La Leonessa d'Italia - Prima Parte

“Leonessa d’Italia, Brescia grande e infelice” scrive Aleardi nel 1857 nei Canti Patrii e “Brescia leonessa d’Italia beverata nel sangue nemico” la definisce vent’anni dopo il ben più noto Carducci nelle Odi barbare.

L’epiteto “leonessa d’Italia” o, più brevemente, “ la leonessa” si è fortemente radicato e viene ancora oggi comunemente usato nel parlato locale – benché in realtà lo stemma cittadino raffiguri invece un leone rampante – oltre a essere il nome di un quartiere periferico cittadino, il Villaggio Leonessa appunto, edificato nel 1926, con il nome di Villaggio Littorio, e opportunamente rinominato dopo la fine del regime fascista. Un altro simbolo della città è la Vittoria Alata, una statua ellenistica in bronzo risalente al III secolo a.C., probabilmente proveniente dalla Grecia, che rappresenta una Nike cui sono state successivamente aggiunte le ali, ritrovata nel 1826 e fatta sfilare, issata su un carro e accompagnata dalla banda e dalle campane a festa, alla presenza delle massime autorità locali, per le vie della città con tutti gli onori, e successivamente esposta nell’ex convento di San Domenico e attualmente conservata al Museo della città.
Contrasta con questa pervasiva presenza simbolica femminile nell’immaginario collettivo locale l’odonomastica cittadina; su 1598 intitolazioni di strade e piazze solo 36 sono dedicate a donne, su 57 giardini e parchi solo uno è intitolato a una donna, Oriana Fallaci. In sintesi: 37 intitolazioni a donne su un totale di 1656. Curiosamente un’intitolazione pare rispettare un principio di gender balance, per il resto del tutto assente, dedicando luoghi della città ai santi Francesco. L’ordine è però, anche letteralmente, mantenuto: il nome maschile precede quello femminile.

Carolina Bevilacqua di Claudia Speziali
Nei luoghi della città madonne, sante, suore e benefattrici religiose, fondatrici di ordini religiosi fanno la parte del leone, sono ben 14 su 37, da quelle locali come Sant’Angela Merici e Santa Maria Crocifissa di Rosa a quelle non specificamente legate al territorio come Sant’Anna, Santa Caterina e Santa Chiara; un dato che riflette la forte matrice cattolica della città. Un rilievo decisamente più scarso hanno le patriote – solo due: Carolina Bevilacqua e Angela Contini – in una Brescia che deve il proprio appellativo di Leonessa all’ampia e coraggiosa partecipazione popolare, anche femminile, alle cosiddette Dieci Giornate del 1849 e al movimento risorgimentale.

Angela Contini di Claudia Speziali
Non mancano figure forti, donne di potere, come la regina Ansa, moglie di Desiderio, fondatrice del Monastero di Santa Giulia, di cui sarà badessa la figlia Anselperga e in cui un’altra figlia, Ermengarda, ripudiata da Carlo Magno, morirà; e come Brigida Avogadro, nobildonna bresciana, la quale durante l’assedio di Brescia del generale Nicolò Piccinino nel 1438, avrebbe incitato alla resistenza i bresciani apparendo in mezzo ai combattenti con la lancia in mano, sugli spalti. Si tratta però di donne lontane nel tempo, dai caratteri più mitici che storici. Del resto la regina Ansa si merita l’intitolazione non tanto in quanto regina, piuttosto quanto longobarda – vi sono per esempio anche una via re Rotari e una via re Desiderio –nel contesto di un processo di “invenzione della tradizione” che ha caratterizzato negli ultimi decenni la “riscoperta” dei Longobardi in chiave identitaria.

Regina Ansa di Claudia Speziali
Tuttavia, man mano che il passato diviene meno remoto, assumono sempre minore rilievo donne attive in ambiti tradizionalmente ritenuti maschili; fra le cinque donne letterate due – Laura Cereto e Veronica Gambara – sono figure rinascimentali, mentre le tre donne del Novecento sono, rispettivamente, una premio Nobel per la letteratura – Grazia Deledda – un’altra una scrittrice piuttosto convenzionale – Ada Negri – e l’ultima – Nella Berther – prima che letterata e operatrice culturale di fama prevalentemente locale, insegnante, ovvero operante in una istituzione e in una professione entrambe fortemente femminilizzate e comunque in uno spazio pubblico ritenuto socialmente accettabile per le donne. A loro si aggiunge la presenza di tre educatrici e pedagogiste che hanno operato in città tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento: le sorelle Rosa e Carolina Agazzi, che elaborano e sperimentano un innovativo modello di scuola materna, e Sofia Testi, direttrice scolastica a Brescia, che istituisce corsi per ragazzi svantaggiati e una scuola per operaie.

Angiolina Ferrari di GiovannaBertazzoli
Rientra in un profilo decisamente convenzionale Angiolina Ferrari, figlia di un industriale locale, il quale a partire dal 1952 dona a più riprese all’Ospedale Civile di Brescia, inaugurato l’anno precedente, somme cospicue destinate all’acquisto di attrezzature chirurgiche e radiologiche per la creazione di un “centro di chirurgia nervosa”. Il padre, Roberto Ferrari, intitola alla figlia addirittura un intero quartiere, il Villaggio Ferrari, costruito fra il 1936 e il 1938, su un’area di 35 mila metri quadrati. L’operazione si propone come esperimento d’avanguardia di edilizia operaia e è promossa per dare alloggi ai lavoratori impiegati nel vicino Calzificio Ferrari. L’insediamento è costituito da 40 edifici di varia tipologia e da un palazzo centrale con torretta che domina il villaggio, ospitando negozi per il quartiere e l’ufficio postale. Alcuni studiosi hanno identificato nel villaggio Ferrari uno degli esempi emblematici sul territorio di paternalismo industriale “protetto”, in linea cioè con le politiche sociali del fascismo. Nel 1954, con la chiusura del Calzificio, molti dei residenti abbandonano il villaggio, non potendo acquistare le villette che vengono messe in vendita.

segue seconda parte