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Nel febbraio del 2013 iniziava una collaborazione tra Toponomastica femminile,  RBE (Radio Beckwith Evangelica) e Bradipodiario, blog legato alla radio attraverso il redattore Giuseppe Rissone. Dall'11 settembre 2013 la collaborazione con Bradipodiario è diventata continuativa.
Gli articoli, che escono regolarmente il secondo mercoledì di ogni mese, hanno come oggetto la toponomastica e la presenza femminile nelle valli valdesi.
 
 

Sulle tracce di Frida

Una mattina di primavera dell’anno appena trascorso mi decido ad andare a Orbassano per fotografare una targa femminile: dal censimento toponomastico vi risulta infatti uno slargo intitolato a Frida Malan. Prima di partire scarico da Internet la pagina che mi interessa: il luogo che cerco dovrebbe essere in pieno centro.

Una volta sul posto parcheggio e mi dirigo a piedi dove secondo la piantina dovrebbe trovarsi il mio obiettivo. Niente, non lo trovo. Interpello qualche passante. Occhi sbarrati, teste scosse, perplessità: nessuno ha mai sentito parlare di un largo Frida Malan. Entro in quella che sembra una libreria, è la biblioteca civica. Anche lì rivolgo la mia domanda, spiego perché cerco quell’indirizzo; una gentile signora fa una telefonata, espone il problema, mi manda da una collega in Comune, a due passi da lì. Quando ci arrivo trovo due impiegate comunali che, molto interessate, stanno consultando una cartina della città allargata sulla scrivania. Si sono prese a cuore la ricerca perché, mi dicono, loro stanno a Orbassano ma questo largo non l’hanno mai visto. Però sulla piantina c’è. Eccolo lì, non proprio in pieno centro come credevo: la mia mappa era sbagliata. Cortesissime, mi forniscono la piantina e mi segnano anche il percorso. Riprendo l’auto e in breve, edotta sui sensi unici della zona centrale, arrivo sul posto. Dove ho modo di constatare che largo Frida Malan è niente altro che un parcheggio, e siccome non vi sono numeri civici, nessuno, in Comune, ha pensato di sprecarci una targa.

Fine della storia, niente fotografia.

Eppure Frida Malan (1917- 2002) è stata un personaggio veramente significativo. Figlia di un pastore valdese, era entrata come i suoi due fratelli nella Resistenza svolgendo missioni impegnative e pericolose. Una di queste fu di contattare i compagni che erano stati rinchiusi nel campo di transito di Fossoli prima di essere inviati in Germania.

Libertaria, nel 1953 fece la scelta di entrare nel partito socialista e dal 1960 al 1975 fu consigliera comunale e assessora a Torino, ricoprendo incarichi importanti: assessora all’igiene e sanità dal 1966 al 1972, poi al patrimonio e lavori pubblici dal 1973 al 1975. Di quest’ultimo incarico ebbe a dire: «… quel periodo è stato per me straordinario, per come decidevo. Mai secondo la burocrazia normale, ma secondo la mia coscienza … » perché «male non è andare contro le regole, male è danneggiare gli altri». E come sostiene Piera Egidi nel suo bel libro Frida e i suoi fratelli, «è immediato vedere in questa “filosofia della res pubblica” il retaggio dell’educazione ricevuta in una famiglia pastorale!»

Attivissima da sempre in difesa dei diritti della donne e nell’associazionismo femminile, divenne presidente della Commissione pari opportunità nel 1988-89, ma si occupò di moltissime altre cose: fu nel Movimento federalista europeo, nel Fnism (Federazione nazionale insegnanti scuola media), nel direttivo del Pannunzio, nell’Ywca – Ucdg (Unione cristiana della giovani).

Un impegno a tutto campo, meritevole di una targa vera, e non solo di una: ci si dovrebbe pensare a Torino, per esempio, dove visse per gran parte della sua vita e dove operò con passione ed energia.

Un ricordo per Jenny

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Il nome di Jenny Cardon Peyronel, valdese, staffetta partigiana GL caduta in Val Pellice, compare nell’unica targa femminile di Torre Pellice. Per ricostruirne la storia non ho trovato che un sintetico profilo tra i dati recuperati e archiviati dalla Commissione femminile dell’Anpi. Inizia così: “Jenny Cardon, nata a Torre Pellice (Torino) l’11 marzo 1917 da Luigi e Margherita Piastre. Operativa dal 1 dicembre 1944 … con la formazione Val Pellice, V Divisione Alpina Toia, si segnalava in particolare per le delicate operazioni di collegamento…”

Si descrive poi il momento in cui fu colpita, “in regione Rio Gros”, proprio “mentre infuriava l’ultima battaglia”, il 23 aprile 1945. Altrove però ho trovato un’altra data per la sua morte: 26 aprile. E questa compare anche sulla lapide nel cimitero di Torre Pellice. Chissà se Jenny seppe della Liberazione… Ho fatto delle ipotesi, su quei tre giorni di differenza: ho immaginato che, ferita gravemente durante quello scontro fatale, Jenny sia poi morta a casa sua, vicino ai suoi. Aveva 28 anni, Jenny, un marito, dei parenti … probabilmente erano vivi i suoi genitori. Aveva magari anche figli piccoli, oggi forse ancora viventi, e ci saranno dei nipoti, chissà, che di questa nonna mai conosciuta potrebbero conservare comunque qualche ricordo di famiglia, qualche istantanea, e certamente quella Croce di bronzo che le venne data alla memoria.

Forse proprio perché non ho trovato né una fotografia né altre notizie in rete, quei tre giorni di scarto hanno messo in moto la mia immaginazione facendomi venire voglia di seguire le tracce di questa storia sconosciuta, di questa realtà umana che rischia di perdersi e sprofondare nel passato. Forse avrò modo di farlo, prima o poi. Troppo spesso e troppo facilmente la memoria femminile viene cancellata dal tempo, e invece è giusto ricordare. Perché il sacrificio di Jenny e l’impegno attivo di tutte quelle che come lei parteciparono attivamente alla Resistenza a fianco degli uomini (35.000 in tutta Italia, più di 1000 cadute in combattimento, oltre 2000 fucilate o impiccate) non solo hanno contribuito alla lotta al nazifascismo, ma hanno cambiato il destino delle donne, sovvertendo le regole della tradizione che le aveva confinate in casa in un ruolo subalterno e portandole di diritto alla ribalta della storia. Non più solo mogli, madri e figlie, ma cittadine. 

La quercia di Charlotte

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Piazzale Charlotte Peyrot, attiguo a piazza delle Diaconesse, si apre sul fianco del tempio valdese di Pomaretto.

Ci sono stata in una giornata d’ottobre un po’ nebbiosa, per fare qualche fotografia e vedere i luoghi dove vissero le poche donne valdesi cui sono intitolate aree di circolazione nelle Valli.

Questa Charlotte doveva essere una forza della natura se a cinquantacinque anni, dopo aver allevato otto figli e diretto un pensionato per studenti a Torre Pellice, trovò ancora le energie per dedicarsi ad un grande sogno, quello di fondare un ospedale per i valdesi.

Nata nel 1764 da una famiglia di commercianti con contatti internazionali, aveva sposato il pastore Geymet, che nel periodo napoleonico aveva fatto carriera ed era stato nominato sottoprefetto di Pinerolo. Per i valdesi, che in precedenza erano rimasti confinati nelle loro valli, fu un periodo di grande libertà e per Charlotte e suo marito anche di vita brillante. Ma con la Restaurazione i coniugi Geymet devono tornare a Torre Pellice, ed è qui che l’intraprendente donna apre una pensione per studenti che le permette di integrare i modesti proventi del marito, diventato nel frattempo direttore del Collegio valdese.

Ma non si ferma qui, e dopo aver portato a compimento i suoi doveri famigliari si volge a un’opera di cui da tempo si sentiva il bisogno: allora infatti i valdesi venivano accolti con difficoltà negli ospedali, in mano ai cattolici, e quando ciò avveniva subivano pressioni perché abbandonassero la loro fede.

Nel 1821 Charlotte scrive a un famoso predicatore svizzero, il pastore Cellérier, perché l’aiuti a muovere la solidarietà di tutta l’Europa protestante. Ha un grande successo, si adopera personalmente per ottenere consensi e sollecitare permessi, poi parte lei stessa per collettare in Svizzera e infine ha la soddisfazione di vedere realizzato il suo progetto. L’Ospedale Valdese viene inaugurato a Torre Pellice nell’aprile del 1826. Charlotte aveva a piantato una ghianda in un vaso quando aveva concepito il suo sogno e , come scrisse al Cellérier, avrebbe voluto che la quercia che ne era nata fosse piantata davanti all’ingresso dell’Ospedale.

Ora, dopo quasi 190 anni di vita rigogliosa e feconda, quella simbolica quercia che ricorda uno splendido esempio di attivismo femminile rischia di finire sotto la scure della spending review.

Chi sono le diaconesse?

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A Pomaretto una della due aree di circolazione intitolate a figure femminili è Piazza delle Diaconesse. Chi sono le diaconesse? Nei primi secoli del Cristianesimo erano donne che avevano una funzione di supporto della comunità ecclesiale, si occupavano della cura dei malati e dei poveri, oltre che di alcuni uffici liturgici. Una delle loro funzioni era ad esempio aiutare le donne che dovevano svestirsi per il rito del battesimo (che era anticamente ad immersione) ma, a differenza dei diaconi, non erano “ordinate”. Questa almeno la posizione ufficiale della Chiesa cattolica, ma la tesi è contestata dalle organizzazioni che si battono per il sacerdozio femminile. Nel mondo protestante, che è quello che ci interessa qui, il termine indica le comunità femminili che si dedicano a opere di assistenza. La prima casa madre delle diaconesse fu fondata a Kaiserwerth (oggi Dusseldorf) nel 1836, nel 1842 un’altra casa fu aperta a Echallens, in Svizzera, in seguito trasferita a Saint Loup. Altri istituti sorsero in seguito. Le diaconesse, la cui preparazione è molto accurata, esercitano la loro attività in maniera professionale e costituiscono una comunità religiosa investita di compiti sociali. Sono attive nella puericultura, nei ricoveri, nei carceri, negli ospedali e nelle missioni nei Paesi in via di sviluppo.

In Italia la prima casa delle diaconesse venne aperta a Torino nel 1901, per rispondere alle necessità dell’ospedale valdese, sul modello di quella di Saint Loup in Svizzera, nonostante le riserve che questo istituto suscitava, perché sembrava troppo simile alle analoghe istituzioni cattoliche e lontano dalla concezione classica di vita cristiana del protestantesimo. Nel tempo le diaconesse sono state impiegate negli ospedali valdesi in tutta Italia, nei ricoveri per anziani, negli orfanotrofi. Nel 1920 l’Opera delle Diaconesse è stata trasferita da Torino nelle Valli valdesi, trovando definitiva sede a Torre Pellice in un edificio che dagli anni ’60 del ‘900 fu attrezzato per accogliere persone anziane autosufficienti. La Casa è rimasta sotto la direzione delle diaconesse fino al 1992, quando l’ultima sorella è andata in pensione.

“Le migliori condizioni economiche e il nuovo ruolo sociale delle donne indirizzavano la realizzazione professionale femminile verso altri campi, si aprivano possibilità di impegno all’interno della Chiesa quali l’accesso al pastorato, mentre il mantenimento delle regole (i cinque punti fondamentali che contraddistinguevano il ministero delle Diaconesse erano consacrazione, servizio gratuito, vita comunitaria, costume e nubilato) che caratterizzavano la Casa di Torre Pellice non poteva che scoraggiare nuove vocazioni.”

Così, senza troppi rimpianti, sembra, in studi valdesi si spiega il declino dell’ istituzione. L’intitolazione di Pomaretto sembra rendere in qualche modo onore alla funzione esercitata in passato da queste donne e, nello stesso tempo, prendere atto della loro scomparsa.