Aspazija

Rosa Maria Clemente


Rosalina Collu

 

Ho visitato le Repubbliche Baltiche, con la mia famiglia, poco dopo la conquista della loro indipendenza dalla Russia, ex Urss ormai in frantumi. Eravamo idealmente vicini/e a quei piccoli Paesi, perché avevano trovato il coraggio di sottrarsi al gigante che li aveva fagocitati, imponendogli prezzi di morte e sofferenza altissimi, la rinuncia alle loro identità di popoli. Grande fu la nostra compiaciuta sorpresa, perciò, quando, attraversandoli, in particolare le capitali: Vilnius (Lituania), Riga (Lettonia), Tallin (Estonia), ci siamo resi/e conto che avevano comunque conservato le loro peculiari vestigia storico-culturali, insieme ad un’irrefrenabile evidente voglia di riappropriarsi del tempo perduto. A Riga, senza averlo programmato, ci imbattemmo in un festival dei popoli dell’Ue nei loro costumi tradizionali, un vero e proprio tripudio di colori di bellezza di incontri tra culture diverse. Quell’anno l’ Italia era rappresentata da una cittadina della Sardegna, per noi un altro luogo del cuore! Ora, a distanza di anni, il bel progetto Calendaria 2021, della meritoria associazione Toponomastica Femminile, mi ha fatto ripensare a quel bellissimo viaggio, offrendomi la possibilità di restituire almeno un po’ della gioia che procurò a me, a mia figlia e a mio marito, raccontando di una delle protagoniste più significative della storia e della cultura lettone, la poeta e drammaturga Johanna Emilija Liete Rosenberga, detta Elza e nota con lo pseudonimo fortemente rievocativo di Aspasia. Una figura di donna straordinariamente complessa e moderna, che vive e anticipa in modo sorprendente le contraddizioni e le aspirazioni ambivalenti di quante di noi, ancora oggi, sono dimidiate tra il desiderio di realizzarsi dal punto di vista professionale e lavorativo, e quello di vivere felici relazioni affettive, trovandosi a fare i conti con le molteplici aspettative dell’ambiente di appartenenza e della società, che pesano tuttora in modo eccessivo sulle spalle femminili, malgrado le conquiste giuridiche e le maggiori possibilità di accedere agli studi, anche di livello superiore. Si comprendono, allora, l’empatia e l’ammirazione che mi prendono quasi immediatamente per Aspasia, una donna che, come le nostre nonne o bisnonne, si è trovata a vivere tra la fine dell’ Ottocento e la metà circa del Novecento, affrontando, anche in nostro nome, le sette fatiche di Ercole per conquistare la pari dignità morale, prima ancora che giuridica. Il fascino e la forza di Aspasia consistono, infatti, nella sua consapevolezza di percepirsi come capace di andare oltre tutti i limiti del tempo, che opprimevano lei e il suo popolo da secoli. L’Ordine dei Cavalieri teutonici, che fonda Riga, la capitale, e impone il cristianesimo, sarà seguìto dalle popolazioni polacca, svedese, tedesca, russa, dal dominio sovietico, e poi dall'invasione del nazismo hitleriano, quindi dai sovietici staliniani fino alla benedetta perestroika di Gorbaciov. Il 23 agosto 1989, infatti, i popoli dei tre Paesi baltici formarono una catena umana di 600 km, che univa le tre capitali, Tallin, Riga e Vilnius. Vi presero parte ben due milioni di abitanti sui nove complessivi, fra la stupita commozione del mondo democratico, che prese atto della loro volontà di indipendenza. A seguito della caduta del muro di Berlino, il governo liberamente eletto dichiarò l’indipendenza della Lettonia, che a settembre del 1991 fu riconosciuta dalla stessa Russia.

Il sogno di Aspasia, dei Giovani Lettoni e del successivo movimento di sinistra, Nuova corrente, influenzato dal marxismo, con a capo Rainis e Peteris Stucka, del giornale "Dienas Lapa", si è finalmente realizzato! Desiderata a lungo, Elza nasce il 16 marzo 1865, in una fattoria, nella regione di Zemgale, a sud di Riga. La sua benestante famiglia contadina vive in una bella casa di mattoni, invece che nelle più diffuse costruzioni di legno. La madre Grieta, energica ed amante di gioielli e begli abiti, il padre tenero e paziente, che le insegna presto a leggere e scrivere, non le consentono di frequentare figli e figlie degli altri contadini, perché vogliono per lei una sorte migliore. Di religione luterana, tra i primi doni una Bibbia in tedesco, la lingua della cultura, da leggere tutta sola, che accende la sua fantasia, mentre la nonna le raccontava le storie della tradizione popolare lettone. Impara volentieri e in fretta, da qualsiasi fonte le consenta di andare oltre gli spazi conclusi della sua vita familiare. Iscritta a scuola nella città di Jelgava, si dedica totalmente agli studi, passando notti insonni a leggere a lume di candela. Mi sembra di vederla (e rivedo me, giovane studente di paese alle prese col latino, in lei), mentre s’inoltra rapita nella civiltà classica, emozionandosi ai racconti di Omero e di Virgilio, alle leggende e ai miti delle eroine e degli eroi che fondarono Atene e Roma, le culle della democrazia e del diritto. Fra loro, il condottiero Pericle e la sua fatale mentore, Aspasia, l’etera aristocratica, amatissima inseparabile compagna, artefice della sua ascesa politica, colta e affascinante animatrice di una sorta di salotto culturale d’antan, frequentato da Fidia e più spesso da Socrate, che subisce la sua influenza e pare ne fosse innamorato. Lì è persino consentito che gli aristocratici si facciano accompagnare dalle mogli, perché imparino dalle dotte conversazioni di Aspasia. Elza capisce, allora, che Aspasia è lei, vuole essere lei, cogliendo a fondo le ragioni di quello pseudonimo attribuitole da un suo insegnante, con l’intento di svelarle le sue grandi doti, di sensibilità e intelligenza, facendole comprendere come la conoscenza sia il lasciapassare per la libertà, per l’ indipendenza. Sua, delle donne, della sua patria. Mentre così sogna l’ intrepida Elza-Aspasia, improvvisamente e senza possibilità di appello sua madre, che fin lì l’aveva incoraggiata e sostenuta, a soli 16 anni e senza aver conseguito il vicino diploma, le impone di interrompere gli studi. Sarà per Aspasia il primo bruciante tradimento, che la segnerà profondamente, incrinando la sua fiducia nel prossimo e, a livello inconscio, persino in sé stessa e nelle sue reali possibilità. Si sente rifiutata, respinta, le ali tarpate anzitempo. Sensibile, appassionata, suggestionabile, con un grande amor proprio, intuendo, desiderando per sé un destino non comune, comincerà prestissimo a scrivere poesie e a vincere premi. La figlia del sole, tra quelle più amate, è ispirata alla mitologia lettone, come tramandata dalla tradizione orale del suo popolo, attraverso le Dainas, avvincenti storie che nella cultura contadina lettone si tramandavano di generazione in generazione, nelle lunghe fredde notti d’inverno. A scuola si era appassionata di teatro, trovando nei tempi e nei ritmi di quel mondo, ove tutto era possibile, la sua dimensione più congeniale. Recita con passione e coinvolgimento pieno in Il mercante di Venezia, del bardo Shakespeare. Vuole fare l’attrice e iscriversi a un corso di teatro, a Riga, perciò scappa di casa. I suoi genitori vanno ogni volta a riprenderla, temendo che le compagnie cittadine, la frequentazione della gioventù che si riunisce nel Movimento Nuovo la mettano in pericolo, esponendola alla censura dei dominatori russi, o l’allontanino definitivamente da loro. Nel 1886, a 21 anni, la sposano ad un borghese, tale Wilhelm Max Walter, pensando di conquistarle una migliore posizione sociale, mentre lei vede nel matrimonio una via di fuga dalla ristretta cerchia familiare. La dote richiesta e offerta è cospicua, coincidendo con la gran parte dei beni della famiglia. In soli due anni, invece, Wilhelm si rivelerà un bevitore e un giocatore senza limiti, dissipando ogni loro avere e riducendoli in miseria. Scapperà negli Usa, facendo perdere ogni sua traccia. Il matrimonio sarà poi annullato nel 1897. Aspasia scriverà dell’ infelice esperienza vissuta prima in Seltite (Dorato) e poi nell’opera teatrale Vaidelote (La vendicatrice), che le farà vincere nel 1888 il premio del teatro di Riga. I toni sono forti e il linguaggio del tutto nuovo introduce nella nascente letteratura lettone la figura di una madre violenta, dominatrice, che richiama il mito di Medea.




Ormai costretta a mantenere la sua famiglia, i genitori e due fratelli minori, lavorerà come istitutrice, scrivendo nel restante tempo. Ricomincia a frequentare i giovani del Movimento, coltivando con loro ideali romantici e nazionalisti. Pubblica sul quotidiano "Dienas Lapa", col nome di Aspasia, le sue poesie, divenendo la voce del suo Paese in cerca di identità e indipendenza. Al giornale incontrerà Janis Plieksans, detto Rainis (il variegato), di agiata famiglia lituano-svedese, caporedattore e scrittore, seppure non troppo convinto. Si ritrovano nel Movimento, nutrendo entrambi aspirazioni libertarie e indipendentiste. Cominciano a parlare dei loro scritti e della loro volontà di contribuire alla formazione dell’ identità nazionale, di risvegliare le coscienze sopite del loro popolo attraverso la poesia e il genere teatrale che, ispirati alle leggende antiche, diano vita a una sorta di nuovo mito fondativo della loro patria. A lei piacciono la sua eleganza, i suoi occhi profondi e la fiducia che riceve, quell’avere in grande considerazione i suoi pensieri, i suoi suggerimenti, malgrado gli studi universitari e la sua laurea in Giurisprudenza. Lui è colpito dalla sua intelligenza, dalla passione ispirata dalla capacità immaginifica e dalla giovane avvenenza. Diventeranno inseparabili, nella buona e nella cattiva sorte, novelli Pericle e Aspasia, fino alla morte di lui, nel 1929, a cui la scrittrice sopravviverà, suo malgrado, per lunghi 14 anni. Le loro vite sono strettamente intrecciate alle vicende politiche del loro Paese, capace di risorgere ogni volta dalle ceneri. Rainis socialista internazionalista, Aspasia più sensibile ai diritti umani e alla libertà delle persone. Lui, razionalista e ateo, coltiva il sogno di una fratellanza universale ed è teoricamente sostenitore dell’emancipazione femminile. Lei è una poeta lirica di straordinario talento, che lotta per l’affermazione concreta dei diritti delle donne. Decidono di vivere insieme, a Jurmala, vivace località balneare non lontana da Riga. È il periodo piu felice della vita di Aspasia, dal punto di vista personale e creativo. Pubblica La vestale e poi la sua prima raccolta di poesie, Fiori rossi, che incontra gran favore di critica e di pubblico, rendendola popolare in tutto il Paese. Nel frattempo scrive altre opere teatrali e con Rainis si occupa della traduzione del Faust in lingua lettone. Sono una coppia di successo, amata dai lettoni, che li considerano i cantori della loro patria libera. Nel 1897, a causa delle sue idee e della sua attività politica rivoluzionaria, Rainis viene arrestato dalla polizia zarista e condannato a cinque anni di carcere, da scontare in Siberia. Per poterlo seguire, Aspasia lo sposa e lo sosterrà nella traduzione del Faust, esortandolo a scrivere una sua opera. Rientrati a Riga da ormai due anni, nel 1905 si darà a teatro la prima del dramma Il velo d’ argento, scritto da Aspasia, con due donne protagoniste, la sottomessa e l’ avventurosa, che lottano per affermare il proprio volere. Il successo è enorme, il pubblico lettone coglie nell’opera lo sprone a ribellarsi contro gli oppressori. Seguono molte repliche, finchè arriva la notizia della rivolta di San Pietroburgo. Si sollevano anche i lettoni, ma la repressione sarà spietata, con moltissimi morti e altrettanti deportati. Aspasia e Rainis, campioni di questa lotta, vengono convinti a lasciare la Lettonia e, con numerose persone profughe, andranno in Svizzera, prima a Zurigo poi a Lugano e infine a Castagnola, dove resteranno per ben 15 anni.



Rainis si immergerà completamente nella sua scrittura, adattandosi alla povera vita in due stanze e alla continua penuria di denaro. Aspasia, invece, sarà angosciata dalla necessità di procurare almeno quanto basti alla sopravvivenza, soffrendo per la lontananza della sua famiglia, del suo pubblico, dei suoi compagni di lotta; oppressa dal timore di non riuscire nel suo compito più arduo, quello di continuare ad ispirare spronare sostenere il suo vate. Rainis stesso, tempo dopo, le riconoscerà questo merito immenso, affermando che senza di lei la sua opera non sarebbe mai stata realizzata: il destino di Aspasia, la musa ispiratrice e l’instancabile mentore, si è di nuovo compiuto, prima con Pericle e poi con Rainis! Alla fine della Prima guerra mondiale, la Lettonia si ribella alla sconfitta Germania e dichiara l’indipendenza. Gli/le esuli possono farvi ritorno e nel 1920 Aspasia e Rainis saranno accolti a Riga da trionfatori, con tutti gli onori dovuti ai fondatori della patria libera. A ciascuno dei due sarà intitolato uno dei viali più importanti della capitale e potranno finalmente abitare una comoda casa, in via Basniza iela, 30. Le loro opere spopolano nei teatri del Paese, mentre partecipano da protagonisti di spicco alla vita culturale e politica, entrambi eletti in Parlamento. Lui mancherà di poco la Presidenza della Repubblica, ma sarà nominato Ministro della cultura. Lei preferirà dedicarsi alla scuola di teatro per giovani, che le ridarà slancio ed ispirazione per nuovi progetti. Lui viaggia ed è preso da un nuovo amore, tenuto segreto al popolo, lei preferisce non accompagnarlo, recandosi spesso nella loro casa con giardino di Jurmala. Continua a scrivere poesie, è felice del suo lavoro, lì la raggiunge ogni volta Rainis. In quella casa, il 14 settembre 1929, Rainis morirà all’ improvviso e Aspasia ne avviserà i connazionali con queste parole: «Rainis è morto. Il suo nome era il sole che brillava su tutta la gente. Io chiedo a tutti… di accompagnarlo con amore. Rainis credeva nell’ immortalità. Io continuo con la sua anima». Alla scomparsa del suo vate, lascerà la vita pubblica e si ritirerà a Jurmala, continuando a fare progetti, a suonare il pianoforte, a scrivere poesie. Ora che non è più la moglie di un famoso osannato politico, invisa a molti per le sue rivendicazioni della libertà individuale e dei diritti delle donne, si praticherà nei suoi confronti una diminuzione sistematica, che la spingerà ad isolarsi sempre più, finendo col vivere in povertà, con la domestica e con i suoi gatti. Morirà sola, in ospedale, a 78 anni, nel novembre del 1943, mentre infuria tragica la Seconda guerra mondiale e la sua patria, occupata dai sovietici di Stalin nel 1940, già dal 1941 è caduta sotto il dominio del Terzo Reich. Proveranno a darle una sepoltura anonima, ma la notizia della sua morte si diffonderà rapidamente, suscitando grande cordoglio nei/lle concittadini/e, che accorreranno numerosi a tributare i giusti onori alla loro indomita poeta. La Lettonia libera dei giorni nostri, perfettamente integrata nell’Unione Europea, di cui è entrata a far parte nel 2004, adottando l’euro nel 2014, è finalmente la patria voluta da Aspasia e Rainis, che ne hanno ispirato l’ orgoglio nazionale, nutrendo i sentimenti di riscatto e ribellione del popolo contro le invasioni straniere, dei russi dei tedeschi e infine dei sovietici. Considerati a ragione madre e padre della patria, fanno a pieno titolo parte della letteratura e della storia della Lettonia, che gli ha dedicato un museo molto frequentato, mentre a teatro si continuano a rappresentare le loro opere. Recentemente, nel 2015, a seguito dell’ingresso nella moneta unica europea, li hanno effigiati sulla stessa splendida moneta da 5 euro, costituita di due parti magistralmente complementari, celebrando il loro destino comune, fatto di poesia amore e patriottismo.

Principali raccolte di liriche:
I fiori rossi;
Nell’ombra dell’ anima;
Il cantuccio soleggiato;
Il grembo pieno di fiori;
Le ali tese;
La notte delle streghe;
Nella stagione dei crisantemi;
Il viaggio dell’ anima.

Principali opere teatrali:
La Vendicatrice;
I diritti perduti;
La meta non raggiunta;
La fanciulla dai capelli d'oro;
Aspasia;
Il velo d’ argento.

Autobiografia in due volumi:
La mia vita e le mie opere.

 

Traduzione francese
Piera Negri

J'ai visité les républiques baltes avec ma famille peu après qu'elles aient obtenu leur indépendance de l'ancienne URSS en ruines. Nous étions idéalement proches de ces petits pays, parce qu'ils avaient trouvé le courage d'échapper au géant qui les avait engloutis, leur imposant un prix très élevé de mort et de souffrance, le renoncement à leur identité de peuple. Ce fut donc une grande surprise pour nous lorsque, en parcourant les capitales de Vilnius (Lituanie), Riga (Lettonie) et Tallinn (Estonie), nous avons réalisé qu'elles avaient conservé des vestiges historiques et culturels uniques, ainsi qu'un désir irrépressible de reprendre possession de leur temps perdu. À Riga, sans l'avoir prévu, nous sommes tombés sur un festival des peuples de l'UE dans leurs costumes traditionnels, une véritable explosion de couleurs, de beauté et de rencontres entre différentes cultures. Cette année-là, l'Italie était représentée par une ville de Sardaigne, pour nous, un autre endroit du cœur ! Aujourd'hui, des années plus tard, le beau projet Calendaria 2021, de la méritante association Toponomastica Femminile, m'a fait repenser à ce beau voyage, m'offrant l'occasion de rendre au moins un peu de la joie qu'il nous a procuré, à moi, à ma fille et à mon mari, en racontant l'une des protagonistes les plus significatives de l'histoire et de la culture lettones, la poétesse et dramaturge Johanna Emilija Liete Rosenberga, dite Elza et connue sous le pseudonyme très évocateur d'Aspasia. C'est une femme extraordinairement complexe et moderne, qui vit et anticipe de manière surprenante les contradictions et les aspirations ambivalentes de beaucoup d'entre nous, aujourd'hui encore, qui sont déchirées entre le désir de se réaliser professionnellement et par le travail, et le désir de vivre des relations affectives heureuses, en devant faire face aux multiples attentes de leur environnement et de la société, qui pèsent encore excessivement sur les épaules des femmes, malgré les conquêtes juridiques et les plus grandes possibilités d'accès à l'éducation, même à un niveau supérieur. Il est donc facile de comprendre l'empathie et l'admiration qui me saisissent presque immédiatement pour Aspasia, une femme qui, comme nos grands-mères et arrière-grands-mères, s'est trouvée à vivre entre la fin du XIXe siècle et le milieu du XXe siècle environ, en affrontant, également en notre nom, les sept travaux d'Hercule pour obtenir une égale dignité morale, avant même de la dignité juridique. La fascination et la force d'Aspasia consistaient en la conscience qu'elle avait d'être capable de dépasser toutes les limites du temps, qui ont opprimé elle et son peuple, pendant des siècles. L'ordre des chevaliers teutoniques, qui a fondé Riga, la capitale, et imposé le christianisme, sera suivi par les peuples polonais, suédois, allemands et russes, la domination sovietique puis par l'invasion du nazisme hitlérien, puis par les soviets staliniens jusqu'à la pérestroïka bénie de Gorbatchev. Le 23 août 1989, les peuples des trois pays baltes ont formé une chaîne humaine de 600 km de long reliant les trois capitales de Tallinn, Riga et Vilnius. Deux millions de personnes sur un total de neuf millions d'habitants y participent, à la stupéfaction du monde démocratique, qui prend acte de leur désir d'indépendance. Après la chute du mur de Berlin, le gouvernement librement élu a déclaré l'indépendance de la Lettonie, qui a été reconnue par la Russie elle-même en septembre 1991.

Le rêve d'Aspasia, des Jeunes Lettons et du futur mouvement de gauche, Nouveau courant, influencé par le marxisme, dirigé par Rainis et Peteris Stucka, du journal "Dienas Lapa", est enfin devenu réalité ! Longtemps désirée, Elza est née le 16 mars 1865, dans une ferme, dans la région de Zemgale, au sud de Riga. Sa riche famille de paysans vit dans une belle maison en briques, au lieu des bâtiments en bois plus courants. Sa mère Grieta, énergique et amatrice de bijoux et de beaux vêtements, et son père, tendre et patient, qui lui a appris à lire et à écrire dès son plus jeune âge, ne lui permettaient pas de fréquenter les fils et les filles des autres paysans, car ils souhaitaient lui réserver un meilleur sort. En tant que luthérienne, l'un de ses premiers cadeaux a été une Bible en allemand, la langue de la culture, à lire seule, ce qui a stimulé son imagination, tandis que sa grand-mère lui racontait des histoires tirées de la tradition populaire lettone. Elle apprend volontiers et rapidement, à partir de n'importe quelle source qui lui permet d'aller au-delà des limites de sa vie familiale. Inscrite à l'école dans la ville de Jelgava, elle se consacre entièrement à ses études, passant des nuits blanches à lire à la lumière des bougies. Il me semble la voir (et je me revois, moi, une jeune étudiante de village se débattant avec le latin), alors qu'elle se passione pour la civilisation classique, captivée par les histoires d'Homère et de Virgile, par les légendes et les mythes des héroïnes et des héros qui ont fondé Athènes et Rome, les berceaux de la démocratie et du droit. Parmi eux, le condottiere Périclès et son fatal mentor, Aspasie, l'hétaïre aristocrate, compagne inséparable adorée, architecte de son ascension politique, animatrice cultivée et fascinante d'une sorte de salon culturel d'antan, fréquenté par Phidias et plus souvent par Socrate, qui subissait son influence et semble avoir été amoureux d'elle. Les aristocrates y sont même autorisés à se faire accompagner par leurs épouses pour profiter des conversations savantes d'Aspasia. Elza comprend alors qu'Aspasia est elle, elle veut être elle, saisissant les raisons du pseudonyme que lui a donné un de ses professeurs, dans l'intention de lui révéler ses grandes qualités de sensibilité et d'intelligence, lui faisant comprendre comment la connaissance est le passeport pour la liberté, pour l'indépendance. La sienne, celle des femmes, celle de son pays. Alors que l'intrépide Elza-Aspasia en rêve, soudainement et sans aucune possibilité de recours, sa mère, qui l'avait encouragée et soutenue jusque-là, l'oblige à interrompre ses études à seulement 16 ans et sans avoir obtenu l’alors proche diplôme. C'est la première trahison brûlante d'Aspasia, qui l'a profondément marquée, sapant sa confiance dans les autres et, à un niveau inconscient, même en elle-même et en ses possibilités réelles. Elle se sent refusée, rejetée, les ailes coupées prématurément. Sensible, passionnée, impressionnable, dotée d'un grand amour-propre, pressentant, désirant pour elle-même un destin hors du commun, elle commencera très tôt à écrire des poèmes et à remporter des prix. La Fille du soleil, l'un de ses poèmes les plus appréciés, s'inspire de la mythologie lettone, telle qu'elle a été transmise par la tradition orale de son peuple, à travers les Dainas, des histoires captivantes qui, dans la culture paysanne lettone, étaient transmises de génération en génération au cours des longues et froides nuits d'hiver. À l'école, elle se passionne pour le théâtre, trouvant dans les temps et les rythmes de ce monde, sa vraie dimension où tout est possible. Elle joue avec passion et une implication totale dans Le Marchand de Venise, du barde Shakespeare. Elle veut être actrice et s'inscrit à un cours de théâtre à Riga, alors elle s'enfuit de chez elle. Ses parents vont la chercher à chaque fois, craignant que les compagnies citadines et la fréquentation des jeunes réunis au sein du Nouveau Mouvement ne la mettent en danger, l'exposant à la censure des dirigeants russes, ou tout cela ne l'éloigne définitivement d'eux. En 1886, à l'âge de 21 ans, ils la marient à un bourgeois, un certain Wilhelm Max Walter, pensant lui faire gagner une meilleure position sociale, alors qu'elle voit dans le mariage un moyen d'échapper au cercle familial restreint. La dot demandée et offerte est substantielle, coïncidant avec la plupart des biens de la famille. En deux ans, cependant, Wilhelm se révèle être un buveur et un joueur sans limites, dilapidant tous leurs biens et les réduisant à la pauvreté. Il fuit aux États-Unis, perdant toute trace de lui. Le mariage a été annulé en 1897. Aspasia a raconté son expérience malheureuse d'abord dans Seltite (Doré), puis dans la pièce Vaidelote (La vengeresse), qui lui a valu le prix du théâtre de Riga en 1888. Les tons sont forts et la langue entièrement nouvelle introduit dans la littérature lettone naissante la figure d'une mère violente et dominatrice, rappelant le mythe de Médée.

Désormais obligée de subvenir aux besoins de sa famille, de ses parents et de ses deux jeunes frères, elle travaille comme gouvernante et écrit pendant le temps qui lui reste. Elle commence à fréquenter les jeunes du Mouvement, cultivant avec eux des idéaux romantiques et nationalistes. Elle publie ses poèmes dans le journal "Dienas Lapa" sous le nom d'Aspasia, devenant ainsi la voix de son pays en quête d'identité et d'indépendance. Au journal, elle rencontre Janis Plieksans, dit Rainis (le bigarré), issu d'une riche famille lituano-suédoise, rédacteur en chef et écrivain, même si pas complètement convaincu. Ils se rencontrent au sein du Mouvement, nourrissant tous deux des aspirations libertaires et indépendantistes. Ils commencent à parler de leurs écrits et de leur désir de contribuer à la formation d'une identité nationale, de réveiller les consciences endormies de leur peuple à travers la poésie et le théâtre qui, inspirés des légendes anciennes, donneraient vie à une sorte de nouveau mythe fondateur de leur patrie. Elle aime son élégance, son regard profond et la confiance qu'il lui accorde, le fait qu'il prenne ses pensées et ses suggestions en grande considération, malgré ses études universitaires et son diplôme de droit. Il est frappé par son intelligence, sa passion inspirée par sa capacité d'imagination et sa jeune beauté. Ils deviennent inséparables, pour le meilleur et pour le pire, les nouveaux Périclès et Aspasie, jusqu'à la mort de ce dernier en 1929, à laquelle l'écrivaine survit, malgré elle, pendant quatorze longues années. Leurs vies sont étroitement liées aux événements politiques de leur pays, capable de renaître de ses cendres à chaque fois. Rainis, socialiste internationaliste, Aspasia, plus sensible aux droits de l'homme et à la liberté individuelle. Rationaliste et athée, il cultive le rêve de la fraternité universelle et est un partisan théorique de l'émancipation féminine. Poétesse lyrique au talent extraordinaire, elle se bat pour l'affirmation concrète des droits des femmes. Ils décident de vivre ensemble à Jurmala, une station balnéaire animée non loin de Riga. C'est la période la plus heureuse de la vie d'Aspasia, tant sur le plan personnel que créatif. Elle publie La Vestale puis son premier recueil de poèmes, Fleurs rouges, qui rencontre un grand succès critique et public, la rendant populaire dans tout le pays. Entre-temps, elle a écrit d'autres pièces et, avec Rainis, elle a traduit Faust en letton. Ils forment un couple à succès, aimé par les Lettons, qui les considèrent comme les laudateurs de leur patrie libre. En 1897, en raison de ses idées révolutionnaires et de son activité politique, Rainis est arrêté par la police tsariste et condamné à cinq ans de prison, à purger en Sibérie. Pour le suivre, Aspasia l'épouse et le soutient dans la traduction de Faust, l'incitant à écrire sa propre œuvre. De retour à Riga depuis déjà deux ans, en 1905, le drame Le voile d'argent, écrit par Aspasia, avec deux protagonistes féminines, la soumise et l'aventurière, luttant pour affirmer leur volonté, est donné pour la première fois au théâtre. Le succès est énorme et le public letton voit dans cette pièce un encouragement à se rebeller contre ses oppresseurs. De nombreuses répliques ont suivi, jusqu'à ce que la nouvelle du soulèvement de Saint-Pétersbourg arrive. Les Lettons se soulèvent également, mais la répression sera impitoyable, avec de nombreux morts et tout autant de déportés. Aspasia et Rainis, champions de cette lutte, sont persuadés de quitter la Lettonie et, avec de nombreux réfugiés, se rendent en Suisse, d'abord à Zurich, puis à Lugano et enfin à Castagnola, où ils restent pendant 15 ans.

Rainis se plonge complètement dans son écriture, s'adaptant à la vie pauvre dans deux pièces et au manque constant d'argent. Aspasia, en revanche, sera angoissée par la nécessité de se procurer au moins de quoi survivre, souffrant de l'éloignement de sa famille, de son public, de ses compagnons de lutte ; oppressée par la peur de ne pas réussir dans sa tâche la plus ardue, celle de continuer à inspirer et à soutenir son vate. Rainis lui-même, quelque temps plus tard, reconnaîtra cet immense mérite, affirmant que sans elle, son œuvre n'aurait jamais été accomplie : le destin d'Aspasie, muse inspirée et mentor infatigable, s'est une fois de plus accompli, d'abord avec Périclès, puis avec Rainis ! À la fin de la Première Guerre mondiale, la Lettonie se rebelle contre l'Allemagne vaincue et déclare son indépendance. Les exilés sont autorisés à rentrer et, en 1920, Aspasia et Rainis sont accueillis à Riga en triomphateurs, avec tous les honneurs dus aux fondateurs de la patrie libre. L'une des avenues les plus importantes de la capitale portera le nom de chacun d'entre eux, et ils pourront enfin vivre dans une maison confortable au 30, rue Basniza iela. Leurs oeuvres font un tabac dans les théâtres du pays, tandis qu'ils participent en tant que protagonistes de premier plan à la vie culturelle et politique, étant tous deux élus au Parlement. Il manquera de peu la présidence de la République, mais sera nommé ministre de la Culture. Elle préfère se consacrer à une école de théâtre pour les jeunes, qui lui donnera un nouvel élan et l'inspiration pour de nouveaux projets. Il voyage et est pris d'un nouvel amour, tenu secret au peuple, elle préfère ne pas l'accompagner, se rendant souvent dans leur maison avec jardin à Jurmala. Elle continue à écrire des poèmes, est heureuse de son travail, et Rainis l’y rejoint à chaque fois. Dans cette maison, le 14 septembre 1929, Rainis est mort subitement et Aspasia informe ses compatriotes en ces termes : “ Rainis est mort. Son nom était le soleil qui brillait sur tous les peuples. Je demande à tous... de l'accompagner avec amour. Rainis croyait en l'immortalité. Je continue avec son âme.” Lorsque son vate est décédé, elle a quitté la vie publique et s'est retirée à Jurmala, continuant à faire des projets, à jouer du piano et à écrire des poèmes. Désormais qu'elle n'est plus l'épouse d'un homme politique célèbre, détestée par beaucoup pour ses revendications en matière de liberté individuelle et de droits des femmes, elle sera systématiquement diminuée et isolée, vivant dans la pauvreté avec sa domestique et ses chats. Elle meurt seule à l'hôpital à l'âge de 78 ans, en novembre 1943, alors que la Seconde Guerre mondiale fait rage, tragiquement, et que son pays, occupé par les Soviétiques de Staline en 1940, est tombé sous la coupe du Troisième Reich déjà en 1941. Ils ont tenté de lui offrir une sépulture anonyme, mais la nouvelle de sa mort s'est rapidement répandue, provoquant une grande tristesse parmi ses concitoyens, qui ont afflué nombreux pour rendre un juste hommage à leur poète indomptable. La Lettonie libre d'aujourd'hui, parfaitement intégrée à l'Union européenne, qu'elle a rejointe en 2004, adoptant l'euro en 2014, est enfin la patrie souhaitée par Aspasia et Rainis, qui en ont inspiré la fierté nationale, nourrissant les sentiments de rédemption et de rébellion du peuple contre les invasions étrangères, les Russes, les Allemands et enfin les Soviétiques. Considérés à juste titre comme la mère et le père du pays, ils font partie intégrante de la littérature et de l'histoire de la Lettonie, qui leur a consacré un musée populaire, tandis que leurs œuvres continuent d'être jouées dans les théâtres. Récemment, en 2015, suite à leur entrée dans la monnaie unique européenne, ils ont été représentés sur la même splendide pièce de 5 euros, composée de deux parties magistralement complémentaires, célébrant leur destin commun, fait de poésie, d'amour et de patriotisme.

Principales collections lyriques :
Les fleurs rouges;
À l’ombre de l’âme ;
Le coin ensoleillé ;
Le ventre plein de fleurs ;
Les ailes tendues ;
La nuit des sorcières ;
La saison des chrysanthèmes ;
Le voyage de l’âme.

Pièces principales :
Le vengeresse;
Les droits perdus ;
Le but non atteint ;
La jeune fille aux cheveux d'or ;
Aspasie ;
Le voile d’argent.

Autobiographie en deux volumes :
Ma vie et mes œuvres.

 

Traduzione inglese
Syd Stapleton

My family and I visited the Baltic Republics shortly after their 1991 conquest of independence from the former USSR, now in ruins. We shared the ideals of those small countries. They had found the courage to free themselves from the giant that had swallowed them up, imposing a very high price on them - death and suffering, and the renunciation of their identity as peoples. We were greatly pleased and surprised when we realized that they had still preserved their peculiar historical-cultural identity and had a clear, irrepressible, desire to regain lost time. This was particularly clear in the capitals - Vilnius (Lithuania), Riga (Latvia), and Tallin (Estonia). In Riga, without having planned it, we came across a popular festival of the people of the EU, in their traditional costumes. It was a real riot of beautiful colors and of encounters between different cultures. That year Italy was represented by a town in Sardinia, another place close to our hearts! Now, years later, the beautiful 2021 calendar project of the excellent Female Toponymy Association, has brought back that beautiful journey to my mind, offering an opportunity to pass on at least some of the joy it brought to me, my daughter and my husband, by telling of one of the most significant figures in Latvian history and culture, the poet and playwright Johanna Emilija Liete Rosenberga, known as Elza and also known by the strongly evocative pseudonym, Aspasia. An extraordinarily complex and modern female figure, who lived and anticipated in a surprising way the contradictions and ambivalent aspirations of many of us as, even today, we are torn between the desire to fulfill ourselves from a professional point of view, and that of living happy emotional relationships, having to deal with the multiple expectations of the home environment and society, which still weigh excessively on the shoulders of women, despite the legal achievements and the greater possibilities of accessing studies, even at a higher level. I understandably felt an almost immediate empathy and admiration for Aspasia, a woman who, like our grandmothers or great-grandmothers, found herself living between the end of the nineteenth century and about the middle of the twentieth century, facing, also in our name, the seven labors of Hercules to conquer equal moral dignity, even before legal equality. Aspasia's charm and strength consist in her perceiving herself as capable of going beyond all the limits of her time, which oppressed her and her people for centuries. The Order of the Teutonic Knights, which founded Riga, the capital, and imposed Christianity, was followed by the Polish, Swedish, German, Russian invasions, by Soviet rule, and then by the invasion of Hitler's Nazism, then by the Stalinist Soviets until the blessed perestroika of Gorbachev. On 23 August 1989, the peoples of the three Baltic countries formed a human chain of 600 km, which united the three capitals, Tallin, Riga and Vilnius. Two million out of the nine million inhabitants took part in it, stirring the astonished emotion of the democratic world, which took full note of their desire for independence. Following the fall of the Berlin Wall, the freely elected government declared the independence of Latvia, which in September 1991 was recognized by Russia itself.

The dream of Aspasia, the Young Latvians and the subsequent left movement, New Current, influenced by Marxism, led by Rainis and Peteris Stucka of the newspaper "Dienas Lapa", has finally come true! Elza, a long desired child, was born on March 16, 1865, on a farm in the Zemgale region, south of Riga. Her wealthy peasant family lived in a beautiful brick house, rather than in the more common wooden buildings. Her mother Grieta, energetic and a lover of jewels and beautiful clothes, and her tender and patient father, soon taught her to read and write, did not allow her to socialize with other farmers' sons and daughters, dreaming of a better fate for her. One of her Lutheran family’s first gifts to her was a Bible in German, regarded as the language of culture, to be read on her own. This ignited her imagination, while her grandmother told her the stories from Latvian folk tradition. She learned willingly and quickly, from any source that allowed her to go beyond the enclosed spaces of her family life. She enrolled in school in the city of Jelgava, where she was totally dedicated to her studies, spending sleepless nights reading by candlelight. I see her (and I see myself, a young rural student struggling with Latin, in her), as she enters into the study of classical civilization, getting excited by the tales of Homer and Virgil, by the legends and myths of heroines and heroes who founded Athens and Rome, the cradles of democracy and law. Among them, the leader Pericles, who is under the influence and apparently was in love with Aspasia, his fated mentor, the aristocratic concubine, beloved inseparable companion, architect of his political rise. She was the cultured and fascinating animator of a sort of cultural salon of yesteryear, frequented by Phidias and more often by Socrates. There it was even permitted for the aristocrats to be accompanied by their wives, so that they can learn from Aspasia's learned conversations. Elza understood, then, that Aspasia was her, she wanted to be her, fully grasping the reasons for that pseudonym attributed to her by one of her teachers, with the intention of revealing her great gifts, sensitivity and intelligence, making her understand how knowledge is the pass to freedom and independence. For her and for the women of her homeland. While the intrepid Elza-Aspasia, at the age of 16, dreamed of this, her mother, suddenly and without the possibility of appeal, who had encouraged and supported her until then, forced her to interrupt her studies without having obtained her nearly completed diploma. For Aspasia it was a first burning betrayal, which deeply affected her, breaking her trust in others and, at an unconscious level, even in herself and in her real possibilities. She felt rejected, crushed, her wings clipped prematurely. She was sensitive, passionate, suggestible, with a great self-love, sensing, desiring for herself an uncommon destiny. She very soon began to write poems and win prizes. “The Daughter of the Sun,” one of her most beloved, is inspired by Latvian mythology, as conveyed in the oral tradition of her people through the Dainas, compelling stories that in Latvian peasant culture were handed down from generation to generation during the long cold winter nights. At school she had become passionate about theater, finding in the times and rhythms of that world, where everything was possible, her most congenial dimension. She acted with passion and full involvement in The Merchant of Venice, by the bard Shakespeare. She wanted to be an actress and enroll in a theater course in Riga, so she ran away from home. Her parents took her back time and again, fearing that she was endangered by her urban companions, and by her contact with the youth in the New Movement, exposing her to the dangerous attention of the Russian rulers, who could permanently take her away. In 1886, at the age of 21, they married her to a bourgeois, a certain Wilhelm Max Walter, thinking of winning her a better social position, while she saw the marriage as an escape from her narrow family circle. The dowry requested of and offered by her family is huge, consuming most of the assets of her family. In just two years, however, Wilhelm proved to be a reckless drinker and gambler, dissipating all their possessions and reducing them to misery. He fled to the US, and all trace of him was lost. The marriage was later annulled in 1897. Aspasia first wrote about the unhappy experience in “Seltite” (Golden) and then in the play “Vaidelote” (The Avenger), which won her the Riga Theater Prize in 1888. The prose is strong, and the language introduces in the emerging Latvian literature the figure of a violent, dominating mother, recalling the myth of Medea.

At that point, forced to support her family, parents and two younger siblings, she worked as a governess, writing in her free time. She began to frequent the young people of the Movement again, cultivating romantic and nationalist ideas with them. She published her poems in the newspaper "Dienas Lapa" under the name Aspasia, becoming the voice of her country’s search of identity and independence. At the newspaper she met Janis Plieksans, known as Rainis (the variegated), from a wealthy Lithuanian-Swedish family, editor-in-chief and writer, although not too committed. They found themselves in the Movement, both nourishing libertarian and independence aspirations. They began to talk about their writings and their desire to contribute to the formation of national identity, to awaken the dormant consciences of their people through poetry and the theatrical genre which, inspired by ancient legends, could give life to a sort of new founding myth of their homeland. She liked his elegance, his penetrating gaze, and the trust that she received from him, that he gave great consideration to her thoughts and suggestions, despite his university studies and his degree in law. He is struck by her intelligence, by her passion inspired by her imaginative ability and by her youthful beauty. The new Pericles and Aspasia will become inseparable, in good times and bad, until his death in 1929, beyond which the writer survived, despite her, for 14 years. Their lives were closely intertwined with the political events of their country, capable of rising from the ashes every time. Rainis as an internationalist socialist, Aspasia more sensitive to human rights and people's freedom. He, a rationalist and atheist, cultivated the dream of a universal brotherhood and is an ideological supporter of women's emancipation. She was an extraordinarily talented lyric poet, who fought for the concrete affirmation of women's rights. They decided to live together, in Jurmala, a lively seaside resort not far from Riga. It was the happiest time in Aspasia's life, from both her personal and creative points of view. She published La Vestale and then her first collection of poems, Red Flowers, which met with great acclaim from critics and audiences, making her popular throughout the country. In the meantime, with Rainis, she wrote other plays and she did the translation of Faust into the Latvian language. They were a successful couple, loved by Latvians, who considered them the singers of their free homeland. In 1897, due to his ideas and his revolutionary political activity, Rainis was arrested by the Tsarist police and sentenced to five years in prison, to be served in Siberia. In order to follow him, Aspasia married him and supported him in the translation of Faust, urging him to write work of his own. In 1905, two years after returning to Riga, the drama The Silver Veil was premiered, written by Aspasia, with two female protagonists, one submissive and one adventurous, who struggle to assert their will. The success was enormous, the Latvian public saw in the work the spur to rebel against their oppressors. Many repeat performances followed, until the news of the revolt in St. Petersburg arrived. The Latvians are also aroused, but the repression was ruthless, with many dead and as many deportees. Aspasia and Rainis, champions of this fight, were convinced to leave Latvia and, with many refugees, they went to Switzerland, first to Zurich then to Lugano and finally to Castagnola, where they remained for 15 years.

Rainis fully immersed himself in his writing, adjusting to their two-room life of poverty and their continuing shortage of money. Aspasia, on the other hand, was anguished by the need to provide at least enough for survival, and suffered from the separation from her family, her audience, and her comrades in the fight. She was oppressed by the fear of failing in her most arduous task, that of continuing to inspire and give her support to his poetry. Rainis himself, sometime later, recognized her immense merit, stating that without her his work would never have been realized. The destiny of Aspasia, the inspiring muse and tireless mentor, has been fulfilled again, first with Pericles. and then with Rainis! At the end of the First World War, Latvia rebelled in the context of Germany’s defeat and declared independence. The exiles could return and in 1920 Aspasia and Rainis were welcomed in triumph in Riga, with all the honors due to the founders of the free homeland. They were given a residence on one of the most important avenues of the capital and were finally be able to live in a comfortable house, in via Basniza iela, 30. Their works were popular in the theaters of the country, and while participating as prominent protagonists in cultural and political life, both were elected to Parliament. He barely missed becoming the President of the Republic, but was appointed Minister of Culture. She chose to dedicate herself to the theater school for young people, which gave her impetus and inspiration for new projects. He traveled and, taken by a new love, kept secret from the public, she preferred not to accompany him, often going to their house with a garden in Jurmala. She continued to write poetry and was happy with her work, and Rainis often joined her there. In that house, on September 14, 1929, Rainis died suddenly and Aspasia informed his compatriots with these words: "Rainis is dead. His name was the sun that shone on all the people. I ask everyone… to accompany him with love. Rainis believed in immortality. I will continue with his spirit.” When her poet disapeared, she left public life and retired at Jurmala, continuing to take on projects, play the piano, write her own poetry. Now that she was no longer the wife of a famous politician, hated by many for her claims of individual freedom and women's rights, a systematic pressure was exerted against her, which pushed her into isolation more and more, ending up with her living in poverty, with a maid and with her cats. She died alone, in hospital, at the age of 78, in November 1943, while the Second World War raged tragically and her homeland, occupied by Stalin's Soviets in 1940, had already fallen under the rule of the Third Reich in 1941. They tried to give her an anonymous burial, but the news of her death spread quickly, causing an outpouring of her fellow citizens, who flocked to pay the just honors to their indomitable poet. Today's free Latvia, is perfectly integrated into the European Union, which it joined in 2004, adopting the euro in 2014. It is finally the homeland desired by Aspasia and Rainis, who inspired its national pride, nourishing the feelings of redemption and rebellion of the people against foreign invasions, the Russians, the Germans, and finally the Soviets. Rightly considered the mother and father of their homeland, they are fully part of the literature and history of Latvia, which has dedicated a very popular museum to them, while their works continue to be represented in the theater. Recently, in 2015, following their entry into the single European currency, they were portrayed on the same splendid 5 euro coin, made up of two masterfully complementary parts, celebrating their common destiny, made up of poetry, love and patriotism.

Main collections of poetry:
The Red Flowers;
In the Shadow of the Soul;
The Sunny Corner;
The Womb Full of Flowers;
The Outstretched Wings;
The Night of the Witches;
In the Chrysanthemum Season;
The Journey of the Soul.

Main plays: The Avenger;
The Lost Rights;
The Goal not Reached;
The Girl with the Golden Hair;
Aspasia;
The Silver Veil.

Two-volume autobiography:
My Life and My Works.


Karen Blixen

Loretta Junck


Rosalina Collu

 

«In Africa avevo una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong.
A un centocinquanta chilometri più a nord su quegli altipiani passava l’equatore;
eravamo a milleottocento metri sul livello del mare».

È il celebre incipit di Out of Africa (in Italia La mia Africa), il libro di memorie che rese nota in tutto il mondo la sua autrice, considerata ora tra le voci più originali della letteratura europea del Novecento. L’opera fu pubblicata, in inglese, nel 1937 – solo in seguito fu tradotta nella lingua madre di Karen, il danese – e ottenne subito un gran successo soprattutto negli Stati Uniti. Il film che ne fu tratto negli anni Ottanta, con l’interpretazione di Meryl Streep e Robert Redford, amplificò naturalmente questa fama, anche se tradì in parte il libro. A lei sarebbe dispiaciuto, ma se n’era andata ormai da più di 20 anni, e i proventi del film servirono per far diventare un museo la casa dove aveva abitato in Danimarca.

Era nata nel 1885 a Rungsted, un piccolo centro affacciato sul mar Baltico e battuto dai gelidi venti del nord, tra Copenaghen ed Elsinore, la città dove sorge il celebre castello dove Shakespeare ambientò Amleto. Il padre di Karen, Wilhelm Dinesen, apparteneva a una famiglia di ufficiali e proprietari terrieri, ma presto aveva abbandonato la carriera militare, che lasciava troppo poco spazio al suo spirito di avventura, ed era partito per l’America. Qui era vissuto per un periodo presso una tribù indiana, facendo il cacciatore e il mercante di pelli. Il fascino dei racconti paterni ebbe un’influenza determinante sul destino di Karen: da lui la piccola Tanne (così era chiamata in famiglia) imparò ad ascoltare e a raccontare storie e apprese l’amore per la natura e l’anelito alla libertà. Ma Wilhelm morì suicida lasciando tre figlie femmine e due figli maschi. Gli era stata diagnosticata la sifilide e forse il suo gesto era connesso con il terrore delle gravi conseguenze della malattia, per la quale allora esistevano pochi incerti rimedi. Per Karen, che aveva solo dieci anni, la ferita fu profonda e immedicabile. Come si usava allora, alla bambina fu impartita un’educazione famigliare, sotto la guida della madre, Ingeborg Westenholz, e della zia. Ma con la madre il rapporto non era troppo buono: Karen l’accusava di eccessiva rigidezza, che attribuiva all’influsso su di lei della congregazione religiosa cui apparteneva. Compiuti gli studi, la giovane si iscrisse all’Accademia delle Arti di Copenaghen per sfruttare la predisposizione per il disegno, che si univa a quella per le lettere. A 24 anni si innamorò, non corrisposta, del cugino svedese Hans Blixen e finì per fidanzarsi con il gemello di Hans, Bror. Con lui nel 1912 partì per il Kenia, che era protettorato britannico da meno di vent’anni, con l’intenzione di acquistarvi una proprietà, come avevano già fatto molte famiglie europee che da tempo si erano stabilite nelle fertili terre intorno a Nairobi.

La casa museo danese di Karen Blixen Karen, 1913

I due si sposarono a Mombasa e acquistarono vicino a Nairobi un terreno di 3000 ettari, una parte dei quali era occupata da una piantagione di caffè. Ma l’impresa non fu fortunata e il matrimonio nemmeno: Bror si rivelò subito un marito infedele e, oltre tutto, trasmise alla moglie la sifilide. Lei andò in Danimarca per curarsi e ci rimase parecchi mesi, poi tornò in Africa, ma dopo i fatidici sette anni i due finirono per separarsi e infine divorziarono. Karen, rimasta da sola a condurre la fattoria, nel frattempo aveva conosciuto in Kenia l’inglese Denys Finch Hatton, appassionato di safari, fine intenditore di musica classica e di letteratura e ascoltatore prezioso delle storie che lei amava raccontare. Karen lo considerò sempre il grande amore della sua vita, pur sapendo di non poter contare sulla sua presenza costante. Forse fu la morte precoce di Denys, per un incidente aereo, a favorire la mitizzazione di questo rapporto che nella realtà non fu senza problemi. Intanto la grande crisi economica degli anni Trenta aveva dato il colpo di grazia al progetto della piantagione che, un po’ per l’altezza eccessiva, un po’ per la siccità ricorrente non era mai stata davvero redditizia. Nel 1931, lo stesso anno della morte del suo grande amico, Karen fu costretta a vendere la proprietà, come molti anni prima avrebbe voluto fare suo marito Bror, mentre lei non ne aveva voluto sapere. Così perse il denaro investito e le fatiche profuse per diciassette anni nell’impresa, ma poté lasciarci una delle più vivide immagini dell’Africa e dei suoi popoli che siano mai state affidate alla parola scritta.

Karen in africa Out of Africa. Locandina del film

Tornata in patria, riprese a vivere nella casa di famiglia a Rungsted e, ormai quarantaseienne, si mise a scrivere; non era cosa nuova per lei, ma ora ci si dedicò intensamente, con il proposito di pubblicare. La prima opera, Sette storie gotiche, uscì in inglese in Inghilterra e negli Stati Uniti, con lo pseudonimo maschile di Isak Dinesen; seguirono La mia Africa e altre due raccolte, Racconti d’inverno e Capricci del destino, cui appartiene il racconto reso famoso da una splendida versione cinematografica, Il pranzo di Babette. Fanno parte della sua produzione anche alcuni saggi e due romanzi (I vendicatori angelici, scritto durante l’occupazione nazista della Danimarca e Ombre sull’erba, pubblicato nel 1960) ma è il racconto la misura ideale della scrittura di Blixen. Lo conferma Ehrengard, opera postuma che è forse il suo capolavoro. Il personaggio della protagonista, il più affascinante, credo, della ricca galleria di eroine lasciataci dalla scrittrice danese, ripropone ancora una volta i temi che le erano cari, ribadendo la concezione schiettamente aristocratica che lei aveva della vita: non c’è posto per la mediocrità nelle storie di Karen Blixen, come non c’era nell’ambito dei suoi interessi. Anche il nutrito epistolario è stato pubblicato.

Ehrengard

Già assai sofferente per i postumi di un’operazione allo stomaco subita a 70 anni, nel 1959 la scrittrice volle partire per gli Stati Uniti, dove era stata invitata, per conoscere finalmente di persona il Paese cui sapeva di dovere la fama raggiunta. Riscosse un gran successo e ovunque fu festeggiatissima. Molte sono le fotografie che la ritraggono in questa occasione; in alcune, la vediamo seduta al tavolo di un ristorante insieme a Carson McCullers (c’era una stima reciproca fra loro), Arthur Miller e Marilyn Monroe, di cui disse che le ricordava una cucciola di leone che un giorno le avevano portato, in Africa, ma lei non l’aveva voluta tenere. La scrittrice è ormai anziana, ridotta a pelle e ossa (non poteva mangiare quasi nulla), ma gli occhi colpiscono per la luce e l’intensità intelligente e partecipe dello sguardo. Si spense nel 1962, nella casa di Rungsted, con accanto famigliari, amiche e amici da cui era adorata, ma senza aver ottenuto il Nobel per la letteratura come aveva sperato: per due volte, nel ’54 e nel ’57, era stata candidata al Premio, ma il prestigioso riconoscimento era andato prima a Hemingway, poi a Camus. La giuria, si è saputo recentemente, da quando una parte dei documenti contenuti nell’archivio del Premio sono stati resi disponibili, non l’aveva scelta nel timore di dare un’impressione di parzialità nel privilegiare una scrittrice scandinava.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

«En Afrique, j'avais une ferme au pied des hauts plateaux de Ngong.
Cent cinquante kilomètres plus au nord sur ces plateaux passaient l'équateur;
nous étions à mille huit cents mètres au-dessus du niveau de la mer».

C'est le célèbre incipit de Out of Africa -la ferme africaine (en Italie La mia Africa), le mémoire qui a fait connaître son auteure dans le monde entier, aujourd'hui considérée comme l'une des voix les plus originales de la littérature européenne du XXe siècle. L'ouvrage est publié en anglais en 1937 - ce n'est que plus tard qu'il est traduit dans la langue maternelle de Karen, le danois - et connait immédiatement un grand succès, notamment aux États-Unis. Le film qui a été tourné dans les années 1980, avec l'interprétation de Meryl Streep et Robert Redford, a naturellement amplifié cette notoriété, même si il a en partie trahi le livre. Elle aurait été désolée, mais elle n’était plus depuis plus de 20 ans déjà, et les bénéfices du film ont été utilisés pour transformer la maison où elle vivait au Danemark en musée.

Elle est née en 1885 à Rungsted, une petite ville surplombant la mer Baltique et battue par les vents glacials du nord, entre Copenhague et Elseneur, la ville où se dresse le célèbre château où se déroule le drame d’Hamlet de Shakespeare. Le père de Karen, Wilhelm Dinesen, appartenait à une famille d'officiers et de propriétaires terriens, mais il abandonne bientôt une carrière militaire, qui laissait trop peu de place à son esprit d'aventure, et part pour l'Amérique. Il y vit pendant une période avec une tribu indienne, travaillant comme chasseur et commerçant. Le charme des contes de son père a une influence décisive sur le destin de Karen : de lui, la petite Tanne (comme on l'appelait dans la famille) apprend à écouter et à raconter des histoires et apprend l'amour de la nature et le désir de liberté. Mais Wilhelm se suicide en laissant derrière lui trois filles et deux fils. On lui a diagnostiqué la syphilis et peut-être son geste est lié à la terreur des conséquences graves de la maladie, pour laquelle il y avait alors peu de remèdes certains. Pour Karen, qui n’a que dix ans, la blessure est profonde et incurable. Comme c'est la coutume à l'époque, l'enfant reçoit une éducation familiale, sous la direction de sa mère, Ingeborg Westenholz, et de sa tante. Mais la relation avec sa mère n’est pas trop bonne : Karen l'accuse d'une rigidité excessive, qu'elle attribue à l'influence sur elle de la congrégation religieuse à laquelle elle appartient. Après avoir terminé ses études, la jeune femme s'inscrit à l'Académie des Arts de Copenhague pour profiter de sa prédisposition pour le dessin, qui se conjugue à celle pour les lettres. À 24 ans, elle tombe amoureuse, sans contrepartie, de son cousin suédois Hans Blixen et finit par se fiancer avec le jumeau de Hans, Bror. Avec lui, en 1912, elle part pour le Kenya, protectorat britannique depuis moins de vingt ans, avec l'intention d'y acheter une propriété, comme l'ont déjà fait de nombreuses familles européennes installées depuis longtemps dans les terres fertiles autour de Nairobi.

La maison-musée danoise de Karen Blixen Karen, 1913

Les deux se marient à Mombasa et achètent 3 000 hectares de terres près de Nairobi, dont une partie est occupée par une plantation de café. Mais l'entreprise n'a pas de chance et le mariage non plus : Bror se révèle immédiatement être un mari infidèle et surtout, transmet la syphilis à sa femme. Elle va au Danemark pour un traitement et y reste plusieurs mois, puis retourne en Afrique, mais après les sept années fatidiques, les deux finissent par se séparer et finalement divorcent. Karen, laissée seule à la tête de la ferme, a entre-temps rencontré l'anglais Denys Finch Hatton au Kenya, passionné de safari, fin connaisseur de musique classique et de littérature et auditeur précieux des histoires qu'elle aime raconter. Karen l'a toujours considéré comme le grand amour de sa vie, même si elle savait qu'elle ne pouvait pas compter sur sa présence constante. C'est peut-être la mort prématurée de Denys, due à un accident d'avion, qui a favorisé le mythe de cette relation, qui en réalité n'était pas sans problèmes. Entre-temps, la grande crise économique des années 1930 donne le coup de grâce au projet de plantation qui, en partie à cause de la hauteur excessive, en partie à cause de la sécheresse récurrente, n'a jamais été vraiment rentable. En 1931, la même année où son grand ami décède, Karen est forcée de vendre la propriété, comme son mari Bror aurait voulu le faire depuis de nombreuses années, alors qu’elle, elle n’était jamais d’accord. Elle a donc perdu l'argent qu'elle avait investi et le dur labeur qu'elle a consacré pendant dix-sept ans dans l’entreprise mais elle a su nous laisser l'une des images les plus vives de l'Afrique et de ses peuples qui n'ait jamais été confiée à l’écriture.

Karen en Afrique Out of Africa. Affiche

De retour dans son pays natal, elle recommence à vivre dans la maison familiale de Rungsted et, a maintenant quarante-six ans, elle commence à écrire ; ce n'est pas nouveau pour elle, mais maintenant elle s’y dévoue intensément, avec l'intention de publier. Le premier ouvrage, sept histoires gothiques, sort en anglais en Angleterre et aux États-Unis, sous le pseudonyme masculin d'Isak Dinesen ; suivi de La Ferme Africaine et de deux autres recueils, Les Contes d’hiver et Caprices du destin, qui comprend l'histoire rendue célèbre par une splendide version cinématographique, Le dîner de Babette. Quelques essais et deux romans font également partie de sa production (les voies du châtiment, écrit pendant l'occupation nazie du Danemark et Ombres sur la prairie, publié en 1960) mais l'histoire est la mesure idéale de l'écriture de Blixen. C'est ce que confirme Ehrengarde œuvre posthume qui est peut-être son chef-d'œuvre. Le personnage de la protagoniste, la plus fascinante, je pense, de la riche galerie d'héroïnes que nous a laissée l'écrivaine danoise, propose une fois de plus les thèmes qui lui sont chers, réaffirmant la conception franchement aristocratique qu'elle se fait de la vie : il y a pas de place pour la médiocrité dans les histoires de Karen Blixen, car il n'y en a pas dans ses intérêts. L'abondante correspondance a également été publiée.

Ehrengard

Souffrant déjà des séquelles d'une opération à l'estomac à l'âge de 70 ans, l'écrivaine souhaite partir en 1959 aux États-Unis, où elle a été invitée, pour enfin connaître physiquement le pays auquel elle sait devoir sa renommée. C’est un grand succès et elle est célébrée de partout. Il existe de nombreuses photographies qui la représentent dans ces occasions ; dans certaines, on la voit assise à une table de restaurant avec Carson McCullers (il y avait une estime mutuelle entre eux), Arthur Miller et Marilyn Monroe, dont elle a dit qu'elle lui rappelait un lionceau qu’on lui avait apporté un jour, en Afrique, mais elle n’avait pas voulu le garder. L'écrivaine est aujourd'hui âgée, réduite à la peau et aux os (elle ne peut presque plus rien manger), mais ses yeux frappent par la lumière et l'intensité intelligente et sympathique de son regard. Elle meurt en 1962, dans la maison Rungsted, avec sa famille, ses amies et amis qui l’adorent, mais sans avoir obtenu le prix Nobel de littérature comme elle l'avait espéré : à deux reprises, en 54 et en 57, elle avait été nominée pour le Prix, mais le prix prestigieux est allé d'abord à Hemingway, puis à Camus. Le jury, on l'a appris récemment, puisque certains des documents contenus dans les archives du Prix ont été mis à disposition, ne l'avait pas choisie de peur de donner une impression de partialité en favorisant un écrivain scandinave.

Karen Blixen, vieille Sa tombe à Rungstedlund

 

Traduzione inglese
Cettina Callea

“I had a farm in Africa at the foot of the Ngong Hills.
The equator runs across these highlands, a hundred miles to the North,
and the farm lay at an altitude of over six thousand feet”.

These are the famous first words of Out of Africa, the book of memoirs which made its author so popular all over the world that she is still considered one of the most original voices in the European literature of the twentieth century. The book was published in English, in 1937 and became soon very successful especially in the USA. Only later was it translated into Karen’s mother tongue, Danish. The film, which was made in the 1980s, with the interpretation of Meryl Streep and Robert Redford, naturally amplified this fame, even if it partially betrayed the book. She would have been sorry, but she had passed away more than 20 years before, and the proceeds from the film were used to turn the house where she lived in Denmark into a museum.

She was born in 1885 in Rungsted, a small town beaten by the icy north winds and overlooking the Baltic Sea. It is situated between Copenhagen and Elsinore, the city where the famous castle where Shakespeare set Hamlet stands. Karen's father, Wilhelm Dinesen, belonged to a family of officers and landowners, but he soon abandoned his military career, which left too little room for his spirit of adventure, and left for America. There, he lived for a period with an Indian tribe, working as a hunter and trader. The charm of her father's tales had a decisive influence on Karen's destiny. From him, little Tanne (as she was called in the family) learned to listen to and to tell stories. And she learned the love of nature and the desire for freedom. But Wilhelm committed suicide leaving three daughters and two sons. He had been diagnosed with syphilis and perhaps his gesture was connected with the terror of the serious consequences of the disease, for which there were then only a few uncertain remedies. For Karen, who was only ten, the wound was deep. As they used to do then, the child was given her education by her family, under the guidance of her mother, Ingeborg Westenholz, and her aunt. But the relationship with her mother was not particularly good. Karen accused her of excessive rigidity, which she attributed to the influence on her of the religious congregation to which she belonged. After completing her studies, the young woman enrolled at the Copenhagen Academy of Arts to further develop her talent for drawing, which was combined with her abilities at writing. When she was 24, she fell in love, unrequited, with her Swedish cousin Hans Blixen and ended up getting engaged to Hans's twin, Bror. In 1912 she left with him for Kenya, which had been a British protectorate for less than twenty years. They had the intention of buying a property there, as had many European families who had long settled in the fertile lands around Nairobi.

Karen Blixen's Danish house museum Karen, 1913

The two married in Mombasa and bought 3,000 hectares of land near Nairobi, part of which was occupied by a coffee plantation. But the enterprise was not lucky and neither was the marriage: Bror immediately revealed himself to be an unfaithful husband and, above all, transmitted syphilis to his wife. She went to Denmark for treatment and stayed several months, then returned to Africa, but after seven years the two separated and eventually divorced. In Kenya Karen, alone leading the farm, had meanwhile met the English Denys Finch Hatton, safari enthusiast, fine connoisseur of classical music and literature and precious listener to the stories she loved to tell. Karen always considered him the great love of her life, even though she knew she could not count on his constant presence. Perhaps it was Denys' early death from a plane crash that helped to avoid trouble in this relationship, which in reality was not without its problems. Meanwhile, the great economic crisis of the 1930s had given the final blow to the plantation project which, because of its excessive height and the recurring drought, had never really been profitable. In 1931, the same year as her great friend's death, Karen was forced to sell the property, as her husband Bror wanted to do many years earlier, while she did not. As a result, she lost the money she had invested and any benefit of the labor she had put into the enterprise for seventeen years. But her time there left her able to leave us one of the most vivid images of Africa and its peoples.

Karen in Africa Out of Africa. Movie poster

She returned to live in the family home in Rungsted and, then forty-six years old, began to write. Writing was not new to her, but in Rungsted she devoted herself to it intensely, with the intention of publishing. Her first work, Seven Gothic Tales, was published in English in England and the United States, under the male pseudonym Isak Dinesen. This first book was followed by Out of Africa and two other collections, Winter’s Tales and Anecdotes of Destiny. Anecdotes of Destiny included the story made famous by its splendid film version, Babette’s Feast. Her production also includes essays and two novels (The Angelic Avengers, written during the Nazi occupation of Denmark and Shadows on the Grass, published in 1960). The very best of her writing was her fiction. This is confirmed by Ehrengard, a posthumously published work that is perhaps her masterpiece. The protagonist is the most fascinating, I believe, of the rich gallery of heroines left to us by the Danish writer. It once again offers themes she really loved, reflecting her frankly aristocratic conception of life - there is no place for mediocrity in the stories of Karen Blixen, as there was not in the range of her interests. Her extensive correspondence has also been published.

Ehrengard

In 1959, already suffering from the after-effects of stomach surgery she had at the age of 70, Karen left for the United States, where she had been invited, to finally get to know in person the country to which she knew she owed her fame. Her trip was a great success and she was celebrated everywhere she went. There are many photographs of her during the trip. In some of them, we see her sitting at a restaurant table with Carson McCullers (there was mutual esteem between them), Arthur Miller and Marilyn Monroe, who reminded Karen of a lion cub she had been given while living in Africa, but that she didn't want to keep. By this time she was reduced to skin and bones by her extremely limited diet. Her advanced age is apparent, but one is still struck by the intelligence and intensity of her gaze. She died in 1962, in the Rungsted house, in the company of close family and friends who had loved her, unfortunately without having obtained the Nobel Prize for Literature as she had hoped. Twice, in 1954 and 1957, she had been nominated for the Prize, but the prestigious award had gone first to Hemingway, then to Camus. Some of the documents contained in the archives of the Nobel Prize committee have since been made available, and they reveal that the jury had not chosen her for fear of giving an impression of partiality by favoring a Scandinavian writer.

Old Karen Blixen His grave in Rungstedlund


Magda Szabó

Daniela Fusari


Rosalina Collu

 

Una bambina che a tre anni sa già leggere e parla in latino con il padre non è una bambina “normale”… eppure questa sua atipicità è l’anticipazione del senso di una vita lunga e benvissuta, spesa nella ricerca, nel rispetto, nella distillazione della parola al servizio della scrittura come specchio della vita. Magda Szabó nasce il 5 ottobre 1917 a Debrecen, seconda città dell’Ungheria e culla della religione riformata. Il padre e la madre sono due intellettuali che appartengono alla borghesia benestante ed entrambi, ognuno con le proprie passioni e vocazioni, si occupano con grande dedizione della cura e dell’educazione della loro unica figlia. Conosciamo la prima parte della vita della scrittrice grazie al racconto autobiografico contenuto in Per Elisa, ultimo suo lavoro pubblicato nel 2002, primo tassello di un’opera incompiuta in più volumi che avrebbe dovuto coprire l’arco della sua intera vita. Per Elisa racconta l’infanzia e l’adolescenza di Magda dalla nascita al 1935, quando si conclude il suo percorso di studi liceali. Grazie a questa autobiografia romanzata possiamo conoscere i personaggi principali della famiglia, il clima sociale della città natale, il contesto culturale che l’ha nutrita, l’ambiente spirituale che ha formato il suo orizzonte morale, sullo sfondo della situazione storica seguita alla Grande guerra, da cui l’Ungheria, in seguito al Trattato di pace del Trianon, è uscita smembrata e mutilata. Dodi, come è chiamata in famiglia, è una bambina curiosa, ama il sapere, la cultura classica, ma si lascia condurre dalla infinita fantasia della madre nei territori liberi dell’immaginazione. Una mente con questo imprinting non poteva certo avere vita facile nei rigidi percorsi disciplinari previsti dalle istituzioni scolastiche del tempo. E così la piccola Dodi subisce i giudizi severi delle insegnanti che non tollerano la sua libertà di pensiero e patisce la derisione e l’emarginazione da parte delle sue compagne troppo diverse da lei. Un evento che scuote potentemente i suoi riferimenti affettivi è l’arrivo in famiglia di Cili, un’orfana di quattro anni, sua coetanea, che gli Szabó decidono di adottare. Cecilia, questo il nome della nuova arrivata, è una vittima della Storia: i suoi genitori, infatti, sono morti durante la fuga da Zenta nella Voivodina, uno dei territori sottratti all’Ungheria dopo la sconfitta subita nella Prima guerra mondiale. Dodi in un primo momento rifiuta la piccola, ma in breve le due bambine, riconoscendo il valore della loro diversità, si scoprono complementari e si legano di un affetto profondo che non finirà nemmeno con la morte precoce di Cili. Anche se nella forma dell’autobiografia, la narrazione non segue un andamento lineare, ma, con la maestria di sempre, Szabó procede utilizzando analessi e prolessi, accompagnandoci avanti e indietro nel tempo con un uso ricercato della lingua, che le viene da un’antica e costante dimestichezza con la parola. La stessa materia autobiografica è al centro di Il vecchio pozzo. Qui i capitoli affrontano ognuno un argomento come un racconto a sé: i genitori, gli animali, le immagini, la vita religiosa, le arti, la poesia, la scuola, l’educazione sentimentale…

Ma in tutta la sua ricca produzione si possono riconoscere echi e trasfigurazioni di momenti che hanno segnato la sua biografia. E alcuni passaggi sono stati davvero dolorosi. Dopo la laurea in lettere classiche, si sposa con Timor Szóbotka, scrittore e traduttore, e inizia ad insegnare in collegi e istituti privati. Le atmosfere di questa dimensione scolastica, vissuta prima come alunna e poi come docente, sono presenti nel romanzo di formazione Abigail (1970) in cui la protagonista, Giorgina detta Gina, orfana di madre, viene inspiegabilmente espulsa, per volontà del padre, dal suo nido domestico, luogo privilegiato della Budapest benestante, riscaldato dall’affetto del genitore e dell’istitutrice francese. È il 1943, l’Ungheria sta per essere invasa dalle truppe naziste e le buie nubi della Storia si addensano anche sulle vite di Gina e di suo padre. La sua nuova dimora è un prestigioso ma tetro collegio calvinista, il Matula, in una cittadina di provincia, lontanissima sia fisicamente che culturalmente dalla città di Budapest in cui l’adolescente è vissuta. Gina (come Magda nella vita reale) si ribella alla nuova condizione, fatica ad accettare le regole e a integrarsi, rifiuta la credenza delle sue coetanee che Abigail, la statua posta nel giardino del collegio, abbia la capacità di proteggere le alunne a patto che queste non ne rivelino i poteri straordinari. In realtà, come scopriranno Gina e chi legge il romanzo, la Storia con la S maiuscola penetra nella vita dei personaggi e la modifica, orientandone le scelte e le azioni: è il coinvolgimento nella Resistenza ungherese che ha spinto il padre ad allontanare da sé Gina per proteggerla e persino dietro l’inquietante figura di Abigail si muovono forze molto più reali di quelle “magiche” immaginate dalle educande. Ciò che Szabó ci dice attraverso questo romanzo è che non si sfugge alla presa della Storia e che la comprensione ritardata, parziale e superficiale di quanto accade produce danni irreparabili, come nel caso dell’inadeguatezza dimostrata da molti magiari nei confronti delle persecuzioni razziali contro la popolazione ebrea ungherese. La stessa Magda, nel ruolo di insegnante, ha provato in prima persona la vergogna di non sapersi opporre alle leggi razziali entrate in vigore nel suo Paese dopo l’invasione tedesca, non ha infatti potuto premiare una sua alunna, la migliore nella lingua ungherese, proprio perché ebrea. Non solo romanzo di formazione, quindi, ma testimonianza di un senso di colpa individuale e collettivo che cerca espiazione attraverso la scrittura. Ma la carriera letteraria di Magda Szabó non era iniziata con la narrativa, in un primo momento il suo mondo interiore si era espresso attraverso il linguaggio poetico. Siamo dopo la fine della Seconda guerra mondiale e, con l’inclusione dell’Ungheria nel blocco dei Paesi satelliti dell’Unione Sovietica, la sua scrittura “intimista” non è ritenuta rispondente ai canoni della cultura di regime. Nel 1949 il Premio Baumgarten, appena assegnatole, le viene revocato e, in rapida successione, è licenziata dal Ministero della Pubblica istruzione, esclusa da ogni incarico ufficiale e costretta a ripiegare sull’insegnamento elementare. Ma, a differenza di altri intellettuali ungheresi, non se ne va dal suo Paese (come ad esempio Sándor Márai) e continua a scrivere e a chiudere nei cassetti testi che, in attesa di tempi migliori, per il momento riserva al suo uditorio di relazioni più intime e fidate, senza mai abbassarsi a compromessi con il regime.

Il primo frutto di questa scrittura “clandestina”, che segna anche la conversione dalla poesia alla prosa, è Affresco. Dopo il 1956 il contesto politico cambia e così quest’opera, scritta tre anni prima, può vedere la luce. Viene tradotto in 40 lingue e, chiave di volta del successivo riconoscimento internazionale dell’autrice, è apprezzato e segnalato da Herman Hesse. L’affresco del titolo è un affresco reale, dipinto anni prima da Annuska, la protagonista, artista mancata, il cui disvelamento serve, sin dalle prime pagine, a presentare i personaggi; ma la vicenda stessa è un affresco dell’Ungheria oppressa dal Comunismo in cui il regime limita la libertà di espressione, non esclusa la sua forma artistica, e in cui anche la Chiesa è al servizio del potere. Così quest’opera è significativa sia per la comprensione dell’ambiente culturale in cui la scrittrice è cresciuta, impregnato com’è di fede ed etica calvinista, sia per la conoscenza del periodo storico in cui si svolgono i fatti raccontati. Il romanzo è incentrato sulla giornata che precede il funerale della madre di Annuska, ma l’apparente semplicità della situazione è presentata facendo ricorso a una struttura narrativa complessa che mostra i fatti attraverso lo sguardo dei diversi personaggi e ricostruisce le vicende e le relazioni dei membri della famiglia con la tecnica del flashback, così che il graduale rilascio di particolari permette di comporre il quadro completo e definitivo solo nell’ultima pagina. Già in questo primo romanzo brillano la bellezza, la forza e la grazia dei personaggi femminili: Mammina, la madre defunta, presentata come un angelo biondo, Janka, la sorella della protagonista, votata al sacrificio, sottomessa all’autoritarismo paterno ma vero cardine della famiglia, e Annuska che incarna la libertà intellettuale, l’aspirazione artistica, la curiosità e le istanze della femminilità, viste come pericolose dai maschi garanti dell’ordine patriarcale.

Le donne, giovani o vecchie, sposate o sole, di qualsiasi condizione sociale, sono figure centrali nelle opere di Szabó, e così forte è l’urgenza di entrare nella loro anima e di vedere il mondo con i loro occhi che l’autrice non esita a rileggere la vicenda dell’Eneide in chiave femminile. Il momento. Creusaide, così si intitola l’opera scritta nel 1990 ma concepita molti anni prima, presenta la vicenda della fuga da Troia in fiamme dal punto di vista di Creusa, la sposa di Enea che Virgilio esclude e cancella, lasciando sulla scena solo la stirpe maschile: Anchise, Enea, Ascanio. Nella finzione narrativa, Szabó parte dal ritrovamento di un lacunoso poema in versi dell’immaginario poeta dell’età augustea Sartorio Saboade che celebra le gesta di Creusa, sopravvissuta e sostituitasi ad Enea nel viaggio verso la salvezza. Ma, oltre a questa originale rilettura del classico virgiliano, il testo vuole, ancora una volta, denunciare la limitazione alla libertà creativa subita dalla scrittrice durante il tempo del regime filosovietico di Mátyás Rákosi. Nella finzione narrativa, infatti, il poema dell’immaginario Saboade è messo all’indice e il poeta ridotto al silenzio perché non organico al consenso costruito attorno al potere di Augusto, così come era stato sciolto il circolo di poesia “Luna nuova”, di cui Szabó faceva parte al tempo della sua prima produzione letteraria in forma poetica. I personaggi femminili e le relazioni che intessono tra loro sono al centro di tre grandi romanzi: La porta, il primo ad aver fatto conoscere Szabó in Italia, La ballata di Iza e L’altra Eszter. In L’altra Eszter (1959) la protagonista è la Eszter del titolo, attrice affermata, che ha saputo emanciparsi da un’infanzia di povertà materiale e affettiva. La sua antagonista, senza saperlo né volerlo essere, è Angela, ex compagna di scuola, più fortunata di lei perché ricca, bella e felice, tutto ciò che Eszter non è ma avrebbe voluto essere, verso la quale nutre per tutta la vita sentimenti di invidia, rancore e odio. Nella forma del monologo interiore, Eszter racconta di sé e ripercorre la sua vita, con grande consapevolezza dei suoi stati emotivi che Szabó descrive con precisione chirurgica. Ma anche questo personaggio, che ha caratteristiche sgradevoli e può risultare antipatico, ha le sue ragioni: non è stata amata e non può amare. Solitudine e incomunicabilità sono dunque temi centrali nel romanzo, temi che ritornano nel successivo La ballata di Iza (1963): anche questa storia ha al centro due figure femminili, una madre anziana, vedova da poco, e una figlia che ha conquistato la sua autonomia attraverso lo studio e la realizzazione nel lavoro. Dopo la morte del padre, Iza, primaria in un ospedale della capitale, pensa che la cosa migliore per la madre sia non lasciarla sola nel paese d’origine, ma portarla a vivere con sé, nel suo appartamento di Budapest. Il dramma della relazione tra le due donne consiste nel fatto che, pur essendo legate da un affetto profondo, non sono capaci di comunicare reciprocamente la natura dei loro sentimenti e le motivazioni delle proprie scelte. Sono i temi complessi e potenti dell’ambivalenza emotiva, dell’impossibilità di comunicare compiutamente i propri vissuti, della difficoltà di agire per il bene dell’altra persona, temi che ritornano di nuovo in La porta. Anche questo romanzo mette al centro la relazione tra due donne, Magda, la scrittrice, io narrante, e Emerenc, una domestica molto particolare che impiega il suo tempo offrendo servizi qualificati a diverse famiglie più o meno importanti della città. La materia autobiografica è assai evidente: Magda, la protagonista, che ha lo stesso nome dell’autrice e come lei è stata da poco politicamente riabilitata, è parecchio impegnata fuori casa per presentare le sue opere, partecipare a eventi pubblici e ricoprire incarichi ufficiali in cui rappresenta il proprio Paese all’estero. Un aiuto domestico le è dunque diventato indispensabile. Ma non sarà la “padrona” a scegliere la “serva”, bensì il contrario, proprio a illuminare da subito la statura del personaggio di Emerenc. Questa anziana signora, ostentatamente ostile alla modernità e al mondo intellettuale, laconica e bizzarra, nasconde dietro a quella porta che mai si apre a vicini e conoscenti, (la porta del titolo, quella di casa sua) il distillato di una vita i cui segreti hanno radici nelle vicende storiche dell’Ungheria del Novecento. La scrittrice avrà infine il privilegio di essere messa a parte del mistero che avvolge l’esistenza di Emerenc, ma, nel tentativo di salvarle la vita, tradirà la fiducia che la vecchia le ha accordato e finirà per farle del male volendo fare il suo bene.

Non è possibile dar conto di tutta la vasta produzione letteraria dell’autrice che conta una cinquantina di opere e spazia dalla poesia al teatro, dal romanzo all’autobiografia e alla narrativa per l’infanzia e l’adolescenza. Ma di un romanzo ancora è necessario parlare: Via Katalin, l’opera più complessa di Szabó, per alcuni il capolavoro, per altri la meno riuscita proprio a causa della più ambiziosa e ardita concezione. In via Katalin, a Budapest, durante la guerra, abitano tre famiglie: i Bíró, gli Held e gli Elekes. Bambini e bambine giocano insieme, crescono e provano i primi turbamenti amorosi. Una delle famiglie è ebrea e, quando anche in città iniziano le retate e le stragi antisemite, in seguito all’uccisone dei genitori, i vicini di casa cercano di mettere in salvo la piccola Henriette. Ma il loro tentativo non ha successo e la piccola muore. Negli anni seguenti, mentre le vite di chi è sopravvissuto continuano a scorrere, tornerà per essere ancora presente in via Katalin come un’entità fantasmatica, a perenne memoria della tragedia vissuta anche in Ungheria da innocenti uomini e donne, ragazzi e ragazze, bambini e bambine, la cui unica colpa è stata quella di nascere e appartenere alla stirpe ebraica. È un romanzo corale in cui i tratti identitari dei personaggi emergono con grande vivezza attraverso sentimenti e pulsioni basilari come l’amore, l’ambizione, il tradimento, l’istinto di conservazione, il senso di colpa, la meschinità, la tenerezza. Via Katalin è un mondo in sedicesimo dove la Storia, anche se non travolge e cancella la vita delle persone, segna l’esistenza di chi accetta di vedere cosa essa produce e decide di darne testimonianza a futura memoria, un mondo in cui chi è vivo e chi non lo è più possono continuare a tessere un dialogo amorevole. La particolare struttura e l’uso di diverse voci narranti, se da una parte, almeno inizialmente, ne rendono un po’ difficile la lettura, dall’altra costituiscono la cifra stilistica dell’autrice, grande tessitrice di trame narrative mai banali. Una grande scrittrice, amatissima in Ungheria e apprezzata in tutto il mondo, testimone di quasi un secolo di vita della storia del suo tormentato Paese. Muore nel 2007 mentre è intenta a svolgere l’attività a cui, oltre alla scrittura, si dedicava da sempre con immenso piacere… leggere.

 

Traduzione francese
Piera Negri

Une fille qui à l'âge de trois ans sait déjà lire et parle latin avec son père n'est pas une fille "normale" ... cependant ce particulier aspect atypique est l'anticipation du sens d'une vie longue et bien vécue, passée dans la recherche, le respect, dans la distillation de la parole au service de l'écriture comme miroir de la vie. Magda Szabó est née le 5 octobre 1917 à Debrecen, la deuxième ville de Hongrie et le berceau de la religion réformée. Le père et la mère sont deux intellectuels appartenant à la riche bourgeoisie et tous les deux, chacun avec ses propres passions et vocations, s'occupent de l'éducation de leur fille unique avec grand dévouement. Nous connaissons la première partie de la vie de l'écrivain grâce au récit autobiographique contenu dans Pour Elise, son dernier ouvrage publié en 2002, premier morceau d'une œuvre inachevée en plusieurs volumes qui aurait dû couvrir toute la durée de sa vie. Pour Elise, raconte l'enfance et l'adolescence de Magda dès sa naissance au 1935, date de la fin de ses études secondaires. Grâce à cette autobiographie romancée, nous pouvons connaître les personnages principaux de la famille, le climat social de la ville natale, le contexte culturel qui l'a nourrie, l'environnement spirituel qui a formé son horizon moral, dans le contexte de la situation historique après la Grande guerre, de laquelle la Hongrie, à la suite du traité de paix de Trianon, est sortie démembrée et mutilée. Dodi, comme on l'appelle en famille, est une petite fille curieuse, elle aime la connaissance, la culture classique, mais se laisse entraîner par l'imagination infinie de sa mère dans les territoires libres de l'imaginaire. Un esprit avec cette empreinte ne pouvait certainement pas avoir une vie facile dans les cours disciplinaires rigides fournis par les instituts d'enseignement de l'époque. Et ainsi Dodi subit les jugements sévères des professeurs qui ne tolèrent pas sa liberté de pensée et souffre de la dérision et de la marginalisation de ses camarades trop différentes d'elle. Un événement qui secoue fortement ses références émotionnelles est l'arrivée dans la famille de Cili, une orpheline de quatre ans, de son même âge, que les Szabó décident d'adopter. Cecilia, c'est le nom de la nouvelle venue, est victime de l’histoire : ses parents, en effet, sont morts lors de la fuite de Zenta en Voivodine, l'un des territoires pris à la Hongrie après la défaite subie lors de la Première Guerre mondiale. Au début, Dodi rejette la petite fille, mais en peu de temps les deux filles, reconnaissant la valeur de leur diversité, se trouvent complémentaires et se lient avec une profonde affection qui ne s'arrêtera même pas avec la mort prématurée de Cili. Même si sous forme d’autobiographie, la narration ne suit pas une tendance linéaire, mais, avec la maîtrise habituelle, Szabó procède par analepses et prolepses, nous accompagnant dans les allers-retours dans le temps avec une utilisation raffinée du langage, qui vient d’une familiarité ancienne et constante avec la parole. La matière autobiographique elle-même est au centre de Le Vieux Puits. Ici les chapitres traitent chacun d'un sujet comme une histoire en soi : parents, animaux, images, vie religieuse, arts, poésie, école, éducation sentimentale ...

Mais dans toute sa riche production, on reconnaît des échos et des transfigurations de moments qui ont marqué sa biographie. Et certaines étapes ont été vraiment douloureuses. Après avoir obtenu son diplôme en littérature classique, elle épouse Timor Szóbotka, écrivain et traducteur, et commence à enseigner dans des collèges et instituts privés. Les ambiances de cette dimension scolastique, vécue d'abord comme élève puis comme enseignante, sont présentes dans le roman de formation Abigail (1970) dans lequel la protagoniste, Giorgina dite Gina, orpheline de mère, est inexplicablement expulsée, par la volonté du père, de son nid domestique, une place privilégiée dans la riche Budapest, réchauffé par l'affection du père et de la gouvernante française. C’est le 1943, la Hongrie est sur le point d'être envahie par les troupes nazies et les nuages sombres de l'histoire se rassemblent également sur la vie de Gina et de son père. Sa nouvelle maison est un collège calviniste prestigieux mais sombre, le Matula, dans une ville de province, physiquement et culturellement éloignée de la ville de Budapest où elle a vécu. Gina (comme Magda dans la vie réelle) se rebelle à la nouvelle condition, lutte pour accepter les règles et s'intégrer, rejette la croyance de ses pairs qu'Abigail, la statue placée dans le jardin du collège, a la capacité de protéger les élèves à condition qu’elles n’en révèlent pas ses pouvoirs extraordinaires. En réalité, comme ils vont le découvrir Gina et qui lit le roman, l'Histoire avec la H majuscule pénètre dans la vie des personnages et la modifie, orientant leurs choix et leurs actions : c'est l'implication dans la Résistance hongroise qui a poussé le père à éloigner Gina de lui-même pour la protéger et même derrière la figure inquiétante d'Abigaïl, des forces bien plus réelles que celles "magiques" imaginées par les écolières bougent. Ce que Szabó nous dit à travers ce roman, c'est que nous n'échappons pas à la prise de l'histoire et que la compréhension retardée, partielle et superficielle de ce qui se passe produit des dommages irréparables, comme dans le cas de l'inadéquation manifestée par plusieurs Magyars face aux persécutions raciales contre la population juive hongroise. Magda elle-même, dans le rôle d'enseignante, a ressenti de première main la honte de ne pas savoir comment s'opposer aux lois raciales entrées en vigueur dans son pays après l'invasion allemande, elle n’a pas pu reconnaitre le prix à une de ses élèves, la meilleure en langue hongroise, parce qu’elle était juive. Pas seulement un roman de formation, donc, mais le témoignage d'un sentiment de faute individuelle et collective qui cherche l'expiation à travers l'écriture. Mais la carrière littéraire de Magda Szabó n'a pas commencé par la fiction, son monde intérieur s'est d'abord exprimé à travers un langage poétique. Nous sommes après la fin de la Seconde Guerre mondiale et, avec l'inclusion de la Hongrie dans le bloc des pays satellites de l'Union soviétique, son écriture « intimiste » n'est pas considérée répondante aux canons de la culture du régime. En 1949, le prix Baumgarten, qui venait de lui être décerné, lui fut révoqué et, dans une succession rapide, elle fut licenciée par le ministère de l'Éducation, exclue de tout poste officiel et contrainte de se replier sur l'enseignement primaire. Mais, contrairement à d'autres intellectuels hongrois, elle ne quitte pas son pays (comme Sándor Márai, par exemple) et continue d'écrire et de fermer dans les tiroirs des textes qui, en attendant des temps meilleurs, pour le moment elle réserve à son public de relations intimes et dignes de confiance, ne faisant jamais de compromis avec le régime.

Le premier fruit de cette écriture « clandestine », qui marque également la conversion de la poésie à la prose, est Fresque. Après 1956, le contexte politique change et cet ouvrage, écrit trois ans auparavant, peut voir le jour. Il est traduit en 40 langues et, clé de voûte de la reconnaissance internationale ultérieure de l'autrice, est apprécié et signalé par Herman Hesse. La fresque du titre est une fresque réelle, peinte il y a des années par Annuska, la protagoniste, artiste ratée, dont le dévoilement sert, dès les premières pages, à présenter les personnages ; mais l'histoire elle-même est une fresque de la Hongrie opprimée par le communisme où le régime limite la liberté d'expression, n'excluant pas sa forme artistique, et dans laquelle l'Église aussi est au service du pouvoir. Ce travail est donc significatif à la fois pour la compréhension de l'environnement culturel dans lequel l'écrivaine a grandi, imprégné de la foi et de l'éthique calvinistes, et pour la connaissance de la période historique dans laquelle les faits racontés se déroulent. Le roman se concentre sur la veille des funérailles de la mère d'Annuska, mais l'apparente simplicité de la situation est présentée à l'aide d'une structure narrative complexe qui montre les faits à travers les yeux des différents personnages et reconstruit les événements et les relations des membres de la famille avec la technique du flashback, de sorte que la diffusion progressive des détails permet de composer l'image complète et définitive seulement à la dernière page. Déjà dans ce premier roman brillent la beauté, la force et la grâce des personnages féminins : Mammina, la mère décédée, présentée comme un ange blond, Janka, la sœur de la protagoniste, dévouée au sacrifice, soumise à l'autoritarisme paternel mais véritable charnière de la famille, et Annuska qui incarne la liberté intellectuelle, l'aspiration artistique, la curiosité et les instances de la féminité, perçues comme dangereuses par les garants masculins de l'ordre patriarcal.

Les femmes, jeunes ou âgées, mariées ou célibataires, de tout statut social, sont des figures centrales les œuvres de Szabó, et si forte est l'envie d'entrer dans leur âme et de voir le monde avec leurs yeux que l'auteur n'hésite pas à relire l’histoire de l'Énéide en clé féminine. Le moment, (Creusaide), c'est le titre de l'ouvrage écrit en 1990 mais conçu nombreuses années avant, présente l'histoire de l'évasion de Troie en flammes du point de vue de Creusa, l'épouse d'Enée que Virgil exclut et annule, ne laissant sur la scène que la lignée : Anchise, Enée, Ascanio. Dans la fiction narrative, Szabó commence par la découverte d'un poème incomplet en vers par le poète imaginaire de l'époque augustéenne Sartorio Saboade qui célèbre les exploits de Creusa, survivante et qui a remplacé Énée sur le chemin du salut. Mais, en plus de cette réinterprétation originale du classique virgilien, le texte veut, une fois de plus, dénoncer la limitation de la liberté de création subie par l'écrivaine à l'époque du régime pro-soviétique de Mátyás Rákosi. Dans la fiction narrative, en effet, le poème de l'imaginaire Saboade est mis à l'index et le poète réduit au silence car il n'est pas organique au consensus construit autour du pouvoir d'Auguste, tout comme le cercle de la poésie "Nouvelle Lune" dont Szabó faisait partie lors de sa première production littéraire sous forme poétique. Les personnages féminins et les relations qu'ils tissent entre eux sont au centre de trois grands romans : La porte, le premier à faire connaître Szabó en Italie, La ballade d'Iza et L’autre Eszter. Dans L'Autre Eszter (1959), la protagoniste est la Eszter du titre, une actrice établie, qui a su s’émanciper d'une enfance de pauvreté matérielle et affective. Son antagoniste, sans le savoir ni vouloir l'être, est Angela, une ex-camarade d’école, plus chanceuse qu'elle étant riche, belle et heureuse, tout ce qu'Eszter n'est pas, mais qu’elle aurait voulu être, envers qui elle a pour toute la vie des sentiments d'envie, de ressentiment et de haine. Sous forme de monologue intérieur, Eszter se raconte et retrace sa vie, avec une grande conscience de ses états émotionnels que Szabó décrit avec une précision chirurgicale. Mais même ce personnage, qui a des caractéristiques désagréables et peut apparaitre antipathique, a ses raisons : elle n'était pas aimée et elle ne peut pas aimer. La solitude et l'incommunicabilité sont donc des thèmes centraux dans le roman, thèmes qui reviennent dans la suite La Ballade d'Iza (1963) : cette histoire a également deux figures féminines centrales, une mère âgée, récemment veuve, et une fille qui a gagné son autonomie à travers l'étude et la réalisation dans le travail. Après la mort de son père, Iza, médecin chef d'un hôpital de la capitale, pense qu’il est mieux pour sa mère est de ne pas rester seule dans le pays d'origine, mais de l'emmener vivre avec elle dans son appartement à Budapest. Le drame de la relation entre les deux femmes consiste en ce que, bien qu'étant liées par une profonde affection, elles sont incapables de communiquer réciproquement la nature de leurs sentiments et les raisons de leurs choix. Ce sont les thèmes complexes et puissants de l'ambivalence émotionnelle, de l'impossibilité de communiquer pleinement ses propres expériences, de la difficulté d'agir pour le bien de l'autre, thèmes qui reviennent à nouveau dans La porte. Ce roman aussi se concentre sur la relation entre deux femmes, Magda, l'écrivaine, narratrice, et Emerenc, une femme de chambre très particulière qui utilise son temps à offrir services qualifiés aux familles plus ou moins importantes de la ville. La question autobiographique est très évidente : Magda, la protagoniste, qui porte le même nom que l'auteur et qui comme elle a récemment été réhabilitée politiquement, est très occupée à l'extérieur de la maison pour présenter ses œuvres, participer à des événements publics et occuper des postes officiels où elle représente son pays à l'étranger. L'aide domestique lui est donc devenue indispensable. Mais ce ne sera pas la « maîtresse » qui choisira le « serviteur », mais le contraire, ce qui illumine immédiatement la stature du personnage d'Emerenc. Cette vieille dame, ostensiblement hostile à la modernité et au monde intellectuel, laconique et bizarre, cache derrière cette porte qui n’ouvre jamais aux voisins et aux connaissances, (la porte du titre, celle de sa maison) le distillat d'une vie dont les secrets ont des racines dans les événements historiques de la Hongrie au XXe siècle. L'écrivain aura enfin le privilège d'être mise au courant du mystère qui entoure l'existence d'Emerenc, mais, en essayant de lui sauver la vie, elle trahira la confiance de la vieille femme et finira par lui faire du mal en voulant lui faire du bien.

Il n'est pas possible de rendre compte de l'ensemble de la vaste production littéraire de l'auteur qui compte une cinquantaine d'œuvres qui vont de la poésie au théâtre, des romans à l'autobiographie et à la fiction pour l'enfance et l'adolescence. Mais il faut encore parler d'un roman : Via Katalin, l'œuvre la plus complexe de Szabó, pour certains le chef-d'œuvre, pour d'autres la moins réussie précisément à cause de sa conception la plus ambitieuse et hardie. Trois familles vivaient dans la rue Katalin à Budapest pendant la guerre : les Bíró, les Helds et les Elekes. Les garçons et les filles jouent ensemble, grandissent et vivent leurs premiers troubles amoureux. Une des familles est juive et, lorsque les raids et massacres antisémites commencent dans la ville, suite au meurtre des parents, les voisins tentent de sauver la petite Henriette. Mais leur tentative échoue et la petite fille meurt. Dans les années suivantes, alors que les vies de survivants continuent, elle redeviendra pour être encore présente en rue Katalin en tant qu'entité fantomatique, en souvenir éternel de la tragédie également vécue en Hongrie par des hommes et des femmes innocents, des garçons et des filles, enfants et jeunes filles, dont la seule faute était de naitre et appartenir à la lignée juive. C'est un roman choral dans lequel les traits identitaires des personnages émergent avec une grande vivacité à travers des sentiments et des impulsions de base tels que l'amour, l'ambition, la trahison, l'instinct de préservation de soi, le sentiment de culpabilité, la méchanceté, la tendresse. Rue Katalin est un monde in-seize où l'histoire, même si elle ne submerge pas et n'efface pas la vie des gens, marque l'existence de ceux qui acceptent de voir ce qu'elle produit et décident d'en témoigner pour la mémoire future, un monde dans lequel ceux-ci qui sont vivants et ceux qui ne le sont plus peuvent continuer à tisser un dialogue affectueux. La structure particulière et l'utilisation de différentes voix narratives, si d'une part, au moins au début, la rendent un peu difficile à lire, d'autre part elles représentent le code stylistique de l'auteur, grande tisseuse d'intrigues narratives jamais banales. Une grande écrivaine, très aimée en Hongrie et appréciée dans le monde entier, témoin de près d'un siècle de vie dans l'histoire de son tourmenté Pays. Elle est décédée en 2007 alors qu'elle était occupée dans l'activité à laquelle, en plus de l'écriture, elle s'était toujours consacrée avec un immense plaisir ... la lecture.

 

Traduzione inglese
Piera Negri

A girl who at the age of three can already read and speaks Latin with her father is not a "normal" girl ... yet this atypical aspect represents what will then be a long and well-lived life, spent in research, respect, distillation of the word at the service of writing as a mirror of life. Magda Szabó was born on 5 October 1917 in Debrecen, the second largest city in Hungary and cradle of the reformed religion. The father and mother are two intellectuals who belong to the wealthy bourgeoisie and both, each with their own passions and vocations, carefully take care of their only daughter’s growth and education. We know the first part of the writer's life thanks to the autobiographical story contained in For Elisa, her last work published in 2002, the first piece of a never completed work in several volumes expected to cover all her life. For Elisa tells of Magda's childhood and adolescence from her birth to 1935, when she finished her high school studies. Thanks to this fictional autobiography we can know the main characters of the family, the social climate of her hometown, the cultural context that nourished her, the spiritual environment that formed her moral horizon, on the background of the historical situation followed by the Great War, from which Hungary, following the Trianon Peace Treaty, emerged dismembered and mutilated. Dodi, as she is called in the family, is a curious child, she loves knowledge, classical culture, but let herself be led by her mother's infinite fantasy into the free territories of the imagination. A mind with such an imprinting certainly could not have an easy life in the rigid disciplinary courses provided by the scholastic institutions of the time. And so little Dodi suffers the severe judgments of the teachers who do not tolerate her freedom of thought and she suffers the derision and marginalization on the part of her companions who are too different from her. An event that powerfully shakes her emotional references is the arrival in the family of Cili, a four-year-old orphan, of her same age, whom the Szabó decide to adopt. Cecilia, this is the name of the newcomer, is a victim of history: her parents, in fact, died during the escape from Zenta in Voivodina, one of the territories taken from Hungary after the defeat suffered in the First World War. At first Dodi rejects the little one, but in a short time the two girls, recognizing the value of their diversity, find each other complementary and bond with a deep affection that will not end even with Cili's premature death. Even if in the form of autobiography, the narration does not follow a linear trend, but, with her usual skill, Szabó proceeds using analexys and prolixes, accompanying us back and forth in time with a refined use of the language, which comes from a ancient and constant familiarity with the word. The autobiographical matter itself is at the centre of The old well. Here each chapter deal with a topic as a story in itself: parents, animals, images, religious life, arts, poetry, school, sentimental education ...

But in all of his rich production we can recognize echoes and transfigurations of moments that have marked her biography. And some of the steps have been really painful. After graduating in classical literature, she married Timor Szóbotka, writer and translator, and she starts teaching in private colleges and institutes. The atmospheres of this scholastic dimension, experienced first as a student and then as a teacher, are present in the novel Abigail (1970) in which the protagonist, Giorgina called Gina, motherless, is inexplicably expelled, by her father, from the domestic nest, a privileged place in wealthy Budapest, warmed by the affection of the parent and the French governess. It is 1943, Hungary is being invaded by Nazi troops and the dark clouds of history are also gathering over the lives of Gina and her father. Her new home is a prestigious but gloomy Calvinist college, the Matula, in a provincial town, very far both physically and culturally from the city of Budapest where the teenager lived. Gina (like Magda in real life) rebels against the new condition, struggles to accept the rules and to integrate, rejects her peers’ beliefs that Abigail, the statue placed in the garden of the college, has the ability to protect the pupils as long as they do not reveal her extraordinary powers. Actually, as Gina and the readers of the novel will discover, the Story with a capital S penetrates into the life of the characters and modifies it, orienting their choices and actions: it is the involvement in the Hungarian Resistance that pushed the father to distance Gina from himself to protect her and even behind the disturbing figure of Abigail, there are forces much more real than the "magical" ones imagined by the boarders. What Szabó tells us through this novel is that we do not escape the grasp of history and that the delayed, partial and superficial understanding of what is happening produces irreparable damage, as in the case of the inadequacy as proven by many Magyars towards the racial persecutions against the Hungarian Jewish population. Magda herself, as teacher, felt first-hand the shame of not knowing how to oppose the racial laws came into force in her country after the German invasion, in fact she could not reward one of her students, the best in the Hungarian language, just because she was Jewish. Not only a bildungsroman, then, but testimony of an individual and collective sense of guilt looking for expiations through writing. But Magda Szabó's literary career did not begin with fiction, at first, she expressed her inner world through poetic language. We are after the end of the Second World War and, with the inclusion of Hungary in the block of the satellite countries of the Soviet Union, her “intimistic” writing is not considered matching the canons of the regime's culture.In 1949 the Baumgarten Prize, just been awarded to her, was revoked and, in quick succession, she was fired from the Ministry of Education, excluded from any official post and forced to fall back on elementary education. But, unlike other Hungarian intellectuals, she does not leave her country (such as Sándor Márai) and continues to write and close in drawers texts that, waiting for better times, she reserves at the moment for her most intimate and trustworthy listeners, never compromising with the regime.

The first fruit of this “clandestine” writing, which also marks the conversion from poetry to prose, is Affresco. After 1956 the political context changes and so this work, written three years earlier, can see the light. It is translated into 40 languages and, the keystone of the author's following international recognition, is appreciated and recommended by Herman Hesse. The fresco of the title is a real fresco, painted years earlier by Annuska, the protagonist, a failed artist, whose unveiling serves, from the very first pages, to present the characters; but the story itself is a fresco of Hungary oppressed by Communism in which the regime limits freedom of expression, not excluding its artistic form, and in which the Church is also at the service of power. This work is significant both for the understanding of the cultural environment in which the writer grew up, impregnated as it is with Calvinist faith and ethics, and for the knowledge of the historical period where the described facts take place. The novel focuses on the day before the funeral of Annuska's mother, but the apparent simplicity of the situation is presented using a complex narrative structure that shows the facts through the eyes of the different characters and reconstructs the events and relationships of the members of the family with the flashback technique, so that the gradual release of details composes the complete and definitive picture on the last page only. Already in this first novel the beauty, strength and grace of female characters shine: Mommy, the deceased mother, presented as a blond angel, Janka, the sister of the protagonist, devoted to sacrifice, subjected to paternal authoritarianism but a true cornerstone of family, and Annuska who embodies intellectual freedom, artistic aspiration, curiosity and the femininity requests, seen as dangerous by the male guarantors of the patriarchal order.

Women, young or old, married or single, of any social status, are central figures in Szabó's works, and so strong is the urge to enter their soul and see the world with their eyes that the author does not hesitate to read again the story of the Aeneid in a feminine key. The moment. Creusaide, this is the title of the work written in 1990 but conceived many years earlier, tells the story of the escape from Troy in flames from the point of view of Creusa, Aeneas’ wife that Virgil excludes and cancels, leaving only the male lineage on the scene: Anchises, Aeneas, Ascanius. In narrative fiction, Szabó starts with the discovery of an incomplete poem in verse by the imaginary poet of the Augustan age Sartorio Saboade who celebrates the exploits of Creusa, who survived and replaced Aeneas in the journey to salvation. But, in addition to this original reinterpretation of the Virgilian classic, the text wants, once again, to denounce the limitation to creative freedom suffered by the writer during the time of the pro-Soviet regime of Mátyás Rákosi. In the narrative fiction, in fact, the poem of the imaginary Saboade is put on the index and the poet reduced to silence because it is not organic to the consensus built around the power of Augustus, just as the circle of poetry "New Moon", of which Szabó was part, was dissolved at the time of her first literary production in poetic form. The female characters and the relationships they build between them are at the centre of three great novels: The door, the first to introduce Szabó in Italy, The ballad of Iza and The other Eszter. In The Other Eszter (1959) the protagonist is Eszter, an established actress, who was able to free herself from a childhood of material and emotional poverty. Her antagonist, without knowing or wanting to be, is Angela, a former schoolmate, more fortunate because rich, beautiful and happy, all what Eszter is not but wanted to be, towards whom she has feelings of envy, resentment and hate for all her life. As an inner monologue, Eszter talks about herself and retraces her life, with great awareness of her emotional states that Szabó describes with surgical precision. But even this character, who has disagreable characteristics and can be found unpleasant, has her reasons: she was not loved and cannot love. Solitude and incommunicability are therefore central themes in the novel, returned again in the The Ballad of Iza (1963): this story too has two main female figures, an elderly mother, recently widowed, and a daughter who has gained her autonomy through her studies and her job. After the death of her father, Iza, head doctor of a hospital in the capital, thinks that the best thing for her mother is not to leave her alone in her country of origin, but to take her to live with her in her flat in Budapest. The drama of the relationship between the two women consists in the fact that, despite being linked by a deep affection, they are unable to mutually communicate the nature of their feelings and the reasons for their choices. These are the complex and powerful themes of emotional ambivalence, the impossibility of fully communicating one's own experiences, the difficulty of acting for the good of the other person, themes that return again in La porta. This novel too focuses on the relationship between two women, Magda, the writer, storyteller, and Emerenc, a very particular maid who spends her time offering qualified services to various more or less important families in the city. The autobiographical matter is very evident: Magda, the protagonist, who has the same name as the author and like her has recently been politically rehabilitated, is very busy away from home to present her works, participate in public events and hold official positions to represent her country abroad. Domestic help has therefore become necessary. But she will not be the "mistress" to choose the "servant", but the opposite, just to immediately illuminate the stature of the character of Emerenc. This elderly lady, clearly hostile to modernity and the intellectual world, laconic and bizarre, hides behind that door that never opens to neighbours and acquaintances (the title’s door, that of her house) the distillation of a life whose secrets have roots in the historical events of Hungary in the twentieth century. The writer will finally have the privilege of being set apart from the mystery that surrounds the existence of Emerenc, but in an attempt to save her life, she will betray the trust the old woman placed in her and will end up hurting her trying to do the good to her.

It is not possible to summarize all the author's vast literary production which has about fifty works and ranges from poetry to theatre, from novels to autobiography and fiction for childhood and adolescence. But we still need to talk about a novel: Katalin Street, Szabó's most complex work, her masterpiece for some, for others the least successful because of the most ambitious and daring conception. Three families lived in Katalin Street in Budapest during the war: the Bíró, the Helds and the Elekes. Boys and girls play together, grow up and experience their first love troubles. One of the families is Jewish and, when the anti-Semitic raids and massacres begin in the city, after the killing of parents, the neighbours try to save little Henriette. But their attempt is unsuccessful and the little girl dies. In the following years, while the lives of those who survived continue to flow, she will return in Katalin Street as a ghost entity, in perpetual memory of the tragedy also experienced in Hungary by innocent men and women, boys and girls, children and girls, whose only fault was to be born and belong to the Jewish lineage. It is a choral novel in which the identifying traits of the characters emerge with great vividness through basic feelings and impulses such as love, ambition, betrayal, self-preservation instinct, sense of guilt, meanness, tenderness. Katalin Street is a world in sixteenmo where history, even if it does not overwhelm and erase people's lives, marks the existence of those who accept to see what it produces and decide to be witness for future memory, a world in which those who is alive and who is no longer can continue to weave a loving dialogue. The special structure and the use of different narrative voices, if on the one hand, at least initially, make it a bit difficult to read, on the other they constitute the stylistic code of the author, a great weaver of never banal narrative plots. A great writer, beloved in Hungary and appreciated all over the world, witness to almost a century of life in the history of her tormented Country. She died in 2007 while she is absorbed in carrying out the activity to which, besides writing, she has always dedicated herself with great pleasure ... reading.

 


Minna Canth

Laura Bertolotti


Rosalina Collu

 

La scrittrice Minna Canth ha avuto un ruolo importante nella letteratura finlandese. Autrice prolifica, anche come commediografa e giornalista, impegnata politicamente, sottolineò sempre l'importanza dell'istruzione per le donne, in un periodo in cui a loro era riservata solo una generica preparazione in vista del matrimonio. Ulrika Vilhelmina Johnsson nacque a Tampere il 19 marzo 1844, in una famiglia modesta, tuttavia ebbe la fortuna di essere la prima donna ammessa a frequentare nel 1863 il Seminario Jyväskylä, una scuola per insegnanti, dove conobbe il futuro marito, Johan Ferdinand Canth, che sposò nel 1865. Cominciò per lei un periodo della vita votato al servizio del coniuge: preparava il cibo, attendeva ai lavori domestici e viveva, secondo lei, nel dilemma di conciliare il talento avuto da Dio nelle lettere e il ruolo assegnato da Dio come moglie e madre. Ebbe sei figli e, mentre aspettava il settimo, venne a mancare il marito e scrisse la sua prima commedia, Murtovarkaus (1882). Per qualcosa come cento anni la sua opera è stata classificata come realista tanto che nel 1953 venne definita "la madre del realismo finlandese". Anche se non fu estranea all'influenza letteraria di Tolstoj, il realismo è sicuramente uno degli aspetti più importanti della sua produzione, infatti Minna sosteneva, al pari di suoi contemporanei, che il genere realistico potesse salvare la società finlandese dai suoi mali sociopolitici, come la sudditanza delle donne, l'alcolismo, l'estrema povertà. Secondo Minna l'autore o l'autrice doveva essere onesto/a e non "abbellire" il testo, che doveva risultare uno specchio della gente, la quale, vergognandosene, poteva migliorare. Minna guardava alla società con occhio critico, nel desiderio di migliorarla; riscontri del suo realismo si trovano sia nelle opere teatrali che nei numerosi articoli giornalistici, i più memorabili spaziavano su libertà di culto, diritti delle donne e pacifismo. È del 1887 la sua firma a un documento per la tolleranza religiosa in Finlandia; successivamente focalizzò problematiche morali e di psicologia femminile, come in Sylvi del 1892, in cui si possono cogliere influenze ibseniane.

Nel 1880 si trasferì a Kuopio, dopo la morte del marito, e diventò anche un'abile imprenditrice, rilevando e sviluppando l'esercizio commerciale che era stato del padre. Il successo nel lavoro le permise di sostenere economicamente la famiglia e le diede la libertà di continuare a scrivere. La sua casa diventò un importante punto di riferimento per gli/le intellettuali che raccolsero la lezione dell'accademico danese Georg Brandes, fautore dell'approccio positivista utile alla trasformazione sociale. Secondo questo pensatore la Finlandia era arretrata di molti decenni rispetto a Francia, Germania e Inghilterra e la "chiamata positivista" si concretizzò proprio nel salotto letterario di Minna, dove si raccoglievano studiosi e studiose per discutere le tesi di Zola, Darwin, Spencer e Mill. La sua formazione in svedese e finlandese le permetteva di parlare e scrivere in entrambe le lingue, ma si adoperò per l'uso generalizzato del finlandese nelle scuole, che non era ancora diffuso come lingua di studio, e facilitò la traduzione di opere dallo svedese. L'impegno profuso per l'istruzione femminile, a partire dal saggio del 1874 Sull'educazione delle nostre figlie, la portò anche a dirigere un liceo femminile a Kuopio, per consentire finalmente alle ragazze l'accesso all'università. Si tende a privilegiare l'importanza di Minna Canth nel campo della letteratura, d'altra parte è stata la prima scrittrice finlandese e alcune sue opere sono ancora lette ai giorni nostri come Anna Liisa (1895), La famiglia del prete (1891), La moglie dell'operaio (1885) perché i temi trattati sono tuttora rilevanti : responsabilità personale, senso di colpa, conflitti intergenerazionali, condizione della donna. Ma occorre sottolineare che la sua opera fu caratterizzata dall'impegno sociale e l'uguaglianza tra uomo e donna era un altro suo tema centrale: «Fintanto che la relazione di genere non si basa sull'uguaglianza, come si può parlare di amore, stato di diritto e sviluppo significativo della società?».

Minna fu stroncata da un attacco di cuore il 12 maggio 1897, a cinquantatré anni, ed è sepolta nel cimitero di Kuopio.Le è stato dedicato un francobollo nel 1944, a cento anni dalla nascita. Nel 1946 è nata ad Helsinki un'associazione che si riunisce otto volte l'anno per conservare l'eredità di pensiero di questa autrice e la attualizza in vari settori della vita sociale. Esiste anche un Premio Minna Canth, finanziato dalla Finnish Fair Foundation, assegnato a persone il cui lavoro come scrittore/trice, imprenditore/trice o influencer sociale ispira la costruzione di una Finlandia migliore. Minna è stata la prima donna a cui il suo Paese ha dedicato un Flag day, a partire dal 2007, nel giorno della sua nascita, il 19 marzo.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

L'écrivain Minna Canth a joué un rôle important dans la littérature finlandaise. Auteure prolifique, également dramaturge et journaliste, politiquement engagée, elle a toujours souligné l'importance de l'éducation pour les femmes, à une époque où on ne leur réservait qu'une préparation générique au mariage. Ulrika Vilhelmina Johnsson naît à Tampere le 19 mars 1844, dans une famille modeste, mais elle a la chance d'être la première femme admise à fréquenter en 1863 le séminaire de Jyväskylä, une école pour enseignants, où elle rencontre son futur mari, Johan Ferdinand Canth, qu'elle épouse en 1865. Elle entame une période de vie consacrée au service de son époux : elle prépare les repas, s'occupe des tâches ménagères et vit, selon elle, dans le dilemme de concilier son talent divin pour les lettres et son rôle divin d'épouse et de mère. Elle a eu six enfants, et alors qu'elle attendait le septième, son mari est décédé et elle a écrit sa première pièce, Murtovarkaus (1882). Pendant une centaine d'années, son œuvre a été classée comme réaliste, à tel point qu'en 1953, elle a été appelée "la mère du réalisme finlandais". Bien qu'elle n'ait pas été étrangère à l'influence littéraire de Tolstoï, le réalisme est certainement l'un des aspects les plus importants de sa production. En effet, Minna soutient, comme ses contemporains, que le genre réaliste peut sauver la société finlandaise de ses maux socio-politiques, tels que l'assujettissement des femmes, l'alcoolisme, l'extrême pauvreté. Selon Minna, l'auteur doit être honnête et ne pas "embellir" le texte, qui doit être un miroir du peuple, qui, ayant honte, peut s'améliorer. Minna regarde la société d'un œil critique, dans le but de l'améliorer ; on trouve des preuves de son réalisme tant dans ses pièces que dans ses nombreux articles journalistiques, dont les plus mémorables portent sur la liberté de culte, les droits des femmes et le pacifisme. En 1887, elle signe un document pour la tolérance religieuse en Finlande ; plus tard, elle se concentre sur les problèmes moraux et la psychologie féminine, comme dans Sylvi de 1892, dans lequel on peut déceler des influences ibséniennes.

En 1880, elle s'installe à Kuopio, après la mort de son mari, et devient une entrepreneuse compétente, reprenant et développant l'entreprise qui avait été celle de son père. Sa réussite dans les affaires lui permet de soutenir financièrement sa famille et lui donne la liberté de continuer à écrire. Sa maison devient un point de référence important pour les intellectuels et intellectuelles qui ont intégré les leçons de l'universitaire danois Georg Brandes, partisan de l'approche positiviste utile à la transformation sociale. Selon ce penseur, la Finlande avait plusieurs décennies de retard sur la France, l'Allemagne et l'Angleterre, et "l'appel positiviste" a pris forme dans le salon littéraire de Minna, où les universitaires se réunissaient pour discuter des thèses de Zola, Darwin, Spencer et Mill. Sa formation en suédois et en finnois lui permet de parler et d'écrire dans les deux langues, mais elle œuvre pour l'utilisation générale du finnois dans les écoles, qui n'est pas encore répandu comme langue d'étude, et facilite la traduction d'ouvrages à partir du suédois. Son engagement en faveur de l'éducation des femmes, qui commence avec son essai de 1874 intitulé “Sur l’éducation de nos filles", l'amène également à diriger un lycée de filles à Kuopio, afin de permettre enfin aux jeunes filles d'accéder à l'université. On tend à privilégier l'importance de Minna Canth dans le domaine de la littérature, d'autre part elle a été la première écrivaine finlandaise et certaines de ses œuvres sont encore lues aujourd'hui comme Anna Liisa (1895), La famille du prêtre (1891), La femme du travailleur (1885) car les thèmes qu'elle a traités sont toujours d'actualité : la responsabilité personnelle, le sentiment de culpabilité, les conflits intergénérationnels, la condition des femmes. Mais il faut souligner que son œuvre se caractérise par un engagement social et que l'égalité entre les hommes et les femmes est un autre de ses thèmes centraux : "Tant que la relation entre les sexes n'est pas fondée sur l'égalité, comment peut-on parler d'amour, d'État de droit et de développement significatif de la société ?"

Minna meurt d'une crise cardiaque le 12 mai 1897, à l'âge de cinquante-trois ans, et est enterrée au cimetière de Kuopio. Un timbre-poste lui a été dédié en 1944, cent ans après sa naissance. En 1946, une association a été fondée à Helsinki, qui se réunit huit fois par an pour préserver l'héritage de la pensée de cet auteur et l'actualiser dans divers domaines de la vie sociale. Il existe également un prix Minna Canth, financé par la Finnish Fair Foundation, décerné aux personnes dont le travail en tant qu'auteur/auteure, entrepreneur/entrepreneuse ou influencer social inspire la construction d'une meilleure Finlande. Minna a été la première femme à qui son pays a consacré un Flag day (Jour du drapeau), à partir de 2007, le jour de sa naissance, le 19 mars.

 

Traduzione inglese
Riccardo Vallarano

Minna Canth played an important role as an author in Finnish literature. She was a prolific author, as well as a play-writer and a journalist, politically active, she highlighted the importance of education for women, in a time when bourgeoisie women were groomed and educated only for marriage life. Ulrika Vilhelmina Johnsson was born on 19 March 1844 in Tampere, in a working-class family, but nonetheless she was the first woman to be admitted in the Jyvaskyla Seminar in 1863 – a Teacher Training College. In this institution, she met her future husband, Johan Ferdinand Canth, to whom she got married in 1865. Afterwards, it began a period of her life solely dedicated to her husband, attending domestic work while experiencing a dilemma: how to reconciliate her God’s given talent as writer and her God’s given role as a wife and a mother. She had six children and, while waiting for the seventh one, her husband died and shortly after she wrote her first comedy, Murtovarkaus (1882). For almost a century her work was identified as Realism, so far that in 1953 she was defined “the mother of Finnish Realism”. Even though slightly influenced by Tolstoj, realism was surely the main facet of her literary production, in fact Minna promoted, aligned with her contemporaries peers, that the realistic genre could have saved Finnish society from its sociopolitical vices, like women submission, alcohol addiction and extreme poverty. According to Minna, the author/writer/novelist must be honest and must not “enrich” the text, which it should mirror people’s real behavior, to shame them and prompt to improve themselves. Minna had a critical approach to society, longing to improve it. Her realism can be found both in theatrical work and in many journalistic articles, the most iconic ranged from freedom of religion, women rights and pacifism. She signed a petition for religious tolerance in 1887 Finland; afterwards she focused on moral issues and feminine psychology, like in Sylvi (1892), where Ibsen influence can be tracked.

She moved in Kuopio in 1880, after her husband’s death, and became a cunning entrepreneur, taking on herself and developing her father’s shop. Her successful managing of the shop was crucial to economically sustain the family, also covering all the necessities to freely write. Minna’s house became an intellectual hub for writers who where highly influenced by the danish academic Georg Brandes theories, consisting on a positivist approach to social change. According to Brandes, Finland was decades backward in respect to France, Germany and England and Minna’s managed to make the way for the “positivist appeal” through her literary salon, where many scholars gathered to discuss ideas from Zola, Darwin, Spencer and Mill. Minna’s mastering of the Finnish and Swedish language allowed her to speak and write in both languages, but she advocated for Finnish as the common language in education, because it was not already widely spread as a language for study, and she helped translating many books from Swedish to Finnish. The strong engagement for women education, since the publication of her first essay Our daughters ‘upbringing in 1874, allowed her to be the principal of a women-only high school in Kuopio and to finally advocate for women access to university. The importance of her work is usually deemed to be in the field of literature, given the fact that Minna Canth was basically the first Finnish writer to be famous and her works are still being read nowadays, like Anna Liisa (1895), the Priest family (1891) the Laborer's wife (1885), for the themes’ relevance: personal responsibility, sense of guilt, inter-generational conflicts, women condition. Nonetheless it should be underscored that her entire work was characterized by social activism and promoting equality between men and women was another of her central themes: “Until gender relations is not based on equality, how can we talk about love, the rule of law and of a meaningful development of society?”

Minna died for an heart attack the 12th of May of 1897, she was fifty-three years old, and she was buried in Kuopio’s cemetery. In 1944 for the centenary since her birth the Finnish state dedicated a commemorative stamp to honor her legacy. In 1946 a foundation to preserve, spread and realize Minna Canth’s intellectual heritage was founded in Helsinki. It exists also a Minna Canth’s Award, funded by The Finnish Fair Foundation, and it is assigned to writers, entrepreneurs and social influencers that successfully inspire the building of a better Finland. Minna was the first woman to be dedicated a Flag Day by the Finnish state, every year since 2007, for her birthday, the 19th of March.

Žemaitė
Sara Balzerano



Rosalina Collu

 

Più di Prometeo poté la scrittura.
Più di qualunque fiamma, scintilla, tizzone, fu la parola a salvare l’umanità.
Con il fuoco si riuscì a cuocere la carne; con la lingua si poterono tramandare le ricette.

Esse – la scrittura, la parola, la lingua - sono rivoluzione e resistenza. Sono muro e breccia nella battaglia, identità e cambiamento, come una vecchia bandiera tutta da reinventare. Spesso, sono tutto ciò che le donne e gli uomini hanno a disposizione per conoscere e riconoscere sé stesse e sé stessi, nella lotta strenua e atavica che contrappone supremazia e diritto di esistere. Sulla scacchiera infame, dove il bianco e il nero sono luce e oblio, fare letteratura significa prendere una posizione netta, schierarsi, vestirsi da partigiane e partigiani. Questo, tutto questo, doveva esser chiaro anche a Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė, Žemaitė come i Lituani e il mondo intero la conosce. Žemaitė racconta la sua terra già dal nome, che nel suono e nella grafia riecheggia di Samogizia, di verdi prati e di folti boschi di conifere, del profondo lago Plateliai e del placido fiume Nemunas. Il fazzoletto, che sempre veste e che le contorna il volto, parla anch’esso della patria alla quale ella costruisce un perimetro di carta e inchiostro che la narra e la fa rimanere, ferma e orgogliosa. Quando Žemaitė nasce, nel 1845, la Lituania non esiste più da ormai cinquant’anni. Unita alla Polonia nella Rzeczpospolita - dinasticamente a partire dal 1385 e politicamente dal 1569 - è assorbita insieme a quest’ultima dall’impero russo (e dalla Prussia e dall’Austria) dopo la cosiddetta “terza spartizione” del 1795. E, da questo momento in poi, sarà talmente fitta e martellante la campagna di russificazione che la parola scritta diventa merce di contrabbando preziosissima. In realtà, Žemaitė camminerà sul ciglio linguistico, culturale e identitario sempre, e lo farà vivendo quasi costantemente in un ambiente rurale, in una di quelle bolle contadine dove niente pare mai modificarsi. Ma se la terra divelta è uguale a sé stessa nei solchi, nelle zolle e nei germogli, le tracce lasciate dal nero aratro e dai neri semi sul bianco campo porteranno qualcosa di mai visto prima.

La sua famiglia appartiene alla nobiltà decaduta e, nonostante il proprio status alto-borghese non esista più ormai da tempo, impone comunque alla figlia l’utilizzo della sola lingua polacca a evidenziare e rimarcare una condizione sociale che – però – è ormai finita. Eppure Žemaitė, che cresce con i figli dei contadini nel maniero dei conti Pliateris Bukantė – dove suo padre lavora come amministratore e sua madre come governante - masticherà tra denti e lingua il dialetto della Samogizia più di qualsiasi altro idioma, e sarà da lì, proprio da lì, che aprirà e si aprirà il varco sul mondo della letteratura. Frequenta la servitù, ne comprende le difficoltà e la vita di stenti, si schiererà dalla loro parte e sarà di loro, soprattutto di loro, che parlerà nelle sue opere. Perché ella è più di una scrittrice, vuol essere più di questo, vuol essere la forbice che trancia e illumina e fa comprendere. Nel 1863, sostiene convintamente la grande rivolta che i territori della vecchia Rzeczpospolita intraprendono contro la Russia zarista, col fine di restaurare l’antico regno e di strapparsi dal gioco moscovita, e ne sposa un partecipante attivo, Laurynas Žymantas, conosciuto due anni dopo nella tenuta di Džiuginėnai. E qui entrambi lavorano, lei come domestica e lui come guardaboschi, finché non decidono - anche a seguito della mobilità sociale venutasi a creare dopo l’abolizione della servitù della gleba da parte di Alessandro II Romanov nel 1861 - di trasferirsi e di affittare un terreno nei pressi di Kolainiai, dove rimangono per quasi vent’anni, provando a crescere quattro figlie e due figli e a strappare un qualcosa che li allontanasse, almeno un poco, dalla miseria. Nel 1883, la famiglia decide di spostarsi a Ušnėnai, vicino al confine con la Prussia orientale, regione nella quale si è creata una vera e propria enclave di resistenza. Dopo la rivolta del 1863, infatti, e a partire dal 1865, la Russia ha messo al bando tutti i testi di carattere latino – alfabeto usato nelle lingue polacca e lituana – imponendo così una supremazia atta a soffocare l’anima più intima delle terre conquistate. Lo zar vuole uniformare le vecchie popolazioni della Rzeczpospolita all’interno dell’apparato culturale e identitario russo e, per far ciò, ha bisogno, tra le altre cose, di allontanare quanto più possibile l’influenza che la Chiesa Cattolica opera in questi territori, anche alla luce della secolare diatriba cultuale e autoritaria tra Roma e Mosca. Essi, però, non mollano, non cedono, non smettono di parlare, di scrivere, di fare letteratura. Si crea così una rete strettissima di partigianato che ha, nella carta stampata, la sua arma più temibile. E in questo angolo di confine, Žemaitė incontra Povilas Višinskis, attivista politico e intellettuale, un contrabbandiere di libri e cultura, che la introduce nella resistenza lituana.


Višinskis convince Žemaitė a scrivere, ed ella racconta e narra ciò che conosce, la terra e i contadini di Samogizia, quel mondo oscuro che è anche il suo, che le ha dato la vita, le parole, che l’ha formata in ogni ruga di volto, che con lei ha dialogato, in un costante scambio che ha permesso a entrambe di esistere. La sua prima opera, Rudens Vakaras, che ella ha composto quando era già a Ušnėnai, viene pubblicata nel 1895 sul Tikrasis Lietuvos ūkininkų kalendorius 1895 metams, il Calendario reale degli agricoltori lituani per il 1895. E su suggerimento di Jonas Jablonskis, il grande codificatore e stabilizzatore della lingua lituana, Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė diventa Žemaitė: è a lui che Višinskis la presenta. Da questo momento in poi, la penna di Samogizia lavorerà incessantemente. Durante tutta la sua carriera, scriverà circa 354 racconti brevi, una dozzina di opere teatrali – tra cui Trys Mylimos , Piršlybos, Mūsų gerasis, Valsčiaus sūde - romanzi, saggi e articoli. Pare quasi che le parole non possano fermarsi, come non può fermarsi la lotta della Lituana per il diritto all’esistenza. Žemaitė racconta la realtà che conosce e che vive, quella povera dei contadini, quella crudele, ingiusta e sofferta delle donne, vittime ancor più vittime di un mondo schiacciato da soprusi e prepotenze. I dettagli che narra sono prosaici; la lingua che usa è ciancicata, inciampata, dialettale. Tutto è vero, nei suoi scritti. Tutto è reale. I nobili – che fino a quel momento erano stati i protagonisti della letteratura – vengono chiusi e inamidati nei loro salotti. Non serve immaginazione o fantasia. Serve la vita. La corrente realistica lituana nasce qui, con Žemaitė, e con il suo bisogno di dare riscatto, raccontando ciò che è: perché la parola fa esistere. E quello che esiste può essere cambiato, migliorato o abbattuto. Per esso si può combattere, vincere o soccombere. Ciò che non si nomina, invece, è destinato all’oblio ben prima che quest’ultimo arrivi con la fine. Tra le sue opere più celebri, ci sono sicuramente i racconti brevi e, tra essi, degni di nota sono Topilys, Petras Kurmelis, Sučiuptas velnias (Diavolo catturato), Sutkai, Gera galva (Buona testa) e, soprattutto, Marti (la Nuora). In quest’ultimo racconto, il punto di vista, il sentire, lo sguardo, tutto è femminile. La protagonista, Katre, è obbligata a sposare un uomo dedito all’alcool, pigro, aggressivo e rabbioso. La sola cosa che quest’individuo può portare di buono è una tenuta, ma tanto basta ai genitori di Katre per costringere la figlia al matrimonio. La giovane sposa proverà – dopo le nozze - a influenzare il marito, a cambiarlo, ma dovrà affrontare anche la violenza, il sadismo e i maltrattamenti della suocera. Si ammalerà gravemente, nessuno avrà la premura di curarla e morirà, nella solitudine di questa famiglia così piena di dolore e disperazione. Katre è una donna brillante, una donna che proverà a lottare per riscattare sé stessa dalla peggiore situazione possibile - la privazione del diritto di scegliere – ma che sarà costretta a soccombere alla miseria umana e a uno status quo che pare ineluttabile.




Così come il suo personaggio, anche Žemaitė si batterà per le donne, perché esse prendano coscienza dei propri diritti, perché abbiano la consapevolezza di potersi unire e opporsi a tutto ciò che le relega, le zittisce, le soffoca. Nel 1907 partecipa al primo Congresso delle donne lituane a Kaunas e, nel 1908, al Congresso delle donne russe a Pietroburgo. E’ ormai una personalità di rilievo del panorama culturale dell’epoca e il suo punto di vista viene ricercato e ascoltato. Scrive su diversi giornali e lavora, a partire dal 1912, nella redazione del Lietuvos Žinios, divenendone editrice. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, decide di traferirsi, prima in Russia e poi negli Stati Uniti, dove da anni viveva suo figlio Antanas e dove tiene discorsi, scrive per la stampa locale e raccoglie fondi per le vittime lituane del conflitto. Nel 1921 rientra a Marijampolėje e qui morirà, nello stesso anno, per una polmonite. Žemaitė, Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė, è annoverata nei classici della letteratura lituana e, proprio, in questi ultimi anni, sta vivendo una vera e propria rinascita, grazie alle nuove generazioni che la stanno riscoprendo. Ella, che non ha mai parlato correttamente il lituano, ma che ha conosciuto il dialetto della Samogizia, è stata la madre della letteratura della sua terra, unica donna ad apparire sulla litas. Tutta la sua esistenza, che prima sembrava pencolare nella bruma claustrofobica del mondo contadino, pare cominciare insieme alle sue opere. Žemaitė è scrittrice perché inizia a vivere solo in quanto tale, come se tutto quello che le è capitato fosse servito ad arrivare a quella prima parola. È scrittrice perché che sa che per esistere, uomini, donne, nazioni, popoli, hanno bisogno di qualcuno che parli di loro. È scrittrice perché conosce l’impatto rivoluzionario di una penna e ne usa tutto il clangore per portare luce laddove prima vi era solo un pesante e soffocante buio imposto. È scrittrice, Žemaitė, e partigiana e fondatrice. Perché ha tessuto, in calce alla storia, l'essenza della terra che ella ha salvato dall'oblio.

 

Traduzione francese
Giuliana Gaudenzi

L’écriture a été plus efficace que Prométhée.
Mieux que toute flamme, étincelle, tison, c’est la parole qui a sauvé l’humanité.
Avec le feu on a réussi à cuire la viande ; avec la langue on a pu transmettre les recettes.

Elles – l’écriture, les mots, la langue – sont révolution et résistance. Elles sont mur et brèche dans la bataille, identité et changement, comme un vieux drapeau tout à réinventer. Souvent, elles sont tout ce que les hommes et les femmes ont disponibles pour connaitre (accento circonflesso sulla i) et reconnaitre(idem come sopra) soi même, dans la lutte farouche et atavique qui oppose suprématie et droit à exister. Sur l’infâme échiquier, où le blanc et le noir sont lumière et oubli, faire de la littérature signifie prendre une position nette, se rallier, s’habiller en partisan et en partisane. Cela, tout cela, devait être clair à Julija Beniuseviciute Zymantiene, Zemaite comme les Lituaniens et le monde entier la connaissent. Zemaite raconte sa terre déjà avec son nom qui, par le son et la graphie, fait écho à Samogizia, aux prés verts et aux épaisses forets (accento circonflesso sulla e) de conifères, du profond lac Plateliai et du paisible fleuve Nemunas. Le foulard, qu’elle porte toujours et qui encadre son visage, parle lui aussi de la patrie à laquelle elle construit un périmètre de papier et d’encre qui la raconte et la fait demeurer, ferme et orgueilleuse. Lors de la naissance de Zemaite, en 1845, la Lituanie n’existe plus depuis cinquante ans. Unie à la Pologne dans la Rzeczpospolita – comme dynastie à partir de 1385 et politiquement depuis 1569 – elle a été absorbée avec cette dernière par l’empire russe (et par la Prusse et par l’Autriche) après la dite « troisième division » en 1795. A partir de ce moment, la campagne de russification sera tellement dense et battante au point que la parole écrite devient marchandise de contrebande très précieuse. En réalité, Zemaite empruntera toujours le chemin linguistique, culturel et identitaire et le fera en vivant presque en permanence dans un milieu rural, dans une de ces boules fermières où rien ne semble jamais changer. Mais si la terre retournée est égale à elle-même dans les sillons, dans les mottes et dans les bourgeons, les traces laissées par la noire charrue et par les noires semences sur les blancs champs engendreront quelque chose jamais vue auparavant.

Sa famille appartient à la noblesse déchue et, malgré son statut haut-bourgeois n’existe plus depuis longtemps, impose de toute façon à sa fille d’utiliser seulement la langue polonaise, pour marquer un statut social qui, pourtant, est déjà terminé. Cependant Zemaite, qui grandit avec les enfants des fermiers dans le manoir des comtes Pliateris Bukante – où son père travaille en tant qu’administrateur et sa mère en tant que gouvernante, parlera le dialecte de la Samogizia plus que tout autre langue et ce sera à partir de là, justement de là, qu’elle ouvrira et se frayera le chemin vers le monde littéraire. Elle fréquente les domestiques, comprend leurs difficultés et leur vie de privations, se rangera de leur coté (accento circonflesso sulla o) et ce sera d’eux, surtout d’eux, qu’elle parlera dans ses œuvres. Parce qu’elle est plus qu’une écrivaine, elle veut être plus que cela, elle veut être les ciseaux qui tranchent, éclairent et font comprendre. En 1863, elle soutient résolument la grande révolte que les territoires de l’ancienne Rzeczpospolita entreprennent contre la Russie tsariste, afin de restaurer l’ancien royaume et de s’arracher du joug moscovite et elle épouse un actif participant, Laurynas Zymantas, connu deux ans après dans le domaine de Dziuginenai. Ici tous les deux travaillent, elle comme domestique et lui comme bucheron (accento circonflesso sulla u), jusqu’à ce qu’ils décident – à la suite aussi de la mobilité sociale qui s’était créée après l’abolition du servage de la part d’Alessandro II Romanov en 1861 – de déménager et de prendre en location un terrain près de Kolainiai, où ils restent pendant presque vingt ans, essayant d’élever quatre filles et deux fils et d’arracher quelque chose qui puisse les éloigner, un peu au moins, de la misère. En 1883 la famille décide de déménager à Usnenai, près de la frontière avec la Prusse orientale, région dans laquelle s’est créée une véritable enclave de résistance. Après la révolte de 1863, en effet, et à partir de 1865, la Russie a banni tous les textes de caractère latin – alphabet utilisé dans les langues polonaise et lituanienne – imposant ainsi une suprématie susceptible d’étouffer l’âme la plus intime des terres conquises. Le tsar veut uniformiser les anciennes populations de la Rzeczpospolita à l’intérieur de l’apparat culturel et identitaire russe et, pour faire cela, il a besoin, entre autre, d’éloigner autant que possible l’influence que l’Eglise Catholique opère dans ces territoires, aussi au vu de la séculaire diatribe culturelle et autoritaire entre Rome et Moscou. Mais eux ne cèdent pas, ne renoncent pas, n’arrêtent pas de parler, d’écrire, de faire littérature. Ainsi, se constitue un réseau très étroit d’esprit partisan qui a, dans la presse écrite, son arme la plus redoutable. Et dans ce coin de frontière, Zemaite rencontre Povilas Visinskis, activiste politique et intellectuel, un contrebandier de livres et de culture, qui l’introduit dans la résistance lituanienne.




Visinskis convainc Zemaite à écrire et elle raconte ce qu’elle connait (accento circonflesso sulla i), la terre et les paysans de Samogizia, ce monde sombre qui est aussi le sien, qui lui a donné la vie, les mots, qui l’a formée dans chaque ride dans son visage, qui a dialogué avec elle, dans un échange continu qui a permis à tous les deux d’exister. Sa première œuvre, « Rudens Vakaras », qu’elle a écrit quand elle était déjà à Usnenai, est publiée en 1895 dans le Tikrasis Lietuvos ukininku kalendorius 1895 metams, le Calendrier réel des agriculteurs lituaniens pour 1895. Et après suggestion de Jonas Jablonskis, le grand codeur et stabilisateur de la langue lituanienne, Julija Beniuseviciute Zymantiene devient Zemaite : c’est à lui que Visinkis la présente. Dorénavant, la plume de Samogizia travaillera sans cesse. Pendant toute sa carrière, elle écrira environ 354 nouvelles, une douzaine de pièces de théâtre, - entre autres, Trys Mylimos, Pirslybos, Musu gerasis, Valsciaus sude – des romans, des essais et des articles. Il semble presque que les paroles ne puissent pas s’arrêter, comme ne peut pas s’arrêter la lutte de la Lituanie pour son droit à exister. Zemaite raconte la réalité qu’elle connait (accento circonflesso sulla i) et qu’elle vit, celle pauvre des paysans, celle cruelle, injuste et soufferte des femmes, victimes, victimes davantage d’un monde écrasé par les abus et les intimidations. Les détails qu’elle relate sont prosaïques ; le langage qu’elle utilise est imparfait, dialectal. Tout est vrai, dans ses écrits. Tout est réel. Les nobles – qui jusqu’à ce moment-là avaient été protagonistes de la littérature – sont fermés et amidonnés dans leurs salons. Il n’y a pas besoin d’imagination ou de fantaisie. La vie suffit. Le courant réaliste lituanien nait ici, avec Zemaite, et avec son besoin de donner rédemption, en racontant ce qui est : parce-que la parole fait exister. Et ce qui existe peut être changé, amélioré ou abattu. Pour cela on peut combattre, gagner ou succomber. Ce qui n’est pas nommé, par contre, est destiné à l’oubli bien avant que ce dernier arrive avec la fin. Parmi ses œuvres les plus célèbres, il y a sans aucun doute les nouvelles et, parmi elles, sont notables Topilys, Petras Kurmelis, Suciuptas velnias (Diable capturé), Sutkai, Gera galva (Bonne tête) et, surtout, Marti (La belle-fille). Dans cette dernière nouvelle, le point de vue, le sentir, le regard, tout est féminin. La protagoniste, Katre, est obligée à épouser un homme alcolique, paresseux, agressif et enragé. La seule bonne chose que cet homme peut apporter est un domaine, mais cela suffit aux parents de Katre pour forcer leur fille au mariage. La jeune épouse essaiera – après les noces – à influer sur son mari, à le changer, mais elle devra aussi faire face à la violence, au sadisme et à la maltraitance de sa belle-mère. Elle tombera gravement malade, personne ne veillera à la soigner et elle mourra, dans la solitude de cette famille si pleine de douleur et de désespoir. Katre est une femme brillante, une femme qui cherchera à lutter pour se racheter de la pire situation possible – la privation du droit de choisir – mais qui sera forcée à succomber à la misère humaine et à un status quo qui parait (accento circonflesso sulla i) inéluctable.

Comme son personnage, Zemaite aussi se battra pour les femmes, pour qu’elles prennent conscience de leurs propres droits, pour qu’elles aient la conscience de pouvoir s’unir et s’opposer à tout ce qui les relègue, les fait taire, les étouffe. En 1907 elle participe au premier Congrès des femmes lituaniennes à Kaunas et, en 1908, au Congrès des femmes russes à Pétersbourg. Elle est désormais une importante personnalité dans le panorama culturel de l’époque et son point de vue est recherché et écouté. Elle écrit dans différents journaux et travaille, à partir de 1912, pour la rédaction du Lietuvos Zinios, et elle en dévient éditrice. Lors du déclenchement de la Première Guerre Mondiale, elle décide de déménager, en Russie d’abord, aux Etats Unis ensuite, où son fils Antanas vivait depuis des années et elle fait des discours, écrit pour la presse locale et recueille des fonds pour les victimes lituaniennes du conflit. En 1921 rentre à Marijampoleje et là elle mourra, la même année, d’une pneumonie. Zemaite, Julija Beniuseviciute Zymantiene, est comptée parmi les classiques de la littérature lituanienne et, justement, ces dernières années, elle est en train de vivre une véritable renaissance, grâce aux nouvelles générations qui à présent la redécouvrent. Elle, qui n’a jamais parlé couramment le lituanien, mais qui a connu le dialecte de la Samogizia, a été la mère de la littérature de sa terre, la seule femme à apparaitre (accento circonflesso sulla i) dans la litas. Toute son existence, qui avant semblait pencher vers la brume claustrophobe du milieu paysan, semble commencer avec ses œuvres. Zemaite est écrivaine parce qu’elle commence à vivre seulement en tant que telle, comme si tout ce qui lui est arrivé avait servi à arriver à ce premier mot. Elle est écrivaine parce qu’elle sait que pour exister, hommes, femmes, pays, peuples, ont besoin de quelqu’un qui parle d’eux. Elle est écrivaine parce qu’elle connait (accento circonflesso sulla i) l’impact révolutionnaire d’une plume et elle en utilise tout le tapage pour porter la lumière là où, avant, il y avait seulement une lourde et étouffante obscurité imposée. Elle est écrivaine, Zemaite, et partisane et fondatrice. Parce qu’elle a tissé, en bas de l’histoire, l’essence de la terre qu’elle a sauvé de l’oubli.

 

Traduzione inglese
Francesca Campanelli

Writing can do more than Prometheus.
More than any flame, spark, or ember, it was the word that saved humanity.
With fire, it was possible to cook, but with language, the recipes can be handed down.

Writing, speech, and language - are revolution and resistance. They are walls, and a breach in the battle, identity, and change, like an old flag completely reinvented. Often, they are all that women and men have available to know and recognize themselves, in the strenuous and atavistic struggle that decides supremacy and the right to exist. As on the infamous chessboard, where white and black are light and oblivion, making literature means taking a clear position, taking sides, dressing in the garb of partisans. This, all this, had to be clear also to Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė - Žemaitė as Lithuanians, and the whole world, know her. Žemaitė already speaks about her land with her name, which in its sound and spelling reflect Samogizia, its green meadows and thick coniferous forests, its deep Plateliai lake and the placid Nemunas river. The headscarf, which she always wore and which surrounded her face, also spoke of the homeland around which she built a bulwark of paper and ink that tells its story and makes it strong and proud. When Žemaitė was born in 1845, Lithuania had no longer existed for fifty years. United with Poland in the Rzeczpospolita – a dynasty starting from 1385 and a political entity since 1569 - it was entirely absorbed by the Russian Empire (and later by Prussia and Austria) after the so-called "third partition" of 1795. And, from that moment on, the Russification campaign was so hammering and intense that the written word became a very precious contraband commodity. In reality, Žemaitė always walked on the cutting edge of language, culture and identity, doing so by living almost constantly in a rural environment, in one of those peasant bubbles where nothing ever seems to change. But if uprooted earth is equal to that in the furrows, the clods and the budding life, the traces left by the black plow and the black seeds on the white field, bring something never seen before.

Her family belonged to the fallen nobility and, although her high-bourgeois status had no longer existed for some time, it still required its daughter to use only the Polish language to highlight and emphasize a social condition which - however - was now over. Yet Žemaitė, who grew up with the children of peasants in the manor of the counts Pliateris Bukantė - where her father worked as an administrator and her mother as a housekeeper - chewed the Samogitian dialect between teeth and tongue more than any other language, and it was from there, right from there, that the way opened to the world of literature. She consorted with the servants, she understood their difficulties and their life of hardship, she grew to take their side and it was of them, especially of them, that she spoke in her later works. Because she was more than a writer, she wanted to be more than that, she wanted to be the scissors that cut and allow light in, and let us understand. In 1863, she strongly supported the great revolt that the territories of the old Rzeczpospolita waged against Tsarist Russia, with the aim of restoring the ancient kingdom and breaking away from Moscow She married an active participant, Laurynas Žymantas, whom she met two years before at the Džiuginėnai estate. There they both worked, she as a maid and he as a forester, until they decided - also as a result of the social mobility created after the abolition of serfdom by Alexander II Romanov in 1861 - to move and rent land - near Kolainiai, where they remained for almost twenty years, trying to raise four daughters and two sons, and to snatch something that would distance them, at least a little, from misery. In 1883, the family decided to move to Ušnėnai, near the border with East Prussia, a region in which a real enclave of resistance had been created. After the revolt of 1863, in fact, and starting from 1865, Russia banned all Latin texts - the alphabet used in the Polish and Lithuanian languages ​​- thus imposing a supremacy capable of suffocating the innermost soul of the conquered lands. The Tsar wanted to standardize the old populations of the Rzeczpospolita within the Russian cultural and identity apparatus and, to do this, he needed, among other things, to remove as much as possible the influence that the Catholic Church exerted in those territories, in the light of the centuries-old conflict of culture and authority between Rome and Moscow. However, they did not give up, they did not stop talking, writing, making literature. In this way, a very close network of arts was created which had its most feared weapon in the printed word. And in that corner of the border, Žemaitė met Povilas Višinskis, a political and intellectual activist, a smuggler of books and culture, who introduced her to the Lithuanian resistance.

Višinskis convinced Žemaitė to write, and she told the story of what she knew, the land and the peasants of Samogitia, that dark world which was also hers, which gave her life, and words, and which formed every wrinkle in her face, which conversed with her, in a constant exchange that allowed both of them to exist. Her first work, Rudens Vakaras, which she composed when she was already in Ušnėnai, was published in 1895 in the Tikrasis Lietuvos ūkininkų kalendorius 1895 metams, the Royal Calendar for Lithuanian Farmers for 1895. And at the suggestion of Jonas Jablonskis, the great recorder and stabilizer of the Lithuanian language, Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė became Žemaitė: it is to him that Višinskis introduced her. From this moment on, her Samogitian pen worked incessantly. Throughout her career, she wrote some 354 short stories, a dozen plays - including Trys Mylimos, Piršlybos, Mūsų gerasis, Valsčiaus sūde, and novels, essays and articles. It almost seems that the words could not stop, just as the Lithuanian's struggle for the right to exist could not stop. Žemaitė told of the reality that she knew and that she lived, the poor one of the peasants, the cruel, unjust and suffering one of women, even more victimized in a world crushed by oppression and bullying. The details she recounts are prosaic; the language she uses is jabbered, jumbled, dialect. Everything is true in her writings. Everything is real. The nobles - who until then had been the protagonists of literature - were closed and starched in their living rooms. No imagination or fantasy needed. She serves life. The Lithuanian realistic current was born here, with Žemaitė, and with its need for liberation, telling its real story, because the words brought it to existence. And what exists can be changed, improved or demolished. For it one can fight, win or succumb. What is not named, however, is doomed to oblivion well before oblivion comes. Among her most famous works, there are certainly short stories and, among them, noteworthy are Topilys, Petras Kurmelis, Sučiuptas velnias (Captured Devil), Sutkai, Gera galva (Good head) and, above all, Marti (the Daughter-in-law). In this last story, the point of view, the feeling, the look, everything, is feminine. The protagonist, Katre, is forced to marry a man addicted to alcohol, lazy, aggressive and angry. The only thing that this individual brings is an estate, but that is enough for Katre's parents to force their daughter into marriage. The young bride will try - after the wedding - to influence her husband, to change him, but she will also have to face the violence, sadism and mistreatment of her mother-in-law. She will become seriously ill, no one will take the trouble to cure her and she will die, in the isolation of this family so full of pain and despair. Katre is a brilliant woman, a woman who will try to fight to redeem herself from the worst possible situation - the deprivation of the right to choose - but who will be forced to succumb to human misery and to a status quo that seems inescapable.

Like her character, Žemaitė also fought for women, so that they would become aware of their rights, so that they were aware of being able to unite and oppose everything that relegates them, silences them, suffocates them. In 1907 she participated in the first Lithuanian Women's Congress in Kaunas and, in 1908, in the Russian Women's Congress in Petersburg. By then she was already a prominent personality on the cultural scene of the time and her point of view was sought and listened to. She wrote for various newspapers and worked, after 1912, in the editorial office of Lietuvos Žinios, becoming its publisher. With the outbreak of the First World War, she decided to move, first to Russia and then to the United States, where her son Antanas lived for years, and where she gave speeches, wrote for the local press and raised funds for the Lithuanian victims of the conflict. In 1921 she returned to Marijampolėje and there she died, in the same year, of pneumonia. Žemaitė, Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė, is counted among the classical figures of Lithuanian literature and, in recent years, she is experiencing a real rebirth, thanks to the new generations who are rediscovering her. She, who never spoke Lithuanian correctly but who knew the Samogitian dialect, was the mother of the literature of her land, the only woman to appear on the lists. Her whole existence, which at first seemed suspended in the claustrophobic mist of the peasant world, seemed to begin together with her works. Žemaitė was a writer because she began to live only as one, as if everything that had happened to her had served to get her to that first word. She was a writer because she knew that in order to exist, men, women, nations, peoples, need someone who speaks of them. She is a writer because she knew the revolutionary impact of the pen, and uses all of its power to bring light where there was before only a heavy, imposed and suffocating darkness. She was a writer, Žemaitė, and a partisan and founder. Because she wove, at the foundation of her stories, the essence of the earth that she saved from oblivion.

Michaelina Wautier
Luisa Nattero



Silvia dell'Orco

 

Visitatori e visitatrici in attesa dei treni alla stazione di Anversa nell’estate del 2018 potevano passare il tempo tentando di collocare al posto giusto qualche tessera di un grande puzzle raffigurante Il trionfo di Bacco. Il puzzle riproduceva una tela di grande formato (270 x 354 cm), in passato conservata nei depositi del Kunsthistorisches Museum di Vienna, nel settore dei dipinti fiamminghi “di secondaria importanza”.

Trionfo di Bacco

È stato osservando nel 1993 quell’opera e chiedendo informazioni su di essa al conservatore del Museo che la storica dell’arte belga Katlijne van der Stighelen ha iniziato ad interessarsi alla sua autrice, identificata poi come Michaelina Wautier. Venticinque anni dopo, la mostra allestita grazie alla collaborazione della Rubenshuis e del Mas (Museum an der Stroom) ad Anversa – di cui il puzzle in stazione era uno degli spot pubblicitari – è stata contemporaneamente un approdo delle ricerche fino ad allora effettuate ed un ulteriore punto di partenza per altre tessere che vadano a migliorare la nostra ancora lacunosa conoscenza di una artista per molti versi straordinaria. Già nome e cognome appaiono incerti; registrata in alcuni inventari come “Magdalena” o “Maria Magdalena”, la pittrice si firma invece come Michaelina, evidentemente da lei preferito. Anche la grafia del cognome non è sempre identica; se lei si segna come Wautier, in stampe o inventari è citata pure come Woutier. Nata nel 1604 a Mons, nei Paesi Bassi del Sud, dal secondo matrimonio di Charles Wautier, appartenente alla piccola nobiltà locale e già “paggio” del conte di Fuentes, comandante dell’Armata spagnola, Michaelina crebbe come unica figlia femmina (due figlie di primo letto dovettero morire giovani) tra ben sette maschi sopravvissuti alla prima infanzia. La famiglia abitava, come quella dello zio materno, in Rue d’Havré, vicino alla Grande Place. Se la famiglia citata degli zii era sicuramente di ricchi mercanti, il padre di Michaelina aveva probabilmente perseguito una carriera militare e in questo verrà poi imitato da alcuni dei suoi figli. Morì, però, nel 1617, lasciando la vedova ad occuparsi di ben otto tra figli/e e figliastri ancora in età minorile. Cosa abbia spinto Michaelina e più tardi suo fratello minore Charles verso l’attività artistica e presso quale maestro possa essere avvenuta la loro formazione sono due degli interrogativi ancora senza risposta. In base alle ricerche fino ad ora effettuate conosciamo invece circa quindici opere di Michaelina firmate e/o datate, molto disparate per generi e dimensioni, in base alle quali è stato possibile con buon fondamento attribuirgliene un’altra decina. Tutte le opere datate risalgono agli anni Quaranta e Cinquanta del XVII secolo, in una fase in cui l’artista aveva tra i 39 e i 56 anni di età; come anticipato, mancano notizie ed opere sia di una fase giovanile e di formazione che della vecchiaia, visto che morirà ottantacinquenne, circa trent’anni dopo l’ultima opera nota.

 
Ragazzo che fuma la pipa
 
 Educazione della Vergine, 1656

È quasi la stessa epoca in cui l’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Austria, vescovo di molte diocesi, Gran maestro dell’ordine teutonico e gran collezionista, fu governatore dei Paesi Bassi spagnoli. Nell’inventario che della sua collezione verrà stilato nel 1656, compaiono elencate ben quattro opere di Michaelina: il già citato Trionfo di Bacco e tre teste di Apostoli. Il fatto di aver lavorato per un tale personaggio e che le sia stata affidata un’opera con molte figure in movimento e di grandi dimensioni, come il Bacco, fatto inaudito per una donna, la dice lunga sulla fama di cui all’epoca la pittrice dovette godere. È assai probabile che ella, alla morte della madre – di cui, unica femmina, aveva quasi certamente dovuto prendersi cura – abbia raggiunto il fratello Charles a Bruxelles, dove poi i due, entrambi mai coniugati, hanno abitato e lavorato nella stessa casa per tutta la loro vita rimanente. Charles era già a Bruxelles da alcuni anni. Per un certo periodo, però, deve essersene assentato, forse per un viaggio all’estero (qualcuno ha ipotizzato in Italia); al ritorno, gli venne chiesto di pagare le tasse di iscrizione alla gilda dei pittori della città. Nei decenni successivi risulta aver avuto vari apprendisti e garzoni regolarmente registrati. Michaelina può aver catturato certi influssi della cultura artistica italiana dalle opere e stampe portate dal fratello dal suo viaggio, anche se è vero che stampe e dipinti italiani circolavano frequentemente sul mercato fiammingo. Certe commissioni dovettero giungere a Michaelina grazie alle conoscenze dei suoi fratelli; Jacques, di soli due anni più vecchio di lei, era arciere di Filippo IV e frequentava l’entourage della corte, mentre Pierre, capitano di cavalleria, era frequentemente a Bruxelles. Forse tramite loro le arrivò l’incarico di ritrarre Andrea Cantelmo, condottiero abruzzese al servizio della corona asburgica ed in quel tempo (1643 o poco prima) di stanza nelle Fiandre. Il ritratto è perduto, ma ne è stata tratta una bella stampa. Altri due ritratti di eminenti capi militari fanno parte dell’ancora ristretto catalogo di Michaelina: uno datato 1646, oggi nei Musei reali di Bruxelles, ed il secondo, oggi in collezione privata, forse raffigurante proprio il fratello Pierre in occasione del suo tardivo fidanzamento. Se il tema dell’Autoritratto è stato interpretato da molte delle donne pittrici, anche per affermare con fermezza il proprio “status” di artista, strumenti alla mano, è del tutto straordinario ed eccezionale che la propria immagine compaia, rivolta verso chi guarda, addirittura ritratta a seno nudo, tra le comparse del Baccanale più volte ricordato. Si riteneva che le donne non potessero comporre soggetti con più figure in movimento, anche perché non conoscevano l’anatomia, non potendo frequentare lezioni con modelli/e nudi/e; ma possiamo facilmente dedurre che una giovane donna che ha sette fratelli maschi, di cui quattro più piccoli di lei, non avesse problemi eccessivi a procurarsi modelli per studiare l’anatomia maschile.


Ritratto di un comandante dell'esercito spagnolo, 1625

Michaelina Wautier, autoritratto

Del 1654 è un Ritratto del gesuita Martino Martini, eminente personaggio trentino che aveva studiato a Roma con Athanasius Kircher e, dopo aver completato la propria formazione in Portogallo, aveva viaggiato in Cina, ritornandone con importanti studi di storia della Cina premoderna, cartografia aggiornata, una grammatica cinese, tutte opere che verranno pubblicate negli anni successivi e tradotte in numerose lingue. Parlavo inizialmente di una eclettica versatilità di generi da parte di Michaelina: oltre alla ritrattistica, alcune opere sono a soggetto religioso, altre sono scene di genere, due, infine, le nature morte con fiori e insetti. A cavallo tra il soggetto religioso, il ritratto, la scena di genere, queste due ragazzine si sono travestite da sante, sant’Agnese e santa Dorotea, con i rispettivi attributi: l’agnellino ed un cesto con rose e frutti. La scelta di ritrarre in modo così intimo e domestico due sante martirizzate perché rifiutarono di sposarsi, avrà forse avuto un risvolto autobiografico? Certo è che tra le opere più fresche di Michaelina, spesso stese con pennellate ampie e sprezzanti, ci sono alcuni volti di donne o di ragazzini (questi ultimi legati anche a studi per una serie raffigurante I cinque sensi, descritta in inventari antichi, ma oggi perduta).


Ghirlanda di fiori

Ritratto di due fanciulle come Sant'Agnese e Santa Dorotea, 1655

Per finire, voglio ancora citare l’incursione di Michaelina nel mondo della natura morta floreale, questo sì un genere che vantava anche al suo tempo molte brave artiste specializzate, come Rachel Ruysch e Judith Leyster, ad esempio. Forse un modo per far apprezzare la propria versatilità e invitare al confronto con chi quel genere praticava da sempre? Voglio sperare che il ritrovato interesse per una artista quasi totalmente dimenticata non sia fugace ed effimero, ma duraturo e fruttifero, portando ad altre possibili, interessanti scoperte.

Due bambini che giocano con le bolle di sapone, 1640

 

Traduzione francese
Giuliana Gaudenzi

Les visiteurs et les visiteuses qui attendaient les trains à la Gare d’Anvers l’été de 2018 pouvaient passer le temps en essayant de placer quelque pièce d’un grand puzzle représentant Le triomphe de Bacchus. Ce puzzle reproduisait un tableau de grand format (270 x 354 cm), conservé auparavant dans les entrepôts du Kunsthistorisches Museum de Vienne, secteur peintures flamandes « d’importance secondaire ».

Le Triomphe de Bacchus

En observant en 1993 cette œuvre et en demandant des renseignements à son sujet au conservateur du Musée, l’historienne de l’art belge Katlijne van der Stighelen a commencé à s’intéresser à son auteur, identifiée comme Michaelina Wautier. Vingt-cinq ans plus tard, l’exposition mise en place grâce à la collaboration du Rubenshuis et du Mas (Museum an der Stroom) à Anvers – dont le puzzle à la Gare était un des spot publicitaires - a été, en même temps, le résultat des recherches effectuées jusqu’à ce moment et un point de départ supplémentaire pour d’autres éléments qui peuvent améliorer notre connaissance, encore incomplète, d’une artiste à bien des égards extraordinaire. D’abord, nom et prénom sont incertains ; enregistrée dans certains inventaires comme « Magdalena » ou « Maria Magdalena », la peintre signe Michaelina, nom que, évidemment, elle préférait. L’écriture même du nom n’est pas toujours identique ; si elle signe Wauthier, dans des gravures ou des inventaires elle est aussi citée comme Woutier. Née en 1604 à Mons, dans les Pays Bas du Sud, du deuxième mariage de Charles Wautier, faisant partie de la petite noblesse locale et « page » du comte de Fuentes , commandant de l’Armée espagnole, Michaelina a grandi en tant que seule fille (deux filles du premier lit ont du mourir jeunes) parmi sept garçons survécus à leur première enfance. La famille habitait, comme celle de l’oncle maternel, à la Rue d’Havré, près de la Grande Place. Si la famille de ces oncles était certainement de marchands riches, le père de Michaelina avait probablement mené une carrière dans l’armée, imité par certains de ses enfants. Mais il est mort en 1617, en laissant sa veuve à s’occuper de huit entre fils, filles et beaux-enfants encore mineurs. Savoir ce qui a poussé Michaelina et plus tard son frère cadet Charles vers l’activité artistique et quel enseignant les a formés, ce sont des questions sans réponse. Par contre, sur la base des recherches effectuées jusqu’à présent, nous connaissons environ quinze œuvres de Michaelina signées et/ou datées, très disparates pour genre et dimension, sur la base desquelles a été possible, raisonnablement, lui en attribuer une autre dizaine. Toute œuvre datée remonte aux années Quarante et Cinquante du XVII siècle, une période où l’artiste était âgée entre 39 et 45 ans ; comme mentionné auparavant, manquent les informations et les œuvres de sa jeunesse, de sa formation et de sa vieillesse aussi, étant donné qu’elle mourra à l’âge de quatre-vingt-cinq ans , environ trente ans après sa dernière œuvre connue.


Jeune homme fumant une pipe

L'éducation de la Vierge, 1656

Presque à la même époque, l’archiduc Léopold Guillaume d’Autriche, évêque de beaucoup de diocèses, Grand Maître de l’Ordre teutonique et grand collectionneur, a été gouverneur des Pays Bas espagnols. Dans l’inventaire de sa collection, établi en 1656, sont classées quatre œuvres de Michaelina : le Triomphe de Bacchus déjà cité et trois têtes d’Apôtres. Le fait d’avoir travaillé pour quelqu’un d’aussi important et qu’on lui ait confié une œuvre avec plein de personnages en mouvement et de grandes dimensions telle que le Bacchus, chose inouïe pour une femme, en dit beaucoup sur la renommée de cette peintre à l’époque. C’est très probable qu’elle, à la mort de sa mère – dont elle, unique fille, avait presque certainement du prendre soin – ait rejoint son frère Charles à Bruxelles, où pour la suite tous les deux, jamais mariés, ont habité et travaillé dans la même maison pendant toute leur vie. Charles était déjà à Bruxelles depuis quelques années. Mais pendant une certaine période il a du s’absenter, peut-être pour voyager à l’étranger (quelqu’un a supposé en Italie) ; à son retour, on lui a demandé de payer les impôts d’inscription à la guilde des peintres de la ville. Les décennies suivantes il a eu des apprentis et des serveurs régulièrement enregistrés. Il est possible que Michaelina ait saisi certaines influences de la culture artistique italienne à partir des œuvres et des gravures apportées par son frère au retour de son voyage, même si en réalité certaines gravures et peintures circulaient fréquemment dans le marché flamand. Certaines commandes ont du arriver à Michaelina grâce aux connaissances de ses frères ; Jacques, qui avait seulement deux ans de plus qu’elle, était archer de Philippe IV et fréquentait l’entourage de la cour tandis que Pierre, capitaine de cavalerie, était souvent à Bruxelles. Peut-être que grâce à eux la commande du portrait d’Andrea Cantelmo, chef des Abruzzes au service de la couronne des Habsbourg, à ce moment-là (1643 ou peu avant) stationnant dans les Flandres. Le portrait a été perdu, mais on en a tiré une belle gravure. Deux autres portraits d’éminents chefs militaires font partie du restreint catalogue de Michaelina : l’un daté 1646, aujourd’hui dans les Musées royales de Bruxelles, l’autre, à présent en collection privée, peut-être représentant justement son frère Pierre à l’occasion de ses fiançailles tardives. Alors que le sujet de l’autoportrait a été souvent interprété par beaucoup de femmes peintres, même pour affirmer leur « status » d’artiste, outils à la main, c’est absolument remarquable et exceptionnel que sa propre image apparaisse, face à celui qui regarde, carrément peinte les seins nus, parmi les figurants du Bacchanale plusieurs fois cité. On supposait que les femmes ne pouvaient pas peindre des sujets avec plusieures figures mouvantes, aussi parce-que elles ne connaissaient pas l’anatomie, ne pouvant pas fréquenter des leçons avec des modèles nus (hommes et femmes) , mais on peut aisément déduire qu’une jeune femme qui a sept frères, dont quatre plus petits qu’elle, n’avait pas de problèmes majeurs à se procurer des modèles afin d’étudier l’anatomie masculine.


Portrait d'un commandant de l'armée espagnole, 1625

Autoportrait avec chevalet

De 1654 est le Portrait du jésuite Martino Martini, éminent personnage de Trento qui avait étudié à Rome avec Athanasius Kircher et, après avoir achevé sa formation au Portugal, avait voyagé en Chine, d’où il était revenu avec d’importantes études d’histoire de la Chine pré-moderne, cartographie mise à jour, une grammaire chinoise, œuvres qui seront publiées dans les années suivantes et traduites dans de nombreuses langues. Au début je parlais d’une versatilité éclectique de genres de la part de Michaelina : en plus des portraits, des œuvres ont un sujet religieux, d’autres sont des scènes de genre, enfin deux natures mortes avec fleurs et insectes. A cheval entre le sujet religieux, le portrait, la scène de genre, deux petites filles se sont déguisées en saintes, Sainte Agnès et Sainte Dorothée, avec leurs attributions respectives : le petit agneau et un panier avec des roses et des fruits. Le choix de dépeindre d’une façon si intime et domestique deux saintes martyrisées parce-que elles avaient refusé de se marier, aurait par hasard un aspect autobiographique ? Il est certain que, parmi les œuvres les plus fraîches de Michaelina, souvent peintes avec des coups de pinceau larges et méprisants, il y a des visages de femmes ou de petits garçons (ces derniers liés aussi à des études pour une série représentante Les cinq sens, décrite dans d’anciens inventaires, mais aujourd’hui perdue).


Guirlande de fleurs avec libellule

Deux filles en tant que Sainte Agnès et Saint Dorothée

Pour terminer, je veux encore citer l’incursion de Michaelina dans le monde de la nature morte florale, genre qui vantait même à son époque nombreuses bonnes artistes spécialisées, comme Rachel Ruysch et Judith Leyster, par exemple. C’était peut-être une façon de faire apprécier leur propre versatilité et inviter à la confrontation avec ceux qui pratiquaient ce genre depuis toujours ? Je veux espérer que l’intérêt renouvelé pour une artiste presque totalement oubliée ne soit pas fugace et éphémère, mais durable et fécond, menant à d’autres possibles, intéressantes découvertes.

Deux garçons soufflant des bulles, 1640

 

Traduzione inglese
Syd Stapleton

Visitors waiting for trains at Antwerp station in the summer of 2018 could pass the time trying to place some pieces of a large puzzle represented by The Triumph of Bacchus in the right place. The puzzle was represented by a large-format canvas (270 x 354 cm), formerly kept in the deposits of the Kunsthistorisches Museum in Vienna, in the sector of Flemish paintings "of secondary importance".

Triumph of Bacchus

It was by observing that work in 1993 and asking the curator of the museum for information about it that the Belgian art historian Katlijne van der Stighelen became interested in its author, later identified as Michaelina Wautier. Twenty-five years later, the exhibition set up thanks to the collaboration of Rubenshuis and MAS (Museum an der Stroom) in Antwerp - the puzzle in the station was used in advertising the event - was at the same time a demonstration of the research carried out up to then, and a further starting point for other knowledge that improves our still incomplete understanding of an artist who was, in many ways, extraordinary. Even her name and surname appear uncertain, recorded in some inventories as “Magdalena” or “Maria Magdalena”, while the painter signed her works instead as Michaelina, evidently preferred by her. Even the spelling of her surname is not always identical. She she calls herself Wautier, yet in some reproductions or inventories she is also referred to as Woutier. Michaelina was born in 1604 in Mons, in the Southern Netherlands, from the second marriage of Charles Wautier, who belonged to the local petty nobility and was a former "page" of the Count of Fuentes, commander of the Spanish Army. She grew up as the only daughter (two daughters of the first marriage had died young) among seven males who survived early childhood. Her family lived, like that of her maternal uncle, in Rue d ’Havré, near the Grand Palace. While the aforementioned uncle’s family of was certainly among the wealthy merchant class, Michaelina's father had probably pursued a military career and in this would then be imitated by some of his sons. He died, however, in 1617, leaving his widow to take care of eight children and stepchildren still in their early years. Two of the questions still unanswered are, what led Michaelina, and later her younger brother Charles, towards artistic activity, and with which teacher their training may have taken place. On the basis of the research carried out so far, we know of about fifteen signed and/or dated works by Michaelina, very different in genres and sizes, on the basis of which it was possible with good foundation to attribute another ten or so to her. All the dated works were from the 1640s and 1650s, at a time when the artist was between 39 and 56 years of age. As could be expected, there is a lack of information and work from her youth and training phase, and also from her older years. She died at eighty-five, about thirty years after her last known work.


Young Man Smoking a Pipe

The Education of the Virgin, 1656

It is almost the same period in which Archduke Leopold William of Austria, bishop of many dioceses, Grand Master of the Teutonic order and great collector, was governor of the Spanish Netherlands. In the inventory that drawn up from his collection in 1656, four works by Michaelina are listed - the aforementioned Triumph of Bacchus and three heads of Apostles. The fact that she worked for such a character and that she was entrusted with a work with many moving and large figures, such as Bacchus, unheard of for a woman, speaks volumes about the reputation enjoyed by the painter at the time. It is very likely that, on the death of her mother - as the only female child, she had almost certainly had to take care of her – she joined her brother Charles in Brussels, where the two, both never married, lived and worked in the same house for the whole their remaining lives. Charles had already been in Brussels for some years. For a certain period, however, he must have been absent, perhaps for a trip abroad (some have speculated in Italy). Upon returning, he was asked to pay the registration fees to the guild of painters in the city. In the following decades he appears to have had various students and regularly registered apprentices. Michaelina may have absorbed certain influences of Italian artistic culture from the works and prints brought by her brother from his trip, although it is also true that Italian prints and paintings frequently circulated on the Flemish market. Certain commissions surely reached Michaelina thanks to the acquaintances of her brothers; Jacques, only two years older than her, was Philip IV's archer and frequented the entourage of the court, while Pierre, a cavalry captain, was frequently in Brussels. Perhaps through them she was commissioned to portray Andrea Cantelmo, an Abruzzese leader in the service of the Habsburg crown and at that time (1643 or shortly before) stationed in Flanders. The portrait is lost, but a beautiful reproduction of it survives. Two other portraits of eminent military leaders are part of Michaelina's then still limited catalog - one dated 1646, now in the Royal Museums of Brussels, and a second, now in a private collection, perhaps depicting her brother Pierre on the occasion of his belated engagement. If the theme of the self-portrait has been interpreted by many women painters, also to firmly affirm their "status" as an artist, instruments in hand, it is still quite extraordinary and exceptional that Michaelina's own image appears, facing the viewer, even portrayed topless, among the figures in The Triumph of Bacchus. It was believed that women could not compose subjects with multiple moving figures, also because they did not know anatomy, not being able to attend classes with nude models. But we can easily deduce that a young woman who has seven brothers, four of whom younger than her, would not have excessive problems in obtaining models to study male anatomy.


Portrait of a Man, 1625

Michaelina Wautier, self portrait

From 1654 there is a portrait of the Jesuit Martino Martini, an eminent character from Trentino who had studied in Rome with Athanasius Kircher and, after completing his training in Portugal, had traveled to China. He returned with important studies of the history of pre-modern China, updated cartography, a Chinese grammar, all works that were published in the following years and translated into numerous languages. Initially I was talking about an eclectic versatility of genres on the part of Michaelina: in addition to portraiture, some works are religious subjects, others are scenes of nature, and finally two still lifes with flowers and insects. Somewhere between a religious subject, a portrait, and a scenic work, are two young girls presented as saints, Saint Agnes and Saint Dorothea, with their respective attributes, a lamb for one and a basket with roses and fruit for the other. Could the choice to portray two saints in such an intimate and domestic way, women who were martyred because they refused to marry, have had an autobiographical implication? What is certain is that the among the most striking paintings of Michaelina, often showing broad and dashing brushstrokes, are faces of women or children (the latter also linked to studies for a series depicting the five senses, described in ancient inventories, but today lost).


Flower Garland with Butterfly

Two girls as Saint Agnes and Saint Dorothea, 1655

Finally, I want to mention Michaelina's foray into the world of floral still life, this being a genre that even in her time boasted many skilled specialized artists, such as Rachel Ruysch and Judith Leyster, for example. Perhaps these works were a way for her to demonstrate her versatility and to invite comparison with those who practiced that genre? I want to hope that the newfound interest in an almost totally forgotten artist is not fleeting and ephemeral, but lasting and fruitful, possibly leading to other interesting discoveries.

Two Boys Blowing Bubbles, 1640

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