedicato sia alle belle arti che all'archeologia. Così la giovane potè visitarlo spesso e rimase colpita dalle preziose collezioni di disegni e di reperti di provenienza egiziana. A conclusione del corso di decorazione dell'orologeria e dell'oreficeria, Suzanne ottenne il primo premio del concorso nell'anno scolastico 1917-18.  

Si stavano avvicinando a grandi passi i "ruggenti anni Venti" e la ragazza tanto dotata di talento e tanto bella non poté che lasciare la provincia e raggiungere la capitale. Già nel 1919 venne assunta come disegnatrice dalla stimata manifattura artistica di Jeanne Boivin, da poco vedova del fondatore René. Entro alcuni mesi comparve la sua prima collezione di gioielli, tuttavia la regola voleva che non figurasse il nome di chi ideava i preziosi monili; in breve divenne la co-direttrice di Casa Boivin. Nel 1924 sposò un ingegnere di cui assunse il cognome: Belperron. Ma non era del tutto soddisfatta proprio perché le opere realizzate con i suoi disegni erano anonime, e ciò la portò ad accettare, nel 1932, una proposta allettante di mettersi in proprio, grazie all'intervento di un amico commerciante, Bernard Herz, diventando collaboratrice del gioielliere Adrien Louard e dell'atelier Groené & Dardé. A questo punto il suo nome diventa famoso e le sue fantasiose, sfolgoranti creazioni compaiono sulle riviste di moda e nelle vetrine delle più importanti gioiellerie parigine. Ottima pubblicitaria di sé stessa, collabora con fotografi affermati e la celebre giornalista Diana Vreeland, redattrice capo di Harper's Bazaar e poi di Vogue edizione americana, adora le sue "opere" e non perde occasione per celebrarle.

Una creazione di Belperron Copertina Vogue Parigi, 1934

Quando arriva la richiesta di recarsi a lavorare negli Usa, tuttavia, nonostante possa essere un'ulteriore crescita professionale, Suzanne rifiuta. A proposito di firme, ottenuta la fama internazionale, la stilista e creatrice era solita affermare: «Il mio stile è la mia firma»; non c'era più bisogno di apporre il proprio nome perché quello che progettava era unico, rappresentava in pieno il suo stile, diverso da ogni altro, ispirato com'era da culture e arti orientali ed esotiche. Sue fonti inesauribili di idee saranno l'Asia nelle sue mille sfaccettature, l'Africa, persino l'Oceania di cui coglie con sapienza i colori, i motivi, l'utilizzo delle pietre, la modernità che rendono ogni gioiello un oggetto prezioso, certo, ma anche bellissimo. Fa uso di brillanti, oro giallo, pietre dure, smalti, zaffiri, calcedonio, corallo rosa, citrino, perle, agata, turchesi, smeraldi, ma pure cristallo di rocca e materiali meno nobili, per orecchini, anelli dalla forma sconcertante, braccialetti, spille, collane talvolta sobrie altre volte ricchissime. Non meraviglia che le signore dell'epoca, quelle ovviamente dotate di mezzi idonei a soddisfare i loro desideri, se ne potessero innamorare e li sfoggiassero nelle occasioni giuste: a teatro, ai concerti, ai balli, ai pranzi di gala, nei ristoranti alla moda, durante i viaggi... trattandosi di creazioni di non facile utilizzo quotidiano! Per rendersene conto basta consultare un catalogo o curiosare un po' e si rimane davvero senza parole. Dalla sua fantasia nascono fiori, foglie, conchiglie, figure geometriche, forme arrotondate in modo armonioso, in un tripudio di combinazioni e di colori abbinati con sapienza e buon gusto.

Farfalla in oro giallo, platino, smeraldi e diamanti Belperron, Pendente

L'arrivo dell'occupazione tedesca e della guerra dà un duro colpo all'attività di Suzanne; il suo socio Herz, ebreo, è sotto sorveglianza e più volte lei lo salva dalla Gestapo. Deve prendere dunque le redini dell'azienda con il proprio nome e un nuovo socio. Tuttavia, dopo una denuncia anonima, sia lei che Herz vengono arrestati: è il 2 novembre 1942. Herz prima finisce in un campo di reclusione, poi viene deportato ad Auschwitz, da cui non tornerà; per lei è invece indispensabile dimostrare di non essere ebrea. Viene rilasciata e si fa coinvolgere nella Resistenza; nel 1946 finalmente rientra dalla prigionia il figlio dell'amico Herz, Jean, che può riprendere il proprio posto nell'attività economica. Uno dei più importanti membri della Resistenza francese, lo scrittore e archivista André Chamson, le chiederà di creare appositamente per lui la spada quando, nel 1956, avrà l'onore di essere ammesso all'Accademia di Francia. Nel 1963 Suzanne Belperron riceve la Legion d'onore come giusto riconoscimento per la sua carriera artistica. Nel 1970 avviene la morte del marito e dopo quattro anni viene decisa di comune accordo la chiusura dell'azienda. Si sa che la grande disegnatrice rifiutò varie offerte sia di collaborare stabilmente con gioiellerie come Tiffany, sia di far replicare le proprie creazioni, ma non si negava per una consulenza amichevole o per una valutazione di oggetti preziosi.

La morte è arrivata accidentalmente, per un banale incidente nel bagno di casa, il 28 marzo 1983 a Parigi. Ma la sua vicenda professionale non si è conclusa, infatti nel 1987 riemersero da qualche scrigno o cassaforte i gioielli che aveva realizzato per una cliente speciale, la Duchessa di Windsor, quando venne organizzata una vendita all'asta da Sotheby's a Ginevra e la luce si accese di nuovo sulla sua mirabile arte. Dal 1991 al 1998 è stata attiva una nuova società che ha promosso la copia dei gioielli di Suzanne, realizzati in Francia ma commercializzati in esclusiva a New York. Tuttavia la storia avventurosa e sorprendente va avanti con un'altra sorpresa; siamo ormai nel 2007 e per caso si entra in un appartamento appartenuto alla creatrice, rimasto chiuso dalla sua morte. Qui vengono trovati la sua biblioteca, le sue carte, i suoi disegni, i suoi contratti, le sue foto, gli articoli a stampa, l'archivio della clientela che forse aveva accuratamente ordinato in vista di una monografia sul suo lavoro, poi mai realizzata a causa della morte improvvisa. Questo ritrovamento fu anche molto utile perché permise di datare dei gioielli rimasti senza firma o di incerta provenienza, di eliminarne altri erroneamente a lei attribuiti, insomma di fare chiarezza sulla sua immensa produzione, finita per lo più nelle mani delle facoltose committenti e acquirenti sparse in tutto il mondo.

Gioielli vari

Il suo archivio, consistente in oltre 9200 disegni, verrà acquistato dalla famiglia Landrigan. Da quel momento è una riscoperta continua del suo genio e le vendite di alcuni pezzi unici raggiungono cifre stratosferiche. Anche il mondo della moda ne rimane affascinato, tanto che in varie sfilate parigine alle modelle vengono fatti indossare suoi monili adatti pure alla nostra contemporaneità. Un'ulteriore sorpresa si ha quando viene trovata la raccolta personale di gioielli conservati per proprio uso da Suzanne Belperron, che non aveva avuto figli e aveva lasciato tutto in eredità al figlio di Herz e a sua volta ai suoi diretti discendenti.

Biografia illustrata pubblicata da Thames e Hudson nel 2016 Alcuni archivi personali (disegni, registri libri) di Suzanne Belperron scoperto nel 2007 - Sotheby's Parigi 

Nel 2012 è avvenuta a Ginevra una vendita all'asta davvero principesca, tanto che i prezzi, rispetto alle stime iniziali, sono raddoppiati o anche più; si è giunti a un ricavato di 2 milioni e 700 mila euro. Nel 2015 a New York è stata aperta la Maison Belperron al n.745 della Quinta Strada dove si ammirano le meravigliose creazioni e si possono acquistare, avendo a disposizione cifre consistenti. Nel 2018 la grande disegnatrice è stata celebrata, nel centenario del diploma, con una collezione nata da 22 suoi bozzetti di studente, in cui già emergeva la sua originalità, e dalla replica di alcune sue opere più celebri. Parlare però di gioielli, che a questo livello sono pura arte, vuol dire abbellimenti raffinati, capi da indossare, ben più di un cappotto o di una borsa "firmata", perché eterni, inimitabili, unici come un dipinto o una scultura di valore. Dobbiamo allora curiosare nella sua clientela: della Duchessa di Windsor, la cui eleganza è rimasta proverbiale, abbiamo detto; ma le altre? Chi ha avuto il piacere di portare su di sé simili meraviglie? Intanto, come è ovvio, iniziamo dalle famiglie aristocratiche come quella dell'Aga Khan, o ricchissime come Rothschild e Wildenstein; attrici e attori, cantanti, personaggi dello spettacolo ne fecero acquisti per sé o per una persona cara, come Gary Cooper, Colette, Charles Boyer, Josephine Baker, Merle Oberon, Maria Felix. Anche membri della politica francese e internazionale li apprezzarono, ad esempio Léon Blum o Paul Reynaud. Grande stima arrivò nell'ambito della moda: abbiamo già citato l'amica giornalista Vreeland, ma dobbiamo aggiungere stiliste/i celebri, fra cui Karl Lagerfeld, Christian Dior, Nina Ricci, Jeanne Lanvin, Elsa Schiaparelli.

Nel 2011 è uscito un libro intitolato semplicemente Suzanne Belperron, scritto da Sylvie Raulet e Olivier Baroin, tradotto anche in Italia. Affascinanti da sfogliare i cataloghi delle case Sotheby's e Christie's realizzati in occasione delle aste, opportunità unica per immergersi in un mondo fatato dove i sogni sono diventati realtà, ma solo per le più fortunate.

Catalogo

Traduzione francese

Rachele Stanchina

D’après les images de Suzanne Belperron que l’on peut admirer, on reconnaît tout de suite son élégance et son goût raffiné, ainsi que sa finesse et son indiscutable créativité. Madeleine Suzanne Marie Claire Vuillerme naît le 26 septembre 1900 à Saint Claude, dans les montagnes françaises du Jura, pas loin de la Suisse. La petite ville, froide et isolée, s’était fait une rénommée au fil du temps pour une compétence hors du commun: la taille des diamants. Bien que Suzanne apparaît aristocrate à cause de son prénom important et sa grâce innée, elle est en fait la fille d’un commerçant. Encore fillette, elle fait montre d’un talent marqué pour le dessin, à tel point que sa mère Marie Clarisse Faustine la pousse à fréquenter la prestigieuse Ecole des Beaux Arts à Besançon, fondée au XVIII siècle. Ce n’est pas au hasard que juste à côté de l ‘école trouve place, dès 1694, le plus ancien Musée publique de France, dédié aux Beaux Arts et à l’Archéologie. La jeune Suzanne s’y rend souvent et elle est charmée par les collections précieuses de dessins et d’artefacts de provenance egyptienne, auxquels elle s’inspirera pour son travail futur. Au terme du cours de décoration d’horogerie et d’orfèvrerie, en 1917-18 Suzanne obtient le premier prix du concours de l’école.

Les Années Rugissantes s’approchent rapidement: la jeune fille, autant talentueuse que belle, quitte la province et part pour la Ville Lumière. Dès 1919 elle vient engagée comme styliste chez la célèbre manufacture artistique de Jeanne Boivin, veuve depuis peu du fondateur René. La première collection de bijoux de Suzanne paraît en quelques mois, mais l’habitude prévoit que le nom de l’artiste créateur des joyaux ne figure pas. Cependant, en très peu de temps Suzanne devient co-directrice de la Maison Boivin. En 1924 elle épouse un ingénieur et devient Madame Belperron. Le mécontentement lié au fait que ses créations démeurent anonymes la pousse à accepter, en1932, l’offre alléchante de se mettre à son compte, grâce à l’intervention de l’ami commerçant Bernard Herz. C’est ainsi qu’elle devient collaboratrice du joaillier Adrien Louard et de l’atelier Groené&Dardé. A partir de ce moment son nom devient célèbre et ses créations, éblouissantes et pleines de fantaisie, trouvent places sur les pages des revues de mode ainsi bien que dans les vitrines des joailleries parisiennes les plus importantes. Suzanne est capable de se faire une très bonne publicité: elle collabore avec des photographes affirmés; la célèbre journaliste Diana Vreeland, redactrice en chef de Harper’s Bazaar d’abord et de Vogue version Américaine ensuite, adore ses créations et ne manque pas l’occasion de les célébrer.

Une création de Belperron Couverture de Vogue Paris, 1934

Cepandant, lorsque on lui propose de partir travailler aux Etats- Unis elle refuse malgré la possibilité d’unenouvelle progression de carrière. Une fois parvenue à la notoriété internationale, la styliste et créatrice affirmait d’habitude “mon style c’est ma griffe”: il n’était plus nécéssaire de signer ses créations puisque le résultat de ses projets était unique, c’était la répreséntation de son style, différent de tout autre, inspiré par les cultures et les arts orientaux et exotiques. Les idées de Suzanne trouvent leur sources inépuisables dans l’Asie aux milles facettes, dans l’Afrique aussi bien que dans l’Océanie, d’où elle est capable de cueillir savamment les couleurs, les motifs, l’utilisation des pierres précieuses ou la modernité, bref ce qui rend chaque bijou un objet précieux et au même temps merveilleux.Suzanne utilise brillants, or jaune, pierres dures, émaux, saphirs, calcédoine, corail rose, citrine, perles, agates, turquoises, émeraudes, aussi bien que cristal de roche et matières moins nobles. Avec ces matériaux elle réalise boucles d’oreilles, bagues aux formes insolites, bracelets, broches, colliers à la fois discrets ou bien très riches. Ce n’est pas étonnant que les dames du temps, ou mieux celles qui ont la possibilité de satisfaire des désirs importants, en deviennent folles: les occasions parfaites pour afficher ces merveilles deviennent le Théâtre, les concerts, les bals, les dîners de gala, les restaurants à la mode, les voyages…car ces bijoux ne sont pas créés pour un usage quotidien! Pour comprendre tout ça il suffit de feuilletter un catalogue ou fouiner un peu: on reste vraiment le souffle coupé. La fantaisie de Suzanne donne naissance à fleurs, coquillages, feuilles, formes géometriques ou bien harmonieusement arrondies, dans un tourbillon de combinaisons et de couleurs, assortis savamment et avec goût.

Papillon en or jaune, platine, émeraudes et diamants Belperron, pendentif

Le début de l’occupation Allemande et la Guerre frappent duremment l’activité de Suzanne: son associé Herz, juif, est sous sourveillance et elle le protège plusieurs fois de la Gestapo. C’est pour ça qu’elle prend le volant de l’entreprise avec son propre nom et un nouveau partenaire. Cependant, à la suite d’une dénonciation anonyme, le 2 novembre 1942 elle est arrêtéé avec Herz. Il est d’abord détenu dans un camp de réclusion et successivement déporté à Auschwitz d’où il ne reviendra jamais. Par contre,c’est indispensable que Suzanne démontre de ne pas être juive. Elle est relâchée et se fait engager par la Résistance; en 1946 finalement le fils de son ami Herz, Jean, rentre de la captivité et reprend sa place au sein de l’entreprise. En 1963 Suzanne Belperron reçoit la Légion d’honneur come juste reconnaissance pour sa carrière artistique. En1970 c’est la mort de son époux et, quatre ans plus tard, on arrive d’un commun accord à la fermeture de la maison. Il est connu que la grande styliste refusa à maintes reprises de collaborer de manière durable avec le joaillier Tiffany, ainsi que de laisser répliquer ses créations originales, cependant elle demeurait disponible pour une consultation amicale ou bien pour une évaluation d’objets précieux.

Le 28 mars 1983 elle meurt accidentellement à la suite d’une chute dans sa salle de bain à Paris. Mais son histoire professionnelle n’est pas encore terminée: en 1987 réapparaissent, d’une boîte ou bien d’un coffre, les bijoux qu’elle avait réalisé pour une cliente privilegiée, La Duchesse de Windsor. A l’occasion d’une vente aux enchères chez Sotheby’s à Genève, toute la production de son art exceptionnel est à nouveau à l’honneur. Une nouvelle société a favorisé, entre 1991 et 1998, la production des copies des bijoux de Suzanne, réalisés en France mais lancés sur le marché en exclusive à New York. Cette histoire sourprenante et pleine d’aventures garde une autre surprise: en 2007 on entre par hasard dans un logement parisien qui appartenait à la styliste et qui demeurait fermé depuis sa disparition. Cet appartement abrite toute sa vie: la bibliothèque, les cartes, les dessins, les contracts, les photos, les articles de presse, l’archive de la clientèle que, peut- être elle avait soigneusement recueilli en vue d’une monographie sur son travail, jamais réalisée à cause de sa mort inattendue. La découverte de ce trésor a été vraiment utile car a permis de dater des bijoux qui ne portaient pas de signature ou qui étaient de provenance incertaine, et au même temps d’en éliminer d’autres qui avaient été attribués à Suzanne. De cette manière on a clarifié son immense production, répartie partout dans le monde, dans les mains de riches dames et acheteurs facultueux.

Divers bijoux

Son archive, qui compte plus que 9200 dessins, vient achété par la famille Landrigan: à partir de ce moment c’est une découverte continuelle de son génie, les ventes de certaines de ses créations parviennent à des prix exceptionnels. Le monde de la mode est lui aussi fasciné: lors de quelques défilés parisiens, les mannequins exhibent ses bijoux, qui sont encore parfaitement en ligne avec les goûts contemporains.Un autre coup de théâtre c’est la redécouverte de la collection personnelle des bijoux que Suzanne amait porter: elle n’avait pas eu d’enfants et avait laissé tous ses biens au fils de son amis Herz et à ses descendants directs.

Biographie illustrée publiée par Thames e Hudson en 2016 Quelques archives personnelles (dessins, registres, livres) de Suzanne Belperron découvertes en 2007 - Sotheby's Paris 

En 2012 a eu lieu à Genève une vente publique fabuleuse au point que les prix ont doublé par rapport aux estimations initiales: le produit de la vente a atteint 2 millions 700 mille euros. En 2015 la Maison Belperron a ouvert les portes au numéro 745 de la 5Th Avenue de New York: ici on peut admirer ses merveilleuses créations et, si on a la chance de disposer d’un montant substantiel, les acheter. En 2018, à l’occasion du centenaire de son baccalauréat, on a célébré la grande styliste avec une collection qui prends ses origines non seulement de 22 de ses dessins d’étudiante, où on peut déjà remarquer l’originalité de son travail, mais aussi de la reproduction d’une partie de ses creations les plus renommées. A ce niveau les bijoux deviennent de l’art pur, des ornements exquis, des vêtements à porter bien plus importants qu’un manteau ou un sac griffé, car ils sont éternels, inimitables, exceptionnels comme un tableau ou une sculpture précieuse. Il devient nécessaire alors fouiller dans sa clientèle: nous avons déjà parlé de la Duchesse de Windsor, à l’élégance légendaire, mais que savons-nous des autres? Qui a eu la chance de porter des merveilles pareilles? Bien entendu,il faut partir des familles aristocratiques telles que celle de l’Aga Khan, ou bien richissimes, comme les Rothschild et Wildenstein. Mais aussi des actrices ou des acteurs, des chanteurs ou personnages du spectacle ont achété ces bijoux pour soi- mêmes ou bien pour une personne chère, comme l’ont fait Gary Cooper, Colette, Charles Boyer, Josephine Baker, Merle Oberon, Maria Felix. Les créations de Suzanne Belperron ont charmé aussi les exposants de la politique française et internationale, tels que Léon Blum ou Paul Reynaud. Una grande estime vient aussi du monde de la mode: à l’amie journaliste Vreeland, dont nous avons déjà parlé, il faut ajouter un grand nombre de stylistes rénommés, parmi lesquels Karl Lagerfeld, Christian Dior, Nina Ricci, Jeanne Lanvin, Elsa Schiaparelli.

En 2011 a été édité un livre au titre Suzanne Belperron, écrit par Sylvie Raulet et Olivier Baroin, traduit aussi en Italie. Feuilletter les catalogues des maisons Sotheby’s et Christie’s, réalisés à l’occasion des ventes aux enchères, nous permets de plonger dans un monde fabuleux et fascinant, où les rêves deviennent réalité, mais seulement pour les dames les plus heureuses.

Catalogue

Traduzione spagnola

Ramona Carobene

Por las imágenes de que disponemos, es fácil comprender su elegancia, su buen gusto, su delicadeza y su innegable creatividad. Era una aristócrata por el nombre altisonante y la gracia innata, pero de hecho era hija de un comerciante: Madeleine Suzanne Marie Claire Vuillerme, nacida el 26 de septiembre de 1900 en la ciudad de Saint Claude, en la zona montañosa del Jura francés, no lejos de Suiza. El lugar, frío y aislado, se había distinguido en el tiempo por una habilidad particular, o sea la talla de diamantes. La niña demostraba grandes dotes en el dibujo, así que fue animada por su madre Marie Clarisse Faustine a asistir a la Escuela de Bellas Artes de Besançon, fundada en el siglo XVIII y de gran prestigio. No es casualidad que justo al lado del instituto se levantara hasta 1694 el museo público más antiguo de Francia, dedicado tanto a las bellas artes como a la arqueología. Así que la joven pudo visitarlo a menudo y quedó impresionada por las preciosas colecciones de dibujos y objetos de origen egipcio. Al finalizar el curso de decoración de relojería y orfebrería, Suzanne obtuvo el primer premio del concurso en el año escolar 1917-18.

Se estaban acercando a pasos agigantados los "rugientes años Veinte" y la chica, dotada de mucho talento y belleza, no pudo más que dejar la provincia para irse a la capital. Ya en 1919 fue contratada como diseñadora por la estimada manufactura artística de Jeanne Boivin, recién enviudada de su fundador René. En pocos meses apareció su primera colección de joyas, sin embargo, la regla era que no figurara el nombre de quien ideaba las preciosas joyas; pronto se convirtió en codirectora de Casa Boivin. En 1924 se casó con un ingeniero cuyo apellido adoptó: Belperron. Pero no estaba del todo satisfecha precisamente porque las obras realizadas con sus dibujos eran anónimas, y esto la llevó a aceptar, en 1932, una propuesta tentadora de atrabajar por su propia cuenta, gracias a la intervención de un amigo comerciante, Bernard Herz, convirtiéndose en colaboradora del joyero Adrien Louard y del taller Groené & Dardé. A partir de entonces su nombre se hace famoso y sus imaginativas, deslumbrantes creaciones aparecen en las revistas de moda y en los escaparates de las más importantes joyerías parisinas. Excelente publicista de sí misma, colabora con fotógrafos reconocidos y la famosa periodista Diana Vreeland, redactora jefe de Harper’s Bazaar y luego de la edición americana de Vogue, adora sus "obras" y no pierde ocasión para celebrarlas.

Una creación de Belperron Portada de Vogue París, 1934

Cuando se le pide que vaya a trabajar a los Estados Unidos, sin embargo, a pesar de que puede ser un crecimiento profesional adicional, Suzanne rechaza la propuesta. A propósito de firmas, una vez lograda la fama internacional, la estilista y creadora solía afirmar: «Mi estilo es mi firma»; ya no era necesario poner su propio nombre porque lo que diseñaba era único, representaba por completo su estilo, diferente de todos los demás, inspirado en las culturas y artes orientales y exóticas. Sus fuentes inagotables de ideas serán Asia en sus mil facetas, África, incluso Oceanía, de la que capta con sabiduría los colores, los motivos, el uso de las piedras, la modernidad que hacen de cada joya un objeto precioso, cierto, pero también hermoso. Hace uso de brillantes, oro amarillo, piedras duras, esmaltes, zafiros, calcedonia, coral rosa, citrinos, perlas, ágatas, turquesas, esmeraldas, pero también cristal de roca y materiales menos nobles, para pendientes, anillos de forma desconcertante, pulseras, broches, collares a veces sobrios otras veces muy ricos. No es de extrañar que las damas de la época, aquellas obviamente dotadas de medios adecuados para satisfacer sus deseos, pudieran enamorarse de ellos y los exhibieran en las ocasiones adecuadas: en el teatro, en los conciertos, en los bailes, en las cenas de gala, durante los viajes... ya que se trata de creaciones difícles de usar todos los días. Para darse cuenta, basta consultar un catálogo o curiosear un poco para quedarse realmente sin palabras. De su fantasía nacen flores, hojas, conchas, figuras geométricas, formas redondeadas de manera armoniosa, en un tripudio de combinaciones y colores mezclados con sabiduría y buen gusto.

Mariposa en oro amarillo, platino, esmeraldas y diamantes Belperron, colgante

La llegada de la ocupación alemana y de la guerra da un duro golpe a la actividad de Suzanne; su socio Herz, judío, está bajo vigilancia y ella lo salva varias veces de la Gestapo. Debe tomar las riendas de la empresa con su propio nombre y un nuevo socio. Sin embargo, después de una denuncia anónima, tanto ella como Herz son arrestados: es el 2 de noviembre de 1942. Herz primero termina en un campo de detención, luego es deportado a Auschwitz, de donde no volverá; para ella, en cambio, es indispensable demostrar que no es judía. Es liberada y se involucra en la Resistencia; en 1946 finalmente regresa de la prisión el hijo del amigo Herz, Jean, que puede retomar su lugar en la actividad económica. Uno de los miembros más importantes de la Resistencia francesa, el escritor y archivero André Chamson, le pedirá que cree especialmente para él la espada cuando, en 1956, tenga el honor de ser admitido en la Academia de Francia. En 1963, Suzanne Belperron recibe la Legión de Honor como reconocimiento a su carrera artística. En 1970 fallece su marido y después de cuatro años se decide de común acuerdo el cierre de la empresa. Se sabe que la gran diseñadora rechazó varias ofertas tanto de colaborar de forma estable con joyerías como Tiffany, como de replicar sus propias creaciones, pero no se negaba a un asesoramiento amistoso o a una valoración de objetos preciosos.

Su muerte se produjo accidentalmente, en un incidente trivial en el baño de su casa, el 28 de marzo de 1983 en París. Pero su historia profesional no había terminado; de hecho, en 1987, durante una subhasta en Sotheby’s en Ginebra, reaparecieron de algún cofre o caja fuerte las joyas que había realizado para una cliente especial, la Duquesa de Windsor, y la atención se detuvo de nuevo sobre su admirable arte. De 1991 a 1998, una nueva empresa estuvo activa y promovió la copia de las joyas de Suzanne, realizadas en Francia pero comercializadas exclusivamente en Nueva York. Sin embargo, la historia aventurera y sorprendente continúa con otras sorpresas: en 2007, al entrar por casualidad en un apartamento que había pertenecido a la creadora, cerrado desde su muerte, se hharon su biblioteca, sus papeles, sus dibujos, sus contratos, sus fotos, los artículos publicados, el archivo de su clientela que había ordenado cuidadosamente (tal vez para una monografía sobre su trabajo que no llegó a realizar a causa de la muerte súbita). Este hallazgo también fue muy útil porque permitió datar joyas sin firma o de procedencia incierta, eliminar otras erróneamente atribuidas a ella, en fin, aclarar su inmensa producción, la mayor parte de la cual había ido a parar a manos de una clientela adinerada esparcida por todo el mundo.

Varios joyas

Su archivo, que consta de más de 9200 dibujos, fue adquirido por la familia Landrigan. A partir de ese momento fue un redescubrimiento continuo de su genio y las ventas de algunas piezas únicas alcanzaron cifras estratosféricas. El mundo de la moda también quedó fascinado, tanto que en varios desfiles parisinos las modelos llevaban algunas de sus joyas, perfectas para nuestra contemporaneidad. Otra sorpresa tuvo lugar cuando apareció su colección personal de joyas, conservadas por Suzanne Belperron para su uso personal; ella no tenía hijos y lo había dejado todo en herencia al hijo de Herz y a su vez a sus descendientes directos.

Biografía ilustrada publicada por Thames e Hudson en 2016 Algunos archivos personales (dibujos, registros, libros) de Suzanne Belperron descubiertos en 2007 - Sotheby's París 

En 2012 tuvo lugar en Ginebra una subhasta realmente principesca, tanto que los precios, respecto a las estimaciones iniciales, se duplicaron o incluso más; se llegó a una venta total de 2 millones y 700 mil euros. En 2015 abrió en Nueva York la Maison Belperron en el n.° 745 de la Quinta Avenida, donde se pueden admirar sus maravillosas creaciones y comprarlas, si se dispone de cifras consistentes. En 2018 la gran diseñadora fue celebrada, en el centenario de su graduación, con una colección nacida a partir de 22 bocetos de cuando era estudiante, en los que ya emergía su originalidad, y con la réplica de algunas de sus obras más famosas. Hablar de joyas, que en este nivel son puro arte, significa hablar de adornos refinados, prendas para llevar, mucho más que un abrigo o una bolsa "firmado", porque eternas, inimitables, únicas como una pintura o una escultura de valor. Entonces, habrá que curiosear entre su clientela: de la duquesa de Windsor, cuya elegancia es proverbial, ya hemos hablado; ¿pero y las otras? ¿Quién ha tenido el placer de llevar tales maravillas? Para comenzar, las familias aristocráticas, dinastías como la del Aga Khan, o familias riquísimas, como los Rothschild y Wildenstein; actrices y actores, cantantes, personajes del mundo del espectáculo que compraron para sí mismos o para un ser querido, como Gary Cooper, Colette, Charles Boyer, Josephine Baker, Merle Oberon, Maria Felix. También miembros de la política francesa e internacional apreciaron sus joyas, por ejemplo Léon Blum o Paul Reynaud. También la tuvo en gran estima el sector de la moda: ya hemos citado a la amiga periodista Vreeland, también debemos añadir célebres diseñadores y diseñadoras como Karl Lagerfeld, Christian Dior, Nina Ricci, Jeanne Lanvin, Elsa Schiaparelli.

En 2011 se publicó en francés un libro titulado simplemente Suzanne Belperron, escrito por Sylvie Raulet y Olivier Baroin, traducido al inglés y al italiano, aún no al español. Fascinantes los catálogos de las casas Sotheby’s y Christie’s realizados con ocasión de las subhastas, oportunidad única para sumergirse en un mundo de hadas donde los sueños se han hecho realidad, pero solo para las más afortunadas.

Catálogo

Traduzione inglese

Syd Stapleton

With the images we have from her, it is easy to understand her elegance, good taste, finesse and undeniable creativity. She was aristocratic, with a noble-sounding name and innate grace, but in fact she was the daughter of a merchant. Madeleine Suzanne Marie Claire Vuillerme was born on September 26, 1900, in the small town of Saint Claude, in the mountainous area of the French Jura, not far from Switzerland. The cold and isolated locality had distinguished itself over time for a particular skill, namely diamond cutting. The child showed marked talent in drawing, so she was encouraged by her mother, Marie Clarisse Faustine, to attend the School of Fine Arts in Besançon, founded in the 18th century and of considerable prestige. It is no coincidence that right next to the institute stood, since 1694, the oldest public museum in France, dedicated to both fine arts and archaeology. The young woman was able to visit it often and was impressed by the valuable collections of drawings and artifacts of Egyptian provenance. Upon completion of the watchmaking and goldsmithing design course, Suzanne was awarded first prize in the competition in the 1917-18 school year. 

The "roaring twenties" were fast approaching, and a girl so talented and so beautiful could only leave the province and go to the capital. As early as 1919 she was hired as a designer by the esteemed artistic manufactory of Jeanne Boivin, recently widowed by founder René. Within a few months her first jewelry collection appeared, however, the rule was that the name of the person who conceived the precious jewelry should not appear. Before long she became the co-director of Boivin. In 1924 she married an engineer, Belperron, whose last name she took. But she was not entirely satisfied precisely because the works made from her designs were anonymous, which led her to accept, in 1932, an attractive proposal to set up her own business, thanks to the intervention of a merchant friend, Bernard Herz, and she became a collaborator with the jeweler Adrien Louard and the Groené & Dardé atelier. At this point her name became famous and her imaginative, dazzling creations appeared in fashion magazines and in the windows of major Parisian jewelry stores. An excellent publicist for herself, she collaborated with established photographers and the famous journalist Diana Vreeland, editor-in-chief of Harper's Bazaar and then of the American edition of Vogue, who adored her "works" and missed no opportunity to celebrate them.

A creation by Belperron Vogue Paris cover, 1934

When the request came to go to work in the U.S., despite the fact that it might bring further professional growth, Suzanne declined. Speaking of signatures, having achieved international fame, the designer and creator used to say, "My style is my signature." There was no longer a need to affix her own name because what she designed was unique, fully representing her style, different from any other, inspired as it was by oriental and exotic cultures and arts. Her inexhaustible sources of ideas was Asia, with its thousands of facets, Africa, and even Oceania whose colors, motifs, use of stones, and modernity she wisely captured, making each piece of jewelry a precious object, certainly, but also beautiful. She made use of gems, yellow gold, semiprecious stones, enamels, sapphires, chalcedony, pink coral, citrine, pearls, agate, turquoise, emeralds, but also rock crystal and less noble materials, for earrings, bewilderingly shaped rings, bracelets, brooches, and necklaces - sometimes understated other times very rich. No wonder that the ladies of the time, those obviously endowed with suitable means to fulfill their desires, could fall in love with her work and flaunted it on the right occasions - at the theater, concerts, balls, gala dinners, and in fashionable restaurants, while traveling - since these were creations that were not easy to use on a daily basis! To realize this, one only has to consult a catalog or browse a bit and one is left truly speechless. From her imagination came flowers, leaves, shells, geometric figures, and harmoniously rounded shapes, in a riot of combinations and colors matched with wisdom and good taste.

Butterfly in yellow gold, platinum, emeralds, and diamonds Belperron, pendant

The arrival of German occupation and war dealt a blow to Suzanne's business. Her Jewish partner, Herz, was placed under surveillance and several times she rescued him from the Gestapo. She therefore had to take the reins of the business under her own name with new partner. However, after an anonymous complaint, both she and Herz were arrested on November 2, 1942. Herz first ended up in a prison camp, then was deported to Auschwitz, from which he did not return. In her case, it was essential for her to prove that she was not Jewish. She was released and became involved in the Resistance. In 1946 her friend Herz's son Jean finally returns from imprisonment and is able to resume his place in business. One of the most important members of the French Resistance, writer and archivist André Chamson, will ask her to create the sword especially for him when, in 1956, he has the honor of being admitted to the French Academy. In 1963 Suzanne Belperron received the Legion d'honor as a just recognition for her artistic career. In 1970 her husband's death occurred, and after four years it was decided by mutual agreement to close the company. It is known that the great designer refused various offers either to collaborate permanently with jewelers such as Tiffany's or to have her own creations replicated, but she did not withhold herself from offering friendly advice or the doing an appraisal of precious objects.

Death came from a trivial accident in the bathroom at her home, on March 28, 1983, in Paris. But her professional story did not end - in 1987 the jewelry she had made for a special client, the Duchess of Windsor, resurfaced from some treasure chest or safe when an auction was held at Sotheby's in Geneva and the light was once again shone on her admirable art. From 1991 to 1998 a new company was active that promoted the copying of Suzanne's jewelry, made in France but marketed exclusively in New York. However, the remarkable story goes on with another surprise - in 2007, by chance, someone entered an apartment that belonged to the creator, which had remained closed since her death. There were found her library, papers, drawings, contracts, photos, printed articles, and client archives, which she may have carefully sorted in preparation for a monograph on her work, never realized due to her sudden death. This discovery was also very useful because it made it possible to date jewelry that remained unsigned or of uncertain provenance, to eliminate other work mistakenly attributed to her - in short, to shed light on her immense output, which ended up mostly in the hands of wealthy patrons and buyers scattered around the world.

Various jewels

Her archive, consisting of more than 9,200 drawings, was purchased by the Landrigan family. From then on, it was a continuous rediscovery of her genius, and sales of some unique pieces reached stratospheric figures. The fashion world was also fascinated by her, so much so that at various Paris fashion shows models are made to wear her jewelry, suitable for our contemporary times as well. A further surprise came when the personal collection of jewelry which Suzanne Belperron kept for her own use was found. She had had no children and bequeathed everything to Herz's son and in turn to his direct descendants.

Illustrated biography published by Thames e Hudson in 2016 Some personal archives (drawings, registers, books) of Suzanne Belperron discovered in 2007 – Sotheby's Paris

In 2012, a truly princely auction took place in Geneva, so much so that the prices, compared to the initial estimates, doubled or even more, and proceeds came to 2.7 million euros. In 2015, Maison Belperron was opened in New York at 745 Fifth Avenue, where one can admire the wonderful creations and buy them, having substantial sums of money on hand. In 2018 the great designer was celebrated, on the centenary of her graduation, with a collection born from 22 of her student sketches, in which her originality already emerged, and from the replication of some of her most famous works. To speak, however, of jewelry, which at this level is pure art, means refined embellishments, objects to wear, far more than a "designer" coat or bag, because they are eternal, inimitable, as unique as a valuable painting or sculpture. We must then pry into her clientele: of the Duchess of Windsor, whose elegance has remained proverbial, we have said; but the others? Who had the pleasure of bringing such wonders upon themselves? As a matter of course, we start with aristocratic families such as that of the Aga Khan, or very rich ones such as Rothschild and Wildenstein; actresses and actors, singers, and show business personalities who bought them for themselves or for a loved one, such as Gary Cooper, Colette, Charles Boyer, Josephine Baker, Merle Oberon, and Maria Felix. Figures in French and international politics also appreciated them, for example Léon Blum or Paul Reynaud. Great esteem also came in the fashion sphere. We have already mentioned the journalist friend Vreeland, but we must add famous fashion designers, including Karl Lagerfeld, Christian Dior, Nina Ricci, Jeanne Lanvin, and Elsa Schiaparelli.

A book came out in 2011 simply titled Suzanne Belperron, written by Sylvie Raulet and Olivier Baroin, also translated into Italian. It is fascinating to browse through the catalogs produced for the auctions of the Sotheby's and Christie's houses, a unique opportunity to immerse oneself in a fairy-tale world where dreams have come true, but only for the lucky ones.

Catalogue

 

Alma Pihl
Rossella Perugi

Carola Pignati

 

Alma Phil, una delle designer più creative del famoso laboratorio Fabergé, era nata a Mosca il 15 novembre 1888. Il padre, Knut Oscar Pihl, arrivato poco più che bambino dalla Finlandia a San Pietroburgo per impiegarsi nell’orologeria, era invece diventato orafo presso il maestro finlandese August Holmström, proprio nella bottega di Fabergé. Anni dopo, Knut Oscar diviene capo di questo prestigioso atelier e sposa la figlia di Holmström, Fanny; incoraggiati dal contesto familiare due dei loro cinque figli, Oskar e Alma, diventeranno a loro volta orafi. Alma, in particolare, sarà una figura d’avanguardia in un campo dove solitamente non venivano impiegate le donne. Quando la morte prematura del padre costringe la famiglia a ritornare presso i nonni materni a San Pietroburgo, Alma entra nel laboratorio dello zio, Albert Holmström: ha vent’anni e si distingue già come apprendista, studiando sotto la guida dell’orafo svedese Eugen Jakobson. Il suo compito è quello di disegnare i gioielli a grandezza naturale nei minimi dettagli, documentando le pietre preziose e gli altri materiali utilizzati e annotandone il costo. I progetti vengono poi archiviati nei quaderni di lavoro, mentre i gioielli sono prodotti nel laboratorio.

Alma inizia la sua carriera di stilista orafa quasi per caso: si diverte a disegnare anche nel tempo libero e i suoi lavori attirano l'attenzione dello zio Albert, che è così colpito dalla loro bellezza da decidere di realizzarli. Nel 1912 la giovane riceve il suo primo ordine: un facoltoso cliente, il norvegese Emanuel Nobel, capo dell'impero petrolifero che porta il suo stesso nome, richiede una consegna molto rapida di 40 spille, da distribuire come regali alle mogli degli ospiti in occasione di una cena. Per non essere accusato di corruzione, Nobel chiede che i gioielli siano prodotti con materiale di basso costo. È ancora il caso a decidere della carriera di Alma. Nel gelido inverno del Nord la scarsa luce la costringe a disegnare vicino a una finestra: l’ispirazione per queste spille (e per gran parte del suo successivo lavoro di progettazione) arriva dalle forme variegate dei cristalli di ghiaccio che decorano i vetri. Questi gioielli diventano popolari e vengono riprodotti con materiali preziosi: oro, incastonato in una lega di platino-argento, punteggiato di diamanti con taglio a rosa. Successivamente proprio Emanuel Nobel ordina un’intera serie con lo stesso motivo dei cristalli di ghiaccio per regalarli ai suoi soci in affari; inoltre, chiede e ottiene i diritti esclusivi sul modello. Il successo di questa commessa rende Alma famosa e nel 1913 viene incaricata di disegnare i regali per il trecentesimo anniversario della dinastia Romanov: i gioielli dovranno essere realizzati secondo i desideri dello Zar, che intende distribuirli ai suoi illustri ospiti.

Sorpresa nell'Uovo di ghiaccio Nobel.

Alma in seguito collabora nella progettazione delle celebri uova a sorpresa, che il gioielliere Fabergé creava ogni anno a Pasqua come dono dello Zar per la Zarina e per l’Imperatrice madre. Ogni uovo doveva avere le dimensioni di un uovo di gallina e contenere una sorpresa. Lo Zar stesso non ne conosceva l’aspetto e il contenuto, perché la tradizione di Fabergé prevedeva che nessuno, neppure un committente così illustre, fosse informato del risultato del lavoro fino alla sua realizzazione. Anche se ne aveva ottenuto l'esclusiva, Emanuel Nobel, che comprende l’importanza di questo ordine prestigioso, permette alla giovane designer di utilizzare il tema dei cristalli di neve: nasce così l’Uovo Invernale, il più prezioso nella collezione imperiale. Alma sceglie dei materiali pregiati, che ben si adattano al suo stile essenziale e rispecchiano le tonalità fredde dell’inverno: cristallo di rocca siberiano, ortoclasio e platino. L'uovo, incastonato con 1660 diamanti, è posto sopra un cubetto di ghiaccio sciolto, scolpito nel cristallo di rocca. All'interno c'è la sorpresa: adagiato su un fondo di muschio marrone, realizzato in oro, si trova un cestino di platino, che contiene anemoni dalle corolle in quarzo bianco, con centri di granato rosso e di ematoide rosa su steli e foglie di nefrite verde.

Uovo invernale per l'imperatrice vedova Maria Feodorovna, Pasqua 1913. Alma Pihl, designer per Fabergé

Nel 1914 Alma riceve una nuova commessa per un uovo di Pasqua; questa volta la destinataria è la Zarina Alexandra Feodorovna, moglie di Nicola II. L’imperatrice è un’appassionata ricamatrice, come la suocera di Alma, con la quale la giovane viveva dal 1912, quando aveva sposato Nikolai Klee. È ancora la vita quotidiana a ispirarla: una sera dopo cena, mentre è seduta in salotto e guarda la suocera ricamare a punto croce, improvvisamente decide di usare proprio quel punto per il suo nuovo progetto. L’uovo è realizzato seguendo i preziosi consigli dello zio Albert, collocando con precisione smeraldi, rubini ed ematoidi di taglio carré in una rete di platino. La cornice è d'oro e contiene perle e diamanti con taglio a rosa. Sulla sommità si trova una pietra di luna, che porta incise le iniziali della Zarina. Anche la sorpresa all'interno è eseguita meticolosamente: un piccolo supporto decorato con perle e diamanti porta smaltate su un lato le sagome dei bambini della famiglia imperiale, sull'altro i loro nomi e un cesto di fiori. La tradizione prosegue sino alla Rivoluzione d'ottobre e vengono prodotte in tutto cinquanta uova: lo Zar ne ordina due ogni anno, uno per la madre e uno per la moglie, Aleksandra. Nel complesso Alma non sembra aver mai percepito la propria genialità: presso Fabergé si era sentita a proprio agio, ma si considerava solo un anello in una comunità professionale di un centinaio di persone, dove soprattutto i vecchi maestri e altri esperti del settore erano apprezzati mentre i più giovani, come lei, rimanevano in secondo piano.

Spilla fiocco di neve. Alma Pihl Designer per Fabergé. Spilla Romanov Tercentenery, Alma Pihl Designer per Fabergé.

Nel 1918 la Rivoluzione porta alla chiusura definitiva del laboratorio Fabergé e alla perdita dell’impiego per molte persone in settori diversi. Anche il marito di Alma, Nikolai Klee, che lavora a San Pietroburgo come vicedirettore nell'ufficio vendite della grande cartiera finlandese Kymiyhtiö, perde il lavoro e nel 1919 la coppia tenta invano di lasciare la Russia. Nikolai Klee viene arrestato e imprigionato per tre mesi, durante i quali Alma deve vendere vestiti, mobili e, naturalmente, gioielli per sbarcare il lunario. Infine, nella primavera del 1921 riescono a raggiungere la Finlandia: l'influenza dello scrittore Maksim Gorki è determinante e permette loro di ottenere il passaporto Nansen, un documento particolare rilasciato dalla Società delle Nazioni a profughe/i e rifugiate/i apolidi. I due coniugi lasciano la stazione Suomen di San Pietroburgo con poche cose; Alma ha cucito i suoi gioielli più preziosi nel corsetto, confidando che i funzionari della dogana non la perquisiscano, e indossa un braccialetto d’oro, ricordo prezioso del suo padrino, ricevuto per il quindicesimo compleanno. Al confine i doganieri vorrebbero sottrarglielo, ma per fortuna la chiusura è difettosa e così riesce a tenerlo con sé. Alla stazione finlandese di Kouvola la coppia viene accolta da un'auto della cartiera Kymiyhtiö, che li porta a Kuusankoski, negli alloggi della compagnia, dove rimangono per ben due anni: infatti i profughi dalla Russia sono numerosi e mancano gli appartamenti. L'azienda offre a Nikolai un lavoro nel reparto vendite e, grazie alla sua ottima conoscenza della lingua tedesca, l’uomo inizia a gestire i contatti con la Germania.

Nello stesso periodo, con l’arrivo di altri ex colleghi da San Pietroburgo, si costituisce una piccola comunità. Tuttavia, poiché la Russia è considerata uno stato nemico, nessuno osa parlare russo in presenza dei finlandesi. Alma conosce sia il russo che il tedesco e lo svedese, nonché il finlandese, che tuttavia condivide solo con pochi intimi. Tra questi Lydia Kataja, una lontana nipote, che diventa anche vicina di casa quando la coppia si trasferisce in un appartamento nella zona residenziale di Öljumäki. Alma non è mai stata "un talento con pentole e padelle in cucina": Lydia se ne accorge presto e comincia ad aiutare la famiglia Klee nelle faccende domestiche. Nel 1927 Alma ottiene il lavoro che desiderava presso la scuola di lingua svedese di Kuusankoski e diventa insegnante di disegno e calligrafia. La natura artistica e le eccellenti capacità di Tant (zia) Alma, una docente simpatica e brava “che parla svedese con un leggero accento russo”, sono molto apprezzate da chi studia con lei. Nel tempo libero partecipa alle attività del club della cartiera, dipingendo elaborati fondali per le feste in maschera e per altri eventi che richiedono scenografie. Curiosamente, durante i suoi ventiquattro anni di insegnamento, non parla mai del suo periodo a San Pietroburgo e della sua prestigiosa attività di designer presso Fabergé. Nel 1952 Alma e Nikolai si trasferiscono da Kuusankoski a Helsinki, dove Nikolai muore nel 1960. Rapidamente anche la salute di Alma comincia a vacillare: in particolare è la sua vista a deteriorarsi, così da non permetterle di scrivere o svolgere lavori manuali. Infine, a 83 anni viene ricoverata all'ospedale di Helsinki; indossa ancora il braccialetto d'oro al polso sinistro, quello stesso regalo dello zio che il doganiere russo aveva invano cercato di toglierle nel 1921. Poiché la regola nell’ospedale non permette di indossare gioielli, gli infermieri chiamano il custode, che riesce a forzare la chiusura difettosa del braccialetto e così Alma perde anche l'ultimo ricordo della sua giovinezza.

Alma Pihl muore all'età di 87 anni nell'estate del 1976 e viene sepolta nel cimitero di Hietaniemi, in una tomba di famiglia. Fino all’ultimo le rimane vicina Lydia, che era diventata un’amica fidata e aveva vissuto come figlia adottiva della coppia fin dagli anni Quaranta. Proprio a lei, poco tempo prima di morire, Alma racconterà la sua vita in Russia. Intorno agli Ottanta una ex studente di Alma, Maj-Britt Paro, ha reso pubblica questa storia attraverso articoli di giornale. In seguito Ulla Tillander-Godenhielm, pronipote di un altro fornitore della corte imperiale russa, l'orafo Alexander Tillander di San Pietroburgo, si è interessata alla carriera di Alma. La studiosa ha ricostruito e raccontato l'incredibile vicenda della creatrice di Fabergé in un documentario, avvalendosi anche della testimonianza di Lydia. Cosa resta di questa talentuosa donna? Durante la sua breve carriera, prima della Rivoluzione russa del 1917, Alma Pihl ha progettato circa duemila oggetti di valore. Nel periodo dell'insegnamento, invece, ha dipinto molti pannelli didattici per le sue scolaresche, oggi conservati nel museo cittadino di Kouvola a Poikilo. Anche bambine e bambini del XXI secolo della Svenska Skolan, l’istituto di lingua svedese di Kuusankoski, conoscono bene Alma Phil: copie dei suoi disegni sono presenti nella scuola e tutti gli anni, a maggio, durante una passeggiata primaverile, le/i giovani studenti visitano la sua vecchia casa.

Dove si trovano oggi i prodotti più preziosi della sua fantasia? All'inizio degli anni 2000, durante un'asta d'arte internazionale, uno sceicco del Qatar ha pagato quasi dieci milioni di dollari per l'Uovo Invernale, che è da allora di proprietà della Qatar Museum Authority. L'uovo lavorato a punto croce, invece, fa parte della collezione della corona d'Inghilterra. Gli schizzi della produzione di Albert Holmström (1909-1915) sono raccolti in due album che includono anche i progetti di Alma e si trovano attualmente al numero 14 di Grafton street, una strada secondaria del quartiere di Mayfair a Londra, nel piccolo negozio Wartski, che possiede pure la più importante collezione di oggetti Fabergé, raccolti per generazioni da questa famiglia di profughi russi... ma questa è un’altra storia.


Traduzione francese

Rachele Stanchina

Alma Pihl, une des designers les plus créatifs du célèbre atelier de Fabergé, naît à Moscou le 15 novembre 1888. Son père Knut Oscar Pihl arrive dans sa jeunesse à St Pétersburg de la Finlande pour travailler dans l’horlogerie. Toutefois, il devient orfèvre dans l’atelier de Fabergé à côté du maître finlandais August Holmstrom. Dans peu d’années Knut Oscar prends en charge la direction du célèbre atelier et se marie avec Fanny, fille de Holmstrom. La famille s’agrandit avec la naissance de cinq enfants, dont deux, Oskar et Alma, suivent la tradition familiale en devenant à leur fois orfèvres. Alma notamment devient un personnage de premier plan au sein d’un milieu où d’habitude les femmes n’étaient pas présentes. A la suite de la mort précoce du père toute la famille est obligée de rentrer à St Pétersburg chez les grands parents maternels. C’est alors que Alma entre comme apprentie dans l’atelier de son oncle, Albert Holmstrom: elle n’a que vingt ans et se fait remarquer par sa bravure, tout en étudiant sous la direction de l’orfèvre suédois Eugen Jakobson. Elle est chargée non seulement de dessiner dans les moindres détails les joyaux en taille réelle, mais aussi de décrire les pierres précieuses et les autres matériaux nécéssaires à la réalisation et d’en calculer le coût. Les projets sont ensuite archivés dans les cahiers de travail, tandis que les joyaux viennent réalisés dans l’atelier.

La carrière de styliste orfèvre de Alma débute presque par hasard: elle aime dessiner même dans son temps libre, tant que son oncle Albert est frappé par la beauté de ses travaux et décide de les réaliser. En 1912 Alma reçoit sa première commande de la part de Emanuel Nobel, un riche norvégien qui conduit un empire du pétrole: le magnat lui demande la consigne rapide de 40 broches, cadeaux pour les épouses des invités à l’occasion d’un dîner. Nobel veut que les joyaux soient produits avec des matériaux bas de gamme, pour éviter toute accusation de corruption. Encore une fois, c’est le hasard qui décide de la carrière de Alma: la faible lumière de l’hiver glacial des Pays du Nord la force à travailler près de la fenêtre. Les cristaux de glace à la forme variée qui se produisent sur les vitres lui inspirent non seulement le dessin de ces broches, mais aussi la plus grande partie de son futur travail de créatrice. Ces bijoux deviennent populaires et sont reproduits avec des matériaux précieux: de l’or serti en alliage de platin-argent, parsemé de diamants taillés rose. Par la suite, c’est toujours Emanuel Nobel qui commande à Alma une série de joyaux avec le même motif des cristaux de glace, pour en faire don à ses partenaires d’affaires; en plus, il demande et obtient les droits exclusifs du modèle. Alma atteint la célébrité grâce à cette commande: en 1913 elle est chargée de dessiner les cadeaux à l’occasion du troisième centenaire de la dynastie Romanov. Les joyaux doivent être réalisés selon les désirs du tsar, qui veut les distribuer à ses hôtes illustres.

Surprise dans l’Œuf de glace Nobel

Par la suite, Alma prends part à la conception des célèbres œufs de Pâques à surprise. Ces objets précieux étaient créés chaque année par le joaillier Fabergé sous la demande du tsar, pour en faire hommage à son épouse la tsarine ainsi qu’à sa mère, l’impératrice douairière. L’œuf devait avoir la dimension d’un véritable œuf de poule et devait contenir une surprise. Le tsar lui- même ne pouvait en connaître ni la forme ni le contenu, car la tradition de Fabergé demandait qui personne, y compris le tsar, pouvait être mis au courant du résultat final jusqu’à sa complète réalisation. Emanuel Nobel reconnaît l’importance de cet ordre de prestige et autorise la jeune créatrice à utiliser le motif des cristaux de neige, tout en ayant obtenu auparavant l’exclusivité. C’est ainsi que naît l’œuf d’Hiver, le plus précieux de toute la collection Impériale. Alma choisit des matières précieuses, qui s’accordent avec son style essentiel et qui reflètent les nuances froides de l’hiver: cristal de roche de Sibérie, orthose et platine. L’ œuf, parsemé avec 1660 diamants, est placé au sommet d’un glaçon fondu, taillé dans un cristal de roche. A son intérieur se cache la surprise: couché sur un fond de mousse marron, réalisé en or, trouve place un panier en platine contenant des anémones aux corolles en quartz blanc, avec le centre en grenat rouge ou en quartz rose, sur des tiges et des feuilles en néphrite verte.

Œuf d’hiver pour l’impératrice douairière Maria Feodorovna, Pâques 1913. Alma Pihl, designer chez Fabergé

En 1914 Alma reçoit une nouvelle commande pour un œuf de Pâques, cette fois destiné à la tsarine Alexandra Feodorovna, épouse de Nicolas le Deuxième. L’Impératrice est une brodeuse passionée, ainsi que la belle-mère de Alma, avec la quelle la jeune fille partage les murs domestiques dès 1912, date du mariage avec Nikolai Klee. Encore une fois, c’est la vie de ménage qui l’inspire: un soir après le dîner elle est assise dans son séjour à côté de sa belle-mère qui brode au point de croix. Tout à coup elle décide d’utiliser ce motif pour son nouveau projet. Suivant les précieux conseils de l’oncle Albert, elle réalise l’œuf en plaçant avec précision émerauds, rubis et quartz à la coupe carrée sur un réseau de platine. Le cadre est en or, réalisé avec perles et diamants taillée rose. Au sommet trouve place une pierre de lune dans la quelle sont gravées les initiales de la tsarine. La surprise à l’intérieur est réalisée avec minutie: un petit support decoré avec perles et diamants présente, en émail, d’un côté les silhouettes des enfants du couple impérial, de l’autre leurs noms et un panier fleuri. La tradition se poursuit jusqu’à la Révolution d’octobre et comprend un total de cinquante œufs, car chaque année le tsar en commande deux, un pour son épouse Alexandra et l’autre pour sa mère. De manière générale, Alma paraît n’avoir jamais compris à fond la portée de son propre génie: elle se sent à l’aise chez l’atelier de Fabergé, mais elle se considère un simple anneau faisant partie d’une communauté professionnelle qui compte une centaine d’individus. Dans ce cadre, les vieux maîtres et les experts du domaine sont appreciés et tiennent une place importante, tandis que les plus jeunes, comme elle, restent dans l’ombre.

Broche flocon de neige. Alma Pihl, designer chez Fabergé Broche du tricentenaire des Romanov, Alma Pihl, designer chez Fabergé

En 1918 l’atelier de Fabergé ferme définitivement à la suite de la Révolution: beaucoup de personnes, en plusieurs secteurs, se trouvent privées du travail. Cette situation frappe aussi l’époux de Alma, Nikolai Klee, qui travaille à St Pétersburg comme chef adjoint aux ventes au sein de la grande fabrique de papier finlandaise Kymiyhtio. En 1919 il perd sa place et le couple essaye de quitter la Russie sans y parvenir. Nikolai Klee est arrêté et emprisonné pour trois mois, pendant lesquels Alma est forcée à vendre ses vêtements, ses meubles et, bien évidémment, ses joyaux pour joindre les deux bouts. Enfin, au printemps 1921, le couple réussit à atteindre la Finlande: l’aide de l’écrivain Maksim Gorki lui permet d’obténir le passeport Nansen, un document spécial délivré par la Société des Nations aux déplacés et réfugiés apatrides. Le couple quitte la gare Suomen de St Pétersburg avec peu de choses; Alma a caché ses bijoux les plus précieux dans son corsage, en espérant que les douaniers ne la fouilleraient pas. Elle porte au poignet un bracelet en or, souvenir qui lui avait été donné par son parrain lors de son quinzième anniversaire. Arrivée à la frontière les douaniers essayent de la dérober, mais heureusement la fermeture du bracelet est défectueuse et Alma réussit à le garder avec soi. Une fois arrivés à la gare finlandaise de Kouvola le couple est accueilli par une voiture de la fabrique de papier Kymiyhtio, qui les conduit à Kuusankoski, dans les logements de l’entreprise. Ils demeurent ici pendant deux ans, car il y a peu de logis à disposition face au grand nombre de réfugiés provenant de la Russie. L’entreprise propose à Nikolai un travail au sein du service commercial, où le jeune homme commence à gerer le contacts avec l’Allemagne grâce à sa parfaite connaissance de la langue.

Au même temps se forme une petite communauté, à la quelle prennent part d’autres anciens collègues provenants de St Pétersburg. Ici personne n’ose parler en Russe devant les finlandais, car la Russie est considérée un Pays ennemi. Alma parle le russe, l’allemand et le suédois ainsi que le finlandais, mais elle utilise cette dernière langue seulement dans un étroit circle d’amis. Parmi eux, Lydia Kataja, une nièce éloignée, qui deviendra une voisine lorsque le couple démenage dans un appartement au sein du quartier résidentiel de Oljumaki. Puisque Alma ne se trouve pas à son aise en cuisine, Lydia bientôt vient en son aide pour s’occuper des travaux domestiques de la famille Klee. En 1927 Alma réussit à réaliser son désir de travailler au sein de l’école suédoise de Kuusankoski: elle enseigne dessin et calligraphie. Ses élèves apprécient les qualités artistiques et les compétences exquises de Tant (tante) Alma, une enseignante sympa et capable “qui parle suédois avec un petit accent russe”.Dans son temps libre, elle participe au activités du club de la fabrique à papier en réalisant des fresques élaborées ou des scénographies pour les bals costumés ou d’autres événements. Chose curieuse, tout au long de ses vingt-quatre années d’enseignement Alma ne fait mot avec personne de sa vie à St. Pétersburg et de son occupation de prestige chez Fabergé. En 1952 Alma et Nikolai quittent Kuusankoski pour Helsinki où Nikolai meurt en 1960. Alma devient rapidement de plus en plus fragile, elle a surtout des troubles de la vision qui lui empêchent d’écrire ou d’exécuter des travaux manuels. Elle est agée de 83 ans lorsqu’elle est admise à l’hôpital de Helsinki: elle porte toujour au poignet gauche le même bracelet en or, cadeau de son oncle, que le douanier avait essayé de lui soustraire en 1921 sans pourtant y parvenir. Le règlement de l’hôpital n’autorise pas de garder sur soi des bijoux, donc les infirmières chargent le concierge de forcer la fermeture défectueuse du bracelet. C’est ainsi que Alma perd le dernier souvenir de sa jeunesse.

Alma Pihl trouve la mort dans l’été 1976, âgée de 87 ans, et elle est enterrée dans le cimitière de Hietaniemi dans un caveau familial. Lydia reste à ses côtés jusqu’à la fin, elle qui était devenue une amie fidèle et presque une fille adoptive du couple, dès les années quarante. Peu avant sa mort, c’est à elle que Alma raconte de sa vie en Russie. Mais il faut attendre les années quatre-vingt pour que une ancienne élève de Alma, Maj-Britt Paro, confie cette histoire à une série d’articles de presse. Succéssivement Ulla Tillander-Godenhielm, arrière-petite-fille de l’orfèvre Alexander Tillander de St Pétersburg (un autre fournisseur de la cour impériale russe) s’occupe de la carrière de Alma. Grâce au témoignage de Lydia, elle a reconstitué et raconté dans un reportage l’histoire incroyable de la créatrice de Fabergé. Que nous reste-t-il aujourd’hui de cette femme talentueuse? Pendant sa brève carrière, avant la révolution Russe du 1917, Alma Pihl a dessiné environ deux-mille objets de valeur. Tout au long des années d’enseignement, par contre, elle a peint un grand nombre de panneaux didactiques pour ses classes, aujourd’hui conservés au Musée Municipal de Kouvola à Poikilo. Alma Pihl est connue aussi par les enfants du XXI siècle de la Svenska Skolan, l’institut de langue suèdoise de Kuusankoski: à l’intérieur de l’édifice ils peuvent admirer des copies de ses dessin. En outre, ils visitent son ancienne maison chaque année, au mois de mai, lors d’une promenade printanière.

Où se trouvent maintenant les créations les plus précieuses de sa fantaisie? Au début des années 2000, au cours d’une vente aux enchères d’art internationale, un cheikh du Qatar a achété pour dix millions de dollars environ l’œuf d’Hiver, qui depuis appartient à la Qatar Museum Autority. Par contre, l’œuf au point de croix fait partie de la collection de la couronne d’Angleterre. Les esquisses de la production d’ Albert Holmstrom, y compris les dessins de Alma, (1909-1915) sont réunis dans deux albums qui se trouvent aujourd’hui chez Wartski, au numéro 14 de Grafton Street, une petite rue située au sein quartier Mayfair à Londres. La boutique d’antiquités est aussi propriétaire de la collection la plus nombreuse d’objets de Fabergé, rassemblés par cette famille de réfugiés Russes au fil des générations… mais cela est une autre histoire.


Traduzione spagnola

Francesco Rapisarda

Alma Pihl, una de las diseñadoras más creativas del famoso laboratorio Fabergé, nació en Moscú el 15 de noviembre de 1888. Su padre, Knut Oscar Pihl, que llegó a San Petersburgo desde Finlandia siendo apenas un niño para trabajar en el mundo de la relojería, se convirtió en orfebre bajo la tutela del maestro finlandés August Holmström, precisamente en el taller de Fabergé. Años después, Knut Oscar se convierte en el jefe de este prestigioso taller y se casa con la hija de Holmström, Fanny; alentados por el ambiente familiar, dos de sus cinco hijos, Oskar y Alma, seguirán sus pasos y se convertirán también en orfebres. Alma, en particular, será una figura vanguardista en un campo en el que generalmente no se empleaban mujeres. Cuando la muerte prematura de su padre obliga a la familia a regresar con los abuelos maternos a San Petersburgo, Alma entra en el taller de su tío, Albert Holmström: tenía veinte años y ya destacaba como aprendiza, estudiando bajo la dirección del orfebre sueco Eugen Jakobson. Su tarea consistía en dibujar las joyas a escala natural en los más mínimos detalles, documentando las piedras preciosas y otros materiales utilizados y anotando su costo. Los proyectos se archivaban luego en los cuadernos de trabajo, mientras que las joyas se producían en el taller.

Alma comienza su carrera como diseñadora de joyas casi por casualidad: le gusta dibujar también en su tiempo libre y sus bocetos llaman la atención de su tío Albert, quien, impresionado por su belleza, decide fabricarlos. En 1912, la joven recibe su primer pedido: un cliente adinerado, el noruego Emanuel Nobel, jefe del imperio petrolero que lleva su mismo nombre, solicita una entrega rápida de 40 broches, para distribuirlos como obsequios a las esposas de los invitados en una cena. Para evitar ser acusado de corrupción, Nobel pide que las joyas sean fabricadas con material de bajo precio. Es el destino nuevamente el que determina la carrera de Alma. En el gélido invierno del norte, la escasa luz la obliga a dibujar cerca de una ventana: la inspiración para estos broches (y para gran parte de su trabajo posterior) llega de las diversas formas de los cristales de hielo que decoran las cristaleras. Estas joyas se hacen populares y se reproducen con materiales preciosos: oro, incrustado en una aleación de platino y plata, salpicado de diamantes de talla rosa. Posteriormente, el propio Emanuel Nobel encarga una serie completa con el mismo diseño de cristales de hielo para regalarlos a sus socios comerciales; además, solicita y obtiene los derechos exclusivos sobre el modelo. El éxito de este encargo hizo famosa a Alma, y en 1913 le encargaron diseñar los regalos para el tricentésimo aniversario de la dinastía Romanov: las joyas debían ser realizadas según los deseos del Zar, quien tenía intención de distribuirlas entre sus ilustres invitados.

Sorpresa en el Huevo de Hielo Nobel

Posteriormente, Alma colaboró en el diseño de los célebres huevos de Pascua que el joyero Fabergé creaba cada año en Pascua como regalo del Zar para la Zarina y la Emperatriz madre. Cada huevo debía tener el tamaño de un huevo de gallina y contener una sorpresa. El Zar mismo no conocía su aspecto ni su contenido, porque la tradición de Fabergé estipulaba que nadie, ni siquiera un cliente tan ilustre, estuviera informado sobre el resultado del trabajo hasta su realización. Aunque había obtenido la exclusividad, Emanuel Nobel, quien comprendía la importancia de este prestigioso encargo, permitió que la joven diseñadora utilizara el tema de los cristales de nieve: así nació el Huevo Invernal, el más valioso de la colección imperial. Alma eligió materiales preciosos que se adaptaban bien a su estilo sencillo y que reflejaban los fríos tonos del invierno: cristal de roca siberiano, ortoclasa y platino. El huevo, engastado con 1660 diamantes, se encuentra sobre un cubito de hielo derretido, esculpido en cristal de roca. La sorpresa se hallaba en su interior: sobre un fondo de musgo marrón, realizado en oro, se encuentra una canasta de platino que contiene anémonas con corolas de cuarzo blanco, con centros de granate rojo y hematita rosa, sobre tallos y hojas de nefrita verde.

Huevo invernal para la emperatriz viuda María Feodorovna, Pascua de 1913. Alma Pihl, diseñadora de Fabergé

En 1914, Alma recibe un nuevo encargo para un huevo de Pascua; esta vez la destinataria es la Zarina Alexandra Feodorovna, esposa de Nicolás II. La emperatriz es una apasionada bordadora, como la suegra de Alma, con quien la joven vivía desde 1912, cuando se casó con Nikolai Klee. Otra vez, es la vida cotidiana la que la inspira: una noche, después de la cena, mientras está sentada en el salón observando a su suegra bordar en punto de cruz, decide utilizar precisamente ese punto para su nuevo proyecto. El huevo se realiza siguiendo los valiosos consejos de su tío Albert, colocando con precisión esmeraldas, rubíes y hematitas de corte cuadrado en una red de platino. El marco es de oro y contiene perlas y diamantes de tallo rosa. En la parte superior se encuentra una piedra de luna, que lleva grabadas las iniciales de la Zarina. También la sorpresa de su interior ha sido ejecutada meticulosamente: un pequeño soporte decorado con perlas y diamantes lleva esmaltados, en un lado, las siluetas de los niños de la familia imperial y, en el otro sus nombres y un cesto de flores. La tradición continúa hasta la Revolución de Octubre y se producen un total de cincuenta huevos: el Zar encarga dos cada año, uno para su madre y otro para su esposa, Aleksandra. En general, Alma nunca pareció haber percibido su propia genialidad: en Fabergé se sentía cómoda, pero se consideraba solo un eslabón en una comunidad profesional de un centenar de personas, donde sobre todo los viejos maestros y otros expertos del sector eran apreciados, mientras que los más jóvenes, como ella, quedaban en un segundo plano.

Broche copo de nieve. Alma Pihl, diseñadora de Fabergé Broche del tricentenario Romanov, Alma Pihl, diseñadora de Fabergé

En 1918, la Revolución llevó al cierre definitivo del taller Fabergé y a la pérdida del empleo para muchas personas en diversos sectores. También el marido de Alma, Nikolai Klee, que trabajaba en San Petersburgo como subdirector en la oficina de ventas de la gran fábrica de papel finlandesa Kymiyhtiö, perdió su trabajo y, en 1919, la pareja intentó en vano salir de Rusia. Nikolai Klee fue arrestado y encarcelado durante tres meses, durante los cuales Alma tuvo que vender ropa, muebles y, por supuesto, joyas para sobrevivir. Finalmente, en la primavera de 1921, lograron llegar a Finlandia: la influencia del escritor Maksim Gorki fue determinante y les permitió obtener el pasaporte Nansen, un documento especial otorgado por la Sociedad de Naciones a personas refugiadas y apátridas. Los cónygues dejaron la estación Suomen de San Petersburgo con pocas pertenencias; Alma había cosido sus joyas más preciosas en el corsé, confiando en que los funcionarios de aduanas no la registraran, y llevaba una pulsera de oro, un valioso recuerdo de su padrino, que había recibido en su decimoquinto cumpleaños. En la frontera, los aduaneros intentaron quitársela, pero por suerte el cierre era defectuoso, por lo que logró mantenerla consigo. En la estación finlandesa de Kouvola, la pareja fue recibida por un coche de la fábrica Kymiyhtiö, que los llevó a Kuusankoski, a los alojamientos de la empresa, donde permanecieron durante dos años: en efecto, los refugiados procedentes de Rusia eran numerosos y había escasez de apartamentos. La empresa le ofreció a Nikolai un trabajo en el departamento de ventas y, gracias a su excelente conocimiento del alemán, el hombre comenzó a gestionar los contactos con Alemania.

En ese mismo período, con la llegada de otros ex colegas de San Petersburgo, se constituye una pequeña comunidad. Sin embargo, dado que Rusia es considerada un estado enemigo, nadie se atreve a hablar ruso en presencia de los finlandeses. Alma conoce el ruso, el alemán, el sueco y también el finlandés, aunque solo lo comparte con unos pocos íntimos. Entre ellos, Lydia Kataja, una lejana sobrina, que también se convierte en vecina cuando la pareja se muda a un apartamento en la zona residencial de Öljumäki. Alma nunca fue "un talento con ollas y sartenes en la cocina": Lydia se da cuenta pronto y empieza a ayudar a la familia Klee con las tareas domésticas. En 1927, Alma consigue el trabajo que deseaba en la escuela de lengua sueca de Kuusankoski y se convierte en profesora de dibujo y caligrafía. La naturaleza artística y las excelentes habilidades de Alma, una docente simpática y buena “que habla sueco con un ligero acento ruso”, son muy apreciadas por sus estudiantes. En su tiempo libre, participa en las actividades del club de la fábrica de papel, pintando elaborados fondos para las fiestas de disfraces y otros eventos que requieren escenografías. Curiosamente, durante sus veinticuatro años de enseñanza, nunca habla de su período en San Petersburgo ni de su prestigiosa carrera como diseñadora en Fabergé. En 1952, Alma y Nikolai se mudan de Kuusankoski, Helsinki, donde Nikolai muere en 1960. Rápidamente, la salud de Alma comienza a deteriorarse: en particular, su vista se va deteriorando hasta el punto de no permitirle escribir ni realizar trabajos manuales. Finalmente, a los 83 años, ingresa en el hospital de Helsinki; todavía lleva la pulsera de oro en la muñeca izquierda, ese mismo regalo de su tío que el aduanero ruso había intentado inútilmente quitarle en 1921. Dado que el reglamento del hospital no permite el uso de joyas, las enfermeras llaman al conserje, quien logra forzar el cierre defectuoso de la pulsera, y así Alma pierde también el último recuerdo de su juventud.

Alma Pihl muere a los 87 años en el verano de 1976 y es enterrada en el cementerio de Hietaniemi, en una tumba familiar. Hasta el final, Lydia, que se había convertido en una amiga fiel y vivía como hija adoptiva de la pareja desde los años cuarenta, permaneció cerca de ella. Justo antes de morir, Alma le contará su vida en Rusia. Alrededor de los ochenta, una ex alumna de Alma, Maj-Britt Paro, hizo pública esta historia a través de unos artículos de prensa. Posteriormente, Ulla Tillander-Godenhielm, biznieta de otro proveedor de la corte imperial rusa, el orfebre Alexander Tillander de San Petersburgo, se interesó por la carrera de Alma. La investigadora reconstruyó y relató la increíble historia de la creadora de Fabergé en un documental, contando también con el testimonio de Lydia. ¿Qué queda de esta talentosa mujer? Durante su breve carrera, antes de la Revolución rusa de 1917, Alma Pihl diseñó aproximadamente dos mil objetos de valor. En su período como docente, pintó muchos paneles didácticos para sus estudiantes, que hoy se conservan en el museo de la ciudad de Kouvola en Poikilo. También las niñas y los niños del siglo XXI de la Svenska Skolan, el instituto de lengua sueca de Kuusankoski, conocen bien a Alma Pihl: copias de sus dibujos están presentes en la escuela y, todos los años, en mayo, durante una caminata primaveral, realizan una visita a su antigua casa.

¿Dónde se encuentran hoy los productos más valiosos de su imaginación? A principios de los años 2000, durante una subhasta de arte internacional, un jeque de Qatar pagó casi diez millones de dólares por el Huevo Invernal, que desde entonces es propiedad de la Qatar Museum Authority. El huevo trabajado a punto de cruz, en cambio, forma parte de la colección de la corona de Inglaterra. Los bocetos de la producción de Albert Holmström (1909-1915) están recopilados en dos álbumes que incluyen también los proyectos de Alma y se encuentran actualmente en el número 14 de Grafton Street, una calle secundaria del barrio de Mayfair en Londres, en la pequeña tienda Wartski, que también posee la colección más importante de objetos Fabergé, reunidos durante generaciones por esta familia de refugiados rusos... pero esa es otra historia.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Alma Phil, one of the most creative designers at the famous Fabergé workshop, was born in Moscow, Russia on November 15, 1888. Her father, Knut Oscar Pihl, who had arrived as a young child from Finland to St. Petersburg to work in watchmaking, had instead become a goldsmith with the Finnish master August Holmström, right in Fabergé's workshop. Years later, Knut Oscar became head of this prestigious atelier and married Holmström's daughter, Fanny. Encouraged by the family background, two of their five children, Oskar and Alma, would in turn become goldsmiths. Alma, in particular, would be a pioneering figure in a field where women were not usually employed. When her father's untimely death forced the family to return to her maternal grandparents in St. Petersburg, Alma entered the workshop of her uncle, Albert Holmström. She was 20 years old and had already distinguished herself as an apprentice, studying under Swedish goldsmith Eugen Jakobson. His work was to design life-size jewelry in minute detail, documenting the gemstones and other materials used and noting the cost. The designs were then filed in workbooks, while the jewelry was produced in the workshop.

Alma began her career as a jewelry designer almost by accident. She enjoyed designing, even in her spare time, and her work caught the eye of her uncle Albert, who was so struck by their beauty that he decided to make them. In 1912 the young woman received her first order - a wealthy client, the Norwegian Emanuel Nobel, head of the oil empire that bears his own name, requested a very quick delivery of 40 brooches, to be distributed as gifts to the wives of guests at a dinner party. In order not to be accused of bribery, Nobel asks that the jewelry be made from low-cost materials. It was still chance that decided Alma's career. In the frigid northern winter, the low light forced her to design by a window, and the inspiration for these brooches (and much of her subsequent design work) came from the variegated shapes of ice crystals that decorated the glass. This jewelry became popular and was reproduced with precious materials - gold, set in a platinum-silver alloy, dotted with rose-cut diamonds. Later, Emanuel Nobel himself ordered a whole series with the same ice crystal motif to give as gifts to his business associates. He also asked for and obtained exclusive rights to the pattern. The success of this order made Alma famous, and in 1913 she was commissioned to design the gifts for the Romanov dynasty's 300th anniversary. The jewelry was to be made according to the wishes of the Tsar, who intended to distribute them to his distinguished guests.

Surprise inside the Nobel Ice Egg

Alma later collaborated in designing the famous surprise eggs, which the jeweler Fabergé created every year at Easter as a gift from the Tsar for the Tsarina and the Empress Mother. Each egg had to be the size of a chicken egg and contain a surprise. The Tsar himself did not know what it looked like or what it contained, because Fabergé's tradition was that no one, not even such an illustrious patron, should be informed of the result of the work until it was done. Although he had obtained the exclusive, Emanuel Nobel, who understood the importance of this prestigious order, allowed the young designer to use the theme of snow crystals. Thus was born the Winter Egg, the most precious in the imperial collection. Alma chose precious materials that fit well with her essential style and reflected the cold tones of winter: Siberian rock crystal, orthoclase, and platinum. The egg, set with 1,660 diamonds, was placed on top of a melted ice cube carved from rock crystal. Inside was the surprise - lying on a background of brown moss, made of gold, is a platinum basket, containing anemones with white quartz corollas, with red garnet and pink hematoid quartz centers on stems and leaves of green nephrite.

Winter Egg for Dowager Empress Maria Feodorovna, Easter 1913. Alma Pihl, designer for Fabergé

In 1914 Alma received another order for an Easter egg. This time the recipient was to be Tsarina Alexandra Feodorovna, wife of Nicholas II. The empress was an avid embroiderer, as was Alma's mother-in-law, with whom the young woman had been living since 1912, when she married Nikolai Klee. It was still everyday life that inspired her - one evening after dinner, as she sat in the living room watching her mother-in-law embroider in cross-stitch, she suddenly decided to use that very stitch for her new project. The egg was made following Uncle Albert's valuable advice by precisely placing carré-cut emeralds, rubies and hematoid quartz gems in a platinum mesh. The frame is gold and contains rose-cut pearls and diamonds. On the top is a moonstone, which bears the initials of the Tsarina engraved on it. The surprise inside was also meticulously executed. A small stand decorated with pearls and diamonds bears, enameled on one side, the silhouettes of the children of the imperial family, on the other their names and a basket of flowers. The tradition continued until the October Revolution, and a total of fifty eggs were produced. The tsar ordered two each year, one for his mother and one for his wife, Aleksandra. On the whole, Alma never seemed to perceive her own genius. At Fabergé she had felt comfortable, but she considered herself only a link in a professional community of a hundred or so people, where mostly the old masters and other experts in the field were appreciated while younger people, like her, remained in the background.

Snowflake brooch. Alma Pihl, designer for Fabergé Romanov Tercentenary brooch, Alma Pihl, designer for Fabergé

In 1918 the Revolution led to the final closure of the Fabergé workshop and the loss of employment for many people in different fields. Alma's husband, Nikolai Klee, who worked in St. Petersburg as an assistant manager in the sales office of the large Finnish paper mill Kymiyhtiö, also lost his job, and in 1919 the couple tried in vain to leave Russia. Nikolai Klee was arrested and imprisoned for three months, during which time Alma had to sell clothes, furniture, and, of course, jewelry to make ends meet. Finally, in the spring of 1921, they managed to reach Finland. The influence of the writer Maxim Gorky was decisive and enabled them to obtain a Nansen passport, a special document issued by the League of Nations to stateless refugees and refugees.The couple left Suomen Station in St. Petersburg with few belongings. Alma had sewn her most precious jewelry into her corset, trusting that customs officials will not search her, and she was wearing a gold bracelet, a treasured memento of her godfather, received for her 15th birthday. At the border the customs officers wanted to take it from her, but fortunately the clasp was defective and so she managed to keep it with her. At the Finnish station in Kouvola the couple was met by a car from the Kymiyhtiö paper mill, which took them to Kuusankoski, to the company's lodgings, where they stay for a full two years, for there are many refugees from Russia and a shortage of apartments. The company offered Nikolai a job in the sales department, and with his excellent knowledge of German, the man began to handle contacts with Germany.

At the same time, with the arrival of other former colleagues from St. Petersburg, a small community was formed. However, since Russia was considered an enemy state, no one dared to speak Russian in the presence of Finns. Alma knew both Russian, German and Swedish, as well as Finnish, which, however, she shared with only a few intimates. These included Lydia Kataja, a distant niece, who also became a neighbor when the couple moved into an apartment in the residential area of Öljumäki. Alma had never been "a talent with pots and pans in the kitchen"-Lydia soon noticed this and began to help the Klee family with household chores. In 1927 Alma got the job she wanted at the Swedish language school in Kuusankoski and became a teacher of drawing and calligraphy. The artistic nature and excellent skills of Tant (Aunt) Alma, a nice and good teacher "who speaks Swedish with a slight Russian accent," were greatly appreciated by those who studied with her. In her spare time she participated in the activities of the paper mill club, painting elaborate backdrops for masquerade parties and other events that require stage sets. Curiously, during her twenty-four years of teaching, she never mentioned her time in St. Petersburg or her prestigious design work at Fabergé. In 1952 Alma and Nikolai moved from Kuusankoski to Helsinki, where Nikolai died in 1960. Quickly Alma's health also began to falter. In particular it was her eyesight that deteriorated so that she was unable to write or work with her hands. Finally, at the age of 83 she was admitted to Helsinki Hospital. She still wore the gold bracelet on her left wrist, that same gift from her uncle that the Russian customs officer had unsuccessfully tried to remove from her in 1921. Since the rule in the hospital did not allow jewelry to be worn, the nurses called the janitor, who succeeded in forcing the defective clasp on the bracelet, and so Alma lost the last memory of her youth.

Alma Pihl died at the age of 87 in the summer of 1976 and was buried in Hietaniemi Cemetery in a family plot. Until the last she was left with Lydia, who had become a trusted friend and had lived as the couple's adopted daughter since the 1940s. It was to her, shortly before her death, that Alma told about her life in Russia. Around the 1980s a former student of Alma's, Maj-Britt Paro, made this story public through newspaper articles. Later Ulla Tillander-Godenhielm, great-granddaughter of another purveyor to the Russian imperial court, St. Petersburg goldsmith Alexander Tillander, became interested in Alma's career. The scholar has reconstructed and recounted the incredible story of the Fabergé maker in a documentary, also making use of Lydia's testimony. What remains of this talented woman? During her short career before the Russian Revolution of 1917, Alma Pihl designed about two thousand valuable objects. In her teaching period, however, she painted many educational panels for her schoolchildren, now preserved in the Kouvola City Museum in Poikilo. Twenty-first-century girls and boys from Svenska Skolan, the Swedish-language institute in Kuusankoski, also know Alma Phil well - copies of her drawings are in the school, and every year in May, during a spring walk, the young students visit her old home.

Where are the most precious products of her imagination today? In the early 2000s, during an international art auction, a Qatari sheikh paid nearly ten million dollars for the Winter Egg, which has since been owned by the Qatar Museum Authority. The cross-stitched egg, on the other hand, is part of the Crown of England's collection. The sketches of Albert Holmström's production (1909-1915) are collected in two albums that also include Alma's designs and can currently be found at number 14 Grafton Street, a side street in London's Mayfair district, in the small Wartski store, which also has the most important collection of Fabergé objects, collected for generations by this Russian refugee family... but that is another story.

 

Jessie Marion King
Sara Balzerano

Carola Pignati

 

Le fate esistono. E chi non ci crede, chi pensa che queste creature magiche non siano reali, può tranquillamente interrompere qui la lettura e non proseguire oltre. Perché se c’è una costante, una matrice che sempre ha regolato l’arte e lo spirito di Jessie Marion King, questa è proprio l’incanto pescato e attinto dal “piccolo popolo”. Con esso ha dato materia all’invisibile, dipinto e cucito sogni fatti a mano e traghettato nella realtà l’onirico e il fiabesco.

E non è un caso, no.

Jessie Marion King alle fate credeva davvero, tanto da poter comunicare con loro. Si dice che avesse la seconda vista, che potesse vederle. Lei stessa racconta di averne sentito il tocco, quando, da adolescente, un pomeriggio si era addormentata sulle colline di Argyll. Una chiamata, forse. Un incarico o una presa di responsabilità. Fatto è che, in ogni opera che ha creato, si scorge, netto ed evanescente, il sospiro del Sidhe. E se si pensa al numero enorme di suoi lavori, dalle illustrazioni dei libri per l’infanzia agli ex libris, dai biglietti d'auguri a costumi, tessuti, gioielli, murales e ceramiche, si può affermare, con la certezza propria delle fiabe, che ella ha rappresentato il punto di incontro tra i due mondi, un solstizio fatto di arte, tradizione e contaminazione, dove ogni tratto, pensato e realizzato, nasce dal talento, dallo studio e dalla fede.

Ultima di quattro sorelle, King nacque nella parrocchia di New Kilpatrick, a Bearsden, sobborgo di Glasgow, nel Dunbartonshire, il 20 marzo 1875. Suo padre, James Waters King, era un ministro della Chiesa di Scozia; sua madre, Mary Anne Anderson, una donna profondamente religiosa, rigida nei comportamenti e nella mentalità, tanto che la figlia era costretta a nasconderle i propri disegni per evitare che lei glieli strappasse. Ciò che Jessie non ebbe dalla madre, lo ricevette dalla governante, che l’ha cresciuta e incoraggiata nel perseguire quella che, fin dall’infanzia, appariva come un’innata capacità. E chissà che la donna, per intrattenere la piccola, non le abbia raccontato storie e leggende della tradizione delle Highlands. Come figlia di un uomo di Chiesa, ricevette l’istruzione tipica delle classi alte, senza, però, avere le medesime opportunità che la ricchezza dava, senza alcun merito, all’aristocrazia. Dovette, dunque, tracciare da sé la propria strada. Una strada che iniziò al Queen Margaret College di Glasgow per formarsi come docente d’arte.

King, però, non voleva insegnare arte. Voleva farla. Voleva crearla. E fu per questo che decise, contro il parere dell’intera famiglia questa volta, di inscriversi alla Glasgow School of Art, la migliore istituzione artistica di tutta la Gran Bretagna, diretta, a quel tempo, da Francis Newbery. Newbery, che pure non andò mai troppo d’accordo con Jessie, aveva una mente aperta all’innovazione e al cambiamento. E, cosa forse strana per un uomo dell’epoca vittoriana, credeva molto nelle donne e nel loro lavoro, tanto da impiegare diverse insegnanti, tra cui sua moglie Jessie Newbery, proprio nei corsi dell’istituto. I docenti e le docenti erano più artisti praticanti che maestri d’arte certificati. Fondò un club artistico che permetteva agli/alle studenti di uscire dal corso della scuola d'arte nazionale. La sua idea era quella di garantire una formazione nelle tecniche proprie della tradizione, così da far sviluppare, per ciascun individuo, un talento che fosse unico e completo. Ed è proprio nello studio di queste tecniche artigianali che King si è impegnata all’inizio della sua esperienza nella scuola, in particolare nella decorazione e rilegatura dei libri, senza avere, però, particolare successo. Fu solo quando cominciò a dedicarsi all’illustrazione, sperimentando e affinando la linea e il tratto, che il suo talento esplose, grazie a una tecnica fatta di bidimensionalità, linea flessuosa, forma elegante e dettagliata.

Nel 1898 partecipò all’annuale concorso di South Kensington, assicurandosi la medaglia d’argento. Era, questa, una finestra sul mondo artistico europeo di grande importanza e, infatti, fu da qui che si spalancarono per lei le porte del panorama artistico internazionale. Iniziò a ricevere commissioni dalla casa editrice berlinese Globus Verlag, per poi partecipare, a Torino, nell’aprile del 1902, alla Prima esposizione internazionale d'arte decorativa moderna con due opere nella sezione della Glasgow School: un paravento progettato da George Logan e impreziosito dai suoi disegni e la rilegatura di un libro realizzata in oro su pergamena bianca, L’Evangile de l’Enfance, che le farà vincere il primo premio. A partire da questo momento, le commissioni come illustratrice si susseguirono in maniera impressionante. Tra tutte forse la più importante fu quella di La difesa di Ginevra e altri poemi, una raccolta di poesie di William Morris, pubblicata per la prima volta nel 1858. In essa, King si ispirò soprattutto all’artista Aubrey Vincent Beardsley che tanto aveva attinto dallo stile giapponese. Ma, soprattutto, inserì tutto ciò che era e in cui credeva: le leggende medievali, la tradizione folkloristica, il mito e i racconti del ciclo bretone. Le immagini, perfettamente dettagliate, sono inserite in intricate decorazioni naturalistiche, con rose, uccelli, foglie, stelle e petali. Gli stessi fili di rose e di stelle, di rondini in picchiata e di gigli delicati compongono le cornici delle pagine. Jessie King si è occupata anche della rilegatura — in tela rosso scuro con, sul piatto anteriore, la figura di una Ginevra in oro con le braccia tese dentro un'aureola di stelle — e del littering, attingendo allo stile di Jessie Rowat Newbery proveniente dalle iscrizioni delle lapidi del XVII secolo.

Chiamata a insegnare alla Glasgow School of Art nel dipartimento della decorazione del libro conobbe il suo futuro marito, il pittore e designer Earnest Archibald Taylor. I due si sposarono nel 1908, si trasferirono a Stanford — dove nacque la figlia Merle— ma nel 1910 decisero di spostarsi a Parigi. Qui, con l’intenzione di fermarsi definitivamente, fondarono a Montmartre lo Sheiling Atelier, una scuola di arti decorative. Nella capitale francese, Jessie Marion King subì un cambiamento decisivo: ispirata dall’artista russo Léon Bakst, introdusse per la prima volta il colore nelle proprie illustrazioni. Una svolta importantissima, visibile in tutta la sua bellezza, nel lavoro fatto su La casa dei melograni, una raccolta di racconti dello scrittore Oscar Wilde, ripubblicata in questa nuova veste nel 1915. Nonostante l’idea iniziale, allo scoppio della Prima guerra mondiale, King e Taylor decisero di tornarsene in Scozia. Si stabilirono a Kirkcudbright, un piccolo villaggio di pescatori che il pittore E. A. Hornel aveva trasformato in comunità di artisti. Qui, Jessie iniziò a dedicarsi alla decorazione della ceramica, al disegno di gioielli per l'azienda londinese Liberty, alla stampa di tessuti, alla realizzazione di abiti e di murales, dando vita a quel profilo di artista assoluta che oggi il mondo conosce. Risale a questo periodo Come Cenerentola riuscì ad andare al ballo, un piccolo libro sul batik, una tecnica indonesiana di tintura del tessuto, composto da accurate spiegazioni e attente illustrazioni. Cenerentola, finalmente, senza aspettare nessuna madrina, fatina o aiuto da chicchessia, senza compromessi o ricatti, utilizza il batik per farsi da sola il proprio vestito e andare al ballo. Quasi a dire che l’arte e la conoscenza sono gli strumenti attraverso i quali le donne possono finalmente acquisire l’indipendenza e il controllo sulla propria vita.

Jessie Marion King morì a Kirkcudbright il 3 agosto del 1949. Fu una donna libera e sognatrice; un’artista completa e visionaria. Aveva un grande acume e una pura abilità nel disegno che le hanno permesso di spaziare nella tecnica e nel materiale senza mai inficiare, però, le qualità altissime dei suoi lavori. Divenne internazionale, non soltanto perché durante la sua esistenza ricevette commissioni da tutto il mondo che le permisero di esibire le sue opere in Europa, in America e in India. Fu internazionale soprattutto perché ebbe la profonda capacità e intelligenza di attingere ispirazione da innumerevoli luoghi e tradizioni: dalla Scozia alla Russia; dal Giappone all’Italia, da Léon Bakst a Sandro Botticelli. Illustrò il magico e l’onirico. E dimostrò, infine, che le fate esistono davvero.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

Les fées existent. Et ceux qui n’y croient pas, ceux qui pensent que ces créatures magiques ne sont pas réelles, peuvent tranquillement arrêter ici leur lecture et ne pas aller plus loin. Car s’il y a une constante, une matrice qui a toujours guidé l’art et l’esprit de Jessie Marion King, c’est bien l’enchantement puisé et inspiré par le “petit peuple”. Avec lui, elle a donné forme à l’invisible, peint et cousu des rêves faits main, et transporté dans la réalité l’onirique et le féerique.

Et ce n’était pas un hasard, non.

Jessie Marion King croyait réellement aux fées, au point de pouvoir communiquer avec elles. On disait qu’elle possédait la seconde vue, qu’elle pouvait les voir. Elle-même racontait qu’elle avait senti leur contact, lorsqu’un après-midi, adolescente, elle s’était endormie sur les collines d’Argyll. Un appel, peut-être. Une mission ou une prise de responsabilité. Toujours est-il que, dans chaque œuvre qu’elle a créée, on perçoit, nette et évanescente, la respiration du Sidhe. Et si l’on pense au nombre impressionnant de ses travails, des illustrations pour livres d’enfance aux ex-libris, des cartes de vœux aux costumes, tissus, bijoux, fresques et céramiques, on peut affirmer, avec la certitude propre aux contes de fées, qu’elle a représenté le point de rencontre entre deux mondes: un solstice fait d’art, de tradition et de métissage, où chaque trait, pensé et réalisé, naît du talent, de l’étude et de la foi.

Dernière de quatre sœurs, King est née dans la paroisse de New Kilpatrick, à Bearsden, banlieue de Glasgow, dans le Dunbartonshire, le 20 mars 1875. Son père, James Waters King, était ministre de l’Église d’Écosse; sa mère, Mary Anne Anderson, une femme profondément religieuse, rigide dans ses comportements et sa mentalité, au point que sa fille devait cacher ses dessins pour éviter qu’elle ne les déchire. Ce que Jessie ne recevait pas de sa mère, elle l’a trouvé chez sa gouvernante, qui l’a élevée et encouragée à poursuivre ce qui, dès l’enfance, apparaissait comme un don inné. Et qui sait si cette femme, pour divertir la petite, ne lui avait pas raconté des histoires et légendes de la tradition des Highlands. Fille d’un homme d’Église, elle a reçu une éducation typique des classes sociales élevées, sans cependant bénéficier des mêmes opportunités que la richesse offrait, sans mérite, à l’aristocratie. Elle a donc dû tracer elle-même son propre chemin.Un chemin qui a commencé au Queen Margaret College de Glasgow, où elle a étudié pour devenir enseignante d’art.

Mais King ne voulait pas enseigner l’art. Elle voulait la faire. Elle voulait la créer. Et c’est pour cette raison qu’elle a décidé, cette fois contre l’avis de toute sa famille, de s’inscrire à la Glasgow School of Art, la meilleure institution artistique de toute la Grande-Bretagne, dirigée à l’époque par Francis Newbery. Newbery, bien qu’il n’ait jamais vraiment bien accordé avec Jessie, avait un esprit ouvert à l’innovation et au changement. Et, chose peut-être étrange pour un homme de l’époque victorienne, il croyait profondément aux femmes et à leur travail, au point d’engager plusieurs enseignantes, dont sa femme Jessie Newbery, dans les cours de l’institut. Les enseignants étaient davantage des artistes pratiquants que des professeurs certifiés. Il a fondé un club artistique qui permettait aux étudiants de sortir du cursus national de l’école. Son idée était de garantir une formation dans les techniques traditionnelles, afin de développer chez chaque individu un talent unique et complet. Et c’est justement dans l’étude de ces techniques artisanales que King s’est investie au début de son parcours à l’école, en particulier dans la décoration et la reliure de livres, sans toutefois obtenir un succès particulier. Ce n’est qu’en se consacrant à l’illustration, en expérimentant et en affinant sa ligne et son trait, que son talent a véritablement explosé, grâce à une technique faite de bidimensionnalité, de lignes souples, de formes élégantes et détaillées.

En 1898, elle a participé au concours annuel de South Kensington, où elle a remporté la médaille d’argent. Ce concours représentait une vitrine importante sur le monde artistique européen. Et en effet, c’est à partir de ce moment que les portes du panorama artistique international se sont ouvertes pour elle. Elle a commencé à recevoir des commandes de la maison d’édition berlinoise Globus Verlag, puis elle a participé, à Turin en avril 1902, à la Première Exposition Internationale d’Art Décoratif Moderne avec deux œuvres dans la section de la Glasgow School: un paravent conçu par George Logan et enrichi de ses dessins, et la reliure d’un livre réalisée en or sur parchemin blanc, L’Évangile de l’Enfance, qui lui a valu le premier prix. À partir de ce moment, les commandes d’illustrations se sont succédées de façon impressionnante. Parmi toutes, peut-être la plus importante fut celle pour La Défense de Guenièvre et autres poèmes, un recueil de poèmes de William Morris publié pour la première fois en 1858. Dans ce projet, King s’est inspirée principalement de l’artiste Aubrey Vincent Beardsley, qui avait lui-même beaucoup emprunté au style japonais. Mais surtout, elle a intégré tout ce qu’elle était et en quoi elle croyait : les légendes médiévales, la tradition folklorique, le mythe et les récits du cycle breton. Les images, finement détaillées, s’insèrent dans des décorations naturalistes complexes, avec des roses, des oiseaux, des feuilles, des étoiles et des pétales. Les mêmes fils de roses et d’étoiles, d’hirondelles plongeantes et de lys délicats forment les cadres des pages. Jessie King a également conçu la reliure — en toile rouge foncé, avec sur la couverture l’image dorée d’une Guenièvre aux bras tendus dans une auréole d’étoiles — ainsi que le lettrage, s’inspirant du style de Jessie Rowat Newbery, issu des inscriptions des pierres tombales du XVIIe siècle.

Appelée à enseigner à la Glasgow School of Art dans le département de décoration du livre, elle a rencontré son futur mari, le peintre et designer Earnest Archibald Taylor. Ils se sont mariés en 1908, se sont installés à Stanford, où leur fille Merle est née, mais en 1910 ils ont décidé de partir à Paris. Là, avec l’intention de s’y établir définitivement, ils ont fondé à Montmartre le Sheiling Atelier, une école d’arts décoratifs. Dans la capitale française, Jessie Marion King a connu une transformation décisive : inspirée par l’artiste russe Léon Bakst, elle a introduit pour la première fois la couleur dans ses illustrations. Un tournant majeur, visible dans toute sa splendeur dans son travail sur La maison des grenades, un recueil de nouvelles de Oscar Wilde, réédité dans cette nouvelle version en 1915. Malgré leur projet initial, à l’éclatement de la Première Guerre mondiale, King et Taylor ont décidé de retourner en Écosse. Ils se sont installés à Kirkcudbright, un petit village de pêcheurs que le peintre E. A. Hornel avait transformé en communauté artistique. Là, Jessie a commencé à se consacrer à la décoration de céramique, à la conception de bijoux pour la maison Liberty à Londres, à l’impression de tissus, à la création de vêtements et de fresques, donnant naissance à ce profil d’artiste totale que le monde connaît aujourd’hui. C’est de cette époque que date Comment Cendrillon est allée au bal, un petit livre sur le batik, une technique indonésienne de teinture textile, composé d’explications précises et d’illustrations soignées. Cendrillon, enfin, sans attendre de marraine, de fée ou d’aide quelconque, sans compromis ni chantage, utilise le batik pour se confectionner elle-même sa robe et aller au bal. Comme pour dire que l’art et la connaissance sont les outils à travers lesquels les femmes peuvent enfin acquérir leur indépendance et le contrôle de leur vie.

Jessie Marion King est morte à Kirkcudbright le 3 août 1949. Elle fut une femme libre et rêveuse ; une artiste complète et visionnaire. Elle possédait une grande perspicacité et une pure habileté dans le dessin qui lui ont permis d’explorer les techniques et les matériaux sans jamais compromettre la qualité exceptionnelle de ses œuvres. Elle est devenue une figure internationale, non seulement parce qu’elle a reçu, au cours de sa vie, des commandes du monde entier, lui permettant d’exposer en Europe, en Amérique et en Inde, mais surtout parce qu’elle avait cette capacité et cette intelligence profondes de puiser son inspiration dans d’innombrables lieux et traditions : de l’Écosse à la Russie, du Japon à l’Italie, de Léon Bakst à Sandro Botticelli. Elle a illustré le magique et l’onirique. Et elle a prouvé, enfin, que les fées existent vraiment.


Traduzione spagnola

Graziana Santoro

Las hadas existen. Quien crea que estas criaturas mágicas no son reales puede, sin pensárselo, dejar de leer y no continuar más allá. Y esto porque, si hay una constante, una matriz que siempre ha regulado el arte y el espíritu de Jessie Marion King, se encuentra exactamente en el encanto sacado y extraído del "pequeño pueblo’’. Fue capaz de dar luz lo invisible, y de pintar y coser a mano los sueños, de trasladar lo onírico y el cuento a la realidad.

Y no era una casualidad, no.

Jesse Marion King creía con toda su alma en las hadas, y por eso era capaz de comunicar con ellas. Se rumorea que ella tenía la segunda visión, que le permitía verlas. Ella misma decía haber sentido su toque cuando era joven, una tarde durante la cual se hallaba sobre las colinas de Argyll y se quedó dormida. Una llamada, tal vez. Un encargo o una toma de responsabilidad. Lo cierto es que, en cada una de sus obras, se vislumbra, nítido y evanescente, el suspiro del Sidhe. Si se considera el enorme número de sus trabajos, desde las ilustraciones de libros para la infancia hasta los ex libri, pasando por las tarjetas de felicitación, los disfraces, tejidos, joyas, murales y cerámicas, se puede afirmar, con la certeza propia de los cuentos de hadas, que ella representó el punto de encuentro entre dos mundos. Un solsticio hecho de arte, tradición y contaminación, donde cada trazo, pensado y realizado, nace del talento, del estudio y de la fe.

Última de cuatro hermanas, King nació el 20 de marzo del 1875, en la parroquia de New Kilpatrick, en Bearsden, una zona residencial en Glasgow, que se halla en Dunbartonshire. Su padre, James Waters King, era ministro de la iglesia escocesa; su madre, Mary Anne Anderson, era una mujer profundamente religiosa, con rigidez en la conducta y mentalidad, lo que obligó a su hija a esconderle sus dibujos para evitar que se los rompiera. Lo que su madre no fue capaz de darle, se lo dio la gobernanta, quien la crió y la alentó a perseguir lo que, desde su niñez, parecía ser una capacidad innata. Ojalá que aquella mujer, con el fin de entretener a la niña, no le hubiese contado historias y leyendas de la tradición de las Tierras Altas. Como hija de un hombre de la Iglesia, recibió la típica instrucción de la clase alta, sin acceso a las mismas oportunidades que la riqueza aseguraba, sin merito, a la aristocracia. Tuvo que encontrar sola su camino. Camino que empezó al Queen Margaret College de Glasgow para formarse como profesora de arte.

Sin embargo, King no quería enseñar arte. Quería realizarlo. Quería crearlo. Por esto decidió, contra la opinión de toda la familia esta vez, matricularse a la Glasgow School of Art, la mejor institución artística de toda Gran Bretaña, dirigida, en aquel momento, por Francis Newbery. Newbery, que nunca se llevó demasiado bien con Jessie, tenía una mente abierta a la innovación y al cambio. Algo quizás extraño para un hombre de la época victoriana, creía mucho en las mujeres y en su labor, tanto que empleó a varias profesoras, incluida su esposa Jessie Newbery, en los cursos del instituto. Los profesores y las profesoras eran más artistas practicantes que maestros de arte certificados. Fundó un club artístico que permitía a los/las estudiantes formarse en el curso de la escuela de arte nacional. Su idea era garantizar una formación en las técnicas propias de la tradición, para que cada individuo desarrollara un talento único y completo. King se comprometió precisamente en el estudio de estas técnicas artesanales al inicio de su experiencia en la escuela, en particular en la decoración y encuadernación de libros, pero sin tener mucho éxito. Su talento explotó solo cuando comenzó a dedicarse a la ilustración, experimentando y perfeccionando la línea y el trazo, gracias a una técnica hecha de bidimensionalidad, línea sinuosa, forma elegante y detallada.

En 1898 participó en el concurso anual de South Kensington, asegurándose la medalla de plata. Esta era una ventana que le permitía asomarse al mundo artístico europeo de gran importancia y, de hecho, a partir de entonces se le abrieron las puertas del panorama artístico internacional. Comenzó a recibir encargos de la editorial berlinesa Globus Verlag, para luego participar a la Primera exposición internacional de arte decorativo moderno en Turín, en abril de 1902, con dos obras en la sección de la Glasgow School: un biombo diseñado por George Logan y embellecido con sus dibujos, y la encuadernación de un libro realizada en oro sobre pergamino blanco, L’Evangile de l’Enfance, que le hará ganar el primer premio. A partir de este momento, los encargos como ilustradora se repitieron de una manera impresionante. Entre todas, quizás la más importante fue la de La defensa de Ginebra y otros poemas, una colección de poesías de William Morris, publicada por primera vez en 1858. Para esta, King se inspiró sobre todo en la artista Aubrey Vincent Beardsley, quien había tomado mucho del estilo japonés. Pero, sobre todo, incluyó todo lo que era y en lo que confiaba: las leyendas medievales, la tradición folclórica, el mito y los relatos del ciclo bretón. Las imágenes, perfectamente detalladas, están insertadas en intrincadas decoraciones naturalistas con rosas, pájaros, hojas, estrellas y pétalos. Los mismos hilos de rosas y estrellas, de golondrinas en picada y de lirios delicados componen los marcos de las páginas. Jessie King también se encargó de la encuadernación –en tela rojo oscuro con la figura de una Ginebra en oro, en la portada, con los brazos extendidos dentro de un halo de estrellas– y del littering, basándose en el estilo de Jessie Rowat Newbery proveniente de las inscripciones de las lápidas del siglo XVII.

Convocada a enseñar en la Glasgow School of Art en el departamento de decoración de libros, conoció a su futuro esposo, el pintor y diseñador Earnest Archibald Taylor. Los dos se casaron en 1908, se trasladaron a Stanford –en donde nació su hija Merle– pero en 1910 decidieron mudarse a París. Allí, con la intención de quedarse definitivamente, fundaron en Montmartre la Sheiling Atelier, una escuela de artes decorativas. En la capital francesa, Jessie Marion King experimentó un cambio decisivo: inspirada por el artista ruso Léon Bakst, introdujo por primera vez el color en sus ilustraciones. Fue un avance significativo, visible en toda su belleza, en el trabajo realizado sobre La casa de los granados, una colección de cuentos del escritor Oscar Wilde, republicada en esta nueva versión en 1915.A pesar de la idea inicial, al estallar de la Primera Guerra Mundial, King y Taylor decidieron regresar a Escocia. Se establecieron en Kirkcudbright, un pequeño pueblo de pescadores que el pintor E. A. Hornel había transformado en una comunidad de artistas. Allí, Jessie empezó a dedicarse a la decoración de la cerámica, al diseño de joyas para la empresa londinense Liberty, a la impresión de tejidos, a la realización de ropa y murales, dando vida a ese perfil de artista absoluta que todo el mundo hoy conoce. Se remonta a ese período Cómo Cenicienta logró irse al baile, un pequeño libro sobre el batik, una técnica indonesia de teñido de telas, compuesto por explicaciones precisas e ilustraciones cuidadosas. Cenicienta, finalmente, sin esperar a ninguna madrina, hada o ayuda de quien sea, sin compromisos ni chantajes, utiliza el batik para hacerse su propio vestido e irse al baile; como si quisiera decir que el arte y el conocimiento son las herramientas a través de las cuales las mujeres pueden finalmente adquirir la independencia y el control sobre sus propias vidas.

Jessie Marion King murió en Kirkcudbright el 3 de agosto de 1949. Fue una mujer libre y soñadora; una artista completa y visionaria. Tenía una gran agudeza y una habilidad pura en el dibujo, estas le permitieron abarcar diversas técnicas y materiales sin comprometer nunca la altísima calidad de sus obras. Ella devino ‘mundial’, no solo porque durante su vida recibió encargos de todo el mundo que le permitieron exhibir sus obras en Europa, América e India. Fue ‘mundial’ sobre todo porque tuvo la profunda capacidad e inteligencia de tomar inspiración de innumerables lugares y tradiciones: desde Escocia hasta Rusia; desde Japón hasta Italia, de Léon Bakst a Sandro Botticelli. Ilustró lo mágico y lo onírico. Y por fin, demostró que las hadas existen de verdad.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Fairies exist. And those who do not believe it, those who think that these magical creatures are not real, can safely stop reading here and go no further. For if there is a constant, a matrix that has always governed Jessie Marion King's art and spirit, it is precisely the enchantment fished out and drawn from the “little people.” With it she has given substance to the invisible, painted and sewn handmade dreams and ferried the dreamlike and the fairy-tale into reality.

And this is no accident, no.

Jessie Marion King really believed in fairies, so much so that she could communicate with them. It is said that she had second sight, that she could see them. She herself says she felt their touch when, as a teenager, she had fallen asleep one afternoon in the hills of Argyll. A calling, perhaps. An assignment or a taking on of responsibility. The fact is that, in every work she created, one glimpses, sharp and evanescent, the sigh of the Sidhe. And if one thinks of the enormous number of her works, from children's book illustrations to ex libris, from greeting cards to costumes, textiles, jewelry, murals and ceramics, one can say, with the certainty proper to fairy tales, that she represented the meeting point between the two worlds, a solstice made of art, tradition and contemplation, where every stroke, thought out and made, was born of talent, study and faith.

The last of four sisters, King was born in the parish of New Kilpatrick, in Bearsden, a suburb of Glasgow, Dunbartonshire (Scotland), on March 20, 1875. Her father, James Waters King, was a Church of Scotland minister. Her mother, Mary Anne Anderson, was a deeply religious woman, rigid in behavior and mentality, so much so that her daughter was forced to hide her drawings from her lest she snatch them away. What Jessie did not get from her mother, she received from the family housekeeper, who raised her and encouraged her to pursue what, from childhood, appeared to be an innate ability. And who knows whether the woman, to entertain the little girl, told her stories and legends of Highland lore. As the daughter of a clergyman, she received the education typical of the upper classes, without, however, having the same opportunities that wealth gave, without merit, to the aristocracy. She had, therefore, to chart her own path. A path she began at Queen Margaret College in Glasgow to train as an art lecturer.

King, however, did not want to teach art. She wanted to make it. She wanted to create it. And that was why she decided, against the advice of her entire family this time, to enroll in the Glasgow School of Art, the finest art institution in all of Britain, directed, at that time, by Francis Newbery. Newbery, who also never got along too well with Jessie, had an open mind to innovation and change. And, perhaps oddly for a man of the Victorian era, he believed so much in women and their work that he employed several teachers, including his wife Jessie Newbery, in the courses at the institute. The lecturers and teachers were more practicing artists than certified art masters. He founded an art club that allowed students to get out of the national art school class. His idea was to ensure training in the techniques proper to the tradition, so that each individual would develop a talent that was unique and complete. And it was in the study of these craft techniques that King engaged at the beginning of her time at the school, particularly in book decoration and binding, without, however, having any particular success. It was only when she began to devote herself to illustration, experimenting and refining line and stroke, that her talent exploded, thanks to a technique made up of two-dimensionality, supple line, and elegant and detailed form.

In 1898 she participated in the annual South Kensington competition, securing the silver medal. It was a window of great importance to the European art world and it was from there that the doors to the international art scene opened wide for her. She began to receive commissions from the Berlin publishing house Globus Verlag, and then participated, in Turin, in April 1902, in the First International Exhibition of Modern Decorative Art with two works in the Glasgow School section - a screen designed by George Logan and embellished with her drawings, and the binding of a book done in gold on white vellum, L'Evangile de l'Enfance, which won her first prize. From this time on, commissions as an illustrator followed impressively. Of all of them perhaps the most important was for The Defense of Geneva and Other Poems, a collection of poems by William Morris, first published in 1858. In it, King was inspired primarily by the artist Aubrey Vincent Beardsley, who had drawn so much from the Japanese style. But, above all, she inserted all that she was and believed in - medieval legends, folk lore, myth, and tales from the Breton cycle. The perfectly detailed images are embedded in intricate naturalistic decorations, with roses, birds, leaves, stars and petals. The same strands of roses and stars, swooping swallows and delicate lilies make up the frames of the pages. Jessie King was also responsible for the binding - in dark red cloth with, on the front plate, the figure of a Guinevere in gold with outstretched arms within a halo of stars - and the littering, drawing in Jessie Rowat Newbery's style from 17th-century tombstone inscriptions.

Called to teach at the Glasgow School of Art in the book decoration department she met her future husband, painter and designer Earnest Archibald Taylor. The two married in 1908, moved to Stanford - where daughter Merle was born - but in 1910 decided to move to Paris. Here, intending to stay permanently, they founded the Sheiling Atelier, a school of decorative arts, in Montmartre. In the French capital, Jessie Marion King underwent a decisive change: inspired by the Russian artist Léon Bakst, she introduced color into her illustrations for the first time. A most important change, visible in all its beauty, in the work done on The House of Pomegranates, a collection of short stories by the writer Oscar Wilde, republished in this new guise in 1915. Despite the initial idea, at the outbreak of World War I, King and Taylor decided to return to Scotland. They settled in Kirkcudbright, a small fishing village that the painter E. A. Hornel had turned into an artists' community. Here, Jessie began to devote herself to decorating pottery, designing jewelry for the London firm Liberty, printing textiles, making clothes and murals, creating the absolute artist profile the world knows today. Dating from this period is How Cinderella Was Able to Go to the Ball, a small book on batik, an Indonesian technique of dyeing fabric, consisting of careful explanations and similarly careful illustrations. In the book, Cinderella finally, without waiting for any godmother, fairy or help from anyone, without compromise or blackmail, uses batik to make her own dress and go to the ball. As if to say that art and knowledge are the tools through which women can finally gain independence and control over their lives.

Jessie Marion King died in Kirkcudbright on August 3, 1949. She was a free woman and dreamer - a complete and visionary artist. She had a great acumen and sheer skill in drawing that allowed her to range in technique and material without ever detracting, however, from the very high qualities of her work. She became internationally known, not only because during her lifetime she received commissions from all over the world that enabled her to exhibit her works in Europe, America and India. She was international above all because she had the profound ability and intelligence to draw inspiration from countless places and traditions - from Scotland to Russia, from Japan to Italy, from Léon Bakst to Sandro Botticelli. She illustrated the magical and the dreamlike. And she proved, finally, that fairies do exist.

 

Sottocategorie

 

 

 Wikimedia Italia - Toponomastica femminile

    Logo Tf wkpd

 

CONVENZIONE TRA

Toponomastica femminile, e WIKIMEDIA Italia