Margita Figuli

Laura Candiani


Grafica di Giada Ionà

Mi chiamo Margita, Margita Šustrová; sono nata nel nord della Slovacchia il 2 ottobre 1909. La mia era una famiglia umile, di contadini, ma a me piaceva studiare, quindi con un po' di sacrificio ho potuto frequentare un istituto tecnico commerciale fino al diploma. Però avevo un sogno: avrei tanto voluto specializzarmi nella pittura, magari nella città più bella del mondo (o almeno così la immaginavo): Praga. Evidentemente le mie doti erano modeste e non passai l'esame per ottenere la borsa di studio. Pazienza. Mi dedicai allora a un altro tipo di arte: la musica e frequentai corsi di pianoforte al conservatorio. Ormai avevo una ventina d'anni e i miei non potevano continuare a mantenermi: dovevo trovarmi un lavoro. C'era stata di mezzo anche la guerra e la situazione in Slovacchia -come ovunque in Europa- non era delle migliori. Riuscii a inventarmi un mestiere qualsiasi, non era il massimo e certo non corrispondeva alle mie ambizioni, ma mi dovetti accontentare. Mi trasferii nella nostra antica capitale Bratislava, dove mi occupavo di traduzioni commerciali dall'inglese in una banca. Poi finalmente arrivò una svolta. Eravamo nei primi anni Trenta e alcuni miei modesti scritti in prosa e in poesia cominciarono a essere pubblicati su riviste locali. Il sogno di lavorare con la penna piano piano si stava avverando. Decisi di dedicarmi sul serio alla scrittura. Mi sposai con Jozef Suster e mi trovai un nome d'arte: diventai Margita Figuli. Di lì a poco – nel 1936 e nel '37 – riuscii a pubblicare le mie prime opere che mi dettero un minimo di visibilità: Uzlík tepla (Una piccola borsa termica) e Pokušenie (Tentazione), raccolta di dieci novelle in cui inserii tematiche legate al mondo femminile.

Non era un periodo facile: in Europa si faceva avanti lo spettro lugubre di una nuova guerra, Stalin guidava il suo popolo con mano ferma (talvolta poi ho pensato che fosse un tiranno... ma non lo si poteva dire), mentre la Germania nazista si mostrava in tutta la sua aggressività. Nonostante questa situazione preoccupante, che pesava sui nostri animi ma anche sull'economia e la vita sociale, io scrivevo con rinnovato fervore. Fu così che uscì nel 1940 quello che probabilmente è rimasto il mio successo più bello: Tri gaštanové kone (Tre cavalli bai). Ci avevo messo tutto il mio impegno e la mia inventiva ed ero riuscita a introdurre nella trama elementi ispirati al folklore della mia terra e alle ballate tradizionali. Si tratta di una vicenda disseminata di ostacoli che mette in scena un triangolo amoroso composto di due uomini e una donna, con molti riferimenti biblici, un raffinato erotismo e un'atmosfera lirico-poetica. È una storia breve, di poco più di 100 pagine, in cui i protagonisti crescono e maturano spiritualmente attraverso eventi tragici per giungere al lieto fine. I tre cavalli del titolo sono simboli che vogliono rappresentare la bontà, la bellezza e la forza della natura, così come le tre stesse qualità umane sono conquistate grazie all'obbedienza al codice morale cristiano. La critica disse che era un racconto ricco di ritmo che riesce a mantenere con efficacia l'atmosfera del dramma in cui si fondono le dettagliate descrizioni delle foreste sui monti Tatra e l'ingenuo ottimismo della realtà contadina. Il libro fu assai apprezzato, tanto da essere ripubblicato sette volte nei sette anni successivi. Fu anche tradotto in varie lingue e mi ha fatto molto piacere sapere che dopo tanto tempo, agli inizi di questo 1995, è stato pubblicato in Italia da una casa editrice piccola ma (mi dicono) prestigiosa: la Sellerio di Palermo, a cura di Ida Bonetti che vorrei proprio ringraziare per aver pensato a me e al mio lavoro. È bello anche il titolo in italiano: Tre cavalli bai.

L'anno successivo lasciai per sempre il mio noioso lavoro in banca e scrissi un romanzo che mi procurò parecchi guai: Olovený vták ("L'uccello di piombo") perché trattava in chiave antimilitarista un tema di grande attualità, cioè la recente invasione della Polonia da parte delle truppe del Terzo Reich che di fatto aveva dato il via al conflitto; nel '42 uscì Tri noci a tri sny ("Tre notti e tre sogni"), ma riuscii anche a realizzare il dramma radiofonico "Sogno sulla vita o vita di Shelley. Eravamo travolti dalla guerra che alla fine era scoppiata e certo non c'erano né tempo né voglia di pensare alla letteratura e a scrivere con la preoccupazione della fame e della morte incombente. Per guadagnare qualcosa feci alcune traduzioni delle opere di scrittori cechi molto noti come Karel Čapek e Karel Jaromír Erben.

Finalmente la guerra finì: il nuovo ordine mondiale divise la nostra Europa in due, ed io rimasi al di qua (o al di là, secondo il punto di vista) della cosiddetta cortina di ferro. Mi dedicai allora a un'impresa veramente faticosa, articolata e lunga, che mi è costata molte ricerche: si tratta di un ampio romanzo storico, Babylon, suddiviso in 4 volumi, che vide la luce nel 1946 e che trae ispirazione dalla storia dell'Impero caldeo. Le complesse vicende e le informazioni sui personaggi reali e immaginari illustrano la crisi sociale e morale dell'epoca, dovuta al potere assoluto e all'estinzione dell'antico impero, con evidenti allusioni al presente. Ho voluto inserire come elemento centrale anche il conflitto tra il politeismo caldeo e il monoteismo ebraico, una tematica spirituale e religiosa che mi sta parecchio a cuore. Qualche anno dopo, nel '56, l'opera fu ripubblicata in una nuova versione, dal momento che la critica di regime lo aveva ritenuto un romanzo "puramente estetico". Comunque avevo ottenuto il "premio nazionale" grazie proprio a questo libro che risulta essere fra i miei più noti e più tradotti, soprattutto nelle lingue dell'Est europeo: russo, polacco, ceco, sloveno, ungherese, bulgaro.

Nel '64 ho avuto nel mio Paese il premio "artista meritevole" e nel '74 il premio "artista nazionale". Ma io sono una donna semplice e non mi sono mai montata la testa. Confesso però che mi sono divertita a utilizzare qualche volta, per confondere un po' la critica e il pubblico, un altro pseudonimo, molto carino a dire la verità: Ol'ga Morena, che ha un'aria vagamente esotica e mi può far scambiare per una spagnola o una russa. Chissà. Con questa nuova veste ho anche pubblicato libri per ragazzi e ragazze: nel '63 La mia prima lettera, nel '64 Ariadnina nit e nel 1980 Ballata di Juro Janosik (scritta in versi), mentre nel '56 era uscito il mio diario autobiografico romanzato: Gioventù. Il mondo della musica che ho tanto amato e frequentato mi ha offerto una bella occasione quando ho potuto comporre il libretto per un balletto di Simon Jurovsky, dal titolo Ballata dei cavalieri (1959). Qui ho inserito le mie varie passioni: la storia e le tradizioni del mio popolo, i miti, la fede, la rielaborazione fantastica.

La mia ultima opera è stato il romanzo Víchor v nás (Vento impetuoso in noi, 1974), in cui ho descritto il mondo femminile nella regione di Orava attraverso la drammatica vicenda di una madre che subisce violenza da parte di un brutale soldato nazista. Francamente le reazioni della critica non sono state molto positive: io avevo cercato di utilizzare come metodo di scrittura il realismo socialista, unendo il documento umano al mito, ma forse i tempi stavano mutando e non sono riuscita nell'intento di aggiornare la mia vena artistica. Da allora, anche un po' delusa, non ho più pubblicato nessun testo in prosa, e sono passati ormai vent'anni. Sono anziana e stanca. Il mondo è cambiato e non lo riconosco più: il muro di Berlino è stato abbattuto, l'Unione europea si è allargata, la vecchia Urss si è suddivisa in tanti Stati. Il mio Paese ha affrontato in questo XX secolo momenti molto difficili: dall'uccisione di Masaryk alla primavera di Praga con Dubček, in cui avevamo riposto tante speranze. Ma ora anche da noi c'è la democrazia e da due anni siamo indipendenti dalla repubblica ceca. Ed io, fiduciosa, assisto da Bratislava ai nuovi eventi.

 

Traduzione francese
Patricia Aubry e Michel Bedu

Je m’appelle Margita, Margita Sustrová; je suis née dans le nord de la Slovaquie le 2 octobre 1909. Ma famille était une famille humble, de paysans, mais j’aimais étudier, donc avec un peu de sacrifice j’ai pu fréquenter un institut technico-commercial jusqu’au diplôme. Mais j’avais un rêve; j’aurais tant voulu me spécialiser dans la peinture, peut-être dans la ville la plus belle du monde (du moins l’imaginais-je ainsi): Prague. Évidemment mes ressources étaient modestes et je n’ai pas reussi l’examen pour obtenir la bourse d’étude. Patience. Je me dédiais alors à un autre type d’art : la musique et suivait des cours de pianoforte au conservatoire. J’avais désormais une vingtaine d’années et les miens ne pouvaient continuer à subvenir à mes besoins : je devais me trouver un travail. Il y avait aussi la guerre et la situation en Slovaquie - comme partout en Europe - ce n’était pas le meilleur moment. J’ai réussi à prendre n’importe quel métier, ce n’était pas le meilleur et ne correspondait certainement pas à mes ambitions, mais je devais m’en contenter. J’ai déménagé dans notre ancienne capitale Bratislava, d’où je m’occupais de traductions anglaises dans une banque. Puis finalement, la chance tourna. Nous étions au début des années trente et certains de mes modestes écrits en prose et en poésie commencèrent à être publiés dans des magazines locaux. Le rêve de travailler de ma plume petit à petit se réalisait. J’ai décidé de me consacrer sérieusement à l’écriture. J’épousai Josef Susteret et me trouvais un nom d’artiste: je devins Margita Figuli. Un peu plus tard, en 1936 et 1937, je réussis à publier mes premiers travaux qui m’ont donné un minimum de visibilité : Uzlík tepla (Un petit sac isotherme) et Pokusenie (Tentations), recueil de dix nouvelles dans lequel j’insérai des thèmes relatifs au monde féminin.

Ce n’était pas une période facile : en Europe s’avançait le spectre lugubre d’une nouvelle guerre, Staline tenait son peuple d’une main ferme (parfois alors je pensais qu’il était un tyran...mais on ne pouvait pas le dire), tandis que l’Allemagne nazie se montrait dans toute son agressivité. Malgré cette situation préoccupante, qui pesait sur nos âmes mais aussi sur l’économie et la vie sociale, j’écrivais avec une ferveur renouvelée. Ce fut ainsi que sorti en 1940 celui qui est resté probablement mon succès le plus beau: Tri gastanové kone (Trois chevaux bai). J’y avais mis tous mes efforts et mon inventivité et avait réussi à introduire dans la trame des éléments inspirés du folklore de ma terre et des balades traditionnelles. Il s’agit d’une histoire parsemée d’obstacles qui mettent en scène un triangle amoureux composé de deux hommes et une femme, comprenant de nombreuses références bibliques, un erostisme raffiné et une atmosphère lyrico -poétique. C’est une histoire brève, d’un peu plus de 100 pages, dans laquelle les protagonistes grandissent et mûrissent spirituellement à travers des événements tragiques jusqu’à atteindre une fin heureuse. Les trois chevaux du titre sont les symboles qui veulent représenter la bonté, la beauté et la force de la nature, tout comme les mêmes qualités humaines sont obtenues grâce à l’obéissance au code moral chrétien. Les critiques ont dit que c’était une histoire pleine de rythme qui parvient à maintenir avec efficacité l’atmosphère du drame dans lequel les descriptions détaillées des forêts dans les montagnes du Tatra et l’optimisme naïf de la réalité rurale se confondent. Le livre a été tant apprécié qu’il fut publié sept fois durant sept ans. Il a été aussi traduit en différentes langues et j’étais très heureuse de savoir longtemps après, au début de 1995, qu’il a été publié en Italie par une petite maison d’édition mais (je me dit) prestigieuse: la Sellerio di Palermo, édité par Ida Bonetti que j’aimerais remercier pour avoir pensé à moi et à mon travail. Le titre est beau aussi en italien : Tre cavalli bai.

L’année suivante j’ai quitté mon travail ennuyeux à la banque et j’ai écrit un roman qui m’a causé beaucoup de problèmes : Oloveny vták (L’oiseau de tête) parce qu’il traitait d’un thème anti-militariste de grande actualité, c’est à dire la récente invasion de la Pologne par les troupes du Troisième Reich qui ce fait avait lancé le conflit ; en 42 sortit Tri noci a tri sny (Trois nuits et trois rêves), mais j’ai aussi pu réaliser le drame radiophonique Rêver de la vie ou de la vie de Shelley. Nous avons été submergés par la guerre qui a finalement éclaté et il n’y avait certainement plus ni le temps ni l’envie de penser à la littérature et d’écrire dans l’ombre de la faim et de la mort imminentes. Pour gagner un peu d’argent, je fis quelques traductions de travaux d’écrivains tchèques très connus comme Karel Capek et Karel Jaromír Erben.

Finalement la guerre a prit fin: le nouvel ordre mondial a divisé notre Europe en deux, et je suis resté du côté (ou de l’autre côté, suivant le point de vue) du soi-disant rideau de fer. Je me suis alors consacrée à une entreprise vraiment fatiguante, complexe et longue, qui m’a demandé beaucoup de recherches : il s’agit d’un long roman historique, Babylon, divisé en 4 volumes, qui a vu le jour en 1946 et qui puise son inspiration de l’histoire de l’Empire Chaldéen. Les événements complexes et les informations sur les personnages réels et imaginaires illustrent la crise sociale et morale de l’époque, due au pouvoir absolu et à l’extinction de l’ancien empire, avec d’évidentes allusions au présent. J’ai voulu aussi ajouter comme élément central le conflit entre le polythéisme chaldéen et le monothéisme juif, une thématique spirituelle et religieuse qui me tient à cœur. Quelques années plus tard, en 56, l’œuvre a été republiée dans une nouvelle version, dans la mesure où la critique du régime l’avait retenue comme un roman « purement esthétique». Cependant j’avais obtenu le « prix national » grâce à ce livre qui s’avère être l’un de mes plus connus et plus traduits, surtout dans les langues d’Europe de l’Est : russe, polonais, tchèque, slovène, hongrois, bulgare.

J’ai reçu en 64 dans mon pays, le prix «artiste méritante» et en 74 le prix «artiste nationale». Mais je suis une femme simple et cela ne m’est pas monté à la tête. Mais je confesse que quelques fois je me suis amusée à utiliser, pour tromper un peu la critique et le public, un autre pseudonyme, très charmant à dire vrai: Ol’ga Morena, qui a un air vaguement exotique et peut me faire passer pour une espagnole ou une russe. Qui sait. Sous cette nouvelle identité, j’ai publié des livres pour garçons et filles: en 63 La première lettre, en 64 Ariadnina et en 1980 Balade de Juro Janosik (écrite en vers), tandis qu’en 56, était sorti mon journal autobiographique romancé : Jeunesse Le monde de la musique que j’ai tant aimé et fréquentée m’a offert une belle occasion lorsque j’ai pu composer le livret pour un ballet de Simon Jurovsky, intitulé Balade des cavaliers (1959). Là, j’y ai inséré mes vraies passions: l’histoire et les traditions de mon peuple, les mythes, la foi, la résilience fantastique.

Ma dernière œuvre a été le roman Vichor v nás (Vent impétueux intérieur, 1974), dans lequel j’ai décrit le monde féminin dans la région d’Orava à travers l’histoire dramatique d’une mère qui subit la violence d’un soldat nazi. Franchement, les réactions de la critique n’ont pas été très positives : j’avais cherché à utiliser comme méthode d’écriture le réalisme socialiste, unissant le document humain au mythe, mais peut-être les temps étaient en train changer et je n’ai pas réussi à renouveler ma veine artistique. Dès lors, un peu désappointée, je n’ai plus publié aucun texte en prose, et vingt ans ce sont écoulés maintenant. Je suis âgée et fatiguée. Le monde a changé et je ne le reconnais plus: le mur de Berlin a été abattu, l’Union Européenne s’est élargie, la vieille URSS s’est scindée en plusieurs états. Mon pays a affronté durant ce XX siècle des moments très difficiles: de l’assassinat de Masaryk au printemps de Prague avec Dubcek, dans lequel nous avions placé tant d’espoirs. Mais maintenant nous sommes aussi en démocratie et depuis deux ans nous sommes indépendants de la République tchèque. Et moi, confiante, j’assiste aux nouveaux événements de Bratislava.

 

Traduzione inglese
Francesca Campanelli

My name is Margita, Margita Šustrová; I was born in the north of Slovakia on 2nd October, 1909. Mine was a humble family of peasants, but I liked studying, so with a little sacrifice I was able to attend a technical-commercial institute until I graduated. But I had a dream: I wanted so much to specialize in painting, perhaps in the most beautiful city in the world (or as I imagined it): Prague. Evidently my skills were modest, and I did not pass the exam to get the scholarship. Patience. I then devoted myself to another type of art: music and attended piano courses at the conservatory. I was about twenty years old at that time and my parents could not keep supporting me: I had to find a job. There was also war involved and the situation in Slovakia - as everywhere in Europe - was not the best. I managed to invent any profession, it was not the best and certainly did not correspond to my ambitions, but I had to be satisfied. I moved to our ancient capital Bratislava, where I was doing business translations from English in a bank. Then finally came a turning point. It was in the early 1930s and some of my modest prose and poetry writings began to appear in local magazines. The dream of working with the pen slowly was coming true. I decided to devote myself seriously to writing. I married Jozef Suster and I found a stage name: I became Margita Figuli. Shortly thereafter - in 1936 and in 1937 - I managed to publish my first works that gave me a minimum of visibility: Uzlík tepla (A small cooler) and Pokušenie (Temptation), a collection of ten short stories in which I inserted related themes to the female world.

It was not an easy period: in Europe the gloomy spectre of a new war was coming forward, Stalin led his people with a firm hand (sometimes I thought he was a tyrant ... but it could not be said), while Germany Nazi showed himself in all his aggression. Despite this worrying situation, which weighed on our souls but also on the economy and social life, I wrote with renewed fervour. So it was that in 1940 what probably remained my best success came out: Tri gaštanové kone (Three horses bai). I had put all my effort and inventiveness into the plot, and I was able to introduce elements inspired by the folklore of my land and traditional ballads into the plot. It is a story strewn with obstacles that stages a love triangle made up of two men and a woman, with many biblical references, a refined eroticism, and a lyrical-poetic atmosphere. It is a short story, just over 100 pages, in which the protagonists grow and mature spiritually through tragic events to reach the happy ending. The three horses of the title are symbols that want to represent the goodness, beauty and strength of nature, just as the three same human qualities are conquered thanks to obedience to the Christian moral code. The critics said it was a story full of rhythm that manages to effectively maintain the atmosphere of the drama in which the detailed descriptions of the forests in the Tatra mountains and the naive optimism of rural reality merge. The book was much appreciated, so much so that it was republished seven times in the following seven years. It was also translated into various languages and I was very pleased to know that after a long time, at the beginning of this 1995, it was published in Italy by a small but (they tell me) prestigious publishing house: the Sellerio of Palermo, edited by Ida Bonetti whom I would like to thank for thinking about me and my work. The title in Italian is also beautiful: Tre cavalli bai.

The following year I left my boring job in the bank forever and wrote a novel that caused me a lot of trouble: Olovený vták ("The lead bird") because it dealt with an anti-militarist theme of great relevance, namely the recent invasion of Poland by the troops of the Third Reich which in fact started the conflict; in '42 Tri Nuts a tri sny ("Three nights and three dreams") was released, but I also managed to make the radio drama "Dream about the life or life of Shelley. We were overwhelmed by the war that finally broke out and certainly not there it was neither time nor desire to think about literature and to write with the worry of hunger and impending death. To earn some money I made some translations of the works of well-known Czech writers such as Karel Čapek and Karel Jaromír Erben.

Finally the war ended: the new world order divided our Europe in two, and I remained on this side (or on the other side, according to the point of view) of the so-called Iron Curtain. I then devoted myself to a truly tiring, complex, and long undertaking, which cost me a lot of research: it is a large historical novel, Babylon, divided.

Mary Meilak

Laura Bertolotti


Grafica di Giada Ionà

La poeta Mary Meilak si staglia nel panorama letterario maltese della prima metà del Novecento come unica voce femminile. Nacque a Victoria, capoluogo di Gozo, un'isola dell'arcipelago, il 9 agosto 1905 e lì compì i suoi studi, lavorando poi in uffici governativi e diventando successivamente insegnante. Cominciò a scrivere poesie nel 1930 e pubblicò la prima raccolta nel 1945, A Pledge to Joy. I critici hanno rilevato nella sua poetica l'assenza di quell'ansia esistenziale tipica dei conterranei, lei usò invece un tocco leggero e tecnicamente interessante, rifacendosi alla metrica araba e ricorrendo all'utilizzo della rima, alle onomatopee e alle allitterazioni per produrre versi melodiosamente semplici e apparentemente infantili. I suoi temi più cari furono la natura e la religione, trasfigurati da una lente fantastica.

Si può affermare che, nell'ambito della letteratura maltese, Meilak occupi uno spazio interessante non solo perché fu la prima donna a pubblicare poesie, infrangendo il cliché sociale che vedeva la donna predestinata a essere moglie e madre, ma proprio per il suo stile. Grande fu la distanza dagli autori maltesi del tempo, come si è detto, anche perché i suoi versi sono completamente privi di pessimismo, trovò infatti motivo di riso persino nei momenti di tristezza. Nelle sue poesie si respirano felicità e ottimismo anche se la sua vita attraversò i difficili anni di guerra, nell'infanzia e nell'età adulta.

Una poesia di Mary Meilak. Vida Magazine.

In alcuni suoi scritti, ancora non pubblicati, emerge un forte elogio all'impero britannico, per la funzione che ebbe di baluardo nei confronti dei maltesi. Questo aspetto patriottico della sua scrittura si affianca a vere e proprie storie sui villaggi di Malta e Gozo, testi tuttora molto letti ai giorni nostri perché presenti nei libri scolastici per l'infanzia. Oltre alle poesie scrisse alcuni racconti, Let's Reason and Smile, e tre romanzi: Black Locks, St Nicolas of Venturi, The Twins of Vittoriosa. Collaborò per diversi anni con la rivista religiosa "The Voice of Thruth" e i suoi scritti a tema religioso furono raccolti in volume solo nel 2005. Mary Meilak non aveva timore di misurarsi in ambiti diversi e amava altresì mettersi in gioco nei concorsi letterari, dove sovente riuscì a qualificarsi ai primi posti. Si spense il 1° gennaio 1975 e, nel centenario della sua nascita, le fu dedicato un memoriale a Victoria. Come molte voci femminili non ha ancora trovato, nel nostro Paese, un suo spazio editoriale, ma l'auspicio è che venga infine tradotta così da apprezzarne il valore e restituirle la meritata visibilità.

La targa commemorativa per il centenario della nascita di Mary Meilak a Gozo, Malta.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

La poète Mary Meilak s'est démarquée dans le paysage littéraire maltais de la première moitié du XXe siècle comme la seule voix féminine. Elle est née à Victoria, la capitale de Gozo, une île de l'archipel, le 9 août 1905 et là, elle a terminé ses études, puis a travaillé dans les bureaux du gouvernement et est devenue plus tard une enseignante. Elle a commencé à écrire de la poésie en 1930 et a publié son premier recueil en 1945, A Pledge to Joy. Les critiques ont noté dans sa poétique l'absence de cette angoisse existentielle typique de ses compatriotes, elle a plutôt utilisé une touche légère et techniquement intéressante, se référant à la métrique arabe et recourant à l'utilisation de rimes, d'onomatopées et d'allitérations pour produire des vers mélodieux, simples et apparemment enfantins. Ses thèmes les plus chers étaient la nature et la religion, transfigurées par une loupe fantastique.

On peut dire que, dans le contexte de la littérature maltaise, Meilak occupe un espace intéressant non seulement parce qu'elle a été la première femme à publier de la poésie, brisant le cliché social qui voyait la femme prédestinée à être épouse et mère, mais plutôt par son style. La distance avec les auteurs maltais de l'époque était grande, comme déjà dit, aussi parce que ses vers sont complètement dépourvus de pessimisme, en fait, elle trouvait des raisons de rire même dans les moments de tristesse. Dans ses poèmes, vous pouvez respirer le bonheur et l'optimisme même si sa vie a traversé les années difficiles de la guerre, de l'enfance et à l'âge adulte.

Un poème de Mary Meilak. Vida Magazine.

Dans certains de ses écrits, encore inédits, il y a un grand éloge à l'Empire britannique, pour la fonction qu'il a eu comme protection pour les Maltais. Cet aspect patriotique de son écriture se conjugue à de vraies histoires sur les villages de Malte et de Gozo, textes encore largement lus aujourd'hui car ils sont présents dans les manuels scolaires pour enfants. En plus des poèmes, elle a écrit quelques nouvelles, Let's Reason and Smile, et trois romans: Black Locks, St Nicolas of Venturi, The Twins of Vittoriosa. Elle collabore pendant plusieurs années avec le magazine religieux "The Voice of Thruth" et ses écrits sur le thème religieux n'ont été rassemblés en volume qu'en 2005. Mary Meilak n'avait pas peur de se mesurer dans différents domaines et aimait également s'impliquer dans des concours littéraires, où elle réussissait souvent à se qualifier dans les premières places. Elle décède le 1er janvier 1975 et, pour le centenaire de sa naissance, un mémorial lui est dédié à Victoria. Comme beaucoup de voix féminines, elle n'a pas encore trouvé son propre espace éditorial dans notre pays, mais on espère qu'elle sera enfin traduite afin d'apprécier sa valeur et lui donner une visibilité méritée.

La plaque commémorative du centenaire de la naissance de Mary Meilak à Gozo, Malta.

 

Traduzione inglese
Cettina Callea

The poet Mary Meilak stood out as the only female voice in the Maltese literary landscape during the first half of the twentieth century. She was born August 9, 1905 in Victoria, the capital of Gozo, an island in the Maltese archipelago, and completed her studies there. She then worked in government offices, later becoming a teacher. She began writing poetry in 1930 and published her first collection, A Pledge to Joy in 1945. Critics have noted the absence of existential anxiety, typical of Maltese poets, in her poetry. She instead used a light and technically interesting touch, reflecting the Arabic metric and resorting to the use of rhyme, onomatopoeias and alliterations to produce melodious verses, both simple and even seemingly childish. Her most cherished themes were nature and religion, transfigured though a fantastic lens.

It can be said that, in the context of Maltese literature, Meilak occupies an interesting place not only because she was the first woman to publish poetry, breaking the social cliché that saw women as predestined to be a wife and mother, but precisely because of her style. Her distance from the Maltese authors of the time was also great because, as has been said, her verses are completely devoid of pessimism. In fact, she found reasons to laugh even in moments of sadness. You can sense happiness and optimism in her poems, even though her life included difficult years of war, in childhood and adulthood.

a poem by Mary Meilak. Vida Magazine.

In addition to poems she wrote some short stories, collected as Let's Reason and Smile, and three novels: Black Locks, St. Nicolas of Venturi, and The Twins of Vittoriosa. She collaborated for several years with the religious magazine The Voice of Truth. Her religious-themed writings were collected in a volume only in 2005. Mary Meilak was not afraid of competing in different environments, and also loved to get involved in literary competitions, where she often managed to qualify for the first places. She died on 1 January 1975 and, on the centenary of her birth, a memorial was dedicated to her in Victoria. As is true for so many female voices, she has still not found her own editorial space in our country. But the hope is that she will finally be translated, to make it possible to appreciate her value and to restore her deserved visibility.

The commemorative plaque for the centenary of Mary Meilak's birth in Gozo, Malta.

 Calendaria 2021

Sophia De Mello

Giovanna Nastasi


Grafica di Giada Ionà

Vi è mai venuta la curiosità di osservare una poeta quando scrive? Di solito i suoi versi li troviamo già stampati sui libri con un carattere ben definito, con una bella copertina e delle note biografiche che riguardano l’autrice. Io, invece, vorrei portarvi nella sorgente dell’anima lì dove le parole si raccolgono intatte e pure come conchiglie sulla spiaggia. Sophia De Mello è stata una delle più importanti autrici portoghesi, vincitrice del premio Camoes, ma questa potrebbe essere una semplice notizia che dice tutto o niente… in apparenza. Scrittori e scrittrici delle terre di confine, delle isole che hanno un contatto diretto con il mare hanno qualcosa che rende unico il loro rapporto con la poesia e con l’ambiente circostante.

Lisbona è la città che ti fa comprendere le ragioni del viaggio, dell’attesa, dell’introspezione e di una quiete intoccabile. Ho provato tutte queste sensazioni ritrovando nella mia memoria un viaggio di tanti anni fa in Portogallo e osservando una foto in bianco e nero di Sophia de Mello. C’è una finestra aperta e sul davanzale delle macchinine da corsa, il cielo è limpido, sul fondo degli alberi sfocati. Lei è lì, seduta davanti a un semplice tavolo, con una tazza di tè, un pacchetto di sigarette, un posacenere, un libro aperto, pochi fogli, una sigaretta accesa tra le dita della mano sinistra, che libera nell’aria riccioli di fumo, nella destra una bic per comporre parole. Un maglioncino con uno scollo a V le lascia scoperto il collo, immortalato nell’attimo in cui il respiro più profondo porta indietro la gola e si fonde con un’espressione dolce, serena e senza tempo. Quando accade questo, nell’anima della poeta è avvenuto il miracolo. È l’attimo del perfetto equilibrio tra sé e il mondo, l’attimo in cui si è testimoni di una rivelazione, l’attimo in cui il tempo smette di essere perché la penna ti ha messo a cospetto dell’eternità. Ecco perché nella poesia La conchiglia di Kos, la valva del mitile assume un valore simbolico, smette di essere il niveo ornamento depositato dal mare per diventare la perfetta sintesi di tutte le atmosfere che hanno nutrito e creato lo spirito poetico:

«Questa conchiglia non l’ho raccolta su nessuna spiaggia
Ma nella mediterranea notte blu e nera
La comprai a Kos in un negozio lungo il molo
Vicino agli alberi oscillanti delle barche

E mi sono portata con me il fragore delle burrasche
Ma non sento in essa né le mareggiate di Kos né quelle di Egina
Solo il canto della vasta e lunga spiaggia
Atlantica e sacra
Dove per sempre la mia anima fu creata»

Quante volte abbiamo fatto quell’istintivo gesto di portare la conchiglia all’orecchio per sentire il suono del mare, un suono che ci ricorda qualcosa di familiare, un suono che conforta, quasi contenesse l’archetipo del battito fetale, capace di ricondurci all’acqua, intesa come liquido amniotico, che ha visto il nostro essere indistinto, inesistente, trasformarsi in persona. Il mare nei versi della poeta diventa un sicuro e accogliente ventre materno; infatti non c’è lo spavento delle mareggiate o delle burrasche ma semplicemente il suono di un canto, simile a una ninna nanna dove l’anima ha preso forma per sempre. L’avverbio, in questo caso, non indica semplicemente la durata nel tempo ma ferma il tempo sigillando un patto, un legame indissolubile. Cosi nella poesia Le Onde, i flutti sembrano giocare nel loro moto e non sono mai fonte di sconvolgimenti ma diventano ballerine:

«Le onde s'infrangevano una a una
Io stavo sola con la sabbia e con la spuma
Del mare che cantava soltanto per me»

Lisbona ha, da questo punto di vista, un doppio legame con l’acqua, essendo attraversata dal Tago e affacciata sull’Atlantico. Quando si visita la Torre bianca di Belem ben si comprende la ragione che spinse il re lusitano Enrico il navigatore a finanziare le spedizioni atlantiche che portano, tra l’altro, Bartolomeo Diaz a circumnavigare l’Africa, doppiando il capo di Buona Speranza e aprire, così, una nuova rotta verso le Indie. Si avverte nella città di mare il desiderio di un altrove, di procedere verso una destinazione, di nascere, in sostanza. Se il mare è il luogo della nascita, la poesia sigilla e rende eterna la vita stessa della poeta:

«La poesia mi condurrà nel tempo
Quando non sarò più l’abitazione del tempo
E passerò solitaria Dentro le mani di chi legge.
La poesia qualcuno la dirà
Alle messi
Il suo passaggio si confonderà
Come il rumore del mare con il passare del vento

La poesia abiterà
Lo spazio più concreto e più attento
Nell’aria chiara nelle sere trasparenti
Le sue sillabe rotonde
(O antiche o lunghe Eterne sere lisce)
Anche se morirò la poesia incontrerà
Una spiaggia dove infrangere le sue onde
E fra quattro pareti dense
Di profonda e divorata solitudine
Qualcuno il suo proprio essere confonderà
Con la poesia nel tempo»

Quando De Mello afferma che la poesia «abiterà/lo spazio più concreto e più attento/nell’aria chiara nelle sere trasparenti», cosa ci vuole comunicare esattamente? È possibile che la poesia abiti luoghi che sono predisposti a essere occupati da mobili, oggetti e persone? Cosa potrebbe significare? Le parole si comportano come ostetriche, segnano momenti di rinascita, di epifania come se ci offrissero l’opportunità di osservare la medesima realtà con occhi nuovi. Potrebbe sembrare un passaggio semplice ma, in realtà, presuppone una disconnessione da sé stessi/e e una successiva riconnessione attraverso la quale si modifica il modo di osservare noi stesse/i e il mondo. In sostanza si tratta di un processo di evoluzione. Non ci può essere una vita ricca senza una ricchezza di parole che spieghino nel dettaglio persino un intarsio. Forse, è possibile possedere poche parole ed essere ugualmente ricchi/e, a condizione che esse abbiano radici profonde e siano complementari agli occhi, alle mani e ai sorrisi che sono la testimonianza della nostra apertura al mondo. A questo proposito la filosofa Luce Irigaray parla proprio del «linguaggio come strumento per costituire il mondo o appropriarsene, o come mezzo per incontrare soggetti.

Il linguaggio dovrebbe aiutarci a portare a termine ciò che un albero fa senza ricorrere alle parole: realizzare ciò che è trasformando le sue radici in fiori e frutti». Il riferimento a un linguaggio generativo lo fa De Mello stessa rivolgendosi, direttamente, a lettori e lettrici: «E passerò solitaria dentro le mani di chi legge». Non è, forse, un invito ad assumere il suo stesso sguardo affinché la poesia sia luogo di incontro e rinascita? Ci si chiede: come si esercita l’attenzione? Ce lo spiega il filosofo francese Frederic Lenoir: «L’attenzione è anzitutto ciò che permette di essere connessi ai nostri sensi. Molto spesso siamo presi da mille problemi e, con la mente, così sovraccarica, non facciamo attenzione a quello che viviamo. Solo quando siamo attenti, ci lasciamo abitare dai nostri sensi: ascoltiamo, sentiamo e contempliamo. Siamo immersi nell’hic et nuc». Dunque, l’aria chiara e le sere trasparenti, di cui si parla nei versi precedenti, non assumono più un valore utilitaristico:

è una bella serata, esco;
è una bella serata faccio qualcosa;
è una bella serata incontro gli amici, ma questa sera limpida è il luogo del qui ed ora e rappresenta l’occasione in cui io mi immergo con tutta me stessa/o assumendone la chiarezza e la trasparenza. Ne divento parte e godo di un’armonia cosmica di cui spesso non abbiamo alcuna percezione. Ecco che la poesia diventa un luogo da abitare poiché si è trasformata in un cantuccio di riposo di riconnessione e di salvezza.
Scrive ancora De Mello:

«Un giorno spezzerò tutti i ponti,
Che legano il mio essere, vivo e totale,
All’agitarsi del mondo dell’irreale,
E calma salirò alle fonti.

Andrò fino alle fonti dove dimora
La pienezza, il limpido splendore
Che mi fu promesso a ogni ora,
E nel volto incompleto dell’amore.

Andrò a bere la luce e del sole il sorgere,
Andrò a bere la voce della promessa
Che a volte come un volo mi attraversa,
E là compirò tutto il mio essere»

Si porta a compimento la dimensione di gioiosa comunione con la poesia che conduce alla sorgente della vita, in cui il cuore della poeta batte allo stesso ritmo del cosmo:

«Le mie mani mantengono stelle,
Afferro la mia anima perché non si spezzi
La melodia che va di fiore in fiore,
Strappo il mare dal mare e lo pongo in me
E il battere del mio cuore sostiene il ritmo delle cose»

Ritorniamo all’inizio del nostro viaggio nell’anima di Sophia De Mello poiché manca un ultimo tassello: Lisbona. Ciascuno/a di noi è senza dubbio figlio/a della terra in cui nasce, ne porta con sé i profumi, i paesaggi, le malinconie, gli improvvisi sprazzi di luce. Il luogo d’origine riguarda, forse, anche il destino di ogni essere umano, se con questa parola non intendiamo un percorso scritto e ineluttabile, ma una vocazione da scoprire e compiere. La città lusitana è così: è il desidero del viaggio e la nostalgia del ritorno che ha un nome ben preciso A Saudade portuguesa, cantata attraverso la musica del fado che ha proprio nel destino il suo significato più profondo. Tutto il percorso iniziato con la descrizione della poeta alla finestra non poteva avere il suo naturale compimento se non nella lirica dedicata proprio a Lisbona:

«Lisbona che oscilla come una grande chiatta
Lisbona crudelmente costruita lungo la sua stessa assenza
Dico il nome della città
- Dico per vedere.»

Dire un nome è creare qualcosa che non c’è, scrivere poesie è fissare nel tempo ogni rinascita.

Targa commemorativa Sophia De Mello a Lisbona.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

Avez-vous déjà été curieux d'observer un poète lorsqu'il écrit? Habituellement, nous trouvons ses vers déjà imprimés sur des livres avec une police bien définie, avec une belle couverture et des notes biographiques concernant l'auteur. Moi, en revanche, je voudrais vous emmener à la source de l'âme où les mots se rassemblent intacts et purs comme des coquillages sur la plage. Sophia De Mello a été l'un des auteurs portugais les plus importants, lauréate du prix Camoes, mais cela pourrait être une simple nouvelle qui dit tout ou rien ... en surface. Les écrivaines et écrivains des terres frontalières, des îles qui ont un contact direct avec la mer, ont quelque chose qui rend leur relation avec la poésie et le milieu environnant unique.

Lisbonne est la ville qui vous fait comprendre les raisons du voyage, de l'attente, de l'introspection et d'un calme intouchable. J'ai ressenti toutes ces sensations en retrouvant dans ma mémoire un voyage au Portugal il y a de nombreuses années et en regardant une photo en noir et blanc de Sophia de Mello. Il y a une fenêtre ouverte et sur le rebord des petites voitures de course, le ciel est dégagé, en arrière-plan des arbres flous. Elle est là, assise devant une simple table, avec une tasse de thé, un paquet de cigarettes, un cendrier, un livre ouvert, quelques feuilles, une cigarette allumée entre les doigts de sa main gauche, libérant des boucles de fumée dans l'air, à droite un stylo Bic pour composer des mots. Un pull à col en V laisse son cou découvert, immortalisé au moment où la respiration la plus profonde porte en arrière la gorge et se fond dans une expression douce, sereine et intemporelle. Lorsque cela se produit, le miracle s'est produit dans l'âme du poète. C'est le moment de l'équilibre parfait entre soi et le monde, le moment où vous êtes témoins d'une révélation, le moment où le temps cesse d'exister parce que la plume vous a mis en présence de l'éternité. C'est pourquoi dans le poème La coquille de Kos, la valve de la moule prend une valeur symbolique, elle cesse d'être l'ornement blanc nacré déposé par la mer pour devenir la synthèse parfaite de toutes les atmosphères qui ont nourri et créé l'esprit poétique:

«Je n'ai ramassé ce coquillage sur aucune plage
Mais dans la nuit bleue et noire de la Méditerranée,
je l'ai acheté à Kos dans un magasin le long de la jetée
Près des arbres des bateaux qui se balancent

Et j'ai apporté avec moi le rugissement des tempêtes
Mais je n’y entends
Ni les tempêtes de Kos ni celles d'Egine
Seulement le chant de la vaste et longue plage
Atlantique et sacrée
Où pour toujours mon âme fut créée»

Combien de fois avons-nous fait ce geste instinctif d'amener la coquille à l'oreille pour entendre le son de la mer, un son qui nous rappelle quelque chose de familier, un son qui réconforte, comme s'il contenait l'archétype du battement fœtal, capable de nous ramener à l'eau, sous-entendu comme liquide amniotique, qui a vu notre être indistinct, inexistant se transformer en une personne. La mer dans les vers du poète devient un sein maternel sûr et accueillant; en fait il n'y a pas la peur des tempêtes ou des bourrasques mais simplement le son d'une chanson, semblable à une berceuse où l'âme a pris forme pour toujours. L'adverbe, dans ce cas, n'indique pas simplement la durée dans le temps mais arrête le temps en scellant un pacte, un lien indissoluble. Ainsi dans le poème Les Ondes les vagues semblent jouer dans leur mouvement et ne sont jamais une source de bouleversement mais deviennent des danseuses:

"Les vagues se brisaient une à une
J'étais seule avec le sable et l'écume
De la mer chantant seulement pour moi”

Lisbonne a, de ce point de vue, un double lien avec l'eau, étant traversée par le Tage et face à l'Atlantique. Lorsque vous visitez la Tour Blanche de Belem, vous comprenez la raison qui a conduit le roi lusitanien Henri le navigateur à financer les expéditions atlantiques qui conduisent, entre autres, Bartolomeo Diaz à faire le tour de l'Afrique, contournant le cap de Bonne-Espérance et ouvrant ainsi un nouvelle route vers les Indes. Dans la ville maritime, on ressent l'envie d'un ailleurs, de se diriger vers une destination, de naître, par essence. Si la mer est le lieu de naissance, le poème scelle et rend éternelle la vie même du poète:

«La poésie me conduira à travers le temps
Quand je ne serai plus le foyer du temps
Et je passerai solitaire Entre les mains du lecteur.
Quelqu'un dira le poème aux récoltes
Son passage se confondra
Comme le bruit de la mer avec le passage du vent


La poésie habitera
L'espace le plus concret et le plus attentif
Dans l'air clair des soirées transparentes
Ses syllabes rondes
(Ô anciennes ou longues douces Éternelles soirées )
Même si je meurs la poésie rencontrera
Une plage où les vagues se brisent
Et entre quatre murs denses
De profonde et dévorée solitude
Quelqu'un confondra son être avec la poésie au fil du temps»

Quand De Mello déclare que la poésie «habitera /l'espace le plus concret et le plus attentif / à l'air pur dans des soirées transparentes», que veut-elle nous communiquer exactement? Est-il possible que la poésie habite des lieux prédisposés à être occupés par des meubles, des objets et des personnes? Qu’est-ce cela peut signifier? Les mots se comportent comme des sages-femmes, ils marquent des moments de renaissance, d'épiphanie comme s'ils nous offraient l'opportunité d'observer la même réalité avec des yeux nouveaux. Cela peut sembler une étape simple mais, en réalité, cela suppose une déconnexion de soi et une reconnexion ultérieure à travers laquelle se modifie la façon de nous observer et d'observer le monde . C'est essentiellement un processus d'évolution. Il ne peut y avoir de vie riche sans une richesse de mots qui expliquent en détail même un intarsia. Peut-être il est possible d'avoir peu de mots et d'être également riche, à condition qu'ils aient des racines profondes et soient complémentaires des yeux, des mains et des sourires qui témoignent de notre ouverture sur le monde. A ce propos, la philosophe Luce Irigaray parle justement de «la langue comme outil de constitution du monde ou de son appropriation, ou comme moyen de rencontre des sujets. Le langage doit nous aider à compléter ce que fait un arbre sans recourir aux mots: réaliser ce qu'il est en transformant ses racines en fleurs et en fruits ».

La référence à un langage génératif est faite par De Mello elle-même, s'adressant directement aux lecteurs: "Et je passerai solitaire entre les mains du lecteur". N'est-ce pas, peut-être, une invitation à prendre son regard à elle pour que la poésie soit un lieu de rencontre et de renaissance? On se demande: comment l'attention s'exerce-t-elle? Le philosophe français Frédéric Lenoir nous l'explique: «L'attention est avant tout ce qui nous permet d'être connecté à nos sens. Très souvent, nous sommes pris par mille problèmes et, l'esprit surchargé, nous ne prêtons pas attention à ce que nous vivons. Ce n'est que lorsque nous sommes attentifs que nous nous laissons habiter par nos sens: nous écoutons, ressentons et contemplons. Nous sommes plongés dans le hic et nuc “. Par conséquent, l'air pur et les soirées transparentes, évoquées dans les versets précédents, ne prennent plus une valeur utilitaire:

La référence à un langage génératif est faite par De Mello elle-même, s'adressant directement aux lecteurs: "Et je passerai solitaire entre les mains du lecteur". N'est-ce pas, peut-être, une invitation à prendre son regard à elle pour que la poésie soit un lieu de rencontre et de renaissance? On se demande: comment l'attention s'exerce-t-elle? Le philosophe français Frédéric Lenoir nous l'explique: «L'attention est avant tout ce qui nous permet d'être connecté à nos sens. Très souvent, nous sommes pris par mille problèmes et, l'esprit surchargé, nous ne prêtons pas attention à ce que nous vivons. Ce n'est que lorsque nous sommes attentifs que nous nous laissons habiter par nos sens: nous écoutons, ressentons et contemplons. Nous sommes plongés dans le hic et nuc “. Par conséquent, l'air pur et les soirées transparentes, évoquées dans les versets précédents, ne prennent plus une valeur utilitaire:

c'est une belle soirée, je sors;
c'est une belle soirée je fais quelque chose;
c'est une belle soirée je retrouve les amis, mais cette soirée claire est le lieu de l'ici et maintenant et représente l'occasion dans laquelle je me plonge complètement en assumant sa clarté et sa transparence. J'en fais partie et j’apprécie une harmonie cosmique dont nous n'avons souvent aucune perception. Ici, la poésie devient un lieu de vie car elle s'est transformée en un coin de repos, de reconnexion et de salut.
De Mello écrit à nouveau:

«Un jour, je briserai tous les ponts, Qui lient mon être, vivant et total, À l'agitation du monde de l'irréel, Et calmement je remonterai aux sources. J'irai jusqu’aux sources où habite La plénitude, la splendeur limpide Qui m'a été promise à chaque instant , Et dans le visage incomplet de l'amour. J’irai boire la lumière et du soleil le lever, J’irai boire la voix de la promesse Qui parfois comme un vol me traverse, Et là j’accomplirai tout mon être»

La dimension de la communion joyeuse s'achève avec une poésie qui mène à la source de la vie, dans laquelle le cœur du poète bat au même rythme que le cosmos:

«Mes mains tiennent des étoiles,
Je saisis mon âme pour qu'elle ne se brise pas
La mélodie qui va de fleur en fleur,
Je déchire la mer de la mer et la place en moi
Et le battement de mon cœur soutient le rythme des choses»

Nous revenons au début de notre voyage dans l'âme de Sophia De Mello car il manque une dernière pièce: Lisbonne. Chacun/e de nous est sans aucun doute le fils / fille du pays dans lequel il est né/e, il apporte avec lui les senteurs, les paysages, la mélancolie, les éclairs soudains de lumière. Peut-être le lieu d'origine concerne aussi le destin de chaque être humain, si par ce mot nous ne voulons pas dire un chemin écrit et inéluctable, mais une vocation à découvrir et à réaliser. La ville lusitanienne est ainsi: c'est le désir de voyager et la nostalgie du retour qui a un nom très spécifique A Saudade portuguesa, chantée à travers la musique du fado qui a son sens le plus profond dans le destin. Tout le chemin qui a commencé avec la description de la poétesse à la fenêtre ne pouvait avoir son accomplissement naturel que dans les paroles consacrées à Lisbonne:

«Lisbonne se balance comme une grosse barge
Lisbonne cruellement bâtie le long de son absence
Je dis le nom de la ville
- Je dis pour voir.»

Dire un nom, c'est créer quelque chose qui n'existe pas, écrire de la poésie, c'est fixer chaque renaissance dans le temps.

Plaque commémorative Sophia de Mello à Lisbonne.

 

Traduzione inglese
Piera Negri

Have you ever been curious to observe a female poet when she writes? Usually, we find her verses already printed on books with a well-defined font, with a beautiful cover and biographical notes concerning the author. I, on the contrary, would like to take you to the source of the soul where the words gather intact and pure like shells on the beach. Sophia De Mello was one of the most important Portuguese authors, winner of the Camoes award, but this could be a simple news that says all or nothing ... on the surface. Male and female writers of border lands, of islands that are in direct contact with the sea have something that makes their relationship with poetry and the surrounding environment unique.

Lisbon is the city that let you understand the reasons for traveling, waiting, of introspection and an untouchable quiet. I felt all these sensations finding in my memory a trip to Portugal many years ago and looking at a black and white photo of Sophia de Mello. There is an open window and racing cars are on the sill, the sky is clear, and blurred trees are on the bottom. She is there, sitting in front of a simple table, with a cup of tea, a pack of cigarettes, an ashtray, an open book, a few sheets, a lit cigarette between the fingers of her left hand, releasing curls of smoke into the air, on the right hand a pen to compose words. A sweater with a V-neck leaves her neck uncovered, immortalized at the moment when the deepest breath brings back the throat and merges with a sweet, serene and timeless expression. When this happens, the miracle happened in the poet’s soul. It is the moment of the perfect balance between herself and the world, the moment you are witness to a revelation, the moment time stops being because the pen has put you in front of eternity. That's why in the poem The shell of Kos, the mussel valve takes a symbolic value, it stops being the niveo ornament settled by the sea to become the perfect synthesis of all the atmospheres that nourished and created the poetic spirit:

«I did not collect this shell on any beach
But in the blue and black Mediterranean night
I bought it in Kos in a shop along the pier
Near the swinging masts of the boats
And I took the roar of the storms with me

But I don't feel in it
Neither the storms of Kos nor those of Aegina
Only the song of the vast and long beach
Atlantic and sacred
Where forever my soul was created»

How many times we made that instinctive gesture of bringing the shell to the ear to hear the sound of the sea, a sound reminding us something familiar, a comforting sound, as if it contains the archetype of the fetal beat, able to bring us back to water, seen as amniotic fluid, which has seen our indistinct, non-existent being transform into a person. The sea in the poet's verses becomes a safe and welcoming maternal womb; in fact there is no fear of sea storm or surges but simply the sound of a song, similar to a lullaby where the soul has taken shape forever. The adverb, in this case, does not simply indicate lasting in time but it stops the time by sealing a pact, an indissoluble bond. So in the poem The Waves, the waves look like playing in their motion and are never a upsets source but become female dancers:

«The waves were breaking one by one
I was alone with the sand and the foam
Of the sea that sang only for me»

Lisbon has, from this point of view, a double bond with water, being crossed by the Tagus and overlooking the Atlantic. When visiting the White Tower of Belem, you easily understand the reason why Lusitanian king Henry the navigator, financed the Atlantic expeditions that lead, among other things, Bartolomeo Diaz to circumnavigate Africa, rounding the Cape of Good Hope and opening, thus, a new route to the Indies. In the seaside city one feels the desire for an elsewhere, to proceed towards a destination, to be born, in essence. If the sea is the place of birth, the poem seals and makes eternal the very life of the poet:

«Poetry will take me through time
When I will no longer be the home of time
And I will pass lonely
Inside the hands of the reader.
Someone will tell the poem to harvest
Its passage will get confused
Like the sound of the sea with the winds passing.

Poetry will inhabit
The most concrete and most attentive space
In the clear air in transparent evenings
Its round syllables
(Or ancient or long Eternal smooth evenings)
Even if I die poetry will meet
A beach to break its waves
And between four dense walls
Of deep and devoured solitude
Someone will confuse his own being
With poetry over time»

When De Mello says that poetry "will inhabit / the most concrete and most attentive space / in clear air in transparent evenings", what exactly does she want to tell us? Is it possible that poetry inhabits places arranged to be occupied by furniture, objects and people? What could it mean? Words behave like midwives, they mark moments of rebirth, of epiphany such as if they offered us the opportunity to observe the same reality with new eyes. It might look like a simple step but, actually, it assumes a disconnection from oneself and a subsequent reconnection through which the way we observe ourselves and the world changes. In essence it is an evolution process. There can be no rich life without a wealth of words that explain in detail even an inlay. Perhaps, it is possible to have a few words and be equally rich, and provided that they have deep roots and are complementary to the eyes, hands and smiles that are the witness of our opening to the world. In this regard, the philosopher Luce Irigaray talks of the language as a tool to constitute the world or to appropriate it, or as a means to meet subjects.

Language should help us to complete what a tree does without using words: to realize what it is by transforming its roots into flowers and fruit». The reference to a generative language is made by De Mello, addressing herself directly to readers: «And I will pass lonely in the hands of the reader». Isn’t it, perhaps, an invitation to assume her own glance so that poetry may be a of meeting and rebirth place? We wonder: how is attention exercised? The French philosopher Frederic Lenoir explains it to us: "Attention is above all what enables us to be connected to our senses. We are often taken by a thousand problems and, with such an overloaded mind, we do not pay attention to what we live. Only when we are attentive, we allow ourselves be inhabited by our senses: we listen, feel and contemplate. We are plunged in the hic et nuc". So, the clear air and the transparent evenings, as mentioned in the previous verses, don’t have any more a utilitarian value:

it's a nice evening, I go out;
it's a nice evening I do something;
it's a nice evening I meet friends, but this clear evening is the place of here and now and represents the moment in which I immerse myself with all of myself/or assuming its clarity and transparency. I become part of it and enjoy a cosmic harmony of which we often have no perception. Here poetry becomes a place to live as it has been transformed into a corner of rest, reconnection and salvation.
Again, De Mello writes:

«One day I'll break all bridges,
That bind my being, alive and total,
at the agitation of the dream world,
And calm, I will go up to the sources.

I will go to the sources where it dwells
The fullness, the limpid splendor
That was promised to me at any time,
And in the incomplete face of love.

I'll go drink the light and the sun rise,
I'll go drink the voice of the promise
That sometimes like a flight passes through me,
And there I will fulfil my whole being»

The dimension of joyful communion with poetry is brought to completion leading to the source of life, in which the poet's heart beats at the same rhythm as the cosmos:

«My hands hold stars,
I grab my soul so it doesn't break
The melody that goes from flower to flower,
I tear the sea from the sea and place it in me
And beating of my heart sustains the rhythm of things»

We return to the beginning of our journey into the soul of Sophia De Mello because one last piece is missing: Lisbon. Each of us is undoubtedly the son/daughter of the land in which he/she is born, brings with him/her the scents, the landscapes, the melancholy, the sudden flashes of light. Perhaps the place of origin also concerns the destiny of every human being, if with this word we do not mean a written and ineluctable path, but a vocation to be discovered and fulfilled. The Lusitanian city is like this: it is the desire for travel and the nostalgia for return that has a very specific name A Saudade portuguesa, sung through the music of fado which has its deepest meaning in destiny. The whole path that began with the description of the poet at the window could not have its natural fulfilment except in the lyric dedicated to Lisbon:

«Lisbon swinging like a big barge
Lisbon cruelly built along its same absence
I say the name of the city
- I say to see.»

To say a name is to create something that does not exist, to write poetry is to fix every rebirth in time.

Commemorative plaque Sophia De Mello in Lisbon.

 

Traduzione portoghese
Filipa Ramalho, Barbora Břenková, Susana Soares, Maria João Ferro, Mariana Lebefer

Alguma vez sentiram curiosidade em observar uma poeta enquanto escreve? Geralmente, encontramos os seus versos já impressos em livros de caráter bem definido, com uma bela capa e notas biográficas referentes à autora. Eu, pelo contrário, desejo levar-vos à fonte da alma, onde se colhem palavras intactas e puras, como conchas na praia. Sophia de Mello Breyner foi, e ainda é, uma das autoras portuguesas mais importantes, vencedora do Prémio Camões, mas esta poderia ser apenas outra notícia, que tudo ou nada diz… aparentemente. Os escritores e as escritoras de terras fronteiriças, de ilhas que os unem diretamente ao mar, têm algo que tornam únicas as suas relações com a poesia e com o ambiente que os rodeia.

Lisboa é a cidade que nos faz compreender as razões da nossa viagem, da antecipação, da introspeção e de uma quietude intocável. Experimentei todas estas sensações, reencontrando nas minhas memórias uma viagem que fiz a Portugal há muitos anos, quando vi uma fotografia a preto e branco de Sophia de Mello Breyner. Há uma janela aberta em cujo parapeito se encontram carrinhos de brincar, o céu está límpido e, ao fundo, vêem-se árvores desfocadas. Ali está ela, sentada em frente a uma simples mesa, com uma chávena de chá, um maço de cigarros, um cinzeiro, um livro aberto, algumas folhas, um cigarro aceso entre os dedos da mão esquerda, que deixa no ar argolas de fumo, e, na mão direita, uma caneta para compor palavras. Uma camisola com decote em V deixa-lhe o peito descoberto, imortalizado no instante em que a respiração profunda retrai o pescoço e se funde com uma expressão doce, serena e intemporal. Quando isto acontece, dá-se o milagre na alma da poeta. É o instante do perfeito equilíbrio entre si e o mundo, o instante em que se é testemunha de uma revelação, o instante em que o tempo deixa de o ser porque a caneta nos colocou diante da eternidade. É por isso que, no poema «O Búzio de Cós», a concha do búzio assume um valor simbólico, deixando de ser o ornamento níveo depositado pelo mar, e se transforma numa perfeita síntese de todas as atmosferas que nutriram e criaram o espírito poético:

«Este búzio não o encontrei eu própria numa praia
Mas na mediterrânica noite azul e preta
Comprei-o em Cós numa venda junto ao cais
Rente aos mastros baloiçantes dos navios
E comigo trouxe ressoar dos temporais

Porém nele não oiço
Nem o marulho de Cós nem o de Egina
Mas sim o cântico da longa vasta praia
Atlântica e sagrada
Onde para sempre a minha alma foi criada»

Quantas vezes repetimos o gesto instintivo de levar a concha ao ouvido para escutar o som do mar, um som que nos recorda algo familiar, um som que reconforta, como se contivesse o arquétipo do batimento fetal, capaz de reconduzir-nos à água, entendida como líquido amniótico, que viu o nosso ser indistinto, inexistente, transformar-se em pessoa. O mar, nos versos da poeta, torna-se um seguro e acolhedor ventre materno; na verdade, não existe o medo do marulho ou dos temporais, mas simplesmente o som de um canto, semelhante a uma canção de embalar, na qual a alma encontrou a sua forma para sempre. Neste caso, o advérbio não indica simplesmente a duração no tempo, mas para o tempo, selando um pacto, um vínculo indissolúvel. Também no poema «As Ondas», estas parecem brincar no seu movimento e nunca representam uma fonte de agitação, transformando-se em bailarinas:

«As ondas quebravam uma a uma Eu estava só com a areia e com a espuma Do mar que cantava só para mim»

Lisboa tem, deste ponto de vista, uma dupla ligação à água, sendo atravessada pelo Tejo e debruçando-se sobre o Atlântico. Quando se visita a Torre de Belém, compreende-se bem o motivo que levou o Infante D. Henrique, o Navegador, a financiar as expedições atlânticas que conduziram, entre outros, Bartolomeu Dias a circum-navegar África, passando pelo cabo da Boa Esperança e criando, assim, uma nova Rota das Índias. Sente-se na cidade do mar o desejo de outro lugar, de avançar para qualquer destino, de nascer. Se o mar é o lugar do nascimento, a poesia sela e eterniza a vida da poeta:

«O poema me levará no tempo Quando eu já não for a habitação do tempo E passarei sozinha Entre as mãos de quem lê O poema alguém o dirá Às searas Sua passagem se confundirá Como o rumor do mar com o passar do vento

O poema habitará O espaço mais concreto e mais atento No ar claro nas tardes transparentes Suas sílabas redondas (Ó antigas ó longas Eternas tardes lisas) Mesmo que eu morra o poema encontrará Uma praia onde quebrar as suas ondas E entre quatro paredes densas De funda e devorada solidão Alguém seu próprio ser confundirá Com o poema no tempo»

Quando Sophia de Mello Breyner afirma que o poema «habitará / o espaço mais concreto e mais atento / no ar claro nas tardes transparentes», o que quer exatamente transmitir? É possível que a poesia habite lugares predispostos a serem ocupados por móveis, objetos e pessoas? O que poderá significar? As palavras comportam-se como parteiras, assinalam momentos de renascimento, de epifania, como se oferecessem a oportunidade de observar a mesma realidade por outros olhos. Poderia parecer uma passagem simples, mas, na realidade, pressupõe uma desconexão de si mesma e uma consequente reconexão através da qual se altera o modo de se observar a si e ao mundo. Trata-se, essencialmente, de um processo de evolução. Não se pode ter uma vida rica sem uma abundância de palavras que expliquem pormenorizadamente até mesmo um desenho embutido. Talvez seja possível possuir poucas palavras e ser-se igualmente rico, desde que essas palavras tenham raízes profundas e sejam complementares aos olhos, às mãos e aos sorrisos, que são o testemunho da nossa abertura ao mundo. Neste sentido, a filósofa Luce Irigaray fala mesmo da «linguagem como instrumento para construir o mundo ou apropriar-se dele, ou como meio para encontrar sujeitos.

A linguagem deveria ajudar-nos a levar a cabo aquilo que uma árvore faz sem recorrer às palavras: realizar aquilo que é, transformando as suas raízes em flores e frutos.» A referência a uma linguagem generativa é feita pela própria Sophia de Mello Breyner, que se dirige diretamente aos leitores e às leitoras: «E passarei sozinha dentro das mãos de quem lê». Não será, talvez, um convite para assumir o seu próprio olhar até a poesia se tornar um local de encontro e renascimento? Pergunta-se: como se treina a atenção? Isso explica-nos o filósofo francês Frederic Lenoir: «A atenção é, antes de mais, aquilo que nos permite estar ligados aos nossos sentidos. Muitas vezes, deparamo-nos com mil problemas e, com a mente tão sobrecarregada, não prestamos atenção àquilo que vivemos. Só quando estamos atentos é que nos permitimos ser habitados pelos nossos sentidos: ouvimos, sentimos e contemplamos. Ficamos imersos no aqui e agora.» Por isso, o ar claro e as tardes transparentes, dos quais se fala nos versos precedentes, não assumem um valor utilitarista:

Está uma tarde bonita, saio; Está uma tarde bonita, faço alguma coisa; Está uma tarde bonita, encontro-me com amigos, mas esta tarde límpida é o lugar do aqui e do agora e representa a ocasião em que mergulho nela com todo o meu ser, assumindo a minha clareza e transparência. Torno-me parte dela e desfruto de uma harmonia cósmica da qual, muitas vezes, não nos apercebemos. Eis que a poesia se torna um lugar para habitar já que se transformou num cantinho de repouso, de reconexão e salvação. ​Escreve ainda Sophia de Mello Breyner:

«Um dia quebrarei todas as pontes
Que ligam o meu ser, vivo e total,
À agitação do mundo do irreal,
E calma subirei até às fontes.

Irei até às fontes onde mora
A plenitude, o límpido esplendor
Que me foi prometido em cada hora,
E na face incompleta do amor.

Irei beber a luz e o amanhecer,
Irei beber a voz dessa promessa
Que às vezes como um voo me atravessa,
E nela cumprirei todo o meu ser»

É concretizada a dimensão de alegre comunhão com a poesia que conduz à nascente da vida, na qual o coração da poeta bate em uníssono com o do cosmos:

«As minhas mãos mantêm as estrelas,
Seguro a minha alma para que se não quebre
A melodia que vai de flor em flor,
Arranco o mar do mar e ponho-o em mim
E o bater do meu coração sustenta o ritmo das coisas»

Regressamos ao início da nossa viagem à alma de Sophia de Mello Breyner porque nos falta a última peça: Lisboa. Cada um(a) de nós é, sem dúvida, filho(a) da terra em que nasceu, carregando consigo os cheiros, as paisagens, a melancolia, os súbitos flashes de luz. O local de origem talvez esteja também relacionado com o destino de cada ser humano, se, com esta palavra, não entendermos um caminho escrito e inelutável, mas, sim, uma vocação que deve ser descoberta e concretizada. A cidade lusitana é isso mesmo: é o desejo da viagem e a nostalgia do regresso que tem um nome bem preciso A Saudade Portuguesa, cantada nas melodias do fado, que tem precisamente no destino o seu significado mais profundo. Todo o percurso iniciado com a descrição da poeta à janela não poderia ter a sua conclusão natural se não na lírica dedicada exatamente a Lisboa:

«Lisboa oscilando como uma grande barca
Lisboa cruelmente construída ao longo da sua própria ausência
Digo o nome da cidade
- Digo para ver.»

Dizer um nome é criar algo que não existia, escrever poesia é fixar no tempo cada renascimento.

Placa comemorativa Sophia De Mello em Lisboa.

Elena Lagadinova

Angela Scozzafava


Eleonora Nascimbeni

«Devi combattere per ciò in cui credi.» (da un'intervista a Kristen Ghodsee)

LA PARTIGIANA

Nome di battaglia: Amazzone! Di chi parliamo? Di una bambina che già a 11 anni è staffetta partigiana e a 14 – siamo nel 1944: la Bulgaria è in guerra a fianco delle potenze dell’Asse –fugge dalla sua casa data alle fiamme dalla gendarmeria; si salva e segue in montagna i suoi due fratelli maggiori. È la più giovane partigiana bulgara. Uno dei fratelli, Assen Lagadinov, cadrà in un’imboscata; Elena continuerà a combattere guadagnandosi con il suo coraggio il soprannome di Amazzone. «Portavo la mia pistola al collo. Così, se ci avessero attaccati, non avrei potuto dimenticarla» ricorderà in seguito. Si racconta, inoltre, che nel settembre del 1944 Elena guidò, cavalcando uno stallone bianco, i partigiani che scendevano dalle montagne. La sua foto era su tutti i giornali e periodici per la gioventù, da Belgrado a Mosca; divenne un esempio, un mito: «Sii coraggioso come l’Amazzone!», si diceva.

Elena Lagadinova en 1944.

LA RICERCATRICE

Finita la guerra la Bulgaria, governata da Georgi Dimitrov, entra a far parte del blocco sovietico. Elena studia in Urss, conseguendo un dottorato in agrobiologia. Tornata in patria, lavora per tredici anni come ricercatrice presso l'Accademia delle Scienze del suo Paese e contribuisce alla creazione di un ibrido di grano più robusto (il triticale) che permetterà un aumento della produzione agricola. Per il suo lavoro in genetica vegetale, il governo le attribuirà nel 1959 l’Ordine nazionale di Cirillo e Metodio. Ma Elena è critica nei riguardi dei controlli esercitati sulla ricerca nel mondo comunista. Nel maggio del 1967 scrive una lettera al premier sovietico Leonid Brezhnev in cui si mostra preoccupata per la mancanza di competenze tecniche dei quadri del Partito, che condizionano pesantemente l’attività di ricerca; la lettera viene intercettata dal governo bulgaro ed Elena teme per la sua libertà: «Un giorno mi hanno mandato un'auto mentre ero all'Accademia. Ero in laboratorio, con indosso il camice, nel bel mezzo di un esperimento. Ho chiesto loro di aspettare ma mi hanno detto di venire immediatamente. Pensavo di essere arrestata». Lagadinova viene invece “promossa” (o rimossa?) e nominata Presidente del Comitato del movimento femminile bulgaro (Cbwm) e membro del Comitato centrale del Partito comunista nel 1971. Sarà Presidente del Comitato delle donne per ventidue anni, fino al 1990, nonché una delle personalità più influenti nel panorama internazionale e in Bulgaria, dove contribuirà in maniera decisiva a quella che Maria Dinkova definisce «la grande rivoluzione delle donne» bulgare.

Lagadinova Amazone, copertina giornale.

 

LA POLITICA

Dal 1968, lasciata a malincuore la ricerca, Elena si occuperà, sia in patria che a livello internazionale, di politica e segnatamente di “politiche per le donne”. Prima di analizzare più in dettaglio le sue azioni è opportuno fare due considerazioni. Nel mondo della guerra fredda anche la politica nei confronti delle donne fu terreno di scontro ideologico: da un lato i Paesi occidentali cercavano il loro consenso sostenendo che solo al di qua della cortina di ferro, dove si rispettavano le libertà individuali, esse avrebbero potuto trovare il loro spazio; dall’altro i Paesi socialisti si proponevano come la sola realtà in cui si superavano le differenze tra i sessi, si concretizzavano misure (istruzione, lavoro) in loro favore. L’altra considerazione riguarda invece l’autonomia delle organizzazioni femminili statali; a Ovest venivano guardate con sospetto, considerate mere cinghie di trasmissione degli ordini del partito, strumenti di controllo autoritario: Kristen Ghodsee invece (e con lei altre studiose dopo il 1990) osserva che le donne di questi movimenti utilizzarono le relazioni privilegiate con il Partito per promuovere politiche efficaci e che si batterono contro i privilegi patriarcali maschili facendo appello agli ideali comunisti di eguaglianza. In questo contesto il caso della Bulgaria è particolarmente significativo, per quanto riguarda sia l’organizzazione del Comitato sia la strategia di approccio ai problemi e il rapporto col governo centrale. Riguardo al primo punto va detto che il Comitato si reggeva in gran parte sul volontariato (c’erano organismi di livello nazionale e locale ma solo le donne dei livelli più alti erano impiegate dello Stato); era un organismo aperto a tutte le donne, che fossero o no iscritte al Partito comunista, come testimonia Pavlina Popova ma anche Anna Durcheva: «a Elena Lagadinova non importava chi tu fossi […], le importava che fossi una buona lavoratrice». Aveva inoltre una certa autonomia finanziaria in quanto i proventi del mensile "Zhenata dne" (Donna Oggi), diretto da Sonia Bakish, altra figura importante del movimento femminile bulgaro, entravano direttamente nel bilancio del Cbwm.

Elena Lagadinova, la giovane partigiana.

Relativamente al secondo aspetto Elena Lagadinova e il Comitato non rinunceranno mai ad incalzare il politburo facendosi portatrici dei bisogni e degli interessi delle donne, raccogliendone le istanze e ottenendo conquiste significative. Vediamo un po’ meglio con un esempio come si articolò l’azione di Lagadinova e del Cbwm. Con la Costituzione del 1947 la condizione delle donne era migliorata. Dagli anni Cinquanta ai Settanta del Novecento la Bulgaria conosce un periodo di rapida industrializzazione che vede un importante contributo della forza-lavoro femminile; si registra però una decrescita preoccupante della natalità e la nomina di Elena Lagadinova alla presidenza del Cbwm può essere considerata una prima risposta: si sceglie una scienziata perché il problema va affrontato con un’ottica scientifica. E ascoltando le donne, dando loro voce, pensa Lagadinova. Infatti, con la collaborazione dell’Istituto centrale di Statistica, viene svolta una ricerca per comprendere meglio la situazione; vengono poste domande sulla distribuzione del lavoro e delle responsabilità familiari ed emerge che il peso maggiore della gestione familiare grava come sempre sulle donne. Insomma vorrebbero più figli ma sono trattenute dalla scarsità di tempo, di aiuti, di risorse. E se non c’era abbastanza tempo per i figli figuriamoci per altre attività: studio, svago, lettura, partecipazione politica; insomma l’emancipazione “comunista” realizzata nei posti di lavoro, non aveva affatto liberato le donne. Per risolvere il problema la proposta più semplice ed economica, avanzata da alcuni politici, è quella di limitare l’accesso delle donne all’aborto come aveva fatto la Romania. Il Cbwm suggerisce invece un insieme di misure alternative: congedi per maternità con mantenimento del posto di lavoro, assegni familiari, creazione di asili nido e servizi. Nel 1973, nonostante l’importante impegno di bilancio che comportavano, queste misure vengono approvate. «La Bulgaria è stata il Paese più progressista in termini di congedo di maternità e politica familiare tra i paesi socialisti» sostiene Popova, collaboratrice di Elena. Sulla questione dell’aborto si arriva, invece, ad un compromesso: viene negato alle donne sposate con meno di due figli. Anche dopo l’approvazione della legge, Lagadinova non smette di incalzare uffici, aziende, governo, ministeri per ottenerne l’attuazione, dando voce ai reclami, alle richieste – le più varie: scarsa disponibilità di pannolini, di calzature, di alloggi – che moltissime donne facevano per lettera al Comitato.

Elena Lagadinova e Angela Davis, nel 1972.

A partire dagli Ottanta il Cbwm si impegna in campagne volte a modificare la distribuzione del lavoro domestico: il mensile "Donna Oggi" comincia a pubblicare foto di uomini che lavorano a maglia, cambiano pannolini o portano la prole a spasso nel marsupio. Un altro capitolo importante dell’attività di Elena Lagadinova riguarda le questioni internazionali. Durante il Decennio delle Nazioni Unite per le Donne (1975-1985), Lagadinova viaggia molto tessendo una fitta rete di relazioni bilaterali con centinaia di organizzazioni femminili dell’Est, dell’Ovest e del Terzo Mondo. Viene nominata relatrice generale alla Conferenza mondiale sulle Donne a Nairobi nel 1985 ed entra poi a far parte dell’Istituto delle Nazioni Unite per la formazione delle donne Nel 1991, la Claremont Graduate School degli Stati Uniti le assegna la medaglia presidenziale per meriti eccezionali.

Per il bene di tutte le nazioni, lei ha preso […] la scena mondiale […]
Molto prima che un nuovo ordine mondiale emergesse, Lei ne aveva già immaginato uno.
Lei si comportava come se già esistesse, e attraverso le sue azioni ne ha contribuito alla nascita.
Lei è andata oltre gli stretti confini di partito e nazionalità per creare una rete internazionale di studiosi e politici
impegnati per il miglioramento della vita delle donne.
Attraverso il suo lavoro con le Nazioni Unite, ha influenzato la vita delle donne in tutto il mondo e,
attraverso di loro, i destini delle loro famiglie.

Si può veramente parlare con M. Dinkova di «grande rivoluzione delle donne»? la loro è stata «un’emancipazione dall’alto»? Indubbiamente ci sono dei limiti: controlli di uno Stato autoritario, divieto di organizzazioni autonome, limitazioni dei diritti civili (pensiamo all’assenza del tema dell’omosessualità ad esempio), una tardiva e limitata messa in discussione del ruolo della donna come madre e lavoratrice. Ma si può affermare che, nonostante questi limiti, Elena Lagadinova e tutto il Cbwm hanno fatto fare notevoli passi in avanti alle donne bulgare, contribuendo alla loro autonomia e autorealizzazione. Dopo la caduta del muro di Berlino la Cbwm fu sciolta e Elena Lagadinova si ritira dalla vita pubblica. Muore a Sofia nel sonno il 29 ottobre del 2017.

Per saperne di più:

● Ghodsee K., Pressuring the Politburo: The Committee of the Bulgarian Women’s Movement and State Socialist Feminism, Slavic Review, vol. 73.Cambridge Univ. Press, 2014
● Ghodsee K., Second World, Second Sex, Socialist Women's Activism and Global Solidarity during the Cold War, Duke Univ. Press, 2019

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

LA PARTISANE

«Vous devez vous battre pour ce en quoi vous croyez.» (d'après une interview avec Kristen Ghodsee)

Nom de bataille: Amazone! De qui parle-t-on? D'une fille qui, à 11 ans, était déjà un relais partisan et à 14 ans - nous sommes en 1944: la Bulgarie est en guerre aux côtés des puissances de l'Axe - elle s'échappe de sa maison incendiée par la gendarmerie; elle est sauve et suit ses deux frères aînés dans les montagnes. Elle est la plus jeune partisane bulgare. L'un des frères, Assen Lagadinov, tombera dans une embuscade; Elena continuera à se battre, se gagnant le surnom d'Amazone grâce à son courage. «Je portais mon arme autour du cou. Ainsi, s'ils nous avaient attaqués, je n'aurais pas pu l'oublier », se souvient-elle plus tard. On raconte aussi qu'en septembre 1944, Elena à cheval sur un étalon blanc guidait les partisans qui descendaient des montagnes. Sa photo a été dans tous les journaux et magazines pour la jeunesse, de Belgrade à Moscou; elle était devenue un exemple, un mythe: "Soyez courageux comme l’Amazone!" On disait.

Elena Lagadinova en 1944.

LA SCIENTIFIQUE

Après la guerre, la Bulgarie, dirigée par Georgi Dimitrov, rejoint le bloc soviétique. Elena étudie en URSS et obtient un doctorat en agrobiologie.De retour au pays, elle travaille pendant treize ans comme chercheuse à l'Académie des sciences de son pays et contribue à la création d'un hybride de blé plus robuste (le triticale) qui permettra une augmentation de la production agricole. Pour ses travaux en génétique végétale, le gouvernement lui a décerné l'Ordre national de Cyrille et Méthode en 1959. Mais Elena critique les contrôles exercés sur la recherche dans le monde communiste. En mai 1967, elle écrit une lettre au Premier ministre soviétique Leonid Brejnev dans laquelle elle s'inquiéte du manque de compétences techniques des cadres du Parti, qui conditionnait fortement sur les activités de recherche; la lettre est interceptée par le gouvernement bulgare et Elena craint pour sa liberté: «Un jour, ils m'ont envoyé une voiture alors que j'étais à l'Académie. J'étais au laboratoire, en blouse, au milieu d'une expérience. Je leur ai demandé d'attendre mais ils m'ont dit de venir immédiatement. Je pensais qu’ils m’arrêtaient. Au lieu de cela, Lagadinova a été "promue" (ou révoquée?) et nommée présidente du Comité du mouvement des femmes bulgares (Cbwm) et membre du Comité central du Parti communiste en 1971. Elle a été présidente du Comité des femmes pendant vingt-deux ans, jusqu'en 1990, ainsi qu’une des personnalités les plus influentes de la scène internationale et en Bulgarie, où elle apportera une contribution décisive à ce que Maria Dinkova définit comme "la grande révolution des femmes” bulgare.

Lagadinova Amazone, couverture de journal.

LA POLITIQUE

A partir de 1968, quittant à contrecœur la recherche, Elena s’occupera, tant au niveau national qu'international, de politique et en particulier de «politique pour les femmes». Avant d'analyser ses actions plus en détail, deux considérations doivent être faites. Dans le monde de la guerre froide, la politique à l'égard des femmes était aussi un terrain de conflit idéologique: d'une part, les pays occidentaux cherchaient leur consensus, arguant que ce n'était que de ce côté du rideau de fer, que les libertés individuelles étaient respectées, qu’elles pouvaient trouver leur espace; de l’autre côté, les pays socialistes se proposaient comme la seule réalité dans laquelle les différences entre les sexes étaient surmontées, des mesures (éducation, travail) étaient mises en œuvre en leur faveur. L'autre considération concerne l'autonomie des organisations de femmes étatiques; en Occident, elles étaient considérées avec suspicion, considérées comme de simples courroies de transmission des ordres du parti, des instruments de contrôle autoritaire: Kristen Ghodsee au contraire (et avec les autres savantes après 1990) observe que les femmes de ces mouvements ont utilisé leurs relations privilégiées avec le Parti pour promouvoir des politiques efficaces qui luttent contre les privilèges patriarcaux masculins en faisant appel aux idéaux communistes d'égalité. Dans ce contexte, le cas de la Bulgarie est particulièrement significatif, tant en ce qui concerne l'organisation du Comité que la stratégie pour aborder les problèmes et les relations avec le gouvernement central. En ce qui concerne le premier point, il faut dire que le Comité reposait en grande partie sur le volontariat (il y avait des organes nationaux et locaux mais seules les femmes des plus hauts niveaux étaient employées d’'Etat); c'était un organisme ouvert à toutes les femmes, qu'elles soient ou non membres du Parti communiste, comme en témoigne Pavlina Popova mais aussi Anna Durcheva: «Elena Lagadinova se fichait de qui vous étiez […], elle se souciait seulement que vous soyez une bonne travailleuse». Elle disposait également d'une certaine autonomie financière puisque le produit du mensuel "Zhenata dne" (La femme aujourd'hui), dirigé par Sonia Bakish, autre figure importante du mouvement des femmes bulgares, allait directement dans le budget du CBWM.

Elena Lagadinova, la jeune partisane.

Avec la Constitution de 1947, la condition des femmes s'est améliorée. Des années 50 aux années 70 du XXe siècle, la Bulgarie a connu une période d'industrialisation rapide qui a vu une contribution importante de la main-d'œuvre féminine; cependant, il y eut une baisse inquiétante de la natalité et la nomination d'Elena Lagadinova à la présidence du CBWM peut être considérée comme une première réponse: une femme de science est choisie parce que le problème doit être abordé dans une perspective scientifique. Et écouter les femmes, leur donner une voix, pense Lagadinova. En effet, avec la collaboration de l'Institut central de statistique, des recherches sont menées pour mieux comprendre la situation; des questions sont posées sur la répartition du travail et des responsabilités familiales et il apparaît que le plus gros fardeau de la gestion familiale pèse sur les femmes comme toujours. Bref, elles aimeraient plus d'enfants mais elles sont freinés par le manque de temps, d'aide, de ressources. Et s'il n'y avait pas assez de temps pour les enfants, encore moins pour d'autres activités: étude, loisirs, lecture, participation politique; bref, l'émancipation «communiste» obtenue sur le lieu de travail n'a pas du tout libéré les femmes. Pour résoudre le problème, la proposition la plus simple et la moins chère avancée par certains politiciens était de limiter l'accès des femmes à l'avortement comme l'avait fait la Roumanie. La CBWM propose plutôt un ensemble de mesures alternatives: congé de maternité avec maintien de l'emploi, allocations familiales, création de crèches et de services. En 1973, malgré l'important engagement budgétaire qu'elles impliquaient, ces mesures ont été approuvées. «La Bulgarie était le pays le plus progressiste en matière de congé de maternité et de politique familiale parmi les pays socialistes», déclare Popova, collaboratrice d'Elena. Sur la question de l'avortement, cependant, un compromis est atteint: il est refusé aux femmes mariées avec moins de deux enfants. Même après l'approbation de la loi, Lagadinova ne cesse de faire pression sur les bureaux, les entreprises, le gouvernement, les ministères pour obtenir sa mise en œuvre, en donnant la parole aux plaintes, aux demandes - les plus variées: faible disponibilité des couches, des chaussures, de logement - que de très nombreuses femmes ont faites par lettre adressée au Comité.

Elena Lagadinova et Angela Davis, en 1972.

Depuis les années 1980, Cbwm s'est engagé dans des campagnes visant à changer la répartition du travail domestique: le mensuel «Femme Aujourd'hui» commence à publier des photos d'hommes tricotant, changeant des couches ou portant leur progéniture dans un porte-bébé. Un autre volet important de l'activité d'Elena Lagadinova concerne les questions internationales. Au cours de la Décennie des Nations Unies pour la femme (1975-1985), Lagadinova a beaucoup voyagé, tissant un réseau dense de relations bilatérales avec des centaines d'organisations de femmes de l'Est, de l'Ouest et du tiers monde. Elle a été nommée oratrice générale à la Conférence mondiale sur les femmes à Nairobi en 1985, puis elle a rejoint l’Institut des Nations Unies pour l’éducation des femmes. En 1991, la Claremont Graduate School des États-Unis lui a décerné la médaille présidentielle pour mérites exceptionnels.

Dans l'intérêt de toutes les nations, vous avez pris […] la scène mondiale […]
Bien avant qu'un nouvel ordre mondial n'émerge, vous en aviez déjà imaginé un.
Vous vous êtes comportée comme si elle existait déjà, et par vos actions vous avez contribué à sa naissance.
Vous avez dépassé les frontières étroites du parti et de la nationalité pour créer un réseau international d'universitaires et de politiciens engagés dans l'amélioration de la vie des femmes.
Grâce à votre travail avec les Nations Unies, vous avez influencé la vie des femmes du monde entier et,
à travers elles, le sort de leurs familles.

Peut-on vraiment parler à M. Dinkova de la "grande révolution des femmes"? La leur a été "une émancipation d'en haut"? Il y a sans doute des limites: des contrôles par un État autoritaire, une interdiction des organisations autonomes, des limitations des droits civils (pensez à l'absence du thème de l'homosexualité par exemple),une remise en question tardive et limitée du rôle de la femme en tant que mère et travailleuse . Mais on peut dire qu'en dépit de ces limitations, Elena Lagadinova et l'ensemble de la Cbwm ont poussé les femmes bulgares à faire des pas en avant considérables, contribuant à leur autonomie et à leur épanouissement personnel. Après la chute du mur de Berlin, le CBWM a été dissous et Elena Lagadinova s'est retirée de la vie publique. Elle est morte à Sofia dans son sommeil le 29 octobre 2017.

En savoir plus:

  • Ghodsee K., Pressuring the Politburo: The Committee of the Bulgarian Women’s Movement and State Socialist Feminism, Slavic Review, vol. 73 Cambridge Univ. Press, 2014
  • Ghodsee K., Second World, Second Sex, Socialist Women's Activism and Global Solidarity during the Cold War, Duke Univ. Press, 2019

 

Traduzione inglese
Syd Stapleton

«You have to fight for what you believe in.» (from an interview with Kristen Ghodsee)

THE PARTISAN Nom de guerre: Amazon! Who are we talking about? About a girl who was already a partisan courier at 11 years old. In 1944, at 14, when Bulgaria was at war on the side of the Axis powers, she escaped from her burning home - set on fire by the police - and followed her two older brothers into the mountains. She became the youngest Bulgarian partisan. One of the two brothers, Assen Lagadinov, fell as the result of an ambush. But Elena continued to fight, earning the nickname “Amazon” for her courage. “I wore my pistol on a cord around my neck. This way, if we were attacked, I would not have forgotten it somewhere," she later recalled. It is also said that in September 1944, Elena, riding a white stallion, guided the partisans who were coming down from the mountains. Her photo was in all the newspapers and periodicals for young people, from Belgrade to Moscow. She became an example, a myth - "Be as brave as the Amazon!"

Elena Lagadinova in 1944.

THE RESEARCHER

After the war Bulgaria, governed by Georgi Dimitrov, joined the Soviet bloc. Elena studied in the USSR, earning a doctorate in agrobiology. Returning to her homeland, she worked for thirteen years as a researcher at the Academy of Sciences of her country and contributed to the creation of a more robust wheat hybrid (triticale) that allowed an increase in agricultural production. For her work in plant genetics, the government awarded her the National Order of Cyril and Methodio in 1959. But Elena was critical of the controls exercised on research in the Soviet world. In May, 1967, she wrote a letter to Soviet Prime Minister Leonid Brezhnev in which she expressed concern about the lack of technical skills of the Party cadres, who heavily influenced research activities. The letter was intercepted by the Bulgarian government, leading Elena to fear for her freedom. “One day, while I was at the Academy, they sent a car for me. I was in the lab, wearing the lab coat, in the middle of an experiment. I asked them to wait but they told me to come immediately. I thought I was being arrested.” Lagadinova was instead "promoted" (or displaced?), and appointed President of the Committee of the Bulgarian Women's Movement (CBWM) and, in 1971, became a member of the Central Committee of the Communist Party. She was President of the Women's Committee for twenty-two years, until 1990. She was also one of the most influential personalities on the international scene and in Bulgaria, where she made a decisive contribution to what Maria Dinkova defines as "the great Bulgarian women's revolution".

Lagadinova Amazone, newspaper cover.

POLITICS

From 1968, reluctantly leaving the field of research, Elena dealt, both at home and internationally, with politics in general, and in particular with “politics for women”. Before analyzing her actions in more detail, two things should be taken into consideration. One is that in the “Cold War” world, politics regarding women were also a field of ideological conflict. On one side, Western countries sought women’s approval, arguing that only outside the Iron Curtain, where individual freedoms were respected, could they find their liberty. On the other side, the socialist countries proposed themselves as the only places where the differences between the sexes were overcome, and where measures (in education and work) were implemented in women’s favor. The other consideration concerns the autonomy of state women's organizations. In the West, the organizations in socialist countries were viewed with suspicion, considered mere transmission belts of party orders - instruments of authoritarian control. Kristen Ghodsee (and other scholars after 1990), observed instead that the women of these organizations used their privileged relations with the Party to promoting effective policies that fought against male patriarchal privileges by appealing to the communist ideals of equality. In this context, the case of Bulgaria is particularly significant, as regards both the organization of the CBWM its strategy for approaching the problems, and its relationship with the central government. It must be said that the CBWM was largely based on voluntary work. There were both national and local bodies, but only women on the highest levels were employed by the state. It was an organization open to all women, whether or not they were members of the Communist Party. Pavlina Popova and also Anna Durcheva reported, “Elena Lagadinova didn't care who you were […], she cared that you were a good worker.” The CBWM also had a certain financial autonomy, as the proceeds of the monthly "Zhenata Dne" (Woman Today), led by Sonia Bakish, another important figure in the Bulgarian women's movement, went directly into the budget of the CBWM.

Elena Lagadinova, the youngest partisan.

Regarding the CBWM’s relationship with the central government, Elena Lagadinova and the Committee never gave up pressing the politburo by making themselves the representatives of the needs and interests of women, taking up their requests and obtaining significant results. Let's see a little better with an example how the activity of Lagadinova and CBWM was carried out… With the Constitution of 1947, the condition of women had been improved. From the 1950s to the 1970s, Bulgaria experienced a period of rapid industrialization which saw an important contribution from the female workforce. However, there was a worrying decrease in the birth rate, and the appointment of Elena Lagadinova to the presidency of the CBWM can be considered a first response. A scientist was chosen because the problem had to be tackled from a scientific perspective, and, Lagadinova thought, by listening to women and giving them a voice. In fact, with the collaboration of the Central Statistical Institute, research was carried out to better understand the situation. Questions were asked about the distribution of work and family responsibilities, and it emerged that the greatest burden of family management weighed on women, as always. In short, many of them would like more children, but were held back by the lack of time, aid, and resources. And the truth was that there was not enough time for children, let alone for other activities like study, leisure, reading, and political participation. In short, the "communist" emancipation achieved in the workplace had not liberated women at all. To solve the problem, the simplest and cheapest proposal put forward by some politicians was to limit women's access to abortion as Romania had done. The CBWM instead suggested a set of alternative measures, such as maternity leave with job maintenance, family allowances, creation of crèches and services. In 1973, despite the important budgetary commitments they involved, these measures were approved. "Bulgaria was the most progressive country in terms of maternity leave and family policy among the socialist countries," says Popova, Elena's collaborator. On the question of abortion, however, a compromise was reached: abortion was denied to married women with less than two children. Even after the approval of the law, Lagadinova did not stop pressing offices, companies, government, ministries to obtain its implementation, giving voice to complaints, and many varied requests regarding the scarce availability of diapers, footwear, and housing – points made by many women in letters sent to the Committee.

Elena Lagadinova with Angela Davis, nel 1972.

Beginning in the 1980s, the CBWM became involved in campaigns aimed at changing the distribution of domestic work. The monthly "Women Today" began to publish photos of men knitting, changing diapers or carrying their offspring in a sling. Another important chapter of Elena Lagadinova's activity concerns international issues. During the United Nations Decade for Women (1975-1985), Lagadinova traveled extensively, weaving a dense network of bilateral relations with hundreds of women's organizations from the East, West and the Third World. She was appointed General Speaker at the World Conference on Women in Nairobi in 1985 and then joined the United Nations Institute for the Education of Women. In 1991, the Claremont Graduate School of the United States awarded her the presidential medal for outstanding merit.

The award statement included this praise:

[…] the world stage […] Long before a new world order emerged, you had already imagined one.
You behaved as if it already existed, and through your actions you contributed to its birth.
You have gone beyond the narrow borders of party and nationality to create an international network of scholars and politicians committed to the improvement of women's lives.
Through your work with the United Nations, you have influenced the lives of women around the world and,
through them, the fates of their families.”

Can we really talk, as does Maria Dinkova, about the "great revolution of women"? Or was theirs "an emancipation from above"? Undoubtedly there were limitations - controls by an authoritarian state, prohibition of autonomous organizations, limitations on civil rights (think of the absence of the theme of homosexuality, for example), and a belated and limited questioning of the role of women as mothers and workers. But it can be said that, despite these limitations, Elena Lagadinova and the entire CBWM helped Bulgarian women take considerable steps forward, and contributed to their autonomy and self-realization. Following the fall of the Berlin Wall in 1989, the CBWM was dissolved and Elena Lagadinova retired from public life. He died in her sleep in Sofia, on October 29, 2017.

 More info:

  • Ghodsee K., Pressuring the Politburo: The Committee of the Bulgarian Women’s Movement and State Socialist Feminism, Slavic Review, vol. 73 Cambridge Univ. Press, 2014
  • Ghodsee K., Second World, Second Sex, Socialist Women's Activism and Global Solidarity during the Cold War, Duke Univ. Press, 2019

 

Traduzione bulgara
Violeta Atanassova

«Трябва да се борите за това, в което вярвате.» (откъси от интервю с Kristen Ghodsee)

ПАРТИЗАНИНЪТ

Партизанско име: Амазонка! За кого говорим? За момиче, което едва на 11 годишна възраст е вече куриер за партизаните. През 1944 г., на 14 годишна възраст., когато България участва във войната на страната на съюзниците на нацистка Германия, тя бяга от горящия си дом — подпален от полицията — и се присъединява към двамата си по-големи братя, които вече са в планината. Така тя става най-младият български партизанин. Един от двамата й братя, Асен Лагадинов, е убит в следствие на засада. Елена обаче продължава да се бори, като печели прякора „Амазонка“ заради смелостта си.„Носих пистолета на връв около врата си. По този начин, ако ни нападнехаи, нямаше да се окаже, че съм го забравила някъде“, спомня си тя по-късно. Също така се говори, че през септември 1944 г. Елена, яхнала бял жребец, упътва партизаните, идващи от планините. Нейната снимка е във всички вестници и списания за младите хора от Белград до Москва. Тя се превръща в пример, дори мит — „Бъди толкова смела, колкото Амазонка!“

Елена Лагадинова през 1944г.

ИЗСЛЕДОВАТЕЛЯТ

След войната България, управлявана от Георги Димитров, се присъединява към съветския блок. Елена учи в СССР и завършва с докторска степен по агробиология. Завръщайки се в родината си, тя работи тринадесет години като изследовател в Академията на науките на своята страна и допринася за създаването на по-здрав пшеничен хибрид (тритикале/ triticale), който позволява увеличаване на селскостопанското производство. За работата си в областта на растителната генетика правителството ѝ връчва наградата Национален орден на Кирил и Методио през 1959 г. Елена обаче критикува контрола, упражняван върху научните изследвания в Съветския свят. През май 1967 г. тя пише писмо до съветския министър-председател Леонид Брежнев, в което изразява загриженост относно липсата на технически умения на партийните кадри, които оказват силно влияние върху научноизследователската дейност. Писмото е задържано от българското правителство, в резултат на което Елена се страхува за свободата си.„Един ден, докато бях в Академията, те изпратиха кола за мен. Бях в лабораторията, с лабораторната престилка, и работех върху един експеримент. Помолих ги да изчакат, но ми казаха да дойда веднага. Мислех, че съм арестувана. Вместо това Лагадинова е „повишена“ (или по-скор разселена) и назначена за председател на Комисията на Българското женско движение (КБЖД), а през 1971 г. става член на Централния комитет на Комунистическата партия. Тя е председател на КБЖД в продължение на двадесет и две години, до 1990 г. Тя е и една от най-влиятелните личности на международната сцена и в България, където има решаващ принос към това, което Мария Динкова определя като „великата женска революция в България“.

Лагадинова Амазоне, корица на вестник.

ПОЛИТИКЪТ

От 1968 г., когато напуска сферата на научните изследвания, Елена се занимава, както у дома, така и в международен план, с политика като цяло, и по-специално с „политиката за жените“.Преди да се анализират по-подробно нейните действия, следва да се вземат предвид две неща. Първото е, че в света на Студената война политиката по отношение на жените също е и област на идеологически конфликт. От една страна, западните държави търсят одобрението на жените, изтъквайки, че те могат да намерят своята свобода само отвъд пределите на Желязната завеса. От друга страна, социалистическите страни представят самите себе си като единствените места, където различията между половете са вече преодолени и където се прилагат мерки (в областта на образованието и труда) в полза на жените. Второто съображение се отнася до автономията на държавните организации на жените. На Запада на организациите в социалистическите страни се гледа с подозрение, и се счита, че те са просто едно от звената за предаване на партийни заповеди, т.е. използват се като инструменти за авторитарен контрол. Kristen Ghodsee (и други учени след 1990 г.) обаче отбеляза, че жените от тези организации са използвали привилегированите си отношения с партията, за да насърчават ефективни политики, които се борят срещу мъжките патриархални привилегии, като се обръщат към комунистическите идеали за равенство. В този контекст случаят на България е особено важен, както по отношение на организацията на стратегията на КБЖД за справяне с проблемите, така и по отношение на отношенията ѝ с централното правителство. Трябва да се отбележи, че КБЖД до голяма степен се основава на доброволческа дейност. Съществуват както национални, така и местни органи, но само жените на най-високо равнище са държавни служители. Това е организация, отворена за всички жени, независимо дали са членове на комунистическата партия или не. Павлина Попова, както и Анна Дърчева, казват, че „Елена Лагадинова не се е интересувала от това кои са жените в организацията [...], а само от това дали са добри работници. „ КБЖД притежава и известна финансова самостоятелност, тъй като приходите от месечното издание „Жената днес“, ръводено от Соня Бакиш, друга важна фигура в движението на българските жени, постъпват директно в бюджета на организацията. Що се отнася до отношенията на КБЖД с централното правителство, Елена Лагадинова и Комисията никога не се отказват да оказват натиск върху политбюро, като се превъръщат в представители на нуждите и интересите на жените, приемайки техните искания, и постигат значителни резултати. Примерът по-долу показва по-подробно как в действителност е била осъществявана дейността на Лагадинова и КБЖД...

Елена Лагадинова, младата партизанка.

С Конституцията от 1947 г. положението на жените е подобрено. Между 1950 г. и 1970 г. на миналия век в България се наблюдава период на бърза индустриализация, в който жените имат важен принос. Наблюдава се обаче тревожно намаляване на раждаемостта и назначаването на Елена Лагадинова за председател на КБЖД може да се счита като опит за решаване на този проблем. На поста е избран учен, защото проблемът трябва да бъде решен от научна гледна точка, а Лагадинова мисли, като се вслушва в жените и им дава глас. Всъщност в сътрудничество с Централния статистически институт са проведени изследвания за по-добро разбиране на ситуацията. Проведени са анкети относно разпределението на работата и семейните отговорности и става ясно, че най-голямата тежест от управлението на семейството пада върху жените, както винаги. Накратко, много от тях биха искали повече деца, но са възпрепятствани от липсата на време, помощ и ресурси. Истината е, че нямат достатъчно време за децата, а още по-малко за други дейности като обучение, хобита, четене и участие в политиката. С други думи, „комунистическата“ еманципация, постигната на работното място, изобщо не освобождава жените. За да се реши проблемът, най-простото и евтино предложение на някои политици е да се ограничи достъпът на жените до аборт, както е направено в Румъния. Вместо това КБЖД предлага набор от алтернативни мерки, като например отпуск по майчинство със запазване на работното място, семейни надбавки, създаване на детски ясли и услуги. През 1973 г., въпреки значителните бюджетни задължения, свързани с тях, тези мерки са одобрени.„България е най-прогресивната страна по отношение на отпуска по майчинство и семейната политика сред социалистическите страни“, казва Попова, сътрудник на Елена. По въпроса за абортите също се стига до компромис: на омъжени жени с по-малко от две деца се отказва аборт. Дори и след одобряването на закона Лагадинова не сприра да оказва натиск върху съответните служби, фирми, правителства и министерства за неговото прилаган, като дава гласност на оплакванията, както и много различни искания във връзка с недостатъчната наличност на пелени, обувки и жилища — въпроси, повдигнати от много жени в писма, изпратени до Комисията.

Елена Лагадинова и Анджела Дейвис, през 1972г.

От 1980-те години на миналия век КБЖД участва в кампании, насочени към промяна на разпределението на домашните задължения. Месечното издание „Жената днес“ започва да публикува снимки на мъже, които плетат, сменят пелени или разхождат децата си в количка. Друга важна глава от дейността на Елена Лагадинова се отнася до международните въпроси. По време на Десетилетието на ООН на жените (1975—1985 г.) Лагадинова пътува много, като изгражда гъста мрежа от двустранни отношения със стотици женски организации от Изтока, Запада и Третия свят. Тя е назначена за главен председател на Световната конференция за жените в Найроби през 1985 г. и след това се присъединява към Института на ООН за образование на жените. През 1991 г. Университетъ в Кларемон в Съединените щати ѝ връчва президентски медал за изключителни заслуги.

Декларацията при присъждане на наградата включва следната похвала:

В името на всички нации Вие застанахте на [...] световната сцена [...].
Дълго преди да се появи нов световен ред, Вие вече си го бяхте представили.
Вие действахте все едно този световен ред вече съществува и чрез действията си допринесохте за неговото появяване. Надхвърлихте тесните граници на партия и националност, за да създадете международна мрежа от учени и политици, ангажирани с подобряването на живота на жените.
Чрез работата си с Организацията на обединените нации вие повлияхте на живота на жените по света и чрез тях на съдбата на техните семейства

Можем ли наистина да говорим, както го прави Мария Динкова, за „голямата революция на жените“? Или това е била „спусната отгоре еманципация“? Несъмнено съществуват ограничения — контрол от страна на авторитарна държава, забрана на независими организации, ограничения на гражданските права, например отсъствието на темата за хомосексуалността, и закъсняло и ограничено поставяне под въпрос на ролята на жените като майки и работници. Може обаче да се каже, че въпреки тези ограничения Елена Лагадинова и цялата КБЖД помогнаха на българските жени да постигнат значителен напредък и допринесоха за тяхната независимост и самореализация. След падането на Берлинската стена през 1989 г. КБЖД е разпусната и Елена Лагадинова се оттегля от обществения живот. Почива в съня си в София на 29-ти октомври 2017 г.

Inge Lehmann

Valeria Pilone


Eleonora Nascimbeni

Chiunque abbia studiato scienze naturali a scuola, sa che la Terra ha una struttura complessa che vede la presenza di due nuclei, uno esterno più liquido e uno interno più solido, e che tra i due nuclei è presente la cosiddetta “discontinuità di Lehmann”. Nei libri è ricordato al massimo che la discontinuità prende il nome dalla geofisica e sismologa danese Inge Lehmann. Ma il suo merito è veramente grande: se conosciamo meglio il centro della Terra lo dobbiamo soprattutto agli studi di questa scienziata. Prima delle ricerche e intuizioni di Inge, la scienza credeva che il nucleo del nostro pianeta, posizionato a migliaia di chilometri di profondità sotto la crosta terrestre e i vari strati del mantello, fosse una sfera di materiale completamente liquido. Lehmann ha scoperto che, in realtà, è liquida solo la parte esterna del nucleo, mentre quella interna è composta prevalentemente di ferro allo stato solido. Per compiere i suoi studi e le sue osservazioni, la scienziata ha raccolto per anni informazioni sulle variazioni di velocità delle onde sismiche, rilevate dai sismografi durante i terremoti. Ancora oggi si studiano i terremoti come strumento per interpretare l’andamento delle onde sismiche, dal momento che non è possibile osservare direttamente l’interno della Terra.

In modo particolare, il 17 giugno 1929 un forte terremoto di magnitudo 7.3 della scala Richter aveva colpito la Nuova Zelanda. La scienziata analizzò le onde P, quelle che per prime vengono rilevate da una stazione sismica, e riscontrò alcune anomalie nel modo in cui si propagavano attraverso il pianeta. Tali onde, secondo l’ipotesi di Inge, sembravano ad un certo punto incontrare un ostacolo che ne modificava traiettoria e velocità. In uno studio pubblicato nel 1936 e intitolato P, Lehmann spiegò che le anomalie nella propagazione delle onde erano l’effetto della presenza di un nucleo interno solido. Ipotizzò, quindi, che il centro della Terra fosse costituito da una parte esterna liquida e una interna solida. La separazione tra le due parti avviene a circa cinquemila chilometri di profondità, in quella che ora è conosciuta, appunto, come “discontinuità di Lehmann”. La teoria di Inge fu subito accolta dai sismologi del suo tempo, ma sarà validata definitivamente solo all’inizio degli anni Settanta, quando attrezzature sismografiche maggiormente sensibili e precise riusciranno a rilevare in modo diretto la deviazione delle onde P per effetto della presenza di un nucleo interno solido. Un contributo, dunque, assai importante per il mondo della scienza, quel mondo in cui – ci fanno sapere Sara Sesti e Liliana Moro nel loro bel volume Scienziate nel tempo – «per ottenere promozioni pari a quelle di un ricercatore, una ricercatrice deve essere 2,6 volte più brava», secondo un calcolo compiuto dalle microbiologhe svedesi Christine Wenneras e Agnes Wold. E Inge Lehmann deve essere stata particolarmente brava, perché negli anni in cui ha indefessamente lavorato, non disponeva certo della capacità di calcolo dei nostri moderni computer, o di tutti i sofisticati strumenti scientifico-tecnologici che oggi danno una grossa mano a scienziati e scienziate nei loro percorsi di ricerca. Pare che facesse i suoi calcoli annotando quanto osservava su pezzi di scatole per cereali. Essi erano talmente meticolosi che nel 1971, in occasione del conferimento a Inge della medaglia Bowie, Francis Birch, geofisico che aveva preso parte al “Progetto Manhattan” (quello, per intenderci, che portò alla realizzazione delle prime bombe atomiche durante la Seconda guerra mondiale), disse che «la discontinuità di Lehmann fu scoperta attraverso un attento e minuzioso esame delle registrazioni sismiche fatta da un maestro di arte nera, senza nessun apporto di computerizzazione» (tradotto da Bertha Swirles, Quarterly Journal of the Royal Astronomical Society, 1994, in https://www.famousscientists.org/).

Del resto, Inge era proprio nata sotto una buona stella il 13 maggio 1888 a Copenaghen. Suo padre era lo psicologo Alfred Georg Ludvik Lehmann che nel 1886 aveva aperto il primo laboratorio sperimentale di psicologia all’Università cittadina. Da ragazza aveva frequentato la scuola superiore ad indirizzo pedagogico-progressista diretta da Hanna Adler, pioniera dell’educazione mista in Danimarca e una delle prime due donne danesi ad avere la laurea in fisica, nonché zia di Niels Bohr, futuro fisico nucleare e premio Nobel per la Fisica nel 1922. In questa scuola maschi e femmine studiavano insieme le stesse materie, senza discriminazioni. Suo padre e Hanna Adler rappresentarono, dunque, due figure fondamentali nella sua formazione. Appassionatasi alle materie scientifiche, si iscrisse alla facoltà di matematica dell’Università di Copenaghen e trascorse un anno a Cambridge, dove ebbe non poche difficoltà ad adattarsi alle severe restrizioni imposte alle ragazze. Dopo un periodo di discontinuità negli studi a causa di diversi problemi di salute, nel 1920, all’età di 32 anni, Inge si laureò in matematica e trovò impiego come assistente amministrativa nel dipartimento di scienze dell’Università di Copenaghen. Nel 1925 diventò assistente del prof. Niels Erik Nørlund, matematico appassionato di geodesia, la scienza che studia la forma della Terra e le sue dimensioni. Questo ramo scientifico la affascinò a tal punto che Lehmann vi si specializzò nel 1928, a 40 anni, diventando geodeta di Stato e direttrice del dipartimento di sismologia dell’Istituto Geodetico di Danimarca, presieduto da Nørlund.

Inge Lehmann. Foto di Peter Elfelt, American Geophysical Union (AGU), per concessione dall'archivio visivo Emilio Segrè dell'AIP.

Con l’inizio della Seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista del Paese, Inge non riuscì a lavorare come voleva. Dopo la guerra i suoi rapporti con l’Istituto Geodetico si incrinarono, sia perché non fu per lei facile affermarsi in un ambiente fortemente maschilista e ostile alle donne quale quello scientifico della prima metà del XX secolo, sia perché probabilmente Inge Lehmann non doveva essere molto diplomatica. Lei stessa ebbe ad affermare: «Sapessi con quanti uomini incompetenti ho dovuto competere, invano». Nel 1953 si pensionò dall’Istituto e si recò negli Stati Uniti per continuare i suoi studi, appassionati fino alla fine: pubblicò il suo ultimo articolo, Seismology in the Days of Old, nel 1987, all’incredibile età di 99 anni. Numerosi sono stati i premi, i dottorati honoris causa e i riconoscimenti ricevuti: tra questi, l’elezione a componente della Royal Society nel 1969, la medaglia William Bowie nel 1971 (fu la prima donna a riceverla) e la medaglia della Società Sismologica Americana nel 1977. Sono a lei intitolati l’asteroide 5632, chiamato Ingelehmann, un luogo lungo la U.S. Route 1 e un ponte ad Aventura, entrambi in Florida, oltre ad alcune strade in Germania.Nel 1997 la American Geophysical Union ha istituito la “Inge Lehmann Medal” per premiare «notevoli contributi resi per la comprensione della struttura, composizione e dinamica del mantello e del nucleo della Terra». Inge si è spenta a Copenaghen il 21 febbraio 1993, alla veneranda e feconda età di 105 anni. È stata una grande studiosa, una donna intelligente, amante della montagna, che si è fatta strada in un mondo da sempre maschile per (distorta) antonomasia, una straordinaria scienziata che nel panorama delle Stem (Science, Technology, Engineering, Math) brilla come astro luminoso nella storia europea della scienza. Sui nostri libri di scuola meriterebbe ben più che una menzione.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

Quiconque a étudié les sciences naturelles à l'école sait que la Terre a une structure complexe qui voit la présence de deux noyaux, un plus liquide à l'extérieur et un autre plus solide à l'intérieur, et qu'entre les deux noyaux il y a la ainsi nommée «discontinuité de Lehmann». Dans les livres, on se souvient au maximum que la discontinuité porte le nom de la géophysicienne et sismologue danoise Inge Lehmann. Mais son mérite est vraiment grand: si nous connaissons mieux le centre de la Terre, nous le devons avant tout aux études de cette scientifique. Avant les recherches et les idées d'Inge, la science croyait que le noyau de notre planète, situé à des milliers de kilomètres de profondeur sous la croûte terrestre et les différentes couches du manteau, était une sphère de matière complètement liquide. Lehmann a constaté qu'en réalité, seule la partie externe du noyau est liquide, tandis que la partie interne est principalement composée de fer à l'état solide. Pour mener à bien ses études et observations, la scientifique a collecté pendant des années des informations sur les variations de vitesse des ondes sismiques, détectées par des sismographes lors de tremblements de terre. Les tremblements de terre sont encore étudiés aujourd'hui comme un outil pour interpréter la tendance des ondes sismiques, car il n'est pas possible d'observer directement l'intérieur de la Terre.

En particulier, le 17 juin 1929, un fort tremblement de terre de 7,3 sur l'échelle de Richter a frappé la Nouvelle-Zélande. La scientifique a analysé les ondes P, celles qui sont détectées en premier par une station sismique, et a trouvé des anomalies dans la façon dont elles se sont propagées à travers la planète. Ces ondes, selon l'hypothèse d'Inge, semblaient à un moment donné rencontrer un obstacle qui changeait leur trajectoire et leur vitesse. Dans une étude publiée en 1936 et intitulée P, Lehmann expliquait que les anomalies de propagation des ondes étaient l'effet de la présence d'un noyau interne solide. Elle a donc émis l'hypothèse que le centre de la Terre était composé d'une partie externe liquide et d'une partie interne solide. La séparation entre les deux parties se produit à une profondeur d'environ cinq mille kilomètres, dans ce que l'on appelle maintenant précisément la «discontinuité de Lehmann». La théorie d'Inge a été immédiatement acceptée par les sismologues de son temps, mais elle ne sera définitivement validée qu'au début des années 1970, lorsque des équipements sismographiques plus sensibles et précis pourront détecter directement la déviation des ondes P due à la présence d'un noyau intérieur solide. Une contribution très importante, donc, pour le monde de la science, ce monde dans lequel - Sara Sesti et Liliana Moro nous informent dans leur beau volume Scientifiques femmes dans le temps - "pour obtenir des promotions égales à celles d'un chercheur, une chercheuse doit être 2,6 fois meilleure », selon un calcul effectué par les microbiologistes suédoises Christine Wenneras et Agnes Wold. Et Inge Lehmann a dû être particulièrement excellente, car dans les années pendant lesquelles elle a travaillé sans relâche, elle ne pouvait certainement pas compter sur la capacité de calcul de nos ordinateurs modernes, ni de tous les outils scientifiques et technologiques sophistiqués qui donnent aujourd'hui un grand coup de main aux scientifiques dans leurs parcours de recherche. Apparemment, elle a fait ses calculs en notant ce qu'elle a observé sur des morceaux de boîtes de céréales. Ils étaient si méticuleux qu'en 1971, à l'occasion de la remise de la médaille Bowie à Inge, Francis Birch, géophysicien ayant participé au «Manhattan Project» (celui, pour ainsi dire, qui a conduit à la création des premières bombes atomiques pendant la Seconde Guerre mondiale ), a déclaré que "la discontinuité de Lehmann a été découverte grâce à un examen attentif et méticuleux des enregistrements sismiques réalisés par un maître de l'art noir, sans aucune contribution de l'informatisation" (traduit par Bertha Swirles, Quarterly Journal of the Royal Astronomical Society, 1994, dans https://www.famousscientists.org/)https://www.famousscientists.org/

Après tout, Inge est née sous une bonne étoile le 13 mai 1888 à Copenhague. Son père était le psychologue Alfred Georg Ludvik Lehmann qui, en 1886, avait ouvert le premier laboratoire de psychologie expérimentale à l'Université de la ville. En tant que jeune fille, elle avait fréquenté le lycée avec un discours pédagogique progressif dirigé par Hanna Adler, une pionnière de l'éducation mixte au Danemark et l'une des deux premières femmes danoises à avoir un diplôme en physique, ainsi que la tante de Niels Bohr, future physicienne nucléaire et lauréate du prix Nobel. pour la physique en 1922. Dans cette école, garçons et filles étudiaient ensemble les mêmes matières, sans discrimination. Son père et Hanna Adler représentaient donc deux figures fondamentales de sa formation. Passionnée par les matières scientifiques, elle s'inscrit à la faculté de mathématiques de l'Université de Copenhague et passe un an à Cambridge, où elle a de nombreuses difficultés à s'adapter aux sévères restrictions imposées aux filles. Après une période de discontinuité dans les études en raison de divers problèmes de santé, en 1920, à l'âge de 32 ans, Inge obtient son diplôme en mathématiques et trouve un emploi en tant qu'assistante administrative au département des sciences de l'Université de Copenhague. En 1925, elle devient assistante du prof. Niels Erik Nørlund, mathématicien passionné par la géodésie, la science qui étudie la forme de la Terre et ses dimensions. Cette branche scientifique la fascinait à tel point que Lehmann s'y spécialisa en 1928, à l'âge de 40 ans, devenant géodésiste d'État et directeur du département de sismologie de l'Institut géodésique du Danemark, présidé par Nørlund.

Inge Lehmann. Inge Lehmann. Photo de Peter Elfelt, American Geophysical Union (AGU), avec l'aimable autorisation de l'AIP des archives visuelles Emilio Segrè.

Avec le début de la Seconde Guerre mondiale et l'occupation nazie du pays, Inge était incapable de travailler comme elle le souhaitait. Après la guerre, ses relations avec l'Institut géodésique se sont rompues, à la fois parce qu'il n'était pas facile pour elle de s'établir dans un environnement fortement dominé par les hommes et hostile comme celui scientifique de la première moitié du XXe siècle, et parce que probablement Inge Lehmann ne devait pas être vraiment très diplomatique. Elle a dit: “si vous saviez combien d'hommes incompétents avec lesquels j’ai dû concourir, en vain." En 1953, elle se retire de l'Institut et part aux États-Unis pour continuer ses études, passionnées jusqu'au bout: elle publie son dernier article, Seismology in the Days of Old, en 1987, à l'âge incroyable de 99 ans. Elle a reçu de nombreux prix, doctorats honorifiques et reconnaissances: parmi eux, l'élection en tant que membre de la Royal Society en 1969, la médaille William Bowie en 1971 (elle a été la première femme à la recevoir) et la médaille de l'American Seismological Society en 1977. On donne son nom à l'astéroïde 5632, Ingelehmann, à un endroit le long de la U.S Route 1 et à un pont à Aventura, tous deux en Floride, ainsi qu'à quelques routes en Allemagne. En 1997, l'American Geophysical Union a créé la «Médaille Inge Lehmann» pour récompenser «les contributions notables apportées à la compréhension de la structure, de la composition et de la dynamique du manteau et du noyau de la Terre». Inge décède à Copenaghen le 21 février 1993, à l'âge vénérable et fécond de 105 ans. C'était une grande érudite, une femme intelligente, une amoureuse des montagnes, qui s'est frayée un chemin dans un monde qui a toujours été masculin par antonomasie (déformée), une scientifique extraordinaire qui brille comme un étoile lumineuse dans l'histoire européenne de la science. Dans nos manuels scolaires, elle mériterait bien plus qu'une simple mention.

 

Traduzione inglese
Cettina Callea

Anyone who has studied natural sciences at school knows that the Earth has a complex structure with a two-layer nucleus. The external layer is more liquid, and the internal one, more solid. Between the layers there is the so-called "Lehmann discontinuity.” Books remind us that the discontinuity takes its name from the great Danish geophysicist and seismologist Inge Lehmann. What we know about the complexity of the centre of the Earth, we owe, above all, to the studies conducted by this female scientist. Before Inge's research and insights, science believed that the core of our planet, lying thousands of kilometers beneath the earth's crust and the various layers of the mantle, was a sphere of completely liquid material. Lehmann discovered that, in reality, only the external part of the core is liquid, while the internal part is mainly made of iron in a solid state. In order to carry out her studies and observations, Lehman spent years collecting information on speed variations in seismic waves, detected by seismographs during earthquakes. Earthquakes and their seismic waves are still studied today as a tool for interpreting the structure of the earth, since it is not possible to directly observe the interior of the earth.

On June 17, 1929, a strong earthquake measuring 7.3 on the Richter scale struck New Zealand. Lehmann analyzed the P waves, the ones that are first detected by seismic instruments, and found some anomalies in the way they propagated across the planet. These waves, according to Inge's hypothesis, seemed at one point to encounter an obstacle that changed their trajectory and speed. In a study published in 1936 and entitled “P,” Lehmann explained that the anomalies in wave propagation were the effect of the presence of a solid inner core. She hypothesized, therefore, that the centre of the Earth was made up of a liquid external part and a solid internal part. The separation between the two parts takes place at a depth of about five thousand kilometers, in what is now known as the "Lehmann discontinuity. Inge's theory was immediately accepted by the seismologists of her time, but it was definitively validated only at the beginning of the 1970s, when more sensitive and precise seismographic instruments were able to directly detect the deviation of P waves due to the presence of the solid interior of the nucleus. She made a very important contribution to the world of science. As Sara Sesti and Liliana Moro write in their beautiful volume "Scientists in Time" - "to obtain promotions equal to those of a male researcher, a woman must be 2 to 6 times better," according to a calculation made by Swedish microbiologists Christine Wenneras and Agnes Wold. And Inge Lehmann must have been particularly good, because in the years in which she worked tirelessly, she certainly did not have our modern computing capacity, or access to all the sophisticated scientific-technological tools that today provide huge help to scientists in their research and analysis. Apparently, she made her calculations by noting what she observed on pieces of cereal boxes. The observations were so meticulous that in 1971, on the occasion of the awarding of the Bowie medal to Inge, Francis Birch, a geophysicist who had taken part in the "Manhattan Project" (the one, to be clear, which led to the creation of the first atomic bombs during the Second World War ), said that "Lehmann's discontinuity was discovered through a careful and meticulous examination of the seismic records made by a master of black art, without any contribution of computerization" (translated by Bertha Swirles, Quarterly Journal of the Royal Astronomical Society, 1994, in https://www.famousscientists.org/).https://www.famousscientists.org/

After all, Inge was born under a lucky star on May 13, 1888 in Copenhagen. Her father was the psychologist Alfred Georg Ludvik Lehmann who in 1886 had opened the first experimental psychology laboratory at the city’s university. As a young girl she had attended high school with a pedagogical-progressive orientation, directed by Hanna Adler, a pioneer of mixed education in Denmark and one of the first two Danish women to have a degree in physics, as well as aunt of Niels Bohr, future nuclear physicist and Nobel laureate for Physics in 1922. In this school, boys and girls studied the same subjects together, without discrimination. Her father and Hanna Adler therefore represented two fundamental figures in her training. Passionate about scientific subjects, she enrolled in the mathematics faculty of the University of Copenhagen and spent a year in Cambridge, where she had many difficulties in adapting to the severe restrictions imposed on girls. After a period of discontinuity in her studies due to various health problems, in 1920, at the age of 32, Inge graduated in mathematics and found employment as an administrative assistant in the science department of the University of Copenhagen. In 1925 she became an assistant to Prof. Niels Erik Nørlund, a mathematician passionate about geodesy, the science that studies the shape of the Earth and its dimensions. This scientific branch fascinated her to such an extent that Lehmann specialized there in 1928, at the age of 40, becoming a state geodesist and director of the seismology department of the Geodetic Institute of Denmark, chaired by Nørlund.

Inge Lehmann. Inge Lehmann. Photo by Peter Elfelt, American Geophysical Union (AGU), courtesy of the AIP Emilio Segrè visual archive.

With the onset of World War II and the Nazi occupation of the country, Inge was unable to work as she wanted. After the war her relations with the Geodetic Institute broke down, both because it was not easy for her to establish herself in a strongly male-dominated and hostile environment such as the scientific one of the first half of the twentieth century, and maybe since Inge Lehmann was probably not very diplomatic. She said: "If you only knew how many incompetent men I had to compete with, in vain." In 1953 she retired from the Institute and went to the United States to continue her studies, passionate to the end. She published her last article, “Seismology in the Days of Old,” in 1987, at the incredible age of 99. She received numerous awards, honorary doctorates and acknowledgments, among them, election as a member of the Royal Society in 1969, the William Bowie medal in 1971 (she was the first woman to receive it) and the American Seismological Society medal in 1977. Asteroid 5632 was called Inge Lehmann after her, as were a place along the U.S. Route 1 a bridge in Aventura, both in Florida, and some roads in Germany. In 1997 American Geophysical Union instituted the "Inge Lehmann Medal,” a reward for notable contributions made to the understanding of the structure, composition and dynamics of the Earth's mantle and core. Inge passed away in Copenhagen on February 21, 1993, at the venerable and fruitful age of 105. She was a great scholar, an intelligent woman and a lover of the mountains, who made her way in a world that has always (unfairly) been dominated by men. She was an extraordinary scientist who, in the panorama of STEM (Science, Technology, Engineering, Math), shines as bright star in the European history of science. In our school books she deserves much more than just a mention.

 

Traduzione danese
Anne Marie Østergard

Enhver, der har studeret naturvidenskab i skolen ved, at Jorden har en kompleks struktur med en to-lags kerne. Det udvendige lag er mere flydende, og det interne er mere fast. Mellem lagene er der den såkaldte "Lehmann diskontinuitet”. Bøger minder os om, at diskontinuiteten har sit navn fra den store danske geofysiker og seismolog Inge Lehmann. Det, vi ved om kompleksiteten i jordens centrum, skyldes frem for alt de undersøgelser, som denne kvindelige videnskabsmand har foretaget. Før Inges forskning og indsigt mente videnskaben, at kernen i vores planet, der ligger tusindvis af kilometer under jordskorpen og de forskellige lag af kappen, var en sfære af helt flydende materiale. Lehmann opdagede, at i virkeligheden er det kun den ydre del af kernen, der er flydende, mens den indre del hovedsageligt består af jern i fast tilstand. For at kunne gennemføre sine undersøgelser og observationer brugte Lehman år på at indsamle oplysninger om hastighedsvariationer i seismiske bølger, som blev opdaget af seismografer under jordskælv. Jordskælv og deres seismiske bølger bliver stadig undersøgt i dag som et redskab til at fortolke strukturen af jorden, da det ikke er muligt direkte at observere det indre af planeten.

Den 17. juni 1929 ramte et kraftigt jordskælv New Zealand, og der blev målt 7,3 på Richter-skalaen. Lehmann analyserede P bølgerne, som er dem, der først opdages af seismiske instrumenter, og fandt nogle anomalier i den måde, de formerer over hele planeten. Disse bølger, ifølge Inge's hypotese, syntes på et tidspunkt at støde på en hindring, der ændrede deres bane og hastighed. I en undersøgelse offentliggjort i 1936 med titlen "P" forklarede Lehmann, at anomalierne i bølgeformering var effekten af tilstedeværelsen af en fast indre kerne. Hun antager derfor, at jordens centrum består af en flydende ydre del og en fast indvendig del. Adskillelsen mellem de to dele finder sted i en dybde på omkring fem tusinde kilometer, i det, der nu er kendt som "Lehmann diskontinuitet”. Inge's teori blev straks accepteret af seismologer af hendes tid, men det blev først endeligt valideret først i begyndelsen af 1970'erne, da mere følsomme og præcise seismografiske instrumenter var i stand til direkte at opdage afvigelsen af P bølger på grund af tilstedeværelsen af det faste indre af kernen. Hun ydede et meget vigtigt bidrag til videnskabens verden. Som Sara Sesti og Liliana Moro skriver i deres smukke bind "Scientists in Time": "for at opnå forfremmelser svarende til en mandlig forsker, skal en kvinde være 2 til 6 gange bedre" ifølge en beregning foretaget af de svenske mikrobiologer Christine Wenneras og Agnes Wold. Og Inge Lehmann må have været særlig god, for i de år, hvor hun arbejdede utrætteligt, havde hun bestemt ikke vores moderne computerkapacitet eller adgang til alle de avancerede videnskabelige-teknologiske værktøjer, der i dag giver stor hjælp til forskere i deres forskning og analyse. Tilsyneladende lavede hun sine beregninger ved at bemærke, hvad hun observerede på stykker af korn-kasser. Observationerne var så omhyggelige, at i 1971 i anledning af tildelingen af Bowie-medaljen til Inge, sagde Francis Birch, en geofysiker, der havde deltaget i "Manhattan Project" (den ene, at være klar, hvilket førte til oprettelsen af den første atombomber under Anden Verdenskrig ) at "Lehmanns diskontinuitet blev opdaget gennem en meget omhyggelig undersøgelse af de seismiske optegnelser foretaget af en mester i sort kunst, uden bidrag til datamatisering" (oversat af Bertha Swirles, Quarterly Journal of The Royal Astronomical Society, 1994, i https://www.famousscientists.org/).https://www.famousscientists.org/

Inge blev trods alt født under en heldig stjerne den 13. maj 1888 i København. Hendes far var psykologen Alfred Georg Ludvik Lehmann, som i 1886 havde åbnet det første eksperimentelle psykologilaboratoriumpå byens universitet. Som ung pige havde hun gået i gymnasiet med en pædagogisk-progressiv orientering, instrueret af Hanna Adler, en pioner inden for blandet uddannelse i Danmark og en af de to første danske kvinder, der havde en grad i fysik. H.Adler var tante til Niels Bohr, der var atomfysiker og fik nobelprisen i fysik i 1922. I denne skole studerede drenge og piger sammen uden forskelsbehandling. Hendes far og Hanna Adler repræsenterede derfor to grundlæggende personer i hendes uddannelse. Lidenskabeligt optaget af naturvidenskabelige emner, blev hun indskrevet ved matematisk fakultet på Københavns Universitet og tilbragte et år i Cambridge, hvor hun havde mange problemer med at tilpasse sig de alvorlige restriktioner for piger. Efter en periode med afbrydelser i studierne på grund af forskellige helbredsproblemer, dimitterede Inge i 1920 i matematik i en alder af 32 og fandt beskæftigelse som administrativ assistent ved København universitets naturvidenskabelige afdeling. I 1925 blev hun assistent for Prof. Niels Erik Nørlund, en matematiker, der brændte for geodæsi, den videnskab, der studerer jordens form og dens dimensioner. Denne videnskabelige gren fascinerede hende i en sådan grad, at Lehmann specialiserede sig der i 1928, i en alder af 40, og blev statsgeodesist og direktør for seismologiafdelingen ved Geodætisk Institut i Danmark, ledet af Nørlund.

Inge Lehmann. Foto af Peter Elfelt, American Geophysical Union (AGU), takket være AIP Emilio Segrès visuelle arkiv.

Med udbruddet af 2. Verdenskrig og den nazistiske besættelse af landet var Inge ude af stand til at arbejde, som hun ønskede. Efter krigen brød hendes forhold til Geodætisk Institut sammen, både fordi det ikke var let for hende at etablere sig i et stærkt mandsdomineret og fjendtligt miljø, som det videnskabelige miljø var i første halvdel af det tyvende århundrede, men også fordi Inge Lehmann sandsynligvis ikke var særlig diplomatisk. Hun sagde: "Hvis du bare vidste, hvor mange inkompetente mænd, jeg var nødt til at konkurrere med, forgæves." I 1953 hun trak sig tilbage fra instituttet og tog til USA for at fortsætte sine undersøgelser, lidenskabelig til det sidste. Hun udgav sin sidste artikel i 1987 ”Seismology in the Days of Old” , i en utrolig alder af 99 år. Hun modtog adskillige priser, æresdoktoraterog anerkendelser, blandt dem kan især nævnes - valgt som medlem af Royal Society i 1969, William Bowie medalje i 1971 (hun var den første kvinde til at modtage den) og American Seismological Society medalje i 1977 Asteroide 5632 blev kaldt Inge Lehmann efter hende, ligesom et sted langs den amerikanske Route 1, en bro i Aventura, både i Florida, og nogle veje i Tyskland. I 1997 indførte American Geophysical Union "Inge Lehmann Medal",en belønning for bemærkelsesværdige bidrag til forståelsen af strukturen, sammensætningen og dynamikken i Jordens kappe og kerne. Inge døde i København den 21. februar 1993 i en alder af 105 år Hun var en stor lærd, en intelligent kvinde og en elsker af bjergene, der skabte sin vej i en verden, der altid har (uretfærdigt) været domineret af mænd. Hun var en ekstraordinær videnskabsmand , der i panorama af STEM (Videnskab, Teknologi, Teknik, Matematik), skinner som en lysende stjerne i den europæiske videnskabshistorie. I vores skolebøger fortjener hun meget mere end blot en omtale.

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