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Nel febbraio del 2013 iniziava una collaborazione tra Toponomastica femminile,  RBE (Radio Beckwith Evangelica) e Bradipodiario, blog legato alla radio attraverso il redattore Giuseppe Rissone. Dall'11 settembre 2013 la collaborazione con Bradipodiario è diventata continuativa.
Gli articoli, che escono regolarmente il secondo mercoledì di ogni mese, hanno come oggetto la toponomastica e la presenza femminile nelle valli valdesi.
 
 

Lavoratrici in piazza

Lo scorso mese di settembre, dal 18 al 20, si è tenuto l’annuale incontro di Toponomastica femminile (Tf), il gruppo fondato da Maria Pia Ercolini nel gennaio del 2012 e giunto ormai al suo quarto convegno nazionale. Il luogo era “un paradiso con un nome infernale”, come è stato detto: Alcatraz, località Casa del Diavolo (non è uno scherzo!) vicino a Santa Caterina di Gubbio, fra le verdi colline dell’Umbria. Il titolo del convegno è stato suggerito dal forte accento dato quest’anno al tema del lavoro femminile.

In anteprima (16/ 17 settembre) la presentazione del libro “Camicette bianche”, di Ester Rizzo, frutto di una ricerca che ha riportato alla luce nomi e vicende delle sfortunate operaie (in gran parte immigrate dal Sud Italia) perite nel rogo della Triangle Waist Company, a New York nel 1911; appuntamento il primo giorno presso la Biblioteca comunale di Terni, il secondo nelle sale del Museo dell’emigrazione di Gualdo Tadino. 

Il convegno vero e proprio è iniziato la mattina di venerdì 18 settembre, con una interessante visita, a Perugia, di due laboratori artigiani a conduzione femminile; nel pomeriggio, ritornate in sede, le congressiste hanno scelto i “tavoli di lavoro” cui partecipare: gli argomenti vertevano su toponomastica e didattica, sul lavoro delle donne, sulle esperienze di collegamento tra Tf e altre realtà, sul concetto di Dea madre dal matriarcato al postfemminismo. La sera Iacopo Fo, il “padrone di casa” della “Libera Università di Alcatraz” (questo il nome dell’originale struttura fondata nel 1981), ha intrattenuto le ospiti sul tema dell’educazione ai sentimenti.

Sabato mattina, dopo i saluti delle istituzioni e delle associazioni coinvolte, si sono tirate la fila dei lavori del giorno precedente; il pomeriggio è stato  dedicato alla visita di Terni in ottica di genere e la sera al secondo incontro con Iacopo Fo.

Domenica mattina, dopo l’assemblea delle socie di Tf, è giunto il momento della conclusione dei lavori, poi la maggior parte delle persone intervenute ha iniziato il viaggio di ritorno, chi verso Roma, chi verso le regioni del Nord, chi verso il Sud e le Isole; per chi si poteva fermare era prevista un’altra attività, una passeggiata sul “sentiero delle lavandaie”.

È stata un’occasione unica di confronto e di scambio tra le iscritte al gruppo, favorite dal fatto di risiedere per due, tre giorni nello stesso luogo, di condividere i momenti dei pasti, di stare insieme. È emerso in modo chiaro l’ampio ventaglio di interessi, che include anche contatti internazionali. Sono state infatti nostre ospiti due giovani aderenti del gruppo francese “Oser le féminisme”, la cui azione provocatoria in favore della toponomastica femminile a Parigi ha avuto recentemente una certa eco mediatica. Tra le relatrici “esterne” interessate al progetto di Tf ricordiamo ancora l’assessora riminese Irina Imola e la presidente del Consiglio comunale di Imola Paola Lanzon, i cui interventi ci hanno indotte a riflettere su quanto possa essere qualitativamente diversa una politica gestita al femminile. L’attesa relazione della teologa femminista Benedetta Selene Zorzi ha introdotto un punto di vista per molte nuovo e certamente interessante. 

L’esposizione, nelle sale del convegno, di mostre fotografiche “leggere” ha illustrato i temi di volta in volta trattati , mentre a Terni, nelle sale del Museo archeologico Caos, era allestita la ricca mostra  sul lavoro delle donne già comparsa a Roma alla Centrale Montemartini, e la Biblioteca comunale ha ospitato la mostra “Donne di penna”.

Una piacevole sorpresa per molte è stata infine la scoperta di Terni, città un tempo a vocazione industriale che si è dovuta riconvertire e che rivela oggi una notevole vivacità culturale, pienamente apprezzata durante le visite in programma al Museo archeologico, alla Biblioteca comunale e alla Casa delle donne.

Tre giorni intensissimi e stimolanti

 

Requiem per il ricordo del lavoro alla Superga

In tela e gomma, le Superga sono state le prime scarpe con cui la mia generazione è entrata nella palestra della scuola. “Superga” era sinonimo di scarpe da ginnastica o da tennis, prima che altri brand si imponessero sul mercato in espansione delle calzature sportive.
Il marchio peraltro esiste ancora, ma non la fabbrica torinese, che ha chiuso una ventina di anni fa, dopo essere entrata in crisi negli anni ‘90.
Dello stabilimento dove per decenni hanno lavorato migliaia di donne non rimane oggi che la palazzina direzionale di via Verolengo, che avrebbe dovuto ospitare, una volta ristrutturata, la Asl 2, ma del progetto non se ne è fatto nulla, milioni di euro sono andati in fumo e da tempo l’edificio del primo ‘900 si sta malinconicamente degradando.
In compenso, il giardino che è stato creato proprio lì dietro, nell’area un tempo occupata da un’ala della grande manifattura, è stato intitolato alle “Operaie della fabbrica Superga” e nel 2012 vi è stata inaugurata, e apposta sulle pareti di una monumentale fontana preesistente, un’installazione che avrebbe il compito di ricordare proprio il lavoro delle maestranze femminili, che nella fabbrica erano la grande maggioranza.

Dico “avrebbe” perché in realtà non solo non esiste (né sembra che sia mai esistito) uno straccio di cartello esplicativo per far capire che quelle quattro paia di mani metalliche rappresentano i gesti del lavoro delle operaie, ma anche dell’intitolazione del giardino non c’è traccia e nessuno ne sa niente. Non lo sanno le mamme che ci portano i bambini a giocare, non lo sanno i proprietari dei cani che ci passeggiano tutti i giorni, non lo sanno i pensionati che vi leggono il giornale seduti sulle panchine, o il netturbino che ci passa quotidianamente, non lo sanno nemmeno alla Circoscrizione la cui sede è a un tiro di schioppo.
Siamo nella periferia nord di Torino, in un quartiere popolare, qui il degrado delle opere anche recenti stringe il cuore, e non è solo degrado fisico.
Quella di ricordare il lavoro di migliaia di donne che hanno passato anni a confezionare scarpe era una buona idea, ma è stata sprecata.
E non si venga a dire, al solito, che è-altro-quel-che-serve alle donne, e spiace che anche la simpatica Luciana Littizzetto si sia unita al coro. Perché sì, è vero che ci sono cose più importanti, e che il lavoro, e che gli asili, e che la sicurezza eccetera… Ma contrapporre, come si fa, i due piani, quello delle realizzazioni concrete e quello culturale e simbolico, si rivela un’operazione priva di senso di fronte al fatto che è proprio lì dove la condizione femminile è più difficile, nelle periferie, che anche il ricordo della storia delle donne impallidisce nel degrado e nell’oblio.

 

Giardino Emilia Mariani. Chi l’ha visto?

La risposta, a questa domanda, è: nessuno. O meglio: le poche persone che, per lavoro o per… malsana curiosità, come si potrebbedire della sottoscritta, sono andate a spulciare l’elenco delle aree verdi di Torino, scoprendo appunto che sette anni fa un giardino di Mirafiori Nord, Circoscrizione 2, è stato intitolato a questa figura femminile. Ma non lo sa nessuno, perché c’è la delibera, ma la targa non c’è.
Nata a Torino nel 1854, Emilia Mariani legò il suo nome alle battaglie per i diritti sociali e politici delle donne. Maestra elementare, lottò per l’equiparazione delle retribuzioni tra i due sessi e nel 1906 fu tra le fondatrici del Comitato torinese per il voto alle donne, che in seguito, alla vigilia  della prima guerra mondiale, confluì, anche per suo impulso, nel movimento interventista.
Personaggio controverso, ma comunque significativo della Torino tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, questa pioniera dell’emancipazione femminile, ricordata nella toponomastica di Rimini, è stata invece dimenticata fino ad anni recenti dalla città che le diede i natali.
Ma cerchiamo di ricostruire l’iter di questa intitolazione fantasma.
Il 7 gennaio del 2007 il quotidiano “La Stampa” riporta la notizia che la Presidente della Commissione pari opportunità Monica Cerutti ha scritto al Presidente del Consiglio comunale proponendo due nomi femminili cui intitolare aree di circolazione cittadine, quelli di Camilla Ravera e di Emilia Mariani, appunto, ma soprattutto per chiedere “che ad ogni intitolazione maschile ne corrisponda una al femminile”.
Il titolo, pelosetto come spesso risultano essere quelli del quotidiano torinese per notizie di cui si vuole sottolineare una supposta scarsa significatività (senza peraltro portare argomenti a sostegno di tale opinione) è “La via en rose, sogno dell’ulivista”. E ambiguo risulta essere anche il commento, dal momento che all’anonimo autore dell’articolo quello di Cerutti sembra “di certo un invito rivolto alle donne, di darsi da fare per passare più rapidamente alla storia di quanto fatto finora”. Che si vuole dire? Che le donne finora hanno fatto poco per entrare nella storia ( e quindi non ne hanno diritto)? O hanno fatto poco per farsi riconoscere la loro azione? Non si capisce bene. Quello che è chiaro, è il tono di sufficienza del giornalista. E non a caso uso il termine al maschile.
Il 25 settembre del 2007 la Commissione toponomastica decide l’intitolazione a Emilia Mariani del giardino compreso tra piazza D. Livio Bianco, piazza Giovanni XXIII e via Don Grioli e nel 2008 la delibera viene approvata dalla Giunta. Ma l’apposizione della targa e la relativa cerimonia di intitolazione non ci saranno mai.
Ma c’è da stupirsi, se il giudizio della cosiddetta “opinione pubblica” torinese è quello che riporta il quotidiano “La Stampa”?
E oggi, dopo sette anni, la situazione è cambiata? Ne dubitiamo, perché di fronte a una lodevole iniziativa della Presidente della Camera Boldrini per rispondere alla richiesta delle donne, che le istituzioni diano l’esempio di un linguaggio meno sessista, si leva, sempre da Torino, la voce di Luciana Littizzetto, nella trasmissione di Fabio Fazio “Che tempo che fa”. Alla simpatica comica torinese questa iniziativa fa addirittura “cadere le balle”, perché le cose che interessano alle donne, naturalmente, “sono altre”. Le cose più importanti sono sempre “altre”, così non dobbiamo sentirci in colpa se non si fanno neanche quelle meno importanti.
E il giardino a Camilla Ravera è stato intitolato anche quello per finta?
Magari non è importante, ma lo verificheremo lo stesso.

Chi decide i nomi delle strade a Torino?

Come si arriva all’intitolazione di una nuova strada in Piemonte? Chi decide quali nomi assegnare agli spazi cittadini o “aree di circolazione”,secondo la dicitura tecnica?

L’iter è lungo e complesso. I Comuni devono dotarsi di un regolamento per la toponomastica (quello di Torino è stato stilato nel 2005) dove vengono anche definiti composizione e compiti di un’apposita Commissione che valuta le proposte pervenute da diverse fonti, ma alla fine a decidere è la Giunta. Infine l’assessore che ha la delega per la toponomastica si occupa degli aspetti concreti della delibera, e si giunge all’apposizione della targa, con tanto di cerimonia. Questo almeno succede ad Asti, a Biella, a Cuneo, a Novara, a Verbania, a Vercelli. In rete non si sono trovate notizie di Alessandria, ma probabilmente anche lì si fa nello stesso modo.

A Torino invece no. Il regolamento torinese per la toponomastica è molto diverso, perché stabilisce che le decisioni non competono alla Giunta, ma alla Commissione toponomastica, costituita dalla Conferenza dei Capigruppo del Consiglio comunale. Il Sindaco è semplicemente “invitato” alle riunioni. Insomma a decidere non è l’organo di governo della Città, ma il suo “parlamento”, cioè il Consiglio comunale, attraverso i capigruppo, e l’opposizione è coinvolta nella decisione.

L’art. 4 comma 1 ( Decisioni) dello stesso Regolamento stabilisce infatti che “le proposte sono approvate dalla Commissione se ottengono il voto favorevole di membri della Conferenza dei Capigruppo i quali, in ragione della consistenza dei rispettivi Gruppi, rappresentino i due terzi dei Consiglieri Comunali assegnati”.

Sembra molto democratico, anche se un po’ complicato.

Ma evidentemente il sistema non garantisce l’attenzione alla parità di genere. Infatti ad apparire misogina non è solo la toponomastica tradizionale: a Torino anche tra le nuove targhe sono pochissime quelle dedicate alla memoria di donne celebri. Sono state solo quattro in due anni, da quando cioè il gruppo di Toponomastica femminile monitora le novità in questo campo. Alla memoria femminile sono stati dedicati un piccolo giardino nella periferia Nord (all’imprenditrice Marisa Bellisario), una breve via davanti al carcere delle Vallette (alla politica Adelaide Aglietta), l’ex aiola Donatello in San Salvario (alla scrittrice Natalia Levi Ginsburg), e recentemente un piazzale – parcheggio nel centro storico (ad Amelia Piccinini, atleta olimpica).

La città insomma continua a non essere sensibile al problema del riconoscimento del ruolo e dell’azione femminile e continuando così non si potrà mai correggere lo squilibrio esistente e rendere giustizia alla memoria odonomastica femminile.

Come mai l’organo deliberante non se ne accorge? Forse perché i membri della Commissione toponomastica sono quasi tutti uomini, a cominciare dal Presidente Giovanni Porcino, che presiede anche il Consiglio comunale? O perché gli stessi pensano a trascinare sul terreno delle scelte toponomastiche le polemiche e gli scontri che li dividono altrove? Il fatto è che da questi scontri le stesse scelte appaiono pesantemente condizionate. Non ci sarà il modo di rendere più “trasversali” le intitolazioni cittadine e di voltare finalmente pagina, tenendo conto che anche dell’altra metà del cielo? Loretta Junck