Daphne Caruana Galizia

Nadia Verdile


Valentina Bartolotta

Nella Basilica dell'Assunzione di Nostra Signora a Malta il 3 novembre 2017 si tennero i funerali di Daphne Vella. Era stata uccisa il 16 ottobre da una bomba esplosa nella Peugeot 108, presa a noleggio, che stava guidando. «Ho guardato in basso e c'erano parti del corpo di mia madre tutt'intorno a me». Scrisse così sulla sua pagina Facebook uno dei figli. Fatta saltare in aria per chiuderle la bocca. Storia vecchia che non insegna perché quando si uccide la verità quella rispunta, più forte, nelle azioni di chi la vuole. Daphne aveva da poco compiuto 53 anni quando è stata fatta brillare in aria. Era nata a Silema il 26 agosto 1964. Nel 1985 aveva sposato Peter Caruana Galizia, dalla loro unione sono nati tre figli: Matthew Mark John, Andrew Michael Louis e Paul Anthony Edward. È col cognome del marito che continuano a ricordarla. Era laureata in Archeologia ma la sua vita era il giornalismo. Quello vero, quello d’inchiesta. Quello che serve a svelare i segreti, che serve a far conoscere i fatti. Era entrata come redattrice al “Sunday Times” di Malta nel 1987, ne fu editorialista dal ‘90 al ‘96. Collaborò con “The Malta Independent” per il resto della sua carriera. Molte riviste ospitavano la sua firma. Fondò -e ne fu editrice - le riviste “Taste” e “Flair”, che divennero una sola cosa nel 2014 e che ora sono pubblicate dalla Fondazione Daphne Caruana Galizia. Aveva un suo blog, seguitissimo, Running Commentary, fatto di inchieste, commenti sull’attualità e sui personaggi pubblici. Faceva numeri da capogiro, le visualizzazioni erano mediamente al di sopra delle 400mila. Dava fastidio Daphne, dava così fastidio che già da giovanissima aveva ricevuto attentati. Nel 1996 le incendiarono la porta di casa. Poi le uccisero il cane. Poi ancora diedero fuoco alla casa mentre la famiglia tutta era all’interno. E poi ancora l’uccisione di altri due cani, prima il terrier Zulu, avvelenato, poi il suo collie Rufus abbattuto a sprangate. Le minacce, come ha raccontato il marito, erano all’ordine del giorno: telefonate, lettere, bigliettini appuntati sulla porta di casa, e-mail, commenti violenti sul suo blog. L’arrestarono l'8 marzo 2013 per aver infranto il silenzio elettorale il giorno prima del voto quando pubblicò un video di denuncia su Joseph Muscat, divenuto dopo le elezioni primo ministro. “The Daily Telegraph” la definì la principale commentatrice di Malta. Poi lo scandalo dei Panama Papers. Nel 2016 Daphne diede notizia del coinvolgimento dei politici governativi Konrad Mizzi e Keith Schembri. Rivelò che Mizzi aveva legami con Panama e la Nuova Zelanda, questo costrinse il ministro ad ammettere l'esistenza del Rotorua Trust; rivelò poi che anche Schembri possedeva un trust neozelandese, a sua volta proprietario di una società a Panama.

Non faceva segnali di fumo Daphne, lei indagava, scriveva, denunciava. E non aveva paura. Quindi faceva paura. Il suo blog dava conto delle malefatte della politica e della finanza, il suo blog era faro di luce. Nel suo mirino quanti predicavano bene e razzolavano male. Non poteva essere lasciata in vita da chi sentiva che il terreno franava vorticosamente sotto i piedi. I documenti sull’affare Panama furono devastanti per molti. Fu lei a dimostrare che Egrant, un'altra società panamense, era di proprietà di Michelle Tanti, moglie del primo ministro Joseph Muscat. L’ultimo suo articolo sul blog lo aveva titolato Il truffatore Schembri oggi era in tribunale a sostenere che non è un truffatore e chiudeva il pezzo così: «ora ci sono truffatori ovunque si guardi. La situazione è disperata». Quando l’hanno uccisa Daphne aveva in corso 48 cause per diffamazione. Ovunque aveva “ficcato il naso” aveva acquistato nemici. Nel maggio 2017 il proprietario e presidente di Pilatus Bank, Ali Sadr Hasheminejad, la citò in giudizio in un tribunale dell'Arizona per un danno di 40 milioni di dollari ma Daphne non fu nemmeno informata e il banchiere ritirò la citazione a poche ore dalla sua morte. A novembre 2019 c’è stato l’arresto, come mandante dell’omicidio, di Yorgen Fenech, proprietario della società, con sede a Dubai, 17 Black. Daphne ne aveva dettagliatamente parlato nei suoi articoli dei Panama Papers in relazione a Keith Schembri e Konrad Mizzi. Fenech però scaricò l'accusa su Schembri, capo di gabinetto dell'ex primo ministro Muscat. Corinne Vella, sorella di Daphne, commentò: «Schembri era stato più volte segnalato da Daphne e se il nome di Schembri è stato fatto in tribunale non è possibile che Muscat non lo sapesse». E Muscat si dimise all’inizio del 2020. Contro Daphne una costante campagna di denigrazione e, come capita alle donne, è stata descritta come un’arrivista, una spregiudicata, una strega. Di contraltare a lei è stata intitolata la Sala stampa del Parlamento europeo e ventotto riconoscimenti le sono stati tributati, dopo la morte, in tutto il mondo. Le inchieste di Daphne non potevano e dovevano morire. Nacque così il Daphne Project. Giornali e giornalisti/e di fama internazionale decisero di unirsi in un progetto comune dando vita ad un'inchiesta coordinata dall'associazione no-profit francese Forbidden stories. Tra le testate che hanno aderito al progetto vi sono “New York Times”,” The Guardian”, “Reuters”, “Süddeutsche Zeitung”, “Die Zeit”, “Le Monde” e “la Repubblica”. Raccontava e voleva la verità Daphne, per scrivere quella verità è morta, dilaniata dalla bomba e dalle maldicenze ma il suo lavoro va avanti con le teste e le gambe della famiglia e di colleghi/e che alla morte e al silenzio non si rassegnano nel nome della verità, nel nome di Daphne.

 

Traduzione francese
Giuliana Gaudenzi

Dans la Basilique de l’Assomption de Notre Dame à Malta le 3 Novembre 2017 ont eu lieu les obsèques de Daphne Vella. Elle avait été tuée le 16 Octobre par une explosion dans la Peugeot 108 qu’elle avait loué et qu’elle était en train de conduire. « J’ai regardé en bas et il y avait les morceaux du corps de ma mère tout autour de moi ». Un de ses enfants a écrit cela sur sa page Facebook. On l’a faite exploser pour étouffer sa voix. C’est une vieille histoire qui n’enseigne rien, parce-que quand on tue la vérité elle réapparait, plus forte, dans les actes de ceux qui la désirent. Daphne venait de fêter ses 53 ans quand elle a été faite exploser. Elle était née à Silema le 26 août 1964. En 1985 elle avait épousé Peter Caruana Galizia ; ils ont eu trois enfants : Matthew Mark John, Andrew Michael Louis et Paul Anthony Edward. Elle est toujours connue avec son nom marital. Elle était diplômée en Archéologie mais sa vie était le journalisme. Le vrai, celui d’investigation. Celui qui permet de dévoiler les secrets, qui permet de connaître les événements. Elle était entrée comme rédactrice dans le « Sunday Times » de Malta en 1987, elle y a été éditorialiste de ’90 à ’96. Elle a collaboré avec « The Malta Independent » pour le restant de sa carrière. Sa signature figurait dans beaucoup de magazines. Elle a fondé – et elle en a été l’éditrice – les revues « Taste » et « Flair », qui sont devenues une unique chose en 2014 et qui, à présent, sont publiées par la Fondation Daphne Caruana Galizia. Elle avait son blog, très populaire, Running Commentary, fait d’enquêtes, commentaires sur l’actualité et sur les personnages publics. Le nombre de visualisations était exceptionnel, en moyenne en dessus de quatre cent mille. Daphne dérangeait, à tel point que même très jeune elle avait subi des attentats. En 1996 la porte de sa maison a été incendiée. Puis on a tué son chien. Ensuite on a incendié sa maison pendant que toute la famille était à l’intérieur. Et encore l’abattage de deux chiens, d’abord le terrier Zulu, empoisonné, puis le colley Rufus, tué à coups de bâton. Son mari a raconté qu’il y avait des menaces tous les jours : appels téléphoniques, lettres, billets scotchés sur la porte d’entrée, e-mails, violents commentaires sur son blog. Elle a été arrêtée le 8 mars 2013 pour avoir violé le silence électoral le jour avant le vote quand elle a publié une vidéo de dénonciation sur Joseph Muscat, devenu premier ministre après les élections. « The Daily Telegraph » l’a qualifiée comme la principale commentatrice. Et puis, le scandale des Panama Papers. En 2016 Daphne a annoncé l’implication des politiciens du gouvernement Konrad Mizzi et Keith Schembri. Elle a révélé que Mizzi avait des liens avec Panama et la Nouvelle Zélande et cela a obligé le ministre à admettre l’existence du Rotorua Trust ; elle a ensuite révélé que Schembri aussi possédait un trust néo-zélandais, propriétaire à son tour d’une société à Panama.

Daphne n’envoyait pas des signaux de fumée, elle enquêtait, écrivait, dénonçait. Et elle n’avait pas peur. Donc, elle faisait peur. Son blog relatait les méfaits de la politique et de la finance, son blog était un phare lumineux. Dans sa ligne de mire, ceux qui ne vivaient pas comme ils l’enseignaient. Elle ne pouvait pas être laissée vivante par ceux qui sentaient que le terrain s’écroulait vertigineusement sous leurs pieds. La documentation sur l’affaire Panama a été dévastatrice pour beaucoup de monde. C’est elle qui a démontré que Egrant, une autre société panaméenne, appartenait à Michelle Tanti, épouse du premier ministre Joseph Muscat. Elle avait titré son dernier article sur le blog L’escroc Schembri aujourd’hui était au tribunal pour soutenir qu’il n’est pas un escroc et elle terminait l’article comme ça : « à présent il y a des escrocs partout. La situation est sans espoir ». Quand on l’a assassinée, Daphne avait en cours 48 procès en diffamation. Où qu’elle avait fouiné, elle s’était fait des ennemis. En Mai 2017 le propriétaire et président de Pilatus Bank, Ali Sadr Hasheminejad, l’a poursuivie en justice auprès d’un tribunal d’Arizona pour un dommage de 40 millions de dollars mais Daphne n’a même pas été renseignée et le banquier a retiré l’acte d’accusation quelques heures avant sa mort. En Novembre 2019 Yorgen Fenech, propriétaire de la société 17 Black, basée a Dubaï, a été arrêté en tant que commanditaire du meurtre. Daphne en avait parlé en détail dans ses articles des Panama Papers en rapport à Keith Schembri et Konrad Mizzi. Mais Fenech a inculpé Schembri, chef de cabinet de l’ancien premier ministre Muscat. Corinne Vella, sœur de Daphne, a commenté « Schembri avait été plusieurs fois signalé par Daphne et si le nom de Schembri a été fait au tribunal il n’est pas possible que Muscat ne le savait pas ». Et Muscat a donné sa démission début 2020. Contre Daphne il y a eu une constante œuvre de dénigrement et, comme il arrive aux femmes, elle a été décrite comme une arriviste, une sans scrupules, une sorcière. Par contre, on a donné son nom à la Salle de presse du Parlement européen et, après sa mort, on lui a rendu hommage avec vingt huit récompenses. Les enquêtes de Daphne ne pouvaient pas et ne devaient pas mourir. Il est ainsi né le Daphne Project. Journaux et journalistes de renommée internationale ont décidé de se rassembler pour un projet commun en donnant vie à une enquête coordonnée par l’association française sans but lucratif Forbidden stories. Parmi les organes de presse qui ont adhéré au projet il y a « New York Times », « The Guardian », « Reuters », Süddeutsche Zeitung », « Die Zeit », « Le Monde », et « La Repubblica ». Daphne racontait et voulait la vérité, elle est morte pour écrire cette vérité, déchiquetée par l’explosion et par les médisances, mais son travail continue avec les esprits et les jambes de sa famille et de ses collègues qui ne se résignent pas à la mort et au silence au nom de la vérité, au nom de Daphne.

 

Traduzione inglese
Cettina Callea

In the Basilica of the Assumption of Our Lady, commonly known as the Rotunda of Mosta in Malta, on 3rd November, 2017, Daphne Vella's funeral was held. She had been murdered on 16th October when a car bomb placed in her leased Peugeot 108 exploded while she was driving. One of her children wrote on his Facebook profile "I looked down and there were my mother’s body parts all around me". She had been blown up to shut her mouth. It is the same old story which does not teach anything because when the truth is killed, it rises again stronger and stronger in the actions of people who want it. Daphne had just turned 53 years old when she was brutally murdered. She was born in Sliema on 26th August, 1964. In 1985 She had married Peter Caruana Galizia, and they had three sons: Matthew Mark John, Andrew Michael Louis e Paul Anthony Edward. She is remembered with her husband's surname. She had a degree in Archeology but journalism was her life. Real Journalism, investigative journalism to dig up secrets and to let people learn facts. She started as editor at “Sunday Times” in Malta in 1987, writing as editorialist from 1990 to 1996. She collaborated with “The Malta Independent” for her remaining career. She wrote articles for many magazines. She founded and was the publisher of the magazines “Taste” and “Flair”, which became one in 2014, now published by the Foundation Daphne Caruana Galizia. She had a very popular blog, “Running Commentary”, reporting on investigations and commenting on current affairs and public personalities. Her followers reached dizzying numbers - she usually reached more than 400 thousand views. Daphne was "annoying", so annoying that since she was really young she had experienced attacks. In 1996 her house door was burnt. Then her dog was killed. Later her house was set on fire with her family inside. Other two dogs were killed, first her terrier Zulu was poisoned and then her collie Rufus, was beaten to death with a crowbar. As her husband said, she used to receive everyday threats: phone-calls, letters, notes on her door, emails, violent comments on her blog. She was arrested on 8th March 2013 for breaking the pre-election silence, on the day before voting, when she posted a video denouncing Joseph Muscat, who became Prime Minister, after the elections. “The Daily Telegraph” defined her the main journalist in Malta. After that, the scandal of Panama Papers broke out. In 2016 Daphne found out about the involvement of Government politicians Konrad Mizzi and Keith Schembri with it. She revealed that Mizzi had connections with Panama and New Zealand, and this fact forced the minister to admit the existence of Rotorua Trust; moreover, she revealed that Schembri owned a New Zealand trust, which in turn was the owner of a Company in Panama.

Daphne didn’t just send smoke signals - she investigated, wrote, and denounced. And she had no fear. So she caused fear. Her blog gave an account of political and financial misdeeds, her blog was a lighthouse. She used to hit the ones who preached one thing and did another. She could not be allowed to stay alive by people who felt like threatened by her work. The documents about Panama affaire were devastating to many people. She managed to prove that Egrant, another Panama company, belonged to Michelle Tanti, the prime minister Joseph Muscat's wife. Her last blog article was entitled " That crook Schembri was in court today, pleading that he is not a crook" and she closed the article like this:"There are crooks everywhere you look now. The situation is desperate". When Daphne was murdered she had 48 ongoing libel cases. Wherever she had snooped around, she had gained enemies. In May 2017 the owner and president of Pilatus Bank, Ali Sadr Hasheminejad, sued her in a Court in Arizona for damages of 40 million dollars but Daphne did not have time to be informed and the banker retracted his citation a few hours after her death. In November 2019 Yorgen Fenech, the owner of the company, housed in Dubai, 17 Black, was arrested as the instigator of the murder. Daphne had written about him and his connections with Keith Schembri and Konrad Mizzi, with many details, in her articles about Panama Papers. But Fenech shifted the charge on Schembri, Head of Cabinet of the former Prime Minister Muscat. Corinne Vella, Daphne's sister declared: “Schembri has been named in a court so many Times by Daphne. It is not possible for Muscat not to have known". Muscat resigned at the beginning of 2020. Daphne has been the object of a constant campaign of slander, and as happens to many women, she has been described as an upstart, an unscrupulous witch. On the other hand, the European Parliament Press room was named after her and she has been given awards twenty-eight times, since her death, in different countries. Daphne's investigations could not and did not have to die. That's why Daphne Project was founded. The most famous International Press and journalists decided to join in a common project creating an investigation coordinated by the French non-profit Association Forbidden stories. Among the newspapers joining the project are “New York Times”,” The Guardian”, “Reuters”, “Süddeutsche Zeitung”, “Die Zeit”, “Le Monde” and “la Repubblica”. Daphne found and then wrote the truth, and for that she was torn apart by a bomb. But her work continues, thanks to the commitment of her family and friends. In their loyalty to truth, and to Daphne, they will not accept murder and suppression of the truth.

Beatrix de Rijk

Barbara Belotti


Giulia Capponi

Forse sono le dimostrazioni delle macchine volanti dei fratelli Wright nei cieli di Francia, tra il 1908 e il 1909, a spingere Beatrix de Rijk verso gli aeroplani. Da qualche anno la giovane Beatrix vive a Parigi e lavora come modella. Il bell’aspetto, il volto fresco e vivace le hanno aperto le porte dell’haute couture, ma non è quella la sua strada. La vita la porterà in alto, nell’aria, alla guida di quei nuovi trabiccoli leggeri capaci di sollevarsi da terra e volteggiare fra le nuvole. L’aeronautica è solo agli inizi, ma Beatrix sente di dover raccogliere la nuova sfida, anzi la doppia sfida: quella contro la forza di gravità e quella contro i pregiudizi. L’avventura del volo è per gli uomini, valorosi per carattere, temerari per natura; le donne, angeli del focolare, non possono diventarlo anche dell’aria. Beatrix de Rijk, donna dal carattere deciso, non è di questa opinione e sa che può dimostrarlo. Nasce a Surabaya, nelle Indie orientali olandesi, il 24 luglio 1883 da una agiata famiglia borghese originaria dei Paesi Bassi. La sua infanzia e la sua adolescenza sono piene di attività sportive, dal tennis all’equitazione al pattinaggio. Quando diventa grande abbastanza, rivela la sua natura ardimentosa: impara a guidare la motocicletta, l’automobile, partecipa a voli in mongolfiera. Dalla mongolfiera all’aereo il passo è quasi scontato e breve. Rientrata in Europa dalle Indie orientali olandesi intorno al 1903 Beatrix, dopo un breve periodo trascorso in Olanda, sceglie di vivere in Francia. Comincia a frequentare il campo di volo di Bétheny, vicino a Reims. Il suo istruttore, l’aviatore Marcel Hanriot, la giudica subito un’ottima allieva, migliore di tanti suoi colleghi. Ha talento e coraggio da vendere quella ragazza dallo sguardo intenso, che entra nella carlinga nonostante le gonne lunghe e una specie di turbante orientale in testa. Hanriot l’apprezza e le svela i segreti del volo.

Beatrix de Rijk, Museo di Amsterdam.

La scuola è costosa, ma Beatrix ha una solida rendita economica grazie alla quale non solo paga le lezioni, ma compra anche un velivolo personale, un monoplano Deperdussin, con il quale vuole dimostrare l’abilità femminile alla cloche. Il sogno si avvera qualche tempo dopo. Il 6 ottobre 1911 supera l’esame e ottiene la licenza di volo, ricevendo la tessera n° 652 della Federazione aeronautica di Francia. Beatrix de Rijk diventa pilota, una pioniera dell’aria, la prima donna dei Paesi Bassi a ottenere un brevetto di volo e a guidare un aereo. Entra a far parte del primo aero-club francese tutto femminile, La Stella, e come le altre socie intende dare il proprio contributo alla conquista del cielo, infischiandosene dei pregiudizi e degli stereotipi che la vorrebbero moglie fedele e mamma amorosa. Il suo primo matrimonio, celebrato contro la volontà della famiglia, è naufragato da tempo e il suo unico figlio è rimasto a vivere nelle Indie orientali olandesi. Quando scoppia la Prima guerra mondiale Beatrix è pronta a partire. Chiede di partecipare come volontaria nei ranghi della neonata aeronautica francese, ma la sua offerta cade nel vuoto, le leggi militari non prevedono la partecipazione femminile. Tenta allora con l’esercito olandese, riceve tanti ringraziamenti ma un fermo diniego. La delusione deve essere stata cocente, dopo il 1914 Beatrix non si dedica più al volo anche se nel 1935 prova, ancora senza successo, a proporsi come pilota in azioni di guerra, questa volta contro le truppe italiane di occupazione in Etiopia. Beatrix è alla ricerca di un posto in cui vivere e di nuove avventure, si muove con il secondo marito Jan tra l’Europa e le Indie orientali olandesi. Partecipa a gare automobilistiche, tenta di avviare attività economiche, ma pur essendo una donna risoluta e capace, non si dimostra altrettanto capace coi suoi averi, che perde completamente negli anni Venti. Fallita ma non sconfitta, Beatrix affronta la seconda parte della sua vita fedele al motto che le viene attribuito: «Ridi e dimentica». Non sono anni facili per lei ma la gioia di vivere non la abbandona mai.

Beatrix de Rijk. Icona dell'aviazione olandese

Durante la Seconda guerra mondiale suo marito scompare senza lasciare traccia, il suo unico figlio muore nel 1943, prigioniero in un campo di internamento giapponese. Praticamente in miseria, Beatrix deve adattarsi a vivere in modeste camere, a mantenersi con lavori umili come l’aiutante lavapiatti o la donna delle pulizie. Viene in suo soccorso la Royal Duch Aviation Association che integra un po’, con sussidi economici e materiali, la magra pensione. Nelle piccole stanze in cui è costretta a vivere, Beatrix si sente prigioniera come un uccello in gabbia. Ripensa alle sue scorribande nei cieli, le paragona a tentativi di suicidio, tanto erano pericolose e ai limiti dell’impossibile. Per affrontare il volo bisognava essere molto audaci e altrettanto incoscienti. Quei primi aeroplani erano leggeri, realizzati con materiali semplici, senza alcuna protezione di sicurezza e privi di strumentazioni adeguate. Erano state avventure rischiose e temerarie, ma erano state la realizzazione di un sogno. E quando le passioni si mescolano con l’incoscienza della giovinezza, tutto il resto passa in secondo piano. Il desiderio di Beatrix di volare è stato uno dei numerosi tentativi di aprire la breccia nel mondo dell’aeronautica, tradizionalmente “maschile”; è stato anche un modo di contribuire alla narrazione dell’epopea del volo. Eppure non è bastato. Pioniera dell’aviazione olandese, Beatrix de Rijk viene dimenticata subito, quando è ancora in vita. Muore in solitudine e povera il 18 gennaio del 1958, dopo una lunga malattia.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

Ce sont peut-être les démonstrations des machines volantes des frères Wright dans le ciel de France, entre 1908 et 1909, qui ont poussé Beatrix de Rijk vers l'avion. Depuis quelques années, la jeune Beatrix vivait à Paris et travaillait comme mannequin. Sa bonne mine et son visage frais et vif lui ont ouvert les portes de la haute couture, mais ce n'était pas sa voie. La vie l'emmènera dans les airs, aux commandes de ces nouveaux bimbos légers capables de décoller du sol et de s'élever dans les nuages. L'aéronautique ne fait que commencer, mais Beatrix sent qu'elle doit relever le nouveau défi, ou plutôt le double défi : celui contre la force de gravité et celui contre les préjugés. L'aventure du vol est réservée aux hommes, courageux par caractère, téméraires par nature ; les femmes, anges du foyer, ne peuvent devenir des anges de l'air. Beatrix de Rijk, une femme au caractère bien trempé, n'est pas de cet avis et sait qu'elle peut le prouver. Elle est née à Surabaya, dans les Indes orientales néerlandaises, le 24 juillet 1883, dans une famille aisée de la classe moyenne des Pays-Bas. Son enfance et son adolescence sont remplies d'activités sportives, du tennis à l'équitation en passant par le patinage. Lorsqu'elle atteint l'âge adulte, elle révèle sa nature audacieuse : elle apprend à conduire une moto, une voiture et participe à des vols en montgolfière. De la montgolfière à l'avion, le pas était presque évident et court. Après son retour en Europe des Indes orientales néerlandaises vers 1903, Beatrix, après un bref séjour en Hollande, choisit de vivre en France. Elle commence à fréquenter l'aérodrome de Bétheny, près de Reims. Son instructeur, l'aviateur Marcel Hanriot, a immédiatement jugé qu'elle était une excellente élève, meilleure que nombre de ses collègues masculins. La jeune fille au regard intense avait du talent et du courage à revendre, entrant dans le cockpit malgré ses longues jupes et une sorte de turban oriental sur la tête. Hanriot l'apprécie et lui révèle les secrets du vol.

Beatrix de Rijk, Musée d'Amestardam.

L'école est chère, mais Beatrix a un solide revenu, grâce auquel elle paie non seulement les leçons, mais achète aussi son propre avion, un monoplan Deperdussin, avec lequel elle veut démontrer son habileté féminine au manche. Le rêve se réalise quelque temps plus tard. Le 6 octobre 1911, elle passe l'examen et obtient son brevet de pilote, et reçoit la 652e carte de la Fédération française d'aéronautique. Beatrix de Rijk est devenue pilote, une pionnière dans les airs, la première femme aux Pays-Bas à obtenir une licence et à piloter un avion. Elle rejoint le premier aéroclub français exclusivement féminin, La Stella, et entend, comme les autres membres femmes, apporter sa contribution à la conquête du ciel, faisant fi des préjugés et des stéréotypes qui font d'elle une épouse fidèle et une mère aimante. Son premier mariage, célébré contre la volonté de sa famille, a échoué depuis longtemps et son fils unique est laissé à l'abandon dans les Indes orientales néerlandaises. Lorsque la première guerre mondiale éclate, Beatrix est prête à partir. Elle demande à se porter volontaire dans les rangs de la toute nouvelle armée de l'air française, mais sa proposition tombe dans l'oreille d'un sourd, car les lois militaires ne permettent pas la participation des femmes. Elle essaie ensuite l'armée néerlandaise, recevant de nombreux remerciements mais un refus ferme. La déception a dû être amère, après 1914 Beatrix ne s'est plus consacrée à l'aviation, même si en 1935 elle a essayé, toujours sans succès, d'être pilote dans des actions de guerre, cette fois contre les troupes d'occupation italiennes en Ethiopie. Beatrix cherche un endroit où vivre et de nouvelles aventures, elle se déplace avec son second mari Jan entre l'Europe et les Indes orientales néerlandaises. Elle participe à des courses automobiles, essaie de créer des entreprises, mais si elle est une femme résolue et capable, elle ne l'est pas autant avec ses biens, qu'elle perd complètement dans les années vingt. Échouée mais pas vaincue, Beatrix affronte la deuxième partie de sa vie en restant fidèle à la devise qui lui a été attribuée : "Rire et oublier". Ces années ne sont pas faciles pour elle, mais la joie de vivre ne l'abandonne jamais.

Beatrix de Rijk. Femmes emblématiques de l'aviation néerlandaise

Pendant la Seconde Guerre mondiale, son mari disparaît sans laisser de traces, son fils unique meurt en 1943, prisonnier dans un camp d'internement japonais. Pratiquement sans ressources, Beatrix a dû s'adapter à la vie dans des chambres modestes, et subvenir à ses besoins grâce à des emplois subalternes tels que plongeur ou femme de ménage. La Royal Duch Aviation Association est venue à son secours et a complété sa maigre pension par une aide financière et matérielle. Dans les petites pièces dans lesquelles elle est obligée de vivre, Beatrix se sent comme un oiseau en cage. Elle repensa à ses raids dans le ciel, les comparant à des tentatives de suicide, tant ils étaient dangereux et à la limite de l'impossible. Il fallait être très audacieux et tout aussi téméraire pour voler. Ces premiers avions étaient légers, faits de matériaux simples, sans aucune protection de sécurité et sans instrumentation adéquate. Ces aventures avaient été risquées et audacieuses, mais elles avaient été la réalisation d'un rêve. Et quand les passions se mêlent à l'insouciance de la jeunesse, tout le reste passe au second plan. Le désir de Beatrix de voler était l'une des nombreuses tentatives de percer dans le monde traditionnellement "masculin" de l'aéronautique ; c'était aussi une façon de contribuer au récit de l'épopée du vol. Pourtant, ce n'était pas suffisant. Pionnière de l'aviation néerlandaise, Beatrix de Rijk a vite été oubliée, de son vivant. Elle est morte dans la solitude et la pauvreté le 18 janvier 1958, après une longue maladie.

 

Traduzione inglese
Joelle Rampacci

Maybe they were the demonstrations of the flying machines organized by the Wright Brothers in the skies of France, between 1908 and 1909, that encouraged Beatrix de Rijk to be interested in planes. For some years the young woman Beatrix lived in Paris and worked as a model. She was good looking, with a fresh and lively face that gave her the opportunity for haute couture fashion shows, but that was not her way. Life would take her up in the air, ready to drive light flying machines that could rise her fom the ground twirling in the clouds. Aircraft science was in its early stages, but Beatrix felt she had to accept the new challenge, indeed a double challenge: the first one against the gravity force and the second one against the prejudices. The adventure of flying was only for men, reckless by nature; women, angels of the hearth, could not. Beatrix de Rijk, a strong- minded woman, did not agree with that point of view and she knew that she could prove. She was born in Surabaja, in the Dutch East Indies on 24th July 1883 in a wealthy family from the Netherlands. She lived her childhood and her adolescence practising a lot of sport activities, starting from tennis to horse riding and skating. When she was old enough, she revealed her fearless nature: she learnt to ride a motorcycle, to drive, she took part in hot-air balloon rides. It was a short step from hot-air balloons to the planes. After going back to Europe from Dutch East Indies Beatrix decided to live in France about 1903. She started frequenting air fields in Bethany, near Reims. Her flight instructor, the aviator Marcel Hanriot, thought she was an excellent learner, better than many colleagues. That talented, intense-eyed girl, was full of courage in going into the cockpit although she used to wear long skirts and a kind of oriental turban on her head. Hanriot appreciated her and revealed her every kind of secret of flying.

Beatrix de Rijk, Amsterdam Museum.

Lessons were expensive but Beatrix earned a very high economic income: she did not only pay for her lessons but she also bought her own aircraft, a Deperdussin monoplane, through which she wanted to show the feminine capability to flight. Her dream came true after a while. On 6th October 1911 she passed her exam and got her flight license receiving the card number 652 of the Aéro-Club de France. Beatrix de Rijk became an official pilot, an air pioneer, the first woman in the Netherlands to get a flight license and to fly an airplane. She became a member of the first all-female French Airclub called ‘the Star’. She wanted to make her own contribution, with all the other female members, to the rush to the sky, not caring about the prejudices and the stereotypes that only saw her as a faithful wife and a loving mother. At that age her first marriage, celebrated against her family wishes, had failed for a long time and her only child had stayed in the Dutch East indies. When the First World War broke out Beatrix was ready to leave. She asked to join the ranks of the newborn French Air Force as a volunteer but her proposal fell on deaf ears: at that time the female partecipation was not allowed by military laws. After she asked the Dutch Army, receiving a firm denial. It was a cruel disappointment to her; after 1914 Beatrix did not devote herself to flight any more even if, in 1935, she unsuccessfully tried to propose herself in war mission against the Italian troops occupying Etiopia. Beatrix was looking for a place where she could live new adventures in and so she moved travelling around Europe and the Dutch East Indies with her second husband Jan. She took part in car competitions, she tried to raise some business. Though she was a firm and decisive woman, she was not able to keep her possessions: she lost everything in the Twenties. Failed but not defeated, Beatrix lived the second part of her life to honour her motto: “laugh and forget”. It was not an easy period but she never lost her joy of living.

Beatrix de Rijk Iconic women of Dutch aviation

During the second World War her husband suddenly vanished without trace, her only child died in 1943 as a prisoner in a Japanese internment camp. Practically penniless, Beatrix was forced to adapt to living in unpretentious hotel rooms, earning a living with humble works such as dishwashing or housekeeping. The Royal Dutch Aviation Association came to the rescue helping her out with economic and financial subsidies. Beatrix felt a prisoner like a bird in a cage in the small rooms where she was forced to live in. Thinking back to her raids in the skies, she went comparing them with suicide attempts, so dangerous and to the edges of the impossible. It was needed to be very bold and equally unconscious to fly. Those first planes were light, made with basic materials, without any safeguard measures and appropriate equipments. During her all life she lived risky adventures but they were a dream come true. When the passions mix with the unconsciousness of young age everything takes second place. The wish of flying of Beatrix de Rijk was one of the many attempts to breach the world of Aircraft, traditionally held to be belonging to men; it was a way to contribute to the storytelling of flight. But it was not enough. Pioneer of the Dutch Aircraft, Beatrix was immediately forgotten when she was still alive. She died alone and poor on 18th January 1958, after a long disease.

Hélène Dutrieu

Stefania Carletti


Giulia Capponi

Hélène Dutrieu, la prima aviatrice belga, pioniera dell’aviazione femminile, membro d’onore a titolo postumo della Società Reale di aviazione. (A. Demoulin e R. Feullien)

Hélène nacque a Tournai in Belgio il 10 luglio 1877 e crebbe in una famiglia tutt’altro che ricca: figlia di un ufficiale dell'esercito belga, quando compie 14 anni è costretta ad abbandonare gli studi perché il padre perde il lavoro; comprende che deve darsi da fare, ma così giovane non ha un mestiere vero e proprio. Possiede tuttavia un talento nel pedalare con la bicicletta e così, sulla scia del fratello Eugéne, di cinque anni piu giovane e già noto ciclista, inizia a praticare, con tenacia e sacrificio, il ciclismo e a impegnarsi nelle corse che, molto timidamente, si stanno aprendo alle donne. Esile nel fisico, Hélène è forte nell’animo, caparbia ed entusiasta, tanto da dimostrare subito le sue doti e ottenere grandi successi come ciclista ed essere inserita nella squadra “Simpson Lever Chain”. Nel 1895 nel velodromo di Tournai s’aggiudica il record dell’ora; divenuta ciclista professionista, nel 1897 partecipa al campionato di velocità a Ostenda con ottimi risultati, tanto che le giornaliste coniano per lei il titolo di “la flèche humaine” (la freccia umana). Nel 1898, in seguito ad allenamenti pesanti e duri, Hélène vince due gare di grande prestigio internazionale: il “Grand Prix d’Europe” e la “Dodici giorni di Londra”; è determinata e va avanti nonostante i pregiudizi dell’epoca che non vedevano di buon occhio una ragazza che praticasse uno sport “da maschio”

La sua fama di ciclista indomita si diffonde velocemente in tutta Europa ed anche oltreoceano, tanto che per i suoi successi il re Leopoldo I la premia con la Croce di Sant’Andrea con diamanti. Tra le molteplici attività di quel periodo diviene testimonial della ditta Simpson per pubblicizzare l’innovativa “catena a leve per biciclette”. Oltre le doti sportive, Hélène ha anche il dono dello spettacolo, così tra una competizione e l’altra si esibisce nel Circo Excelsior-Dutrieu, che suo fratello Eugéne dirige da tempo, e partecipa a importanti manifestazioni popolari, durante le quali entusiasma il pubblico con numeri acrobatici in bicicletta, moto e automobile, dando prova di audacia, inventiva e resistenza fisica eseguendo dei veri looping. Nel 1908 (sono trascorsi pochi anni dal primissimo volo del 1903 ad opera dei fratelli Wright), viene proposto a Hélène di pilotare uno di questi trabiccoli: il Damoiselle, un monoplano molto leggero, mentre nel mondo solo una ventina di uomini audaci avevano sperimentato il volo. La ragazza è coraggiosa e sui campi di Issy-les-Moulineax prova a volare ma il velivolo si schianta senza neanche sollevarsi da terra. Non si arrende Hélène e due anni dopo, nelle Ardenne francesi, con un aereo piu performante ottiene il suo riscatto come aviatrice. È il 9 aprile 1910: a bordo di un grosso biplano Sommer con motore belga da 40 cv. riesce a rimanere in volo per 20 minuti e qualche giorno dopo ripete l’impresa portando a bordo un passeggero. Hélène è la prima donna a compiere queste imprese.

Tornata in Belgio, sicura delle sue capacità, il 3 settembre 1910 ottiene un altro primato che la fa entrare nella leggenda dell’aviazione. Partecipa alla Festa aerea di Blankenberge e, senza un piano di volo preordinato, decolla dalla spiaggia puntando su Ostenda, quindi verso Bruges e rientra Blankenberge: è il primo volo triangolare senza scalo. Compie numerose imprese aeree in Belgio e nei Paesi Bassi: vola, prima donna al mondo, per più di un’ora; vince la prima “Coupe Fémina” (premio voluto nel 1910 da Pierre Lafitte, direttore della rivista Fémina) con un volo senza scalo di 167 km in due ore e mezzo. Il suo impegno e questi straordinari risultati le permettono di ottenere, prima donna in Belgio e quarta al mondo, il brevetto di pilota. Nel 1910 e nel 1911 vola fino negli Stati Uniti per mostrare agli americani le novità tecniche raggiunte dall’aereonautica europea e partecipa con successo a molte manifestazioni e gare locali. Cosciente che la cultura maschilista e retrograda vorrebbe incardinare la donna solo nei ruoli di madre e moglie, sfida i tempi e con passione e coraggio continua la sua carriera. Nel 1911 a Firenze vince la prestigiosa “Coppa del Re”, gara di velocità e resistenza, battendo 13 piloti esperti e, per la seconda volta, la “Coupe Fémina” con un volo di 254 km in due ore.

Nel 1912 inizano gli esperimenti di decollo dei primi “idro-aeroplani” e Hélène, a luglio, è chiamata ad essere la prima donna al mondo a pilotarne uno. Ad agosto sarà ancora vincitrice in Italia sul lago di Como con un idrovolante biplano Farman con motore Gnome da 50 cv, battendo piloti con idrovolanti ben più potenti del suo. Arrivano altri prestigiosi riconoscimenti: la Francia le conferisce la Croce di Cavaliere della Legion d’Onore e il Belgio la rende Ufficiale dell’Ordine di Leopoldo. Allo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914 le donne non sono più autorizzate a pilotare velivoli, così anche Hélène mette fine alla sua breve ma eccezionale carriera di aviatrice. Non rimane tuttavia inoperosa, rispolvera le sue competenze da pilota di auto e si arruola nella Croce Rossa per il servizio ambulanze, di cui diverrà in breve tempo organizzatrice e direttrice presso l’ospedale di Messemi. La fama di Hélène è tale che il generale Gallieni, nel 1915, la convoca per un ciclo di conferenze patriottiche negli Stati Uniti d’America, per esortarne l’entrata in guerra a sostegno degli alleati europei. Rientrata in Francia, fino alla fine della guerra dirige l’ospedale militare di Val de Grace. Il dopoguerra le porta la nuova attività di giornalista e un marito. Sposa nel 1922 il giornalista e deputato francese Pierre Montier per il quale si occuperà dell’organizzazione e amministrazione delle sue pubblicazioni. Nel 1946, terminato il secondo conflitto mondiale, alla morte del consorte ritorna alla sua antica passione per l’aviazione e per la valorizzazione del volo al femminile istituisce la “Coppa Hélène Dutrieu”, un premio di 200.000 franchi francesi per l’aviatrice che ogni anno è in grado di compiere in solitaria il volo senza scalo più lungo. Muore a Parigi il 26 giugno 1961 ad 83 anni avendo dato testimonianza al mondo di allora e ai posteri di grande coraggio, passione e tenacia.

 

Traduzione francese
Piera Negri

Hélène Dutrieu, première aviatrice belge, pionnière de l'aviation féminine, membre d'honneur à titre posthume de la Royal Aviation Society. (A. Demoulin et R. Feullien)

Hélène est née à Tournai en Belgique le 10 juillet 1877 et a grandi dans une famille tout sauf riche : fille d'un officier de l'armée belge, à 14 ans, elle est contrainte d'abandonner ses études car son père perd son emploi ; elle comprend qu’elle doit s’occuper, mais en tant que si jeune, elle n'a pas un vrai travail. Cependant, elle révèle du talent pour pédaler à vélo et ainsi, sur le sillage de son frère Eugène, de cinq ans plus jeun et déjà cycliste bien connu, elle se met à pratiquer le cyclisme, avec ténacité et sacrifice, et à s'engager dans des courses qui, très timidement, s'ouvrent aux femmes. Avec un corps mince, Hélène est forte d'esprit, têtue et enthousiaste, à tel point qu'elle démontre immédiatement ses compétences et obtient un grand succès comme cycliste et sera incluse dans l'équipe "Simpson Lever Chain".En 1895, elle remporte le record de l'heure au vélodrome de Tournai ; après être devenue cycliste professionnelle, elle participe en 1897 au championnat de vitesse à Ostende avec d'excellents résultats, à tel point que les journalistes forgent pour elle le titre de « la flèche humaine ». En 1898, à la suite d'un entraînement intensif et intensif, Hélène remporte deux courses de grand prestige international : le « Grand Prix d'Europe » et les « Douze jours de Londres » ; elle est déterminée et continue malgré les préjugés de l'époque qui ne considéraient pas d'un bon œil une fille qui pratiquait un sport « masculin».

Sa réputation de cycliste indomptable s'est rapidement répandue dans toute l'Europe et même outre-mer, à tel point que pour ses succès, le roi Léopold Ier la récompense de la Croix de Saint-André avec diamants. Parmi les nombreuses activités de cette période, elle devient témoin de la société Simpson pour faire la publicité de l'innovante "chaîne à levier de vélo". Au-delà des qualités sportives, Hélène a aussi le don du spectacle, et donc d'une compétition à l'autre elle se produit dans le Cirque Excelsior-Dutrieu, que son frère Eugène dirige depuis quelque temps, et participe à d'importantes manifestations populaires, au cours desquelles elle enthousiasme le public avec des numéros acrobatiques sur vélos, motos et voitures, faisant preuve d'audace, d'inventivité et d'endurance physique en effectuant de vraies looping. En 1908 (quelques années après le tout premier vol de 1903 des frères Wright), Hélène se voit proposer de piloter un de ces coucous : le Damoiselle, un monoplan très léger, alors que dans le monde seulement une vingtaine d'hommes audacieux avaient expérimenté le vol. La fille est courageuse et sur les champs d'Issy-les-Moulineax elle essaie de voler mais l'avion s'écrase sans même décoller du sol. Hélène n'abandonne pas et deux ans plus tard, dans les Ardennes françaises, avec un avion plus performant elle obtient sa rédemption en tant qu'aviatrice. C’est le 9 avril 1910 : à bord d'un gros biplan Sommer avec un moteur belge de 40 cv. elle parvient à rester en vol pendant 20 minutes et, quelques jours plus tard, elle répète l'exploit en embarquant un passager. Hélène est la première femme à réaliser ces prouesses.

De retour en Belgique, sûre de ses capacités, elle obtient le 3 septembre 1910 un nouveau record qui la fait entrer dans la légende de l'aviation. Elle prende part au Blankenberge Air Festival et, sans plan de vol préparé, elle décolle de la plage en direction d'Ostende, puis de Bruges et de retour à Blankenberge : c'est le premier vol triangulaire sans escale. Elle réalise de nombreuses prouesses aériennes en Belgique et aux Pays-Bas : elle vole, la première femme au monde, pendant plus d'une heure ; remporte la première « Coupe Fémina » (prix voulu en 1910 par Pierre Lafitte, rédacteur en chef de la revue Fémina) avec un vol sans escale de 167 km en deux heures et demie. Son engagement et ces résultats extraordinaires lui permettent d'obtenir le brevet de pilote, la première femme en Belgique et la quatrième au monde. En 1910 et 1911, elle s'envole jusqu’aux États-Unis pour montrer aux Américains les innovations techniques réalisées par l’aéronautique européenne et participe avec succès à de nombreux événements et compétitions locaux. Consciente que la culture macho et rétrograde ne voudrait incardiner les femmes que dans des rôles de mère et d'épouse, elle défie les temps et poursuit sa carrière avec passion et courage. En 1911 à Florence, elle remporte la prestigieuse « Coupe du Roi », course de vitesse et d'endurance, battant 13 pilotes experts et, pour la deuxième fois, la « Coupe Fémina » avec un vol de 254 km en deux heures.

En 1912 débutent les expériences de décollage des premiers « hydro-avions » et Hélène, en juillet, est appelée à être la première femme au monde à en piloter un. En août, elle sera à nouveau la gagnante en Italie sur le lac de Côme avec un hydravion biplan Farman avec un moteur Gnome de 50 ch, battant les pilotes avec des hydravions bien plus puissants. D'autres récompenses prestigieuses arrivent : la France lui décerne la Croix de Chevalier de la Légion d'Honneur et la Belgique la fait Officier de l'Ordre de Léopold. Lorsque la Première Guerre mondiale éclate en 1914, les femmes n'ayant plus le droit de piloter des avions, Hélène met également fin à sa courte mais exceptionnelle carrière d'aviatrice. Pour autant, elle ne reste pas inactive, elle rafraichie ses compétences de conductrice automobile et s'engage dans la Croix-Rouge pour le service d'ambulance, dont elle deviendra bientôt l'organisatrice et la directrice de l'hôpital de Messemi. La réputation d'Hélène est telle qu'en 1915 le général Gallieni la convoque pour un cycle de conférences patriotiques aux États-Unis d'Amérique, pour l'engager à entrer en guerre en soutien à ses alliés européens. De retour en France, elle dirige l'hôpital militaire du Val de Grâce jusqu'à la fin de la guerre. L'après-guerre lui apporte la nouvelle activité de journaliste et d'époux. En 1922, elle épouse le journaliste et député français Pierre Montier pour lequel elle s'occupera de l'organisation et de l'administration de ses publications. En 1946, à la fin de la Seconde Guerre mondiale, à la mort de son époux, elle revient à sa passion ancestrale pour l'aviation et pour la valorisation du vol féminin, elle crée la "Coupe Hélène Dutrieu", un prix de 200 000 francs français pour l’aviatrice que chaque année est capable de faire le plus long vol sans escale en solo. Elle décède à Paris le 26 juin 1961 à l'âge de 83 ans après avoir témoigné au monde de cette époque et de la postérité un grand courage, passion et ténacité.

 

Traduzione inglese
Piera Negri

Hélène Dutrieu, the first Belgian aviator, pioneer of female aviation, posthumous honor member of the Royal Aviation Society. (A. Demoulin and R. Feullien)

Hélène was born in Tournai in Belgium on 10 July 1877 and grew up in a family that was far from rich: daughter of a Belgian army officer, when she turns 14 she is forced to leave her studies after her father lost his job; she understands that she has to get busy, but she is so young and she has no real profession. However, she has a talent for cycling and so, in the wake of her brother Eugéne, who is five years younger and already a well-known cyclist, she begins to practice cycling, with tenacity and sacrifice, and to engage in races that, very timidly, are taking place opening up to women. With a slim body, Hélène is strong in spirit, stubborn and enthusiastic, so much so that she immediately demonstrates her skills and achieves great success as a cyclist and she is then included in the "Simpson Lever Chain" team. In 1895 she won the hour record in the Tournai velodrome; became a professional cyclist, in 1897 she took part in the speed championship in Ostend with excellent results, so that the journalists coined for her the title of “la flèche humaine” (the human arrow). In 1898, following heavy and hard training, Hélène won two races of great international prestige: the "Grand Prix d’Europe" and the" Twelve days of London"; she is determined and goes on despite the prejudices of the time that did not like a girl playing a "male" sport.

Her fame as indomitable cyclist spread quickly throughout Europe and even overseas, so much so that for her successes, King Leopold I reward her with the St. Andrew's Cross with diamonds. Among the many activities of that period, she becomes the testimonial of the Simpson company advertising the innovative "bicycle lever chain". In addition to sporting skills, Hélène also has the gift of entertainment, so between one competition and another she performs in the Circus Excelsior-Dutrieu, that her brother Eugéne has directed for some time, and participates in important popular events, during which she enthuses the public. with acrobatic numbers on bicycles, motorcycles and cars, proving audacity, inventiveness and physical endurance by performing real loops. In 1908 (a few years have passed since the very first flight of 1903 by the Wright brothers), Hélène was proposed to fly one of these rickety vehicles: the Damoiselle, a very light monoplane, while in the world only about twenty daring men had experienced the flight The girl is brave and on the fields of Issy-les-Moulineax she tries to fly but the aircraft crashes without even lifting off the ground. She does not give up and two years later, in the French Ardennes, with a more performing plane she gets her redemption as an aviator. It is April 9, 1910: aboard a large Sommer biplane with a 40 hp Belgian engine. she manages to remain in the air for 20 minutes and a few days later she repeats the feat bringing a passenger on board. Hélène is the first woman to perform these feats.

Returned to Belgium, sure of her abilities, on September 3, 1910, she reaches another record that makes her enter the legend of aviation. She takes part in the Blankenberge Air Festival and, without a pre-ordered flight plan, takes off from the beach heading for Ostend, then towards Bruges and back in Blankenberge: it is the first non-stop triangular flight. She carries out several aerial feats in Belgium and the Netherlands: she flies, the first woman in the world, for more than an hour; she wins the first “Coupe Fémina” (prize wanted in 1910 by Pierre Lafitte, editor of the magazine Fémina) with a 167 km non-stop flight in two and a half hours. Her commitment and these extraordinary results allow her to obtain the pilot's license, the first woman in Belgium and fourth in the world. In 1910 and 1911 she flew to the United States to show the Americans the technical innovations achieved by the European air force and she successfully participated in many local events and competitions. Aware that the male chauvinist and retrograde culture would like to fix women only in the roles of mother and wife, she defies the times and with passion and courage she continues her career. In 1911 in Florence, she wins the prestigious “King's Cup”, a speed and endurance race, beating 13 expert pilots and, for the second time, the “Coupe Fémina” with a flight of 254 km in two hours.

In 1912 the take-off experiments of the first “hydro-airplanes” begins and Hélène, in July, is called to be the first woman in the world to fly one. In August she will again be the winner in Italy on Como Lake with a Farman biplane seaplane with a 50 hp Gnome engine, beating pilots with far more powerful seaplanes. Other prestigious awards arrive: France awarded her the Knight's Cross of the Legion of Honor and Belgium made her an Officer of the Order of Leopold. When the First World War broke out in 1914, women were no longer allowed to fly airplanes, so Hélène also ended her short but exceptional career as an aviator. However, she does not remain idle, she brushes up on her skills as a car driver and enlisted in the Red Cross for the ambulance service, of which she soon became the organizer and director at the Messemi hospital. The fame of Hélène is such that in 1915 General Gallieni called her for a cycle of patriotic conferences in the United States of America, to urge her to enter the war in support of the European allies. Back to France, she runs the military hospital of Val de Grace until the end of the war. The post-war period brings her the new activity of journalist and a husband. She marries in 1922 the French journalist and deputy Pierre Montier for whom she will take care of the organization and administration of his publications. In 1946, at the end of the Second World War, after the death of her husband she returns to her old passion for aviation and for the enhancement of female flight, she established the "Hélène Dutrieu Cup", a prize of 200,000 French francs for the women aviator that each year is able to fly solo the longest non-stop flight. She dies in Paris on June 26, 1961 at the age of 83 having given witness to the world of that time and to posterity of great courage, passion and tenacity.

Ida Laura Pfeiffer />

Ester Rizzo, Barbara Appiano


Giulia Capponi

Ida Laura Reyer, è un’austriaca e di famiglia benestante, nata a Vienna il 4 ottobre 1797: è la quinta di sei fratelli, tutti maschi, figli di un agiato mercante di tessuti che muore prematuramente quando lei ha appena nove anni. Sin da piccola non segue il modello dell’eterno femminino e veste come i fratelli, forgiata anche dalla rigida educazione del padre Alois, improntata a coraggio, determinazione, sobrietà… È un’accanita lettrice di libri di viaggi e di avventura e tutto ciò che le permette di evadere dal “quotidiano” l’attira irrefrenabilmente. Gli amici di famiglia raccontano che amava correre fuori casa per veder passare, con lo sguardo sognante, le diligenze che lasciavano la città. Si innamora del suo giovane precettore, che le trasmette la passione per la geografia, ma la madre si oppone al loro amore e, costretta dalle difficoltà economiche in cui versa la famiglia, a ventidue anni accetta di sposare l’avvocato Max Anton Pfeiffer, molto più anziano di lei: è un matrimonio triste e senza amore, vissuto in ristrettezze economiche per il fallimento del marito e con il cuore gonfio di malinconia. Non resta con le mani in mano e per tirare avanti dà lezioni di piano e fa la segretaria. Scrive di quegli anni: «Solo il cielo sa cosa ho sofferto. Vi sono stati giorni in cui vi era solo pane secco per la cena dei miei figli». Vede il mare per la prima volta nel 1836, quando si reca a Trieste con un figlio, e in quel momento scatta la scintilla.

Nel 1842, diventata vedova e con i figli già grandi, all’età di quarantasette anni guarda oltre lo steccato della mediocrità e dell’ovvio. Spinta dal desiderio incontrollato della conoscenza e dotata di grandissima immaginazione e coraggio verso la scoperta dell’ignoto, part per 9 mesi e, e da sola: discende il Danubio, si addentra in Turchia e in Libano, visita la Palestina, arriva in Egitto, sosta a Malta e risale l’Italia fino a Trieste. A casa studia le lingue del Nord e poi riparte per altri sei mesi, alla volta di Scandinavia e Islanda. Diviene navigatrice, esploratrice a bordo di mezzi di fortuna, gira il mondo portando a casa testimonianze di alternative esistenze dove non il denaro o il ceto sociale, ma lo stato di natura e la collocazione dell’umanità al suo interno erano motivo di studio, come forma di miglioramento della propria esperienza da trasmettere agli altri. Sono viaggi spartani, fatti in economia, spesso avvalendosi di passaggi gratuiti: a volte indossa abiti maschili per potersi mescolare alle gente e osservare più liberamente il comportamento delle popolazioni incontrate nel suo peregrinare tra i continenti. Percorrerà 140.000 miglia marine e 20.000 miglia inglesi via terra. Il suo primo viaggio intorno al mondo dura due anni e sette mesi.

Si imbarca da Amburgo per raggiungere il Brasile e poi il Cile. Da qui poi attraversa l’Oceano Pacifico approdando a Tahiti fino ad arrivare all’isola di Ceylon. Risale attraverso l’India fino al Mar Nero e alla Grecia sbarcando a Trieste e ritornando a Vienna. Mentre si trova in Oriente scrive sul suo diario: «In quella mischia ero davvero sola e confidavo solo in Dio e nelle mie forze. Nessuna anima gentile mi si avvicinò». Il secondo giro del mondo va in senso opposto, da Ovest verso Est, e dura quattro anni: da Londra giunge a Città del Capo per poi esplorare il Borneo e avere contatti ravvicinati con i “tagliatori di teste” del Dayak, attraversa l’Oceano Pacifico in senso inverso, arriva in California e inizia a percorrere tutti gli Stati americani. È la prima donna bianca che nel 1852 si reca nella giungla di Sumatra 1852) abitata dai batak, ritenuti cannibali. In quell'occasione riesce a salvarsi dicendo ai cannibali: «La mia testa è troppo vecchia e dura per essere mangiata», e il saggio capo tribù inizia a ridere e la lascia libera. Non si risparmia nulla in fatto di pericoli, in un mondo non ancora sotto la lente d’ingrandimento di un satellite. E poi il Madagascar, Réunion e Mauritius, con la malaria che la tiene sotto assedio e la porterà a quell’ultimo viaggio da cui non c’è ritorno. Dei suoi viaggi scrive appunti a matita, con una calligrafia piccola e minuta, raccontando i suoi sette viaggi in tredici volumi di diari che diventano bestseller e vengono tradotti in sette lingue. Finalmente, viene ammessa a far parte delle Società geografiche di Berlino e Parigi, ma non di quella inglese, ostinatamente negata alle donne. I musei di Vienna custodiscono, ancora oggi, piante, insetti e farfalle che lei raccoglie ovunque e porta in patria. In una bellissima e significativa foto del 1856 Ida è seduta su un divano con un vestito dell’epoca, con il capo coperto da una cuffietta bianca di pizzo, il braccio destro su un grosso libro, accanto a lei un enorme mappamondo, i suoi occhi non guardano l’obiettivo ma altrove, lontano lontano. Muore il 27 ottobre 1858. Il cimitero centrale di Vienna ne conserva le spoglie. Nel 2018 l’Università della stessa Vienna le intitola una cattedra con borsa di studio, ma nelle vie della sua città natale manca ancora il suo nome. È Monaco di Baviera a dedicarle la sua prima strada.

La sua tomba al Cimitero centrale di Vienna

 

Traduzione francese
Giuliana Gaudenzi

Ida Laura Reyer, autrichienne et issue d’une famille aisée, est née à Vienne le 4 octobre 1797 : elle est la cinquième de six frères, tous des garçons, fils d’un riche marchand de tissus qui meurt prématurément quand elle a neuf ans à peine. Depuis toute petite elle ne suit pas le modèle de la femme traditionnelle et s’habille comme ses frères, d’après la rigide éducation de son père Alois, empreinte de courage, détermination, sobriété… Elle est une farouche lectrice de livres de voyages et d’aventure et tout ce qui lui permet de s’évader du « quotidien » l’attire énormément. Les amis de la famille racontent qu’elle aimait courir hors de la maison pour voir passer, avec un regard rêveur, les diligences qui quittaient la ville. Elle tombe amoureuse de son jeune précepteur, qui lui transmet la passion pour la géographie, mais sa mère s’oppose à leur amour et, contrainte par les difficultés financières dans lesquelles se trouve sa famille, à vingt-deux ans elle accepte d’épouser l’avocat Max Anton Pfeiffer, beaucoup plus âgé qu’elle : c’est un mariage triste et sans amour, vécu dans des contraintes économiques suite à la faillite de son mari et avec le cœur plein de mélancolie. Elle ne reste pas à rien faire et pour survivre elle donne des leçons de piano et travaille comme secrétaire. A propos de ces années-là elle écrit : « Seulement le ciel sait ce que j’ai souffert. Il y a eu des jours où il y avait seulement du pain sec pour le dîner de mes enfants ».Elle voit la mer pour la première fois en 1836, quand elle se rend à Trieste avec un de ses fils et à ce moment-là il y a eu le déclic.

En 1842, veuve et avec des enfants déjà adultes, à l’âge de quarante sept ans elle regarde au-delà des clôtures de la médiocrité et de la banalité. Poussée par le désir incontrôlable de la connaissance et douée d’une imagination fertile et de courage face à la découverte de l’inconnu, elle part seule pendant six mois : elle descend le Danube, s’aventure en Turquie et au Liban, visite la Palestine, arrive en Egypte, s’arrête à Malte et remonte l’Italie jusqu’à Trieste. Chez soi elle étudie les langues du Nord et puis elle repart pendant encore six mois, en direction de la Scandinavie et de l’Islande. Elle devient navigatrice , exploratrice à bord de moyens de fortune, elle parcourt le monde en ramenant à la maison des témoignages d’existences alternatives où ni l’argent ni le statut social, mais l’état de la nature et la place de l’humanité à l’intérieur étaient sujet d’étude, en tant que forme d’amélioration de sa propre expérience à transmettre aux autres. Ce sont des voyages spartiates, accomplis simplement, souvent en bénéficiant de passages gratuites : parfois elle revêt des habits masculins pour se mêler aux gens et observer plus librement le comportement des populations rencontrées lors de son pèlerinage à travers les continents. Elle parcourra 140.000 milles marins et 20.000 milles anglais par voie terrestre.

Son premier voyage autour du monde dure deux ans et sept mois. Elle embarque à Hambourg pour arriver au Brésil et puis au Chili. D’ici, elle traverse l’Océan Pacifique en arrivant à Tahiti et puis jusqu’à l’île de Ceylon. Elle remonte à travers l’Inde jusqu’à la Mer Noire et à la Grèce en débarquant à Trieste et en retournant à Vienne. Lors de son séjour en Orient elle écrit sur son journal : « Dans cette mêlée j’étais vraiment seule et je confiais seulement en Dieu et en mes forces. Aucune bonne âme ne s’est approchée de moi ». Son deuxième tour du monde est en sens inverse, de l’Ouest à l’Est et dure quatre ans : de Londres elle arrive à Cape Town et puis elle explore le Bornéo et a des contacts rapprochés avec les « coupeurs de têtes » du Dayak, traverse l’Océan Pacifique en sens inverse, arrive en Californie et commence à parcourir tous les Etats américains. Elle est la première femme blanche qui en 1852 se rend dans la jungle de Sumatra, habitée par les batak, réputés cannibales. A cette occasion elle réussit à survivre en disant aux cannibales : « Ma tête est trop vieille et dure pour être mangée » et le sage chef de tribu commence à rire et la laisse libre. Elle ne recule pas face aux dangers, dans un monde qui n’est pas encore sous la loupe d’un satellite. Et puis le Madagascar, la Réunion et Ile Maurice, avec le paludisme qui la hante et qui l’amènera à son dernier voyage sans retour. Elle prend des notes au crayon de ses voyages, avec une écriture menue, en racontant ses sept voyages en treize volumes de journal qui deviennent des bestsellers et qui sont traduits en sept langues. Elle est, enfin, admise à faire part des Sociétés géographiques de Berlin et de Paris, mais pas de l’anglaise, obstinément fermée aux femmes. Les musées de Vienne conservent, aujourd’hui encore, des plantes, des insectes et des papillons qu’elle collecte partout et ramène dans son pays. Dans une très belle photo de 1856 Ida est assise sur un sofa avec une robe de l’époque, un bonnet en dentelle blanche sur la tête, le bras droit sur un gros livre, à côté d’elle un grand globe, ses yeux ne regardent pas l’objectif mais ailleurs, très loin. Elle meurt le 27 octobre 1858. Sa tombe se trouve dans le cimetière central de Vienne. E 2018 l’Université de Vienne a donné son nom à une chaire avec bourse, mais dans les rues de sa ville natale son nom n’est pas présent. C’est Munich de Bavière qui lui dédie sa première rue.

La sua tomba al Cimitero centrale di Vienna

 

Traduzione inglese
Syd Stapleton

Ida Laura Reyer, was an Austrian from a prosperous family, born in Vienna on 4 October 1797. She was the fifth of six children, all the others males. Her father was a wealthy textile merchant who died prematurely when she was just nine years old. From an early age she didn’t follow the eternal feminine model and dressed like her brothers. She was also forged by the strict education of her father Alois, and noted for her courage, determination, and sobriety. She became an avid reader of travel and adventure books, and was deeply attracted by anything that allowed her to escape from “everyday”, “normal”, life. Friends of the family say that she loved running out of the house to watch, with a dreamy stare, stagecoaches leaving the city. She fell in love with her young tutor, who transmitted to her his passion for geography. But her mother rejected their love and, forced by the economic difficulties in which the family found itself, at twenty-two she agreed to marry the lawyer Max Anton Pfeiffer, very much older than her. It was a sad and loveless marriage, lived in financial straits due to the failures of her husband. Her heart was full of sadness. She didn't sit idle, but gave piano lessons and worked as a secretary to try to get by financially. She wrote of those years, “Only heaven knows what I suffered. There were days when there was only dry bread for my children's supper.” She saw the sea for the first time in 1836, when she went to Trieste with a son, and in that moment a spark exploded in her soul.

In 1842, at 47 years old, having become a widow and with her children already grown, she began look beyond the bounds of mediocrity and the obvious. Driven by an uncontrollable desire for knowledge of the unknown, and endowed with great imagination and courage, she left, alone, for a nine-month trip, down the Danube and on to Turkey, Lebanon, Palestine, and Egypt, with stops in Malta and Italy on the way back up to Trieste. When she returned home, she studied the languages ​​of the North and then left for another six months, to Scandinavia and Iceland. She became a navigator, and an explorer aboard makeshift vehicles. She traveled the world, bringing home the experience of alternative existences where what mattered was not money or social class, but the state of nature and the place of humanity within it. These were the objects of her studies, and she wanted to pass her experiences on to others. They were spartan journeys, made on a budget, often making use of free passes. She sometimes wore men's clothes to be able to mingle with people and observe more freely the behavior of the populations she met in her wanderings between continents. She traveled some 140,000 nautical miles at sea and another 20,000 miles by land.

Her first trip around the world lasted two years and seven months. She embarked from Hamburg to reach Brazil and then Chile. From there she then crossed the Pacific Ocean, landing in Tahiti, continuing on to the island of Ceylon (now Sri Lanka). She then continued through India, to the Black Sea and Greece, disembarking in Trieste and returning to Vienna. While she was in the East she wrote in her diary, “In that struggle I was really alone and I trusted only in God and in my strength. No kind soul approached me.” Her second world tour went in the opposite direction, from West to East, and lasted four years. From London she first went to Cape Town, then explored Borneo and had close contact with the Dayak "head hunters", crossed the Pacific Ocean to California and began traveling through all the American states. In 1852, she was the first white woman to explore the jungles of Sumatra, inhabited by the Bataks, considered cannibals. On that occasion she reportedly managed to save herself by telling the cannibals, "My head is too old and tough to eat." A wise chieftain laughed with her and set her free. She spared herself nothing in terms of dangers, in a world not yet under the magnifying glass of a satellite. She then spent time in Madagascar, Reunion and Mauritius, acquiring the malaria that kept her under siege, and finally led her to that last journey from which there is no return. She wrote the notes about her voyages in pencil, in a minute handwriting, recounting her seven journeys in thirteen volumes of diaries that became bestsellers and were translated into seven languages. Finally, she was invited to join the Geographical Societies of Berlin and Paris, but not the English one, which was still stubbornly closed to women. The museums of Vienna still keep plants, insects and butterflies that she collected everywhere and carried home. In a beautiful and significant 1856 photo, Ida is sitting on a sofa in a period dress, with her head covered by a white lace cap, her right arm on a big book, with, next to her, a huge globe. Her eyes do not look at the camera lens but elsewhere, far away. She died on October 27, 1858. Her remains are in central cemetery of Vienna. In 2018 the University of Vienna named a teaching chair for her, and a scholarship, but her name is still missing from the streets of her hometown. It was Munich that dedicated a street to her.

La sua tomba al Cimitero centrale di Vienna

 

Margaret Ann Bulkley

Kay McCarthy


Giulia Capponi

La dissenteria dilagava a Londra durante la calura estiva del 1865. Il dottor James Barry sapeva di star morendo di quella malattia orribile e umiliante. Nella sua casa di Margaret Street osservò evolversi il morbo che conosceva benissimo e, all'età di 71 anni, ucciderlo mentre il suo corpo scaricava il nauseabondo efflusso acquoso, prosciugandolo di forza e di vita. La carriera del dottor James Barry era stata particolarmente illustre. Quel minuscolo chirurgo dell'esercito, ufficiale e gentiluomo, dal viso liscio e dai modi burberi, era stato l'ispettore generale degli ospedali. La sua voce insolitamente acuta aveva rimproverato superiori e sottoposti; si dice che in un'occasione abbia discusso perfino con la grande Florence Nightingale.

 

La sua morte fu certificata dal medico personale, il maggiore D. R. McKinnon, il quale registrò il decesso senza esaminare il cadavere. La vera identità del dottor James Barry fu rivelata da una giovane irlandese, Sophia Bishop, chiamata a preparare il corpo per la sepoltura. Nonostante l'odore nauseabondo, Sophia svolse il lavoro per cui la pagavano: doveva lavare e vestire il corpo del dottore. In vita il vecchio era stato un uomo magro dalle spalle strette, di statura bassa. Con l'età era diventato ricurvo. Nella morte le sue guance smunte e i capelli tinti di rosso appiccicati sulla fronte lo facevano sembrare scarno, i suoi lineamenti ancora più aguzzi. Quando la donna rimosse le lenzuola e tolse la camicia a quel corpo emaciato rimase di stucco. Il cadavere era sicuramente quello del vecchio signore che conosceva. Lo avrebbe riconosciuto ovunque. Eppure questo corpo non era di un maschio ma, senza alcun dubbio, di una donna: dai genitali femminili, dai seni cascanti e dal viso glabro. E non era tutto. Quelle striature sull’addome erano tipiche di una donna che aveva partorito da adolescente. Tutti sapevano che il dottor Barry era stato un militare dalla carriera lunga e illustre. Come aveva fatto una donna a fare il chirurgo (la chirurga?) nell'esercito senza essere mai scoperta? Sophia rimase attonita. Lì per lì non disse nulla, ma un paio di settimane dopo che il dottor Barry giaceva nella tomba parlò alle autorità di quanto aveva visto. La storia fece il giro dell’Impero Britannico arrivando alle orecchie di persone che avevano conosciuto il dottor James Barry fin dagli anni della giovinezza. Quasi tutte ammisero che fosse stato un tipo strano, anche se nessuno sapeva spiegare come una donna avesse potuto mettere a segno un inganno così audace. “Il dottor Barry” era nata a Cork, in Irlanda, intorno al 1789, in un'epoca in cui le donne ricevano poca istruzione, per non parlare della pratica della professione medica. Il suo nome era Margaret Ann Bulkleym, secondogenita di Jeremiah e Mary-Ann Bulkely, una famiglia di commercianti abbastanza agiata. Durante l’adolescenza sembra che Margaret fosse stata violentata da un parente e che abbia dato alla luce una bambina, Juliana, cresciuta da sua madre Mary-Ann come figlia propria. Quando la famiglia conobbe un grave dissesto economico, la giovane Margaret si trasferì a Londra, dove la madre aveva un fratello, James Barry, membro della Royal Academy e pittore. Le due donne frequentavano gli amici di Barry, tra i quali il generale Francisco de Miranda, patriota venezuelano in esilio, e David Stewart Erskine, conte di Buchan. I due uomini rimasero colpiti dalle capacità intellettive della ragazza e ritennero che, con la dovuta istruzione, protesse andare lontano. Forse sono stati loro a tessere la trama che le avrebbe permesso di intraprendere la professione medica. Lo zio James Barry morì nel 1806, lasciando a Mary Ann e Margaret abbastanza soldi per metter su casa a Londra. Tre anni più tardi, Margaret Bulkely scomparve dalla faccia della terra. Nascosto sotto un paltò (indossato sempre e con qualsiasi clima), James Barry lasciò la capitale per Edimburgo, dove si iscrisse alla facoltà di medicina nel 1809. Tolse alcuni anni della sua vera età per giustificare l' aspetto giovanile e fanciullesco. Girava voce che, poiché Barry era basso di statura, aveva una voce acuta, una corporatura minuta, la pelle liscia, fosse in realtà un bambino, troppo giovane per studiare medicina. Barry non tradì il segreto. Quando le/gli fu negato il permesso di sostenere gli esami, intervenne lord Erskine: il futuro medico si laureò in medicina all'età di 22 anni. In seguito si arruolò nell'esercito come assistente chirurgo e ancora una volta si mise in discussione la sua giovane età. Alla fine, però, fu arruolato.



Barry iniziò la carriera militare il 6 luglio 1813, come assistente ospedaliero dell'esercito britannico, e fu presto promosso assistente chirurgo del personale prima di andare a prestare servizio a Città del Capo, in Sudafrica, dove rimase per dieci anni diventando amico del governatore, lord Charles Somerset. Alcuni credono che con ogni probabilità Somerset conoscesse il segreto di Barry. I due furono amici intimi e Barry si trasferì in un appartamento privato presso la residenza di Somerset. Cominciarono a circolare voci sulla natura della loro relazione e il poster di un anonimo li accusò di omosessualità (reato penale all'epoca). Furono istituite commissioni per indagare sulla questione, ma i due furono scagionati. Forse per sembrare più mascolino e sfacciato o forse perché la sua natura era così, Barry apparve focoso, irascibile e incline alla rabbia. I pazienti, i superiori, il personale medico, furono i bersagli dei suoi scatti d’ira. Lanciava bottiglie di medicinali contro le persone e una volta prese parte a un duello, in cui nessuno rimase gravemente ferito. Le capacità mediche di Barry erano senza precedenti. Abile chirurgo, è stato il primo a eseguire con successo un taglio cesareo salvando sia la madre sia il bambino. Si è dedicato con grande determinazione alle riforme sociali e condannava la cattiva gestione degli arresti militari, delle prigioni e dei manicomi. Durante il suo soggiorno decennale in Sudafrica, fece migliorare il sistema idrico di Cape Town. Come medico, trattava ricchi e poveri, coloni e schiavi senza alcuna distinzione. Trasferito alle Mauritius nel 1828, si scontrò con un chirurgo dell'esercito che lo fece arrestare e processare presso la Corte marziale per «condotta inqualificabile da parte di un ufficiale gentiluomo». Anche questa volta fu assolto. Barry andava ovunque fosse necessario prestare servizio e salì ai vertici della carriera militare-sanitaria.


 

Nel 1857 divenne ispettore generale responsabile degli ospedali militari. Forte di questo incarico iniziò una lotta senza quartiere contro le carenze igieniche e pretese un vitto migliore e cure mediche adeguate per carcerati e lebbrosi. Il segreto della sua vera identità fu reso pubblico dopo uno scambio di lettere tra l'Ufficio del registro generale e il medico di Barry, il maggiore D. R. McKinnon. In queste lettere, il maggiore, che aveva sottoscritto il certificato di morte, scrisse: «non sono affari miei» se il dottor James Barry era maschio o femmina, una dichiarazione con cui lo stesso Barry sarebbe stato probabilmente d'accordo. Margaret Ann Bulkely, alias il dottor James Barry, è sepolta nel cimitero di Kensal Green, nel nord-ovest di Londra. Una cosa certa è che fosse molto più avanti dei suoi tempi, come donna, medica e umanitaria.

Fonti:

Du Preez, M, Dronfield, J., Dr James Barry, A woman ahead of her time, Oneworld Publications 10 Bloomsbury Street London WC1B 3SR Rose, June, THE PERFECT GENTLEMAN. The remarkable life of Dr. James Barry, the woman who served as an officer in the British Army from 1813 to 1859, Lume Books, 2018 http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/margaret-ann-bulkley/
https://www.history.com/news/the-extraordinary-secret-life-of-dr-james-barry

 Traduzione francese
Giuliana Gaudenzi

La dysenterie se propageait à Londres pendant la chaleur estivale en 1865. Le docteur James Barry savait qu’il était en train de mourir de cette maladie horrible et humiliante. Dans sa maison en Margaret Street il observait l’évolution de cette maladie qu’il connaissait très bien et qui, à l’âge de 71 ans, le tuait, alors que son corps déversait le nauséabond efflux aqueux, en le vidant de force et de vie. La carrière du docteur James Barry avait été particulièrement illustre. Ce petit chirurgien de l’armée, officier et gentleman, au visage lisse et aux manières bourrues, avait été l’inspecteur général des hôpitaux. Sa voix anormalement aiguë avait réprimandé supérieurs et subordonnés ; on dit que une fois il s’est disputé même avec la grande Florence Nightingale.


 


Sa mort a été certifiée par son médecin personnel, le major D. R. McKinnon, qui a enregistré le décès sans examiner le cadavre. La véritable identité du docteur James Barry a été révélée par une jeune irlandaise, Sophia Bishop, appelée à préparer le corps pour la sépulture. Malgré l’odeur nauséabonde, Sophia a fait le travail pour lequel elle était payée : elle devait laver et habiller le corps du docteur. De son vivant le vieil homme avait été un homme mince avec les épaules étroites, de petite taille. Avec l’âge il s’était voûté. Dans sa mort, ses joues pâles et ses cheveux teints en roux collés sur son front le faisaient paraître maigre, ses traits encore plus pointus. Quand la femme a soulevé les draps et enlevé la chemise à ce corps émacié elle a été sidérée. Le cadavre était sûrement celui du vieux monsieur qu’elle connaissait. Elle l’aurait reconnu n’importe où. Pourtant, ce corps n’était pas celui d’un mâle mais, sans aucun doute, d’une femme : par les organes génitaux féminins, par les seins tombants et par le visage imberbe. Et ce n’était pas tout. Ces striures sur l’abdomen étaient typiques d’une femme qui avait accouché dans l’adolescence. Tout le monde savait que le docteur Barry avait été un militaire avec une carrière longue et illustre. Comment avait pu une femme être chirurgien (chirurgienne ?) dans l’armée sans jamais avoir été découverte ? Sophia a été stupéfaite. Sur le moment elle n’a rien dit, mais deux semaines après l’enterrement du docteur Barry elle a rapporté aux autorités ce qu’elle avait vu. L’histoire a fait le tour de l’Empire Britannique et elle est arrivée jusqu’aux oreilles des personnes qui avaient connu le docteur James Barry depuis sa jeunesse. Presque tous ont admis qu’il avait été un type bizarre, même si personne ne pouvait expliquer comment une femme avait été capable de réussir une si audace tromperie. «Le docteur Barry » était née à Cork, en Irlande, aux alentours de 1789, dans une époque où les femmes ne recevaient pas beaucoup d’éducation, sans parler de la pratique de la profession médicale. Son nom était Margaret Ann Bulkley, seconde fille de Jeremiah et Mary-Ann Bulkley, une famille de commerçants assez aisée. Pendant son adolescence il semble que Margaret ait été violée par un membre de la famille et qu’elle ait accouché d’une petite fille, Juliana, élevée par sa mère Mary-Ann comme sa propre fille. Lorsque la famille a connu des graves difficultés économiques, la jeune Margaret a déménagé à Londres, où sa mère avait un frère, James Barry, membre de la Royal Academy et peintre. Les deux femmes fréquentaient les amis de Barry, parmi lesquels le général Francisco de Miranda, patriote vénézuélien en exile, et David Stewart Erskine, comte de Buchan. Les deux hommes ont été impressionnés par l’intelligence de la jeune fille et ont estimé que, avec un enseignement adéquat, elle pouvait aller bien loin. Ce sont eux, probablement, qui l’ont aidée à devenir médecin. L’oncle James Barry est mort en 1806, en léguant à Mary Ann et à Margaret assez d’argent pour s’installer dans leur propre maison à Londres. Trois ans plus tard, Margaret Bulkley est disparue de la face de la terre. Caché sous un manteau (porté tout le temps et avec n’importe quel climat), James Barry a quitté la capitale pour Edimbourg, où il s’est inscrit à la faculté de médecine en 1809. Il a enlevé quelques années à son vrai âge pour justifier son apparence juvénile. Le mot passait que, puisque Barry était de petite taille, avec une voix aiguë, mince, avec la peau lisse, il était en réalité un enfant, trop jeune pour étudier la médecine. Barry n’a pas trahi son secret. Quand on lui a nié la permission de soutenir les examens, lord Erskine est intervenu : le futur médecin s’est diplômé en médecine à l’âge de 22 ans. Par la suite il s’est engagé dans l’armée comme assistant chirurgien et à nouveau son âge a été remis en question. Mais finalement il a été enrôlé.




Barry a commencé sa carrière militaire le 6 juillet 1813, comme assistant hospitalier de l’armée britannique et il a été bientôt promu assistant chirurgien du personnel avant d’aller prêter service à Cape Town, Afrique du Sud, où il est resté dix années en devenant ami du gouverneur, lord Charles Somerset. Quelques uns croient que très probablement Somerset connaissait le secret de Barry. Les deux ont été amis intimes et Barry a déménagé dans un appartement privé près de la résidence de Somerset. Des rumeurs ont commencé à circuler sur la nature de leur relation et l’affiche d’un anonyme les a accusés d’homosexualité (délit pénal à l’époque). Des commissions ont été créés pour enquêter sur l’affaire, mais tous les deux ont été innocentés. Peut-être pour sembler plus masculin et effronté ou peut-être parce-que telle était sa nature, Barry est apparu fougueux, irascible et enclin à la colère. Ses patients, ses supérieurs, le personnel médical, Florence Nightingale même ont été les cibles de ses crises de colère. Il jetait des bouteilles de médicaments contre les gens et une fois il a participé à un duel, où personne n’a été gravement blessé. Les compétences médicales de Barry étaient sans pareil. Chirurgien expert, il a été le premier à effectuer avec succès une césarienne en sauvant la vie de la mère et du bébé. Il s’est consacré avec grande détermination aux réformes sociales et il a dénoncé la mauvaise gestion des arrêts militaires, des prisons et des asiles. Pendant les dix années de son séjour en Afrique du Sud, il a fait améliorer le système hydrique de Cape Town. En tant que médecin, il traitait riches et pauvres, colons et esclaves, sans faire de distinction. Muté à l’Île Maurice en 1828, il s’est disputé avec un chirurgien de l’armée qui l’a fait arrêter et poursuivre par la Cour martiale pour « comportement inqualifiable de la part d’un officier et gentilhomme ». Cette fois aussi il a été innocenté. Barry allait partout où il était nécessaire de servir et il est arrivé au niveau le plus élevé de la carrière militaire-sanitaire.


 


En 1857 il est devenu inspecteur général responsable des hôpitaux militaires. En raison de cette mission il a commencé une lutte sans merci contre le manque d’hygiène et il a exigé une nourriture meilleure pour les détenus et les lépreux. Le secret de sa vraie identité a été rendu public suite à un échange de lettres entre le Bureau d’enregistrement général et le médecin de Barry, le major D. R. McKinnon. Dans ces lettres le major, qui avait signé le certificat de décès, a écrit : « ce ne sont pas mes affaires » si le docteur James Barry était un mâle ou une femme, déclaration avec laquelle Barry même aurait probablement été d’accord. Margaret Ann Bulkley, alias docteur James Barry, est inhumée dans le cimetière de Kensal Green, à nord-ouest de Londres. Ce qui est certain est qu’elle en était beaucoup plus loin que son époque, comme femme, médecin et personne de sentiments humanitaires.

Sources

Du Preez, M, Dronfield, J., Dr James Barry, A woman ahead of her time, Oneword Publications 10 Bloomsbury Street London WC1B 3SR Rose, June, THE PERFECT GENTLEMAN. The remarkable life of Dr. James Barry, the woman who served as an officier in the British Army from 1813 to 1859, Lume Books, 2018 http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/margaret-ann-bulkley/
https://www.history.com/news/the-extraordinary-secret-life-of-dr-james-barry

 Traduzione inglese
Kay McCarthy

Dysentery was rife in London during the summer heatwave of 1865. Dr James Barry knew he was dying of that ugly, demeaning disease. In his house in Margaret Street he watched the pathology he knew well as it evolved and, at the age of 71, would soon kill him as body discharged its nauseous watery efflux, sapping him of his strength and life. Dr James Barry’s career had been particularly striking. This minute, smooth-faced, gruff army surgeon, an officer and a gentleman, had been Inspector General of Hospitals. His unusually high-pitched voice had reprimanded those who worked with him and it is said he even gave Florence Nightingale a telling off on one occasion.


 


When he died the fact was registered by his personal physician , Major D. R. McKinnon, who simply registered his decease without examining the corpse. The true identity of Dr James Barry was revealed by a young Irishwoman, Sophia Bishop, called in to prepare this body for burial. Despite the stomach-wrenching smell, Sophia performed the job for which she was paid: to wash and lay out the doctor’s body. In life the old man had been a slender, narrow-shouldered and short. With age he had grown stooped. In death his sunken cheeks and the dyed red hair stuck to his forehead made him look gaunt, his features pointed. As the woman rolled back the sheets and removed the nightshirt from the emaciated body she gasped. The corpse was undoubtedly that of the old gentleman. She knew him and would have recognised him anywhere. Yet this was not the body of a man. It was unquestionably that of a female: the genitals, sagging breasts and the hairless face. This was not all. Those distinctive striations on the skin of the abdomen were typical of a woman who had given birth in early adolescence. Everyone knew that Dr Barry had been an Army man with a long, illustrious career. How could a woman have got away with being a surgeon in the Army without ever being discovered? Sophia was so bewildered. She said nothing at first, but a couple of weeks after Dr Barry was cold in his grave, she finally spoke to the authorities of what she had seen. The story flew quickly around the British Empire reaching the ears of people who had known Doctor James Barry throughout his career and during his youth. Almost everyone admitted he had been a trange fellow though nobody knew how to explain how a woman had perpetrated such an audacious deception. Dr. Barry had actually been born in Cork, Ireland, around 1789. Born at a time when women were denied a formal education, let alone allowed to practice medicine, her name was Margaret Ann Bulkley. She was the second child of Jeremiah and Mary-Ann Bulkely, a fairly well-to-do family of merchants. While a teenager, Margaret seems to have been was raped by a relative and to had given birth to a baby, Juliana, who was raised by her mother Mary-Ann as her youngest child. When the family fell on hard times, Margaret (in her late teens) moved to London, where her mother had a brother, James Barry, a Royal Academician and painter. The two women frequented Barry’s friends, including the General Francisco de Miranda a Venezuelan patriot in exile and David Stewart Erskine, the Earl of Buchan. The two men were impressed by young Margaret, and believed her intelligence could take her far. They may have thought of the way to permit Margaret to be educated and enter the medical profession. The original James Barry died in 1806, leaving his sister and niece enough money to set up house in London. Three years later, Margaret Bulkely vanished from the face of the earth. Dressed in an overcoat (worn at all times and in all climates), James Barry left London for Edinburgh, where he enrolled in medical school in 1809, took some years off his real age to justify his young, boyish looks. Rumour had it, that as Barry was short of stature, his voice, high-pitched, his build slight and his skin smooth that he was a child, too young to study medicine. Barry never betrayed his secret. When he was not allowed to sit for examinations because deemed too young, Lord Erskine intervened. The soon-to-be doctor received a degree in medicine at the age of 22. Barry then enlisted in the army as an assistant surgeon where once again his age was called into question, but he was eventually allowed to serve.




Barry began his military career on the 6th of July 1813, as a Hospital Assistant in the British Army, and was soon promoted to Assistant Staff Surgeon before serving in Cape Town, South Africa for ten years where he befriended the governor, Lord Charles Somerset. Some believe that Somerset probably knew Barry’s secret. The two grew close, and Barry moved into a private apartment at his residence. Rumours began circulating about the nature of their relationship and a poster by an anonymous accuser held that their relationship. homosexual (a criminal offence at the time). Commissions were set up to investigate the issue, but they were declared innocent. Maybe to appear more brash and brash masculine or maybe because it was his nature, Barry was fiery, short-tempered and prone to rage. Patients, superiors, army and medical personnel, even Florence Nightingale herself were on the receiving end of his anger. He threw medicine bottles at people and even participated in a duel, where neither combatant was seriously injured. Barry’s medical skills were unprecedented. A skilled surgeon, he was the first to perform a successful caesarean section were mother and child both survived. He was also dedicated to social reform and condemned sanitary conditions and mismanagement of military arracks, prisons and asylums. During his ten-year stay in South Africa, he obtained a better water system for Cape Town. As a doctor, he treated the rich and the poor, colonists and slaves without distinction. Posted in Mauritius in 1828 where he clashed with an army surgeon who had him arrested and court-martialled for “conduct unbecoming of the character of an Officer and a Gentleman.” He was acquitted. Barry went wherever he was needed and climbed the ranks as he travelled the world.


 


In 1857, he became Inspector General in charge of military hospitals. In that position, he continued his fight for proper sanitation, demanding better food and proper medical care for prisoners and lepers. The secret of his true identity was made public after an exchange of letters between the General Register Office and Barry’s doctor, Major D. R. McKinnon, were leaked. In these letters, Major McKinnon, who signed the death certificate, said it was “none of my business” whether Dr. James Barry was male or female, a statement with which Barry himself would probably have agreed. Margaret Ann Bulkley aka Dr. James Barry is buried in Kensal Green cemetery, in north-west London. One thing is sure she was way ahead of her time, as a woman, a doctor and a humanitarian.

References

Du Preez, M, Dronfield, J., Dr James Barry, A woman ahead of her time, Oneworld Publications 10 Bloomsbury Street London WC1B 3SR Rose, June, THE PERFECT GENTLEMAN. The remarkable life of Dr. James Barry, the woman who served as an officer in the British Army from 1813 to 1859, Lume Books, 2018 http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/margaret-ann-bulkley/
https://www.history.com/news/the-extraordinary-secret-life-of-dr-james-barry

Marija Gimbutas

Giuseppina Massarelli


Giulia Capponi

 

Avvicinarmi al culto della Dea ha significato per me stabilire un legame profondo con le antiche culture che la rappresentavano; non solo mi ha incuriosito, ma ha travolto la mia vita. Non voglio scrivere di Marija Gimbutas quanto piuttosto riflettere su come la conoscenza delle sue scoperte sia stata in grado di incidere un segno trasformativo dentro di me. Marija Gimbutas, archeologa e linguista lituana, ha dedicato l’intera sua vita a mettere insieme testimonianze per far conoscere quella metà di storia taciuta e ha dovuto lottare per farla riconoscere al mondo intero, attraverso le testimonianze trovate andando sempre più indietro nel tempo e attraverso gli scavi sempre più giù nella terra.

Marija Gimbutas ha avuto il grande merito di far notare quanto sia importante ciò che «non è ritratto nell’arte Neolitica», ovvero la mancanza di immagini che idealizzano la potenza armata, il potere basato su crudeltà e violenza; non esistono nell'arte Neolitica immagini di nobili guerrieri o scene di battaglia, sono assenti sontuose sepolture di capi tribù e ne ha dedotto che nella storia non ci sono sempre state guerre, intese come momenti di conquiste e sopraffazioni ma ci ha parlato di civiltà che erano in pace. A me piace dire che era un tempo in cui gli uomini e le donne vivevano in armonia con tutte le cose, loro stessi erano natura e le donne in quanto fertili erano riconosciute come superiori, fertili come la terra. Era una struttura sociale pacifica, matrilineare, egualitaria ed anche la simbologia religiosa era strettamente connessa al femminile. La domanda che mi sono fatta, quando sono entrata in contatto con la cultura della Dea grazie agli scritti di Gimbutas, è stata quanta di quella storia fosse rimasta dentro di me, e dentro noi tutte. Avevo sentito sin da subito che le mie cellule richiedevano giustizia. Nelle grotte e nell’umidità nasce la vita, così ci ha insegnato Marija Gimbutas. Per me non era una grotta ma una bottega, fucina d’ingegno e di ricerca; è lì che sono nata creativamente, plasmavo la terra umida e forgiavo oggetti inspirati alla cultura della Daunia, fino a quando i segni geometrici che incidevo sulla terracotta hanno cominciato a risuonare dentro di me, e si sono riempiti di significato quando li ho collegati alla cultura della Dea, comprendendo che i triangoli, le linee ondulate intervallate da foglie, i vortici o le semplici successioni di linee che avevo per anni decorato senza saperne il senso, prendevano corpo e significato, erano segni legati alla vita e alla trasformazione.

Il legame di quella cultura con la terra e le cose viventi era così forte e sacro da riprenderlo sui numerosi manufatti ritrovati, traducendosi in un vero e proprio linguaggio storico. Una scoperta a dir poco magica ha fatto sì che mi si aprisse un mondo e con esso avvenisse la mia trasformazione. Il motivo dominante nell'ideologia e nell’arte dell’antica Europa fa riferimento a un mutamento continuo, a un’energia vitale in costante movimento per la celebrazione della vita; tutto veniva significato su vasi o oggetti di vario ordine e forma, serpenti che strisciano, api e farfalle, spirali e vortici, energia che muove, si rigenera, le colonne della vita, una forma che si dissolve in un’altra, un inno continuo. La vita sulla terra è in continua trasformazione, in costante e ritmico cambiamento dalla creazione alla distruzione, dalla nascita alla morte e la Dea era il simbolo dell’unità di tutte le forme di vita esistenti in Natura in Europa. La simbologia della Dea dominò per tutto il Paleolitico e il Neolitico e nella fase seguente fu soppiantata da popolazioni di invasori arrivate con cavalli e armi. La Dea si ritirò allora nel profondo delle foreste o sulle vette delle montagne, lì sopravvisse fino ai giorni nostri poiché i cicli storici non si fermano mai; ora vediamo riemergere la Dea recandoci speranza per il futuro nel riportarci alle nostre antiche radici umane. È grazie al lavoro di Marija Gimbutas che abbiamo delle chiavi di lettura di un passato che non ci è stato restituito ma che possiamo riscoprire.

 

Traduzione francese
Piera Negri

Approcher le culte de la Déesse a signifié pour moi établir un lien profond avec les cultures anciennes qui la représentaient ; cela m'a non seulement intrigué, mais il a bouleversé ma vie. Je ne veux pas écrire sur Marija Gimbutas mais plutôt réfléchir sur la façon dont la connaissance de ses découvertes a pu graver en moi un signe transformateur.

Marija Gimbutas, archéologue et linguiste lituanienne, a consacré toute sa vie à rassembler des témoignages pour faire connaître cette moitié de l'histoire passée sous silence et elle a dû se battre pour la faire reconnaître au monde entier, à travers les témoignages trouvés allant de plus en plus loin dans le temps et à travers les creusages de plus en plus profondément dans la terre. Marija Gimbutas a eu le grand mérite de souligner l'importance de ce qui « n'est pas représenté dans l'art Néolithique », c’est à dire le manque d'images idéalisant le pouvoir armé, pouvoir basé sur la cruauté et la violence ; il n'y a pas d'images de nobles guerriers ou de scènes de bataille dans l'art néolithique, il n'y a pas de somptueuses sépultures de chefs tribaux et elle en a déduit que dans l'histoire il n'y a pas toujours eu de guerres, conçues comme des moments de conquête et d'oppression mais elle nous a parlé de civilisations qui étaient en paix. J'aime à dire que c'était une époque où les hommes et les femmes vivaient en harmonie avec toutes choses, ils étaient eux-mêmes nature et les femmes aussi fertiles étaient reconnues comme supérieures, aussi fertiles que la terre. C'était une structure sociale pacifique, matrilinéaire, égalitaire et le symbolisme religieux était également étroitement lié au féminin. La question que je me suis posée, lorsque je suis entrée en contact avec la culture de la Déesse grâce aux écrits de Gimbutas, était de savoir quelle part de cette histoire était restée en moi, et en nous toutes. J'avais senti tout de suite que mes cellules réclamaient justice. La vie naît dans les grottes et dans l'humidité, ça nous a appris Marija Gimbutas. Pour moi ce n'était pas une grotte mais une boutique, une forge d'ingéniosité et de recherche ; c'est là que je suis née de manière créative, j'ai façonné la terre humide et forgé des objets inspirés de la culture de Daunia, jusqu'à quand les signes géométriques que je gravais sur la terre cuite commençaient à résonner en moi, et se sont remplis de sens lorsque je les ai reliés à la culture de la Déesse, comprenant que les triangles, les lignes ondulées entrecoupées de feuilles, les tourbillons ou la simple succession de lignes que j'avais décoré pendant des années sans en connaître le sens, prenaient corps et sens, ils étaient des signes liés à la vie et à la transformation.

Le lien de cette culture avec la terre et les êtres vivants était si fort et sacré qu'il s'est répété sur les nombreux artefacts trouvés, se traduisant dans un véritable langage historique. Une découverte magique, c'est le moins qu'on puisse dire, signifiait qu'un monde s'ouvrait à moi et avec lui ma transformation s'opérait. Le motif dominant dans l'idéologie et l'art de l'Europe ancienne se réfère à un changement continu, à une énergie vitale en mouvement constant pour la célébration de la vie ; tout était signifié sur des vases ou des objets d'ordre et de forme variés, des serpents qui rampent, des abeilles et des papillons, des spirales et des tourbillons, une énergie qui bouge, se régénère, les piliers de la vie, une forme se dissolvant dans une autre, un hymne continu. La vie sur la terre est en constante transformation, un changement constant et rythmé de la création à la destruction, de la naissance à la mort et la Déesse était le symbole de l'unité de toutes les formes de vie existant dans la Nature en Europe. Le symbolisme de la Déesse a dominé tout au long des périodes paléolithique et néolithique et dans la phase suivante, il a été supplanté par des populations d'envahisseurs qui sont arrivés avec des chevaux et des armes. La Déesse s'est alors retirée dans les profondeurs des forêts ou sur les sommets des montagnes, elle y a survécu jusqu'à nos jours puisque les cycles historiques ne s'arrêtent jamais ; maintenant, nous voyons la Déesse réapparaître, nous apportant de l'espoir pour l'avenir en nous ramenant à nos anciennes racines humaines. C'est grâce au travail de Marija Gimbutas que nous avons des clés de lecture d'un passé qui ne nous a pas été rendu mais que nous pouvons redécouvrir.

 

Traduzione inglese
Francesca Campanelli

Approaching the cult of the Goddess meant for me to establish a deep bond with the ancient cultures that represented it; not only intrigued me, but it overwhelmed my life. I don't want to write about Marija Gimbutas but rather reflect on how the knowledge of her discoveries was able to engrave a transformative sign within me.

Marija Gimbutas, Lithuanian archaeologist and linguist, dedicated her entire life to putting together testimonies to make known that half of the unspoken history and has had to fight to make it recognized by the whole world, through the testimonies found going further back in time and through you dig it deeper and deeper into the earth. Marija Gimbutas had the great credit of pointing out how important is what "is not portrayed in Neolithic art", namely the lack of images that idealize armed power, power based on cruelty and violence; there are no images of warriors or battle scenes in Neolithic art, there are no sumptuous burials of tribal chiefs and she deduced that in history there have not always been wars, intended as moments of conquest and oppression but she spoke of civilizations that they were at peace. I like to say that it was a time when men and women lived in harmony with all things, they themselves were nature and women as fertile were recognized as superior, as fertile as the earth. It was a peaceful, matrilineal, egalitarian social structure and religious symbolism was also closely connected to the feminine. The question I asked myself, when I met the culture of the Goddess thanks to the writings of Gimbutas, was how much of that story was left inside me, and inside all of us. I had felt early on that my cells demanded justice. Life is born in caves and in humidity, as Marija Gimbutas taught us. For me it was not a cave but a shop, a forge of ingenuity and research; it is there that I was born creatively, I shaped the damp earth and forged objects inspired by the culture of Daunia, until the geometric signs I engraved on the terracotta began to resonate within me, and were filled with meaning when I connected them to the culture of the Goddess, understanding that the triangles, the wavy lines interspersed with leaves, the vortices or the simple succession of lines that I had decorated for years without knowing the meaning, took on body and meaning, they were signs linked to life and transformation.

The bond of that culture with the earth and living things was so strong and sacred that it was repeated on the numerous artifacts found, translating into a real historical language. A magical discovery, to say the least, meant that a world opened to me and with it my transformation took place. The dominant motif in the ideology and art of ancient Europe refers to a continuous change, to a vital energy in constant movement for the celebration of life; everything was meant on vases or objects of various order and shape, snakes that crawl, bees and butterflies, spirals and vortices, energy that moves, regenerates, the columns of life, one form dissolving into another, a continuous hymn. Life on earth is in constant transformation, in constant and rhythmic change from creation to destruction, from birth to death and the Goddess was the symbol of the unity of all forms of life existing in Nature in Europe. The symbolism of the Goddess dominated throughout the Palaeolithic and Neolithic periods and in the following phase it was supplanted by populations of invaders who arrived with horses and weapons. The Goddess then withdrew into the depths of the forests or the peaks of the mountains, there she survived to the present day since the historical cycles never stop; now we see the Goddess re-emerge bringing us hope for the future in bringing us back to our ancient human roots. It is thanks to the work of Marija Gimbutas that we have some keys to reading a past that has not been returned to us but that we can rediscover.

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