Florence Beatrice Price: sono certa che questo nome non sia familiare a molte e molti, nonostante porti con sé una grande rivoluzione. Stiamo parlando della prima compositrice nera a essere riconosciuta come tale e ad avere una propria sinfonia suonata da una delle principali orchestre statunitensi, la Chicago Symphony Orchestra, nel giugno del 1933.
Florence Beatrice Smith Price nasce il 9 aprile 1887 a Little Rock, in Arkansas. Sua madre, Florence Gulliver, è un’insegnante di musica e musicista di grande talento. Suo padre è uno dei pochi dentisti neri del Paese, in più scrive e dipinge per diletto. È necessario mettere subito in chiaro che le opportunità educative per la popolazione afroamericana nel dopoguerra civile sono assai limitate. Tuttavia, la famiglia Smith ha accesso ai mezzi finanziari necessari per fornire un'istruzione privata di cui Florence ha bisogno per sviluppare al meglio il talento musicale. Cresce in una casa molto elegante: pavimenti in moquette, tre camere da letto con mobili pregiati, una sala per il cucito, una biblioteca con libri e riviste di medicina che la bambina ama leggere. Le biblioteche pubbliche non erano infatti accessibili alle persone di colore. Florence dà inizio allo studio del pianoforte con la madre. Arricchisce poi la sua formazione presso l’Allison Presbyterian Church di Little Rock, dove ascolta regolarmente le opere sacre di Bach, Mendelssohn e Williams. Continua i suoi studi con Charlotte Andrews Stephens, musicista formatasi al Conservatorio di Oberlin. A quattordici anni si diploma alla Capital Hight School come valedictorian, la studente che tiene il discorso di commiato. Viene subito ammessa al New England Conservatory of Music di Boston, uno dei pochi conservatori dell’epoca che accettava persone afroamericane. Lì inizia lo studio dell’organo, della composizione e del contrappunto con maestri riconosciuti.
La madre è solita presentare la figlia come proveniente dalla città messicana di Pueblo, sfruttando l’ambiguità del colore della pelle per evitare che Florence rimanga segnata da un’identità purtroppo molto stigmatizzata. Inoltre, la sua carnagione più chiara è data della discendenza mista: “francese, indiana e spagnola” da parte di madre e “nera, indiana e inglese” da parte di padre. Price però non dimentica mai i propri caratteri ereditari: esplora presto il folk nero e la storia di antenate e antenati. Si laurea nel 1906 con il massimo dei voti e ottiene una doppia specializzazione in pedagogia pianistica e come concertista d’organo. Florence appartiene all’ideologia del “Talented Tenth”, portandosi avanti come una leader del pensiero di DuBois. Seguendo il principio del fondatore, infatti, la pianista sacrifica gli interessi personali e dirige tutti gli sforzi ai fini di un riscatto personale e sociale della popolazione afroamericana. L’istruzione è il principio centrale, il pilastro della comunità. Il privilegio di appartenere a una famiglia benestante unito a una notevole ambiguità razziale le ha sicuramente consentito un maggiore potenziale di azione rispetto alle persone più povere incastrate nella sottomissione post-schiavitù. Price sceglie comunque di abbracciare tutti gli aspetti dell’eredità nera. Come compositrice, coltiva un’estetica attorno alla sua convinzione che
«una musica nazionale molto bella e molto americana può venire dall’unione di tante razze proprio come è fatta la nazione stessa».
Nel 1906 torna in Arkansas e lì inizia la sua carriera di docente presso la Cotton Plant-Arkadelphia Academy a Cotton Plant e presso lo Shorter College di North Little Rock. Insegna per breve tempo, prima di trasferirsi ad Atlanta, in Georgia, dove diviene capo dipartimento di musica alla Clark Atlanta University. È la prima donna ad assumere un ruolo così importante. A causa della segregazione, questa istituzione si rivolge a una fascia demografica principalmente nera ma Price si costruisce comunque un solido profilo come educatrice. Nel 1912 sposa l’avvocato Thomas J. Price, da cui prende il cognome, e torna nuovamente a Little Rock abbandonando l’insegnamento. Qui ha due figlie, Florence Luise e Edith, ma non riesce a trovare lavoro a causa del razzismo ancora presente in città. L’intensificarsi delle tensioni razziali, che possiamo vedere, ad esempio, con il linciaggio di un uomo nero nel 1927, costringe la famiglia a trasferirsi a Chicago, in quella grande migrazione di molti e molte per sfuggire alle leggi di Jim Crow che colpiscono il Sud. Le difficoltà finanziarie unite ai comportamenti violenti del marito portano Florence a divorziare, così si trova a crescere da sola le due figlie. Il divorzio avviene nel gennaio del 1931 e il 14 febbraio dello stesso anno la donna sposa Pusey Dell Arnett, un agente assicurativo ed ex giocatore di baseball vedovo. Probabilmente si separano qualche anno dopo, senza mai divorziare. Per ricavare da vivere Price compone canzoni per spot radiofonici utilizzando lo pseudonimo di Vee Jay, scrive libri per pianisti principianti e lavora come organista alle proiezioni di film muti.
Nel frattempo, vive con la sua amica Margaret Bonds, anche lei pianista e compositrice nera. Questa amicizia collega ben presto Price con lo scrittore Langston Hugues e la contralto Marian Anderson, figure importanti nel mondo dell’arte che la aiuteranno nel successo come compositrice. Nel 1932 Price e Bonds candidano le proprie composizioni per gli Wanamaker Foundation Awards. Price vince il primo premio con la sua Sinfonia in mi minore, e arriva terza con la Sonata per pianoforte, vincendo 500 dollari. Insieme a Bonds e Nora Holt prende parte attiva al Chicago Black Renaissance, un movimento artistico nelle zone meridionali nere della città. Studia orchestrazione e armonia con grandi maestre e maestri, diplomandosi nel 1934 e incontrando spesso persone di notevole spessore artistico nel campo della musica. Grazie a quella vittoria la Chicago Symphony Orchestra esegue la Sinfonia n.1 il 15 giugno 1933: è la prima composizione di una donna afroamericana suonata da una grande orchestra.
«Prima c’è stato un senso di stupore quando la Chicago Symphony Orchestra, composta da maestri musicisti di razza bianca, e diretta dal Dr. Frederick Stock, direttore d’orchestra di fama internazionale, ha oscillato nelle belle e armoniose note di una composizione di una donna di colore»
scrive Robert. S. Abbot sul Chicago Defender.
«E quando, terminata l’esecuzione, il grande auditorium, gremito di amanti della musica di tutte le età, risuonò di applausi sia per la compositrice che per l’esecuzione orchestrale, sembrò che la serata non potesse riservare emozioni maggiori»
Tra i lavori più celebri di Price ricordiamo: Three Little Ne*ro Dances, Songs to a Dark Virgin e My Soul’s Been Anchored in the Lord. Non le manca mai il successo, ma lotta continuamente per portare avanti la sua musica. È possibile osservare la grande dedizione per il proprio lavoro in una lettera del 5 luglio 1943 a Serge Koussevitzky, direttore musicale della Boston Symphony Orchestra, al quale chiede di prendere in considerazione la sua produzione:
«Mio caro dottor Koussevitzky, per cominciare ho due handicap: quelli del sesso e della razza. Io sono una donna, e ho del sangue di nero nelle vene. Sapendo il peggio, allora, saresti abbastanza bravo da tenere a freno l’eventuale inclinazione a considerare la composizione di una donna lunga in termini di emotività ma povera di virilità e contenuto di pensiero …. Quanto all’handicap di razza, posso sollevarla dicendo che non mi aspetto né chiedo alcuna concessione sulla valutazione. Vorrei essere giudicata solo per merito. […] Esaminerai uno dei miei spartiti?»
Nel corso di nove anni (1935-1944), Price scrive sette lettere a Koussewisky ma non ci sono prove che lui abbia mai risposto personalmente. Eppure, in un articolo del York Times del 2014 sul ruolo dell’etnia nella musica da concerto vediamo che «la Boston Symphony deve ancora suonare una nota della sua musica». Alcuni lavori di Price vengono eseguiti dalla Works Progress Administration Symphony Orchestra of Detroit, dalla Chicago Women’s Symphony e dalla Women’s Symphony Orchestra of Chicago. Nel 1940 Florence viene iscritta come compositrice nell’American Society of Composers, Authors and Publishers. Nelle sue produzioni ha riassunto idiomi musicali neri e tradizione classica alla ricerca di una scuola di musica chiaramente americana. Spiritual, ritmi, temi originali africani ed elementi afroamericani si uniscono alla logica della musica tradizionale europea. Nel 1951 riceve una telefonata da sir John Barbirolli, il celebre direttore della Hallé Orchestra di Manchester in Inghilterra, che le commissiona una suite per archi basata su spiritual tradizionali. Price completa il suo lavoro, ma non può assistere all’esecuzione a causa di persistenti problemi di salute. Il suo nome e la sua reputazione raggiungono oramai l’Europa ma lei purtroppo no.
Ancora, nel 1953 dovrebbe ritirare un nuovo premio in Francia, ma anche questa volta è costretta ad annullare. È così che il 3 giugno di quell'anno Florence Price muore al St. Luke’s Hospital di Chicago all’età di 66 anni. La città di Chicago ha onorato la sua memoria nel novembre 1964 con l'intitolazione della Florence B. Price Elementary School nel quartiere North Kenwood. La scuola, chiusa nel 2012, porta ancora il suo nome: Florence B. Price 21st Century Community Academy - Absolute Excellence. Nel 2009 viene trovata una grande collezione di suoi lavori nella casa in cui passava l’estate, oramai abbandonata. La musica di Florence Beatrice Price, nella seconda metà del XX secolo, è stata dimenticata a causa della sua etnia e del suo genere. Solo ora quest’artista di così grande livello sta ricevendo gradualmente il riconoscimento che per troppi anni le è stato precluso. Peccato che non lo scoprirà mai.
Traduzione inglese Syd Stapleton
I am sure that the name Florence Beatrice Price is not familiar to many, despite the fact that she represented a great revolution. We are talking about the first black female composer to be recognized as such and to have her own symphony played by a major U.S. orchestra, the Chicago Symphony Orchestra, in June 1933.
Florence Beatrice Smith Price was born on April 9, 1887, in Little Rock, Arkansas. Her mother, Florence Gulliver, was a gifted music teacher and musician. Her father was one of the few black dentists in the country, plus he wrote and painted for pleasure. It should be made clear at the outset that educational opportunities for the African American population in the post-Civil War era were very limited. However, the Smith family had access to the financial means to provide a private education that allowed Florence to develop her musical talents to the fullest. She grew up in a very elegant home, with carpeted floors, three bedrooms with fine furniture, a sewing room, and a library with medical books and magazines that the child loved to read. Public libraries were not accessible to people of color. Florence began studying piano with her mother. She then enriched her education at Allison Presbyterian Church in Little Rock, where she regularly heard classical works of Bach, Mendelssohn and Williams. She continued her studies with Charlotte Andrews Stephens, a musician trained at the Oberlin Conservatory of Music. At age fourteen she graduated from Capital High School as the valedictorian. She was soon admitted to the New England Conservatory of Music in Boston, one of the few conservatories at the time that accepted African Americans. There she began the study of organ, composition and counterpoint with recognized masters.
Her mother used to represent her daughter as coming from the Mexican town of Pueblo, exploiting the ambiguity of skin color to prevent Florence from being marked by an unfortunately highly stigmatized identity. In addition, her lighter complexion came from mixed ancestry: "French, Indian, and Spanish" on her mother's side and "black, Indian, and English" on her father's side. Price, however, never forgot her own hereditary identity - she explored black folklore and the history of ancestry and ancestors early on. She graduated in 1906 with honors and with a double major in piano pedagogy and as an organ recitalist. Florence belonged to the "Talented Tenth" ideology, carrying herself forward as a DuBois thought leader. Following the founder's principle, in fact, the pianist sacrificed personal interests and directed all her efforts toward the personal and social redemption of the African American population. Education was the central principle, the pillar of community. The privilege of belonging to an affluent family coupled with considerable racial ambiguity surely allowed her greater potential for action than poorer people stuck in post-slavery subjugation. Price nevertheless chose to embrace all aspects of black heritage. As a composer, she cultivated an aesthetic around her belief that
«a very beautiful and very American national music can come from the union of many races just as the nation itself is made».
In 1906 she returned to Arkansas and there began her teaching career at Cotton Plant-Arkadelphia Academy in Cotton Plant and at Shorter College in North Little Rock. She taught there briefly before moving to Atlanta, Georgia, where she became head of the music department at Clark Atlanta University. She was the first woman to assume that important role. Because of segregation, this institution catered to a primarily black demographic, but Price nonetheless built a solid profile as an educator. In 1912 she married lawyer Thomas J. Price, from whom she took her last name, and returned again to Little Rock, abandoning teaching. There she had two daughters, Florence Luise and Edith, but was unable to find work because of the racism still present in the city. Escalating racial tensions, which we can see, for example, with the lynching of a black man in 1927, forced the family to move to Chicago, in that great migration of many to escape the Jim Crow laws affecting the South. Financial difficulties combined with her husband's abusive behavior led Florence to a divorce, so she found herself raising her two daughters alone. The divorce took place in January 1931, and on February 14 of that year she married Pusey Dell Arnett, an insurance agent and former baseball player who was widowed. They probably separated a few years later, never divorcing. To make a living Price composed songs for radio commercials using the pseudonym Vee Jay, wrote books for beginning pianists and worked as an organist at silent film screenings.
Meanwhile, she lived with her friend Margaret Bonds, also a black pianist and composer. This friendship soon connected Price with writer Langston Hugues and contralto Marian Anderson, important figures in the art world who would help her succeed as a composer. In 1932 Price and Bonds nominated their own compositions for the Wanamaker Foundation Awards. Price won first prize with her Symphony in E Minor, and came third with the Piano Sonata, winning $500. Along with Bonds and Nora Holt she took an active part in the Chicago Black Renaissance, an artistic movement in the southern black areas of the city. She studied orchestration and harmony with great teachers and masters, graduating in 1934 and often meeting people of considerable artistic depth in the field of music. Thanks to that victory, the Chicago Symphony Orchestra performed Symphony No. 1 on June 15, 1933. It was the first composition by an African American woman played by a major orchestra.
«First there was a sense of awe when the Chicago Symphony Orchestra, composed of master musicians of the white race, and conducted by Dr. Frederick Stock, a conductor of international repute, swung into the beautiful and harmonious notes of a composition by a black woman»
writes Robert. S. Abbot in the Chicago Defender.
«And when, the performance over, the great auditorium, packed with music lovers of all ages, resounded with applause for both the composer and the orchestral performance, it seemed that the evening could hold no greater excitement».
Price's most famous works include Three Little Ne*ro Dances, Songs to a Dark Virgin and My Soul's Been Anchored in the Lord. She never lacked success, but continually struggled to pursue her music. It is possible to observe the great dedication to her work in a letter dated July 5, 1943, to Serge Koussevitzky, music director of the Boston Symphony Orchestra, who she asked to consider her works:
«My dear Dr. Koussevitzky, to begin with I have two handicaps: those of sex and race. I am a woman, and I have black blood in my veins. Knowing the worst, then, you would be good enough to rein in any inclination to consider a woman's composition long on emotionality but short on virility and content of thought .... As for the race handicap, I can raise it by saying that I do not expect or ask for any concessions on evaluation. I would like to be judged only on merit. [...] Will you examine one of my scores?».
Over the course of nine years (1935-1944), Price wrote seven letters to Koussewisky, but there is no evidence that he ever responded personally. Yet, in a 2014 York Times article on the role of ethnicity in concert music we see that "the Boston Symphony has yet to play a note of her music." Some of Price's works were performed by the Works Progress Administration Symphony Orchestra of Detroit, the Chicago Women's Symphony, and the Women's Symphony Orchestra of Chicago. In 1940 Florence was enrolled as a composer in the American Society of Composers, Authors and Publishers. In her productions she subsumed black musical idioms and classical tradition in pursuit of a distinctly American school of music. Spirituals, rhythms, original African themes and African American elements were combined with the logic of traditional European music. In 1951 she received a call from Sir John Barbirolli, the celebrated conductor of the Hallé Orchestra in Manchester, England, who commissioned her to write a suite for strings based on traditional spirituals. Price completed her work but was unable to attend the performance because of persistent health problems. Her name and reputation had then reached Europe but she unfortunately could not.
Again, in 1953 she was supposed to pick up another award in France, but this time too she was forced to cancel. So it was that on June 3 of that year Florence Price died at St. Luke's Hospital in Chicago at the age of 66. The city of Chicago honored her memory in November 1964 by naming the Florence B. Price Elementary School in the North Kenwood neighborhood. The school, which closed in 2012, still bears her name: Florence B. Price 21st Century Community Academy - Absolute Excellence. In 2009, a large collection of her work was found in the house where she spent summers, now abandoned. In the second half of the 20th century Florence Beatrice Price's music was largely forgotten, because of her ethnicity and gender. Only now is this artist of such great caliber gradually receiving the recognition that for too many years was denied her. Too bad she will never find out.
Una delle più importanti compositrici e pianiste statunitensi è stata Amy Marcy Cheney Beach, nata il 5 settembre 1867 a Henniker, nel New Hampshire, da Charles Abbott Cheney e Clara Imogene Marcy Cheney. È stata la prima donna americana a essersi cimentata nella produzione di musica colta, componendo innumerevoli poemi sinfonici, e a riscuotere un grandissimo successo, pur non avendo studiato in Europa. Fin da piccola è sempre stata molto legata alla musica, grazie al modello rappresentato dalla madre, un’eccellente pianista e cantante. La stessa Amy venne definita una bambina prodigio: alla tenera età di un anno era già capace di cantare ben quaranta canzoni, a due anni era in grado di improvvisare, usando il contrappunto, qualunque melodia sua madre cantasse e a tre anni sapeva leggere da autodidatta. A quattro anni, mentre passava le vacanze estive alla fattoria del nonno, compose tre valzer per pianoforte a mente, dai titoli Snowflake Waltz, Marlborough Waltz e Mama’s Waltz, che poi suonò alla famiglia una volta tornata a casa. Era perfettamente in grado di riprodurre musica a orecchio, possedendo quello che si definisce “un orecchio assoluto”. I genitori cercarono di tenere il passo con i suoi interessi, fissando però dei paletti per non compromettere la loro autorità agli occhi della figlia. Ma, quando non si soddisfacevano i suoi desideri e standard, la bambina si arrabbiava dando in escandescenze.
Da piccola associava i colori alla musica in tonalità diverse e chiedeva a sua madre di suonare la canzone in un colore. I colori suggerivano l’umore e in seguito la aiutarono a esporre meglio il suo stile compositivo. Finalmente, all’età di sei anni, Amy iniziò con la madre le lezioni di pianoforte, esibendosi in recital pubblici di opere di Beethoven, Chopin e di suoi brani personali. Dopo che uno di questi spettacoli venne recensito dalla rivista d’arte The Folio, Amy venne contattata da diversi agenti, che le proposero un tour di concerti. Ma i genitori, vista la sua giovanissima età, rifiutarono le offerte. Benché fosse stato suggerito loro di mandare la figlia a studiare in un conservatorio europeo, dopo essersi trasferiti a Chelsea, un sobborgo di Boston (diventata la capitale musicale degli Stati Uniti dopo la guerra civile), optarono per una formazione locale, assumendo insegnanti di pianoforte di grande fama. Nel frattempo, arrivata ai 14 anni, Amy iniziò a prendere anche lezioni di armonia e contrappunto. Ma questa fu l’unica istruzione formale come compositrice che ricevette. Dato che le venne rifiutato l’insegnamento di composizione in quanto donna, il resto degli studi proseguì da autodidatta: la giovane, infatti, raccoglieva tutti i libri che poteva trovare sull’argomento, persino in francese, per poterli studiare. Analizzava i capolavori del passato arrivando a riscriverne le parti a memoria, deducendo da sola regole e procedimenti.
Beach fece il suo debutto ufficiale in concerto nel 1883 a sedici anni alla Boston’s Music Hall in un Promenade Concert (concerto in cui parte della sala è destinata al pubblico in piedi), dove suonò Chopin e fu addirittura solista al pianoforte con il Concerto n. 3 in sol minore di Moscheles. Grazie all’esibizione conquistò il pubblico riscuotendo un enorme successo, come mai si era visto prima di allora al concerto di una debuttante. Nei due anni successivi suonò alla Chickering Hall e si esibì nella performance finale della stagione 1884-85 della Boston Symphony. Nel 1885 l’editore di musica di Boston Arthur P. Schmidt, un sostenitore delle donne compositrici, iniziò a far emergere i lavori di Amy Beach. Lo stesso anno, la giovane sposò il dottor Henry Harris Aubrey Beach (le cui iniziali H.H.A. Beach diedero il nome a molte composizioni dell’artista), un chirurgo di Boston e docente di Harvard, che aveva ben 25 anni più di lei. A seguito del matrimonio, accettò di ricoprire il ruolo di mecenate per le arti e matrona della società. Il marito la convinse a non insegnare mai pianoforte e, inoltre, a limitare le sue esibizioni pubbliche a due all’anno, per scopo benefico o per presentare i suoi nuovi lavori, e dedicare il suo tempo esclusivamente alla composizione di opere. E dovette continuare gli studi da autodidatta, perché il dottor Beach disapprovava che sua moglie studiasse con un insegnante. Purtroppo, restrizioni come queste erano tipiche per le donne della classe media e alta dell’epoca.
Di spirito profondamente romantico, il suo stile compositivo era ricco di creatività melodica e inattese sovrapposizioni ritmiche, al punto da richiamare talvolta le sonorità di Brahms e Rachmaninoff, ma anche armonie esotiche e tonalità che corrispondevano, nella sua poetica, a dei colori precisi (il Mi era il giallo, il Sol il rosso). Nel 1892 arrivò per l’artista un grandissimo successo quando la Handel e Haydn Society Orchestra, che non aveva mai suonato un pezzo composto da una donna, eseguì la sua Messa in Mi bemolle maggiore (Mass in E-flat major), che Beach iaveva iniziato a comporre all’età di 19 anni, con parti per solisti, coro, orchestra e organo. I critici musicali dei giornali accolsero con entusiasmo la creazione, eleggendola una delle compositrici più importanti d’America e paragonando la sua Messa a quelle di Cherubini e Bach. Fu proprio lei, alla Boston Symphony Orchestra nel 1896, a diventare la prima donna americana a comporre e pubblicare una sinfonia, la Gaelic Symphony, basata su melodie irlandesi. Riscosse, anche stavolta, un eccezionale successo, tanto che il compositore George Whitefield Chadwick le scrisse una lettera in cui le diceva di essere profondamente orgoglioso di lei e che, volente o nolente, lei avrebbe fatto parte del suo gruppo di compositori di straordinario talento, conosciuti come Second New England School. Con l’aggiunta di Amy Beach, la più giovane partecipante, vennero a essere noti come i Boston Six, un gruppo di compositori — e compositrici — con l’obiettivo di apportare uno stile prettamente americano alle proprie opere.
Nel 1900 Amy debuttò alla Boston Symphony con il suo Concerto per pianoforte come compositrice e solista. Si crede che il pezzo suggerisca le lotte di Beach, prima con la madre e poi con il marito, per il costante controllo della sua vita musicale. Nel giugno 1910 il marito morì e sette mesi dopo se ne andò anche la madre. Beach decise quindi di trasferirsi per un po’ in Europa, per cercare di riprendersi dai lutti e riaffermarsi come pianista. Il primo anno nel Vecchio Continente fu di totale riposo e recupero, ma nel 1912 ricominciò finalmente a dare concerti, debuttando a Dresda. La sua carriera ebbe così un “secondo atto” e un rilancio della performance professionale. Tenne vari concerti in Germania, dove poche furono le voci critiche e tante le lodi che riconobbero il suo genio. Venne infatti definita la prima americana capace di comporre musica con l’eccellenza della qualità europea.
Gli anni europei e quelli del successivo ritorno negli Usa costituirono il terreno per la libera sperimentazione di alcune tecniche post-tonali. Quattro anni dopo la partenza, nel 1914 Beach tornò in America. Nell’anno successivo fu spesso onorata con concerti della sua musica e ricevimenti. A parte i tour a cui partecipava, trascorse gran parte del tempo a New York; intanto componeva e incontrava altre compositrici e musiciste come lei. Usò il suo status di miglior compositrice americana per aiutare giovani musicisti e musiciste a raggiungere il successo, ricoprendo il ruolo di mentore e incoraggiandoli a perfezionare il loro mestiere attraverso il duro lavoro. E tra il 1904 e il 1943 pubblicò numerosissimi articoli incentrati sulla programmazione, preparazione e studio di tecniche per pianisti e pianiste, riportando la sua esperienza e routine personale. Continuò a difendere e diffondere l’educazione musicale, creando in primis il Beach Club, con lo scopo di insegnare le basi della musica ai bambini e alle bambine; ma anche lavorando come leader di alcune organizzazioni focalizzate sull’educazione delle donne, come ad esempio la Society of American Women Composers. Per la sua passione e attività, l’Università del New Hampshire le assegnò un master honoris causa nel 1928.
Tra il 1928 e il 1929 trascorse il suo tempo a Roma, dove si recava a concerti di musica classica ogni giorno. Organizzò anche lei un concerto in cui raccolse una grande somma di denaro per l’American Hospital della città. A partire dal 1940 si trovò costretta a ritirarsi dalle scene e dal lavoro a causa di una malattia cardiaca, che la portò alla morte a New York il 27 dicembre 1944. Durante la sua vita la compositrice scrisse oltre trecento opere, dilettandosi in ogni genere, ma la sua passione sicuramente risiedeva nelle canzoni d’arte e nella musica vocale da camera. Come pianista, suonò sia opere originali che di altri autori e autrici. Ha studiato il canto degli uccelli, i suoni della natura ed è stata influenzata da temi popolari come quelli irlandesi, scozzesi, eschimesi e dei nativi americani. I suoi lavori dimostrano la capacità di creare un collegamento diretto tra musica e testo. Va detto però che, nonostante la fama e i riconoscimenti ricevuti durante tutta la vita, Beach è stata in gran parte trascurata dopo la morte. Solo negli ultimi decenni gli sforzi per ravvivare l’interesse per le opere dell’artista hanno avuto effetto. Oggi è inserita, come unico nome femminile, tra gli ottantasei compositori eccellenti di ogni epoca e nazionalità, su una stele in granito, presso la Hatch Memorial Shell a Boston.
Traduzione francese Ibtisam Zaazoua
L'une des compositrices et pianistes américaines les plus importantes a été Amy Marcy Cheney Beach, née le 5 septembre 1867 à Henniker, dans le New Hampshire, de Charles Abbott Cheney et Clara Imogene Marcy Cheney. Elle a été la première femme américaine à se consacrer à la musique savante, composant d'innombrables poèmes symphoniques, et à connaître un immense succès, même sans avoir étudié en Europe. Dès son enfance, elle a toujours été très attachée à la musique, grâce à l'exemple de sa mère, une excellente pianiste et chanteuse. Amy a été définie comme une enfant prodige : à l'âge d'un an, elle pouvait déjà chanter quarante chansons, à deux ans, elle était capable d'improviser en utilisant le contrepoint sur n'importe quelle mélodie chantée par sa mère, et à trois ans, elle savait lire de manière autodidacte. À quatre ans, pendant ses vacances à la ferme de son grand-père, elle a composé trois valses pour piano dans sa tête, intitulées Snowflake Waltz, Marlborough Waltz et Mama’s Waltz, qu'elle a ensuite jouées à sa famille à son retour. Elle pouvait parfaitement reproduire la musique à l'oreille, ayant ce que l'on appelle une « oreille absolue ». Ses parents ont essayé de suivre ses intérêts tout en posant des limites pour maintenir leur autorité. Mais lorsqu'ils ne répondaient pas à ses attentes, elle se mettait en colère et faisait des crises.
Petite, elle associait les couleurs aux différentes tonalités musicales et demandait à sa mère de jouer une chanson dans une certaine couleur. Ces couleurs suggéraient des humeurs et l'ont ensuite aidée à affiner son style de composition. À l'âge de six ans, Amy a enfin commencé les cours de piano avec sa mère et s’est produite lors de récitals publics en jouant des œuvres de Beethoven, Chopin, ainsi que ses propres compositions. Après l'une de ces représentations, le magazine The Folio l’a mentionnée, et Amy a été contactée par plusieurs agents qui lui ont proposé une tournée de concerts. Mais ses parents, en raison de son jeune âge, ont refusé les offres. Bien que certains leur aient conseillé de l’envoyer étudier dans un conservatoire en Europe, ils ont préféré une formation locale après avoir déménagé à Chelsea, en banlieue de Boston (devenue la capitale musicale des États-Unis après la guerre civile). Ils ont donc engagé des professeurs de piano très renommés. À quatorze ans, Amy a aussi commencé des cours d’harmonie et de contrepoint, mais ce fut sa seule formation officielle en composition. Parce qu'elle était une femme, on lui a refusé un enseignement en composition. Elle a donc poursuivi ses études en autodidacte, collectant tous les livres disponibles sur le sujet, même en français, pour les étudier. Elle analysait les chefs-d'œuvre du passé, les recopiant de mémoire et en déduisant seule les règles et procédés.
Amy Beach a fait ses débuts officiels en concert en 1883, à seize ans, lors d’un Promenade Concert à la Boston's Music Hall, où elle a joué Chopin et a été soliste pour le Concerto n°3 en sol mineur de Moscheles. Grâce à cette performance, elle a conquis le public, obtenant un succès jamais vu pour une débutante. Dans les deux années suivantes, elle a joué à la Chickering Hall et lors du concert final de la saison 1884-85 de la Boston Symphony. En 1885, l’éditeur musical de Boston, Arthur P. Schmidt, un grand défenseur des compositrices, a commencé à faire connaître ses œuvres. Cette même année, Amy a épousé le docteur Henry Harris Aubrey Beach, chirurgien à Boston et professeur à Harvard, qui avait 25 ans de plus qu'elle. Après son mariage, elle a accepté de jouer le rôle de mécène et de matrone de la société. Son mari l'a convaincue de ne jamais enseigner le piano et de limiter ses performances publiques à deux par an, uniquement pour des œuvres caritatives ou pour présenter ses nouvelles compositions. Elle a donc continué ses études de manière autodidacte, car le Dr Beach désapprouvait l’idée qu’elle ait un professeur. Malheureusement, de telles restrictions étaient typiques pour les femmes de la classe moyenne et supérieure de l'époque.
D'un esprit profondément romantique, son style de composition était riche en créativité mélodique et en superpositions rythmiques inattendues, évoquant parfois les sonorités de Brahms et Rachmaninoff, mais aussi des harmonies exotiques et des tonalités correspondant, selon elle, à des couleurs précises (le Mi était le jaune, le Sol le rouge). En 1892, Beach a connu un grand succès lorsque l'orchestre Handel et Haydn Society, qui n'avait jamais joué une œuvre composée par une femme, a interprété sa Messe en mi bémol majeur. Les critiques l'ont saluée, la comparant aux messes de Cherubini et de Bach, et l'ont élue comme l'une des plus grandes compositrices américaines. En 1896, elle est devenue la première femme américaine à composer et publier une symphonie, la Gaelic Symphony, basée sur des mélodies irlandaises. Elle a une fois de plus rencontré un succès exceptionnel, au point que le compositeur George Whitefield Chadwick lui a écrit pour exprimer sa fierté et lui dire qu’elle ferait désormais partie, qu’elle le veuille ou non, du groupe de compositeurs de grand talent, connus sous le nom de Second New England School. Avec Amy Beach, ce groupe est devenu les Boston Six, un collectif de compositeurs, hommes et femmes, qui visaient à apporter un style américain à leurs œuvres.
D'un esprit profondément romantique, son style de composition était riche en créativité mélodique et en superpositions rythmiques inattendues, évoquant parfois les sonorités de Brahms et Rachmaninoff, mais aussi des harmonies exotiques et des tonalités correspondant, selon elle, à des couleurs précises (le Mi était le jaune, le Sol le rouge). En 1892, Beach a connu un grand succès lorsque l'orchestre Handel et Haydn Society, qui n'avait jamais joué une œuvre composée par une femme, a interprété sa Messe en mi bémol majeur. Les critiques l'ont saluée, la comparant aux messes de Cherubini et de Bach, et l'ont élue comme l'une des plus grandes compositrices américaines. En 1896, elle est devenue la première femme américaine à composer et publier une symphonie, la Gaelic Symphony, basée sur des mélodies irlandaises. Elle a une fois de plus rencontré un succès exceptionnel, au point que le compositeur George Whitefield Chadwick lui a écrit pour exprimer sa fierté et lui dire qu’elle ferait désormais partie, qu’elle le veuille ou non, du groupe de compositeurs de grand talent, connus sous le nom de Second New England School. Avec Amy Beach, ce groupe est devenu les Boston Six, un collectif de compositeurs, hommes et femmes, qui visaient à apporter un style américain à leurs œuvres.
En 1900, Amy a fait ses débuts à la Boston Symphony en tant que compositrice et soliste avec son Concerto pour piano. Certains pensent que cette œuvre reflète ses luttes, d’abord avec sa mère puis avec son mari, pour le contrôle de sa carrière musicale. En juin 1910, son mari est décédé, suivi sept mois plus tard par sa mère. Amy a alors décidé de s’installer en Europe pour se remettre de ses pertes et relancer sa carrière de pianiste. Après un an de repos, elle a fait son retour sur scène en 1912, avec des concerts à Dresde, où elle a été acclamée pour son talent. En 1914, après quatre ans en Europe, elle est rentrée aux États-Unis, où elle a été honorée par plusieurs concerts de ses œuvres et réceptions. Elle a utilisé sa position de meilleure compositrice américaine pour aider les jeunes musiciens, les encadrant et les encourageant à perfectionner leur art. Entre 1904 et 1943, elle a publié de nombreux articles sur la technique et l'étude pour pianistes, partageant son expérience personnelle. Elle a aussi défendu l’éducation musicale, créant le Beach Club pour enseigner la musique aux enfants et dirigeant des organisations comme la Society of American Women Composers. En 1928, l'Université du New Hampshire lui a décerné un master honoris causa.
Entre 1928 et 1929, elle a passé du temps à Rome, où elle a organisé un concert de charité. À partir de 1940, elle a dû se retirer en raison d'une maladie cardiaque, qui l’a finalement emportée à New York le 27 décembre 1944. Pendant sa vie, Beach a composé plus de 300 œuvres, explorant divers genres, mais sa passion principale était pour les chansons d'art et la musique vocale de chambre. Ses œuvres montrent sa capacité à établir un lien direct entre musique et texte. Malgré la reconnaissance de son vivant, Beach a été largement négligée après sa mort, et ce n'est que ces dernières décennies que l'intérêt pour son travail a été ravivé. Aujourd’hui, elle est la seule femme parmi les 86 compositeurs immortalisés sur un monument en granit au Hatch Memorial Shell de Boston.
Traduzione inglese Syd Stapleton
One of the most important American women composers and pianists was Amy Marcy Cheney Beach, born on September 5, 1867, in Henniker, New Hampshire, to Charles Abbott Cheney and Clara Imogene Marcy Cheney. She was the first American woman to try her hand at producing “cultured” music, composing countless symphonic poems, and the first to enjoy great success despite not having studied in Europe. From an early age, she was always very connected to music, thanks to the role model presented by her mother, an excellent pianist and singer. Amy herself was described as a child prodigy - at the tender age of one she was already able to sing as many as forty songs, at two she was able to improvise, using counterpoint, whatever melody her mother sang, and at three she could read, self-taught. At the age of four, while spending her summer vacation at her grandfather's farm, she composed three piano waltzes in her head, titled Snowflake Waltz, Marlborough Waltz, and Mama's Waltz, which she then played to her family when she returned home. She was perfectly capable of playing music by ear, possessing what is called "a pitch perfect ear." Her parents tried to keep up with her interests, but set stakes so as not to compromise their authority in their daughter's eyes. But, when her desires and standards were not met, the child became angry, throwing a fit.
As a child, she associated colors with music in different shades and asked her mother to play the song in a color. The colors suggested mood and later helped her better develop her compositional style. Finally, at the age of six, Amy began piano lessons with her mother, performing in public recitals of works by Beethoven, Chopin and her own pieces. After one of these performances was reviewed by the art magazine The Folio, Amy was approached by several agents, who offered her a concert tour. But her parents, given her very young age, declined the offers. Although it had been suggested to them that they send their daughter to study at a European conservatory, after moving to Chelsea, a suburb of Boston (which became the musical capital of the United States after the Civil War), they opted for a local education, hiring renowned piano teachers. Meanwhile, as she reached the age of 14, Amy also began taking lessons in harmony and counterpoint. But this was the only formal instruction as a composer she received. Because she was refused, as a woman, education in composition, the rest of her studies continued as a self-taught musician. The young woman collected all the books she could find on the subject, even in French, in order to study them. She analyzed past masterpieces going so far as to rewrite parts of them from memory, deducing rules and procedures on her own.
Beach made her official concert debut in 1883 at the age of sixteen at Boston's Music Hall, in a Promenade Concert (a concert in which part of the hall is set aside for a standing audience), where she played Chopin and was even soloist on the piano with Moscheles' Concerto No. 3 in G minor. Thanks to the performance, she won the audience over with enormous success, the likes of which had never before been seen at a debut concert. Over the next two years she played at Chickering Hall and performed in the final performance of the Boston Symphony's 1884-85 season. In 1885 Boston music publisher Arthur P. Schmidt, a supporter of women composers, began to bring out Amy Beach's works. That same year, the young woman married Dr. Henry Harris Aubrey Beach, a Boston surgeon and Harvard professor, who was a full 25 years her senior. Following marriage, she accepted the role of patron for the arts and matron of society. Her husband convinced her never to teach piano and, moreover, to limit her public performances to two a year, for charity or to present her new works, and devote her time exclusively to composing works. And she had to continue her studies as an autodidact, because Dr. Beach disapproved of his wife studying with a teacher. Unfortunately, restrictions such as these were typical for middle- and upper-class women of the time.
Deeply romantic in spirit, her compositional style was rich in melodic creativity and unexpected rhythmic overlays, to the point of sometimes recalling the sonorities of Brahms and Rachmaninoff, but also exotic harmonies and tonalities that corresponded, in her poetics, to precise colors (E was yellow, G was red). In 1892 came a great success for the artist when the Handel and Haydn Society Orchestra, which had never before played a piece composed by a woman, performed her Mass in E-flat Major, which Beach had begun composing at the age of 19, with parts for soloists, choir, orchestra and organ. Newspaper music critics enthusiastically welcomed the creation, declaring her to be one of America's most important composers and comparing her Mass to those of Cherubini and Bach. It was she, at the Boston Symphony Orchestra in 1896, who became the first American woman to compose and publish a symphony, the Gaelic Symphony, based on Irish melodies. She was, again, an outstanding success, so much so that composer George Whitefield Chadwick wrote her a letter telling her he was deeply proud of her and that, like it or not, she would be part of his group of extraordinarily talented composers known as the Second New England School. With the addition of Amy Beach, the youngest participant, they came to be known as the Boston Six, a group of male and female composers with the goal of bringing a distinctly American style to their works.
In 1900 Amy made her Boston Symphony debut with her Piano Concerto as composer and soloist. The piece is believed to suggest Beach's constant struggles, first with her mother and then with her husband, for control of her musical life. In June 1910 her husband died, as did her mother seven months later. Beach then decided to move to Europe for a while to try to recover from her grief and reestablish herself as a pianist. The first year on the Old Continent was one of total rest and recuperation, but in 1912 she began giving concerts again, making her debut in Dresden. Her career thus had a "second act" and a revival of professional performance. She gave several concerts in Germany, where there were few critical voices and much praise that recognized her genius. Indeed, she was called the first American capable of composing music with the excellence of European quality.
The European years and those of her subsequent return to the U.S. provided the ground for her free experimentation with certain post-tonal techniques. In 1914, four years after her departure, Beach returned to America. In the following year she was often honored with concerts of her music and receptions. Apart from the tours she took part in, she spent most of her time in New York, where she composed and met other women composers and musicians like herself. She used her status as America's best composer to help young female and male musicians achieve success, serving as a mentor and encouraging them to perfect their craft through hard work. And between 1904 and 1943 she published numerous articles focusing on planning, preparing and studying techniques for male and female pianists, reporting on her personal experience and routine. She continued to advocate and spread music education, first by creating the Beach Club, with the aim of teaching the basics of music to boys and girls; but also by working as a leader of a number of organizations focused on women's education, such as the Society of American Women Composers. For her passion and activity, the University of New Hampshire awarded her an honorary master's degree in 1928.
Between 1928 and 1929 she spent her time in Rome, where she went to classical music concerts nearly every day. She also organized a concert in which she raised a large sum of money for the city's American Hospital. Beginning in 1940 she found herself forced to retire from the stage and work due to heart disease, which led to her death in New York City on December 27, 1944. During her lifetime she composed more than three hundred works, dabbling in every genre, but her passion surely lay in art songs and vocal chamber music. As a pianist, she played both original works and works by other composers and authors. She studied birdsong, nature sounds and was influenced by folk themes such as Irish, Scottish, Eskimo and Native American. Her works demonstrate the ability to make a direct connection between music and text. It must be said, however, that despite the fame and recognition she received throughout her lifetime, Beach was largely neglected after her death. Only in recent decades have efforts to revive interest in the artist's work taken effect. Today she is included as the only female name among eighty-six outstanding composers of all ages and nationalities on a granite stele at the Hatch Memorial Shell in Boston.
Maria Carta è stata una cantautrice, attrice e politica italiana. Durante la sua carriera di cantante ha ripercorso i molteplici aspetti della musica tradizionale sarda, sapendola aggiornare con arrangiamenti moderni e personali. Nacque a Siligo, un paesino della provincia di Sassari, il 24 giugno 1934. Le fu dato il nome di Maria Giovanna Agostina: Giovanna perché nacque il giorno della festa di san Giovanni e Maria Agostina per ricordare la nonna materna. All'età di otto anni perse il padre per una grave malattia e fu costretta, come del resto tutti i bambini e le bambine della sua condizione sociale, ad affrontare le fatiche quotidiane sia in casa sia in campagna. Fin da piccola mostra di avere una bella voce, lavora e canta, canta e lavora. Il suo primo pubblico è la gente del luogo: le donne che assieme a lei raccolgono le olive, le donne che sarchiano il grano, le donne che lavano i panni al fiume, i pastori, i contadini. Impara i canti natalizi e la messa in latino dal parroco. Canta in chiesa durante le novene, nei riti della Settimana Santa e alle messe solenni. Poi inizia nelle piazze con i cantadores, considerati da sempre i pilastri del canto sardo.
Gli anni Cinquanta portano Maria Carta ad avere una certa riconoscibilità nella sua terra; mentre sfuma la prima opportunità lavorativa che la vede protagonista di un fotoromanzo, vince avvolta da un drappo di seta il concorso Miss Sardegna. Diventa una donna che cammina verso il futuro, e alle soglie degli anni Sessanta lascia l’isola per raggiungere Roma, dove frequenta il Centro studi di musica popolare dell’Accademia di Santa Cecilia diretto da Diego Carpitella, iniziando così a esplorare la sua regione per ricercare e registrare antichi canti salvandoli dall’oblio e dando loro la sua voce:
«In Sardegna il canto è nato femminile, insieme alla poesia è nato, ai tempi del matriarcato…».
Si scontra con la difficoltà di essere accettata come donna sul palcoscenico in Sardegna, perché, racconta,
«allora il canto sardo era appannaggio esclusivo degli uomini».
Si stabilisce definitivamente nella capitale, ma ritorna spesso a casa a raccogliere dalla viva voce di anziani e anziane i canti, le poesie e le melodie. Nell'isola collabora con don Giovanni Maria Dettori, sacerdote silighese, studioso, esperto conoscitore della lingua sarda, dei canti, della poesia e lui stesso poeta riconosciuto nelle più importanti manifestazioni culturali della regione. Da lui impara il canto gregoriano e antiche melodie in lingua sarda. La carriera di Maria inizia ufficialmente nel 1972 quando Ennio Morricone le fa incidere la sigla dello sceneggiato televisivo Mosè, anche se il suo primo disco Paradiso in Re era uscito nel 1971, seguito poi da altri album, fra i quali ricordiamo Delirio e Nuovo Maggio (1973), Dies irae (1974), Vi canto una storia assai vera – un insieme di canti popolari e di protesta politica (1976), La voce e i canti di Maria Carta I e II vol. (1977), Umbras (1978), Aidiridiridinni (1979), Sonos de memoria (1985), fino ad arrivare al suo ultimo Cd, quasi tutto in italiano, Le memorie della musica (1993). Maria canta l’amore, la morte, la gioia, il dolore attraverso antiche e magiche melodie. Il suo cantare, nato dalla necessità e alimentato dalla passione, diventa ben presto un dovere morale, un compito ben preciso da portare avanti.
Con la sua voce unica, capace di suscitare forti emozioni, racconta sentimenti e nostalgie, le speranze di un popolo antico affinché nel mondo se ne conosca la vera anima. Assume un profondo impegno politico in cui il canto diventa momento poetico di lotta, e con ragione le viene attribuito il merito di aver portato la tradizione popolare sarda ad acquisire valore universale. Sempre nel 1972, viene trasmesso dalla Rai il documentario Incontro con Maria Carta nel quale l'artista interagisce con Riccardo Cucciolla recitando versi, cantando e raccontando frammenti autobiografici. Arriva un altro documentario: Maria Carta. Sardegna, una voce con la regia di Gianni Amico e soggetto, sceneggiatura, collaborazione artistica di Salvatore Laurani. Nel 1975 pubblica in Canto rituale – Roma Coines una raccolta di poesie, di “storie” che rievocano certe suggestioni dell’Antologia di Spoon River. Affida alla poesia la denuncia sociale. È il suo sguardo sui dimenticati che dà luce alla disperazione dei morti così come al lavoro che uccide nelle fabbriche del Belgio, alla polvere e al sudore penetrati nelle rughe come ferite, anno dopo anno, sui volti di milioni di donne e uomini distrutti, illuminati dalla luce dell’alba e pietrificati. Lo fa dando voce a una sorta di enciclopedia dei morti, evocando Nicola Virdis che scende a settecento metri nel nero di una miniera. Le sue sono parole politiche.
Nel 1976 è eletta Consigliera comunale di Roma nelle liste del Partito comunista italiano. Negli stessi anni si rafforza un rapporto, già esistente, di stima e di profonda amicizia con Enrico Berlinguer. Di quell’esperienza portata avanti con costanza, scriverà: «L’attività politica è stata un flash nella mia vita. Ho frequentato, mi sono impegnata: e sono momenti che mi sono serviti molto, è stata una grande esperienza. Adesso credo che non fosse giusto fare politica… Forse è stato un mio momento di protesta, di presa di coscienza». Nel 1981 la nascita del figlio David, l’avvenimento più importante della sua vita, le ispira una delle più belle ninne-nanne da inserire nel proprio repertorio. Ma Maria non è solo cantante, ricercatrice e poeta, è anche protagonista di molti film e gode dell’amicizia di registi famosi come Pier Paolo Pasolini e Franco Zeffirelli. Interpreta in Francia la parte di Cecilia in Storia di una comune rivoluzionaria di Jean Louis Comolli. Fa la madre nel Padrino Parte II con Robert De Niro e Marlon Brando di Francis Ford Coppola. È Marta nel Gesù di Nazaret di Zeffirelli. Lavora in Cadaveri eccellenti di Franco Rosi e in Padroni dell’estate di Marco Parodi. Ha il ruolo della vedova nello sceneggiato televisivo Il passatore (il noto brigante ottocentesco) e poi interpreta in teatro Medea con Valeria Moriconi per la regia di Franco Enriquez e santa Teresa d’Avila in A piedi nudi verso Dio (sulla vita del carmelitano spagnolo del Cinquecento san Giovanni della Croce). Gira in India Il reietto delle isole di Giorgio Moser; ha un ruolo nel Camorrista di Giuseppe Tornatore, lavora nei film L’isola di Grazia Deledda, Disamistade di Franco Cabiddu e Le mele marce di Pasquale Festa Campanile. Recita nello spettacolo teatrale Le memorie di Adriano con Giorgio Albertazzi; interpreta Grazia Deledda in un’importante trasmissione di Oliviero Beha.
Gesù di Nazareth
Ma il cinema non è il mondo di Maria Carta, la sua passione di vivere resta sempre il canto. Ed è il canto che la porta da un successo all’altro. La sua celebrità passa le frontiere; è invitata nei più famosi teatri e cattedrali del mondo: dall’Italia in Germania, in Francia, in Svizzera, in Spagna, in Belgio e in altri Paesi d’Europa fino ad arrivare al Bol'šoj di Mosca e poi in America, in Africa, in India. Canta con Joan Baez e con Amália Rodrigues. È invitata dal Presidente sovietico Michail Gorbačëv a Stoccolma per la festa del Premio Nobel. Dal 1980 al 1986 è spesso ospite in Francia dove diventa un mito. Tiene diversi concerti nel Palazzo dei Papi ad Avignone, canta nella basilica di San Severin, all’Olympia e al Théâtre de la Ville di Parigi. I giornali francesi Le Figaro, Le Monde, Humanité, Les Nouvelles littéraires, Le Matin ne riportano i successi e la presentano come la voce che evoca l’anima di un popolo che arriva dalla madre latina e dal mare. La sua fama è ormai, quindi, internazionale, ma dalla seconda metà degli anni Ottanta alcuni eventi dolorosi segnano la sua vita. Muoiono la sorella e la madre e si trova di nuovo da sola.
Il 17 novembre 1986 parte per il Perù dove tiene dei concerti a Lima. Si esibisce poi a New York, nella cattedrale di St. Patrick, con un concerto di canti gregoriani, spiritual e melodie sarde. Il successo è travolgente e i giornali scrivono di quest’avvenimento per diversi giorni. Nel 1988 è nella cattedrale di Saint Mary e poi a Filadelfia. Nel 1989 è ad Amburgo: in quell’anno scopre di essere affetta da una grave malattia, malattia che rende pubblica dopo qualche tempo al Maurizio Costanzo Show. Si esibisce nell’Aula Magna dell’Università di Bologna in occasione delle celebrazioni del IX Centenario; nel 1990 dalla stessa università le è conferito l’incarico di docente a contratto di Antropologia culturale. Anche l’Università di Sassari la sceglie per insegnare il metodo di ricerca sui canti popolari agli/alle studenti. Nel 1991 il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga la nomina Commendatrice della Repubblica italiana. La malattia la porta spesso a pensare di arrendersi, ma lei continua a lottare e partecipa a tantissime trasmissioni: è ospite di Maurizio Costanzo, di Pippo Baudo, di Gigi Marzullo, di Wilma de Angelis, di Red Ronnie, canta a San Remo fino a spegnersi nella sua casa a Roma il 22 settembre del 1994.
Dopo la morte, nel 1994 fu istituita la Fondazione Maria Carta, con lo scopo di promuovere la cultura e la musica della Sardegna. A partire dal 2003 la stessa Fondazione attribuisce ogni anno il Premio Maria Carta a chi, in un modo o nell'altro, contribuisce a promuovere l'immagine della cultura sarda in Italia e nel mondo. Nel 2016 la Fondazione è stata promotrice del progetto Freemmos - Liberi di restare, un'iniziativa per sensibilizzare l’opinione pubblica sul dramma dello spopolamento delle zone interne dell’isola. A Maria sono intitolate piazze e vie in tutt'Italia, ma soprattutto nella sua amata Sardegna.
Cagliari, foto di Daniela Serra
Sassari, foto di Teresa Spano
Traduzione francese Rachele Stanchina
Maria Carta a été auteure-compositrice-interprète, actrice et femme politique italienne. Tout au long de sa carrière de chanteuse, elle a parcouru les différentes facettes de la musique traditionnelle sarde, sans cesse renouvelée grâce à des arrangements modernes et personnels. Elle est née à Siligo, un petit village situé dans la province de Sassari le 24 juin 1934. Elle porte le prénom de Maria Giovanna Agostina: Giovanna parce qu’ elle est née le jour de la Saint Jean et Maria Agostina en souvenir de sa grand-mère maternelle. Son père meurt des suites d’une grave maladie alors qu’elle n’a que huit ans. Elle est ainsi contrainte, comme pour tous les enfants de sa condition sociale, d’assumer les tâches quotidiennes à la maison comme à la campagne. On remarque très tôt sa très belle voix. A partir de là, sa vie tournera autour du travail et du chant. Les habitants de son village formeront son premier public: les femmes qui font la récolte des olives, celles qui sarclent le blé, celles qui font la lessive au ruisseau, les bergers et les paysans. Le curé lui apprend les chants de Noël et la messe en latin. Elle chante à l’église pendant les neuvaines, les célébrations de la Semaine Sainte et les grands-messes. Ensuite elle chantera sur les places avec les CANTADORES, qui depuis toujours sont considérés comme les piliers du chant sarde.
Durant les années cinquante, Maria devient célèbre sur sa terre natale: elle participera d’abord à un roman-photo qui n’aura pas de suite puis elle gagnera, drapée de soie, le concours de Miss Sardaigne. Elle devient une jeune femme en marche vers son futur et, au début des années soixante, elle quitte son île natale pour Rome où elle fréquente le Centre d’études pour la musique populaire de l’Académie de Sainte Cécile, dirigé par Diego Carpitella. Elle commence ainsi à parcourir sa région natale pour retrouver et enregistrer les vieux chants, en leur donnant sa voix et en les sauvant ainsi de l’oubli
«En Sardaigne le chant est né au féminin, avec la poésie, au temps du matriarcat…”».
Cependant, en Sardaigne, Marie se heurte à la difficulté d’ être acceptée sur les scènes en tant que femme car, comme elle le raconte,
«En ce temps-là le chant sarde était l’ apanage exclusif des hommes».
Elle s’installe finalement dans la Capitale, mais rentre souvent chez elle pour repérer les chants, les poèmes et les airs interprétés de vive voix par des paysans âgés. Sur l’île, elle collabore avec le curé de Siligo, Giovanni Maria Dettori, savant, fin connaisseur de la langue, des chants et de la poésie sarde, qui est lui même un poète renommé au sein des plus importantes manifestations culturelles de la Sardaigne. C’est grâce à lui que Marie apprend le chant grégorien et les vieux airs en langue sarde. La carrière de Maria débute officiellement en 1972 lorsque Ennio Morricone la choisit pour enregistrer le thème dramatique du film télévisé MOÏSE. Son premier album PARADISO IN RE sort en 1971, suivi par d’autres parmi lesquels on trouve Delirio et Nuovo Maggio(1973), Dies Irae(1974), Vi canto una storia assai vera – un recueil de chants populaires et d’engagement politique (1976), La voce e i canti di Maria Carta I rt II (1977), Umbras (1978), Aidiridiridinni (1979), Sonos de memoria (1985) et, pour terminer, son dernier recueil LE MEMORIE DELLA MUSICA (1993) où elle chante presque totalement en italien. Maria chante l’amour, la mort, la joie, la douleur à travers des airs anciens et magiques. Son chant, qui naît de la nécessité et alimenté par la passion, se transforme bientôt en une obligation morale, une tâche bien précise qu’elle doit accomplir.
Avec sa voix particulière, capable de susciter de fortes émotions, elle raconte les sentiments, les nostalgies et les espoirs d’un peuple ancien pour que le monde entier en connaisse la véritable essence. Son travail est empreint d’un fort engagement politique, son chant se transforme en une action poétique de combat et c’est avec raison qu’ on porte à son crédit le mérite d’avoir aidé la tradition populaire sarde à acquérir une valeur universelle. En 1972, le documentaire RENCONTRE AVEC MARIA CARTA est diffusé par la RAI. L’artiste interagit avec Riccardo Cucciolla en récitant des vers, en chantant et en racontant des anecdotes de sa vie. Un autre documentaire est réalisé, MARIA CARTA, SARDEGNA, UNE VOIX par Gianni Amico et Salvatore Laurani en tant que scénariste et collaborateur artistique. En 1975, elle édite CANTO RITUALE- ROMA COINES, un recueil de poèmes et d’histoires qui font penser à L’ANTHOLOGIE DE SPOON RIVER. Elle confie à la poésie le rôle de protestation sociale. Elle pose son regard sur les oubliés, tout en portant son attention au désespoir des victimes ainsi qu’au travail qui tue dans les usines en Belgique, à la poussière et la sueur qui pénètrent dans les rides comme des blessures, au fil du temps, sur les visages de millions d’hommes et de femmes anéantis, pétrifiés éclairés par la simple lumière de l’aube. Maria donne voix à une sorte d’Encyclopédie des morts, évoquant Nicola Virdis qui descend à sept-cent mètres de profondeur dans l’obscurité d’une mine. Ses mots sont des mots politiques.
En 1976, elle est élue Conseillère municipale à Rome dans les listes du Parti Communiste italien et renforce de plus en plus son lien d’amitié et d’estime avec Enrico Berlinguer. De cette expérience, poursuivie avec constance, elle écrira: “Dans ma vie l’activité politique a été comme un éclair: j’ai fréquenté, je me suis engagée et ces moments m’ont servi profondément, cela a été une grande expérience. Aujourd’hui, je pense le contraire, qu’il n’était pas correct de faire de la politique. Peut- être qu’il s’agissait pour moi d’un moment de protestation, de prise de conscience tout à fait personnel.” La naissance de son fils Davide en 1981, qu’elle considère l’évènement le plus important de sa vie, lui inspire une des plus belles berceuses de son répertoire. Mais Maria n’est pas seulement une chanteuse, chercheuse et poétesse, elle est aussi protagoniste de plusieurs long-métrages, amie de metteurs en scène célèbres tels que Pier Paolo Pasolini et Franco Zeffirelli. En France, elle joue le rôle de Cecilia dans HISTOIRE D’UNE SIMPLE REVOLUTIONNAIRE de Jean Louis Comolli. Elle est la mère dans LE PARRAIN II avec Robert De Niro et Marlon Brando dirigés par Francis Ford Coppola. Elle est Marthe dans JESUS DE NAZARETH de Zeffirelli, travaille dans CADAVRES EXQUIS de Franco Rosi e dans SEIGNEURS DE L’ETE de Marco Parodi. Elle interprète également le rôle de la veuve dans la série télévisée LE PASSATEUR (le célèbre brigant du dix-neuvième siècle), puis elle joue dans la pièce de théâtre MEDEE avec Valeria Moriconi sous la direction de Franco Enriquez ainsi que Sainte Thérèse d’Avila dans NUDS-PIEDS VERS LE SEIGNEUR, pièce qui raconte la vie du carmélite espagnol du sixième siècle Saint Jean de la Croix. Elle tournera en Inde LE PARIA DES ILES de Giorgio Moser, obtient un rôle dans LE CAMORRISTE de Giuseppe Tornatore, travaille dans L’ILE DE GRAZIA DELEDDA, DISAMISTADE de Franco Cabiddu et LES POMMES POURRIES de Pasquale Festa Campanile. Maria jouera aussi dans la pièce intitulée MEMOIRES D’HADRIEN avec Giorgio Albertazzi et interprètera Grazia Deledda dans un téléfilm de Oliviero Beha.
Jésus de Nazareth
Cependant, le cinéma n’est pas le monde de Maria Carta car sa passion reste le chant. Sa notoriété dépasse les frontières. Elle est invitée dans les plus grands théâtres et les plus grandes cathédrales du monde, de l’Italie à l’Allemagne, en passant par la France, la Suisse, l’ Espagne, la Belgique et tant autres pays européens, jusqu’au Bolchoï de Moscou, mais aussi sur le continent américain, africain, et en Inde. Elle chantera avec Joan Baez et Amalia Rodrigues. Le Président soviétique Michail Gorbacev l’invitera à Stockholm pour la fête du Prix Nobel. De 1980 à 1986, elle viendra souvent en France et y deviendra un mythe: elle fera plusieurs concerts au Palais des Papes à Avignon, chantera dans la basilique de Saint Severin, à l’Olympia et au Théâtre de la Ville de Paris. Les journaux français, LE FIGARO, LE MONDE, L’HUMANITE, LES NOUVELLES LITTERAIRES, LE MATIN documenteront ses succès tout en la décrivant comme la voix qui raconte l’âme d’un peuple qui tient ses origines de la mer et du monde latin. Sa notoriété est désormais internationale, mais la seconde moitié des années quatre-vingt est parsemée d’ événements douloureux qui marqueront sa vie: sa mère puis sa soeur meurent, se retrouvant ainsi seule.
Le 17 novembre 1986, elle part au Pérou où elle tient des concerts à Lima. Elle se produit ensuite à New York, dans la Cathédrale de Saint Patrick, avec un concert de chants grégoriens, spirituals et mélodies sardes. Son succès est tellement retentissant que les journaux en parleront pendant plusieurs jours. En 1988, elle chante dans la Cathédrale de Saint Mary et ensuite à Philadelphia. En 1989, elle est à Hambourg et c’est là qu’elle apprend être atteinte d’une grave maladie. Elle en donnera publiquement la nouvelle peu de temps après dans l’émission MAURIZIO COSTANZO SHOW. À l’occasion du IX centenaire de fondation de l’Université de Bologne, elle se produit dans l’Aula Magna et en 1990 cette même université lui confie la Charge de professeur invité d’Anthropologie culturelle. L’Université de Sassari la choisit également pour enseigner aux étudiants la méthode de recherche sur les chants populaires. En 1991, elle est nommée Commandeur de la République italienne par le Président Francesco Cossiga. La maladie la pousse souvent à capituler, cependant elle poursuit sa lutte en participant comme invitée à un grand nombre d’émissions télévisées avec Maurizio Costanzo, Pippo Baudo, Gigi Marzullo, Wilma de Angelis, Red Ronnie, sans renoncer à chanter au Festival de San Remo, jusqu’à ce que ses forces l’abandonnent. Elle meurt chez elle à Rome le 22 septembre 1994.
Après sa mort, en 1994, la Fondation Maria Carta est créée afin de promouvoir la culture et la musique sarde et c’est cette même fondation qui, depuis 2003, décerne le Prix Maria Carta à ceux qui, d’une façon ou d’ une autre, contribuent à soutenir et faire connaître la culture sarde en Italie comme dans le monde entier. En 2016, la Fondation a été promotrice du projet FREEMMOS- LIBERI DI RESTARE, une initiative qui vise à sensibiliser l’opinion publique sur le drame de la dépopulation des régions intérieures du territoire sarde. Des places et des rues partout en Italie portent son nom, mais principalement dans sa chère Sardaigne.
Cagliari, photo de Daniela Serra
Sassari, photo Teresa Spano
Traduzione inglese Syd Stapleton
Maria Carta was an Italian singer-songwriter, actress and politician. Throughout her singing career she traversed the many aspects of traditional Sardinian music, with the ability to update tradition with modern and personal arrangements. She was born in Siligo, a small town on the island of Sardinia, on June 24, 1934. At birth she was given the name Maria Giovanna Agostina - Giovanna because she was born on the feast day of Saint John and Maria Agostina in memory of her maternal grandmother. At the age of eight she lost her father to a serious illness and was forced, as were all boys and girls of her social status, to face daily labors both at home and in the countryside. At an early age it became apparent that she had a beautiful voice. She worked and sang. Her first audience was the people of the village - the women who picked olives with her, the women who tended the wheat, the women who washed clothes in the river, the shepherds, and the farmers. She learned Christmas songs and the Latin Mass from the village pastor. She sang in church during novenas, in the rites of Holy Week, and at High Masses. Then she started in the squares with the cantadores (singers), who have always been considered the pillars of Sardinian singing.
By the 1950s, Maria Carta already had achieved some recognition in her land. As her first job opportunity, that saw her star in a photostory faded, she, wrapped in silk taffeta, won the "Miss Sardinia" contest. She was a woman who embraced the future, and on the threshold of the 1960s she left the island and reached Rome, where she attended the Accademia di Santa Cecilia's popular music study center directed by Diego Carpitella, thus beginning to explore her region to research and record ancient songs to save them from oblivion and give them her own voice.
«In Sardinia, singing was born female, along with poetry, at the time of the matriarchy....».
She struggled with the difficulty of being accepted as a woman on stage in Sardinia, because, she said,
«hen Sardinian singing was the exclusive preserve of men.».
She settled, therefore, permanently in the capital, but often returned home to collect songs, poems and melodies from the living voices of old men and women. In Sardinia she collaborated with Don Giovanni Maria Dettori, a priest in Siligo, scholar and expert connoisseur of the Sardinian language, songs, and poetry, and himself a poet recognized by the most important Prizes of the region. From him she learned Gregorian chant and ancient melodies in the Sardinian language. Carta's career officially began in 1972 when Ennio Morricone had her record the theme song for the TV drama "Moses," although her first record "Paradiso in Re" was released in 1971, followed by other albums, including "Delirio" and "Nuovo Maggio" (1973), "Dies Irae" (1974), "Vi canto una storia assai vera" - a collection of folk songs and political protest - (1976), "La voce e i canti di Maria Carta" I and II vol. (1977), "Umbras" (1978), "Aidiridiridinni" (1979), "Sonos de memoria" (1985), up to her latest CD, almost all in Italian, "Le memorie della musica" (1993). Maria sang of love, death, joy, and sorrow through ancient and magical melodies. Her singing, born of necessity and fueled by passion, soon became a moral commitment, a definite task to be carried out.
With her unique voice, capable of arousing strong emotions, she recounts feelings and nostalgia, the hopes of an ancient people so that everyone in the world may know its true soul. She took on a deep political commitment in which singing becomes a poetic moment of struggle, and with reason she is credited with bringing the Sardinian folk tradition to acquire universal value. Also in 1972, a documentary was broadcast by RAI, “Incontro con Maria Carta” in which Carta interacted with Riccardo Cucciolla reciting verses, singing and recounting autobiographical fragments. Yet another documentary “Maria Carta, Sardegna, una voce” was directed by Gianni Amico - with screenplay, artistic collaboration by Salvatore Laurani. In 1975 she published in "Canto Rituale - Roma Coines" a collection of poems, of "stories" that evoke certain suggestions of the Spoon River Anthology. She entrusted poetry with social denunciation. It was her gaze on the forgotten that shed light on the despair of the mountains as well as on the work that killed in the factories of Belgium, on the dust and sweat that penetrated the wrinkles like wounds, year after year, on the faces of millions of broken men and women, illuminated by the light of dawn and petrified. She did so by giving voice to a kind of encyclopedia of the dead, evoking Nicola Virdis descending seven hundred meters into the blackness of a mine. Her words are political.
In 1976 she was elected city councilwoman in Rome on the slate of the Italian Communist Party. And in those years she strengthened an already existing relationship of esteem and deep friendship with Enrico Berlinguer. Of that experience, carried on steadily, she wrote, "Political activity has been a flash in my life. I attended, I engaged, and they are moments that have served me well, it was a great experience. Now I think it was not right to do politics...Perhaps it was my moment of protest, of becoming aware." In 1981, the birth of her son David, the most important event in her life, inspired one of the most beautiful lullabies to be included in her repertoire. But Maria was not only a singer, researcher and poet - she also starred in many films and enjoyed the friendship of famous directors such as Pier Paolo Pasolini and Franco Zeffirelli. She played the part of Cecilia in Jean Louis Comolli's "History of a Common Revolutionary" in France. She played the mother in F. Coppola's "Godfather Part II" with Robert De Niro and Marlon Brando. She is Martha in F. Zeffirelli's "Jesus of Nazareth." She worked in Franco Rosi's "Cadaveri eccellenti" and Marco Parodi's "Padroni dell'estate." She played a widow in the TV script "Il passatore" (Renaissance character) and then plays again "Medea" with Valeria Morioni, by Franco Enriquez and St. Teresa of Avila in "A piedi nudi verso Dio” (about the life of the 16th century Spanish Carmelite St. John of the Cross). She appeared in Giorgio Moser's "The Outcast of the Islands," filmed in India, had a role in Giuseppe Tornatore's "Camorrista," worked in "The Island of Grazia Deledda," in Franco Cabiddu's "Disamistade" and in Raffaele Festa Campanile's "Rotten Apples." She acted in the play "Le memorie di Adriano" with Giorgio Albertazzi. She played Grazia Deledda in a major broadcast by Oliviero Beha.
Jesus of Nazareth
But cinema was not Maria Carta's world - her life passion always remained singing. And it was singing that took her from one success to another. Her celebrity crossed borders - she was invited to sing in the most famous theaters and cathedrals in the world, from Italy to Germany, France, Switzerland, Spain, Belgium, and other countries in Europe, to the Bolshoi in Moscow and then to America, Africa, and India. She sang with Joan Baez and with Amália Rodrigues. She was invited by Soviet President Michail Gorbachov to Stockholm for the Nobel Prize celebration. From 1980 to 1986 she was a frequent guest in France where she became a legend. She gave several concerts in the Papal Palace in Avignon, sang in the basilica of St. Severin, at the Olympia and the Théâtre de la Ville in Paris. The French newspapers Le Figaro, Le Monde, Humanité, Les Nouvelles littéraires, and Le Matin reported her successes and presented her as the voice that evokes the soul of a people coming from the Latin mother and the sea. Her fame was therefore, international, but from the second half of the 1980s some painful events marked her life. Her sister and mother died, and she found herself alone again.
On November 17, 1986, she left for Peru where she gave concerts in Lima. She then performed in New York, at St. Patrick's Cathedral, with a concert of Gregorian chants, spirituals and Sardinian melodies. It was an overwhelming success and newspapers wrote about the event for several days. In 1988 she was at St. Mary's Cathedral and then in Philadelphia. In 1989 she was in Hamburg. In that year she discovered that she was suffering from a serious illness, an illness that she made public, after some time, on the "Maurizio Costanzo Show." In the same year she performed in the Aula Magna of the University of Bologna on the occasion of the IX Centenary celebrations. In 1990 she was awarded the position of contract lecturer in Cultural Anthropology at the same University. The University of Sassari also appointed her to teach her methods of research on folk songs to male and female students. In 1991, President of the Italian Republic, Franceso Cossiga, appointed her Commendatrix of the Italian Republic. Illness often led her to think of giving up, but she continued to fight and participated in many broadcasts. She was a guest of Maurizio Costanzo, Pippo Baudo, Gigi Marzullo, Wilma de Angelis, Red Ronnie, and sang at S. Remo up until the time she passed away at her home in Rome on September 22, 1994.
After her death, the Maria Carta Foundation was established in 1994 with the aim of promoting the culture and music of Sardinia. Since 2003, the same foundation has awarded the Maria Carta Prize each year to those who, in one way or another, contribute to promoting Sardinian culture in Italy and around the world. In 2016, the foundation was the promoter of the Freemmos - Liberi di restare project, an initiative to raise awareness about the drama of depopulation of the island's inland areas.
Cagliari, photo by Daniela Serra
Sassari, photo by Teresa Spano
Traduzione spagnola Alessia Coluccio
Maria Carta fue una cantautora, actriz y política italiana. Durante su carrera recorrió los múltiples apectos de la música tradicional sarda, sabiéndola actualizar con arreglos modernos y personales. Nació en Siligo, un pueblecito de la provincia de Sassari (Cerdeña), el 24 de junio de 1934. Le dieron el nombre de Maria Giovanna Agostina: Giovanna dado que nació el día de la fiesta de San Juan y Maria Agostina en recuerdo de su abuela. Cuando tenía 8 años perdió a su padre a causa de una grave enfermedad y se vio obligada, por otra parte como todos los niños y niñas de su condición social, a enfrentar las labores cotidianas en casa y en el campo. Desde pequeña demuestra tener una linda voz, trabaja y canta, canta y trabaja. Su primer público es la gente del lugar, las mujeres que junto a ella cosechan las aceitunas, escardan el trigo, las mujeres que limpian la ropa en el río, los pastores, los campesinos. Aprende los cantos de Navidad y la misa en latín del párroco. Canta en la iglesia durante las novenas, en los ritos de Semana Santa y en las misas solemnes. Después empieza en las plazas con los cantadores locales, desde siempre considerados los pilares del canto sardo.
Los años 50 llevan a Maria Carta a ser reconocida en su tierra, mientras desaparece la primera oportunidad de trabajo que la ve protagonista en una fotonovela; gana –envuelta por un chal de seda– el concurso de Miss Cerdeña. Se convierte en una mujer que camina hacia el futuro, y en el umbral de los años 60 deja su isla para irse a Roma, donde frecuenta el Centro de estudios de música popular de la Academia de Santa Cecilia dirigido por Diego Carpitella, y así empieza a explorar su territorio para buscar y grabar antiguos cantos salvándolos del olvido y dándoles su voz:
«En Cerdeña el canto nació femenino, junto a la poesía, nació en los tiempos del matriarcado...».
Choca con la dificultadad de ser aceptada como mujer en el escenario en Cerdeña porque, cuenta,
«entonces el canto sardo pertenecía exclusivamente a los hombres».
Se establece definitivamente en Roma, pero regresa a menudo a su casa para recopilar los cantos, las poesías y las melodías de la voz de los ancianos. En la isla colabora con Giovanni Maria Dettori, sacerdote de Siligo, estudioso y experto del idioma sardo, de los cantos, de la poesía y él mismo poeta reconocido en las manifestaciones culturales más importantes de la región. Gracias a él aprende el canto gregoriano y viejas melodías en sardo. La carrera de Maria empieza oficilamente en 1972 cuando Ennio Morricone le hace grabar la canción de la serie televisiva Mosè (Moisés), aunque su primer disco Paradiso in Re había salido ya en 1971, seguido luego de otros álbumes entre los que aquí se recuerdan Delirio y Nuovo Maggio (1973), Dies irae (1974), Vi canto una storia assai vera –un conjunto de cantos populares y de protesta política (1976)–, La voce e i canti di Maria Carta I e II vol. (1977), Umbras (1978), Aidiridiridinni (1979), Sonos de memoria (1985), hasta llegar a su último CD, casi todo en italiano, Le memorie della musica (1993). Maria canta el amor, la muerte, la felicidad, el dolor a través de antiguas melodías mágicas. Su canto, nacido de la necesidad y alimentado por la pasión, se convierte rápidamente en un deber moral, una tarea concreta que tiene que llevar adelante.
on su voz única, capaz de suscitar fuertes emociones, cuenta sentimientos y nostalgias, las esperanzas de un pueblo antiguo para que el resto del mundo conozca su auténtica alma. Asume un profundo compromiso político en donde el canto se convierte en momento poético de lucha, y con razón se le atribuye el mérito de haber otorgado a la tradición popular sarda un valor universal. En 1972 la RAI presenta el documental Incontro con Maria Carta (Encuentro con M.C.) donde la artista interactúa con Riccardo Cucciolla recitando versos, cantando y relatando fragmentos autobiográficos. Llega otro documental, Maria Carta. Sardegna, una voce (M.C., Cerdeña, una voz) dirigido por Gianni Amico con guion, escenografía y colaboración artística de Salvatore Laurani. En 1975 publica Canto rituale (Roma), una recolección de poesías, de ‘historias’ que evocan algunas sugestiones de la Antología de Spoon River. Encomienda la denuncia social a la poesía. Su mirada hacia los olvidados proporciona luz a la desesperación de los muertos así como al trabajo que mata en las fábricas belgas, al polvo y al sudor que penetran en las arrugas como si fueran heridas, año tras año, en los rostros de millones de mujeres y hombres destrozados, iluminados por la luz de la madrugada y petrificados. Lo hace dando voz a una especie de enciclopedia de los muertos, evocando a Nicola Virdis que desciende a setecientos metros bajo tierra en la negrura de una mina. Sus palabras son políticas.
En 1976 sale elegida concejala del ayuntamiento de Roma en las listas del Partido comunista italiano (PCI). Durante esos años refuerza su relación de estimación y profunda amistad con Enrico Berlinguer, presidente del PCI de 1972 a 1984. Sobre esa experiencia, que llevó a cabo con constancia, escribe: «La actividad política fue un flash en mi vida. Participé, me comprometí: y son momentos que me han servido mucho, fue una gran experiencia. Ahora creo que no es justo que haga política… Quizás fue un momento mío de protesta, de toma de conciencia». En 1981 el nacimiento de su hijo David, el evento más iportante de su vida, le inspira una de las canciones de cuna más lindas que añade a su repertorio. Sin embargo Maria no es solo una cantante, investigadora y poetisa, también es protagonista de muchas películas y goza de la amistad con directores de cine del calibre de Pier Paolo Pasolini y Franco Zeffirelli. En Francia interpreta el papel de Cecilia en La Cecilia de Jean Louis Comolli. En El Padrino de Francis Ford Coppola con Robert de Niro y Marlon Brando, Parte II, es la madre. Es Marta en Jesús de Nazaret de Zeffirelli. Trabaja en Excelentísimos cadáveres de Franco Rosi y en Padroni dell’estate (Dueños del verano) de Marco Parodi. Tiene el papel de la viuda en la serie televisiva Il passatore (un famoso bandolero del 800) y luego interpreta a Medea en el teatro, con Valeria Moriconi bajo la dirección de Franco Enriquez, y a santa Teresa de Ávila en A piedi nudi verso Dio (Descalzo hacia Dios), película dedicada a San Juan de la Cruz. Participa en la serie Un reietto delle isole de Giorgio Moser, rodado enteramente en la India; tiene un papel en El Camorrista de Giuseppe Tornatore, trabaja en la película sobre Grazia Deledda L’isola di Grazia Deledda, Disamistade de Franco Cabiddu y en Le mele marce de Pasquale Festa Campanile. Actúa en el espectáculo teatral Las memorias de Adriano con Giorgio Albertazzi; interpreta a Grazia Deledda en un importante programa de la RAI presentado por Oliviero Beha.
Jesús de Nazaret
No obstante, el cine no es el mundo de Maria Carta, la pasión de su vida sigue siendo el canto. Y es el canto lo que la lleva de un éxito a otro. Su fama supera las fronteras; la invitan a los teatros y catedrales más célebres del mundo: desde Italia viaja por toda Europa (Alemania, Bélgica, España, Francia, Suiza, entre otros) hasta llegar al Bolshoi de Moscú y luego al continente americano, al africano, a la India. Canta con Joan Baez y con Amalia Rodrígues. El presidente soviético Mijaíl Gorvachov la invita a Estocolmo en ocasión de la fiesta del Premio Nobel. De 1980 a 1986 a menudo se encuentra en Francia donde se convierte en un mito: hace varios conciertos en el Palacio de los Papas de Aviñón, canta en la basílica de San Severin, en el Olympia y en el Théâtre de la Ville de París. Los periódicos franceses Le Figaro, Le Monde, Humanité, Les Nouvelles littéraires, Le Matin recogen sus éxitos y la presentan como una voz que evoca el alma de un pueblo de madre latina procedente del mar. Su fama ya es internacional, sin embargo algunos eventos dolorosos marcan su vida a partir de la segunda mitad de los años ochenta: su hermana y su madre mueren, y vuelve a encontrarse a solas.
El 17 de noviembre de 1986 sale hacia Perú, donde hace una serie de conciertos en Lima. Se exhibe en la catedral de San Patricio de Nueva York, en un concierto de cantos gregorianos, espirituales y melodias sardas: el éxito es arrasador y los periódicos hablan del acontecimiento durante días. En 1988 se encuentra en la Catedral de Saint Mary y luego en Filadelfia. En 1989 en Hamburgo: ese año descubre que sufre una grave enfermedad, de la que habla públicamente algo más tarde en un programa televisivo italiano. Se exhibe en el aula magna de la Universidad de Bolonia en casión de las celebraciones de su IX Centenario y en 1999 la misma universidad le encarga la docencia del curso de Antropología cultural. La Universidad sarda de Sassari le encarga que enseñe su método de investigación sobre los cantos populares a sus estudiantes. En 1991 el presidente de la República Italiana, Francesco Cossiga (sardo como ella), le otorga el prestigioso título de Commendatrice della Repubblica italiana. La enfermedad la lleva a menudo a pensar en redirse, pero sigue luchando y participa en muchísimos programas de televisión con presentadores como Maurizio Costanzo, Pippo Baudo, Gigi Marzullo, Wilma de Angelis, Red Ronnie; canta en el Festival della canzone italiana de San Remo (1993) pero no pasa la selección. Muere en su casa de Roma el 22 de septiembre de 1994.
Tras su muerte, ese mismo año se instituye la Fondazione Maria Carta, con el objetivo de promover la cultura y la música de Cerdeña. A partir de 2003 dicha fundación otorga anualmente el “Premio Maria Carta” a quien contribuye de algún modo a promover la imagen de la cultura sarda en Italia y en el mundo. En 2016 la Fundación promueve el proyecto Freemos - Liberi di restare (Libres de quedarse), una iniciativa para sensibilizar a la opinión pública sobre el drama de la despoblación de las zonas internas de la isla. En toda Italia hay calles y plazas con su nombre, especialmente en su amada Cerdeña.
Haydeé Mercede Sosa nasce con la finestra aperta. Era così che allora si veniva al mondo in Argentina, a Tucumán. Con la finestra aperta e senza pretese. Ma quei vetri spalancati sono la genetica di una voce da Pachamama, ctonia e pellegrina, destinata ad andare e raccontare l’identità, il destino, il dolore e la speranza di tutta una terra, di tutto un popolo. E la genetica è forse anche nella data, il 9 luglio del 1935, giornata in cui l’Argentina festeggia e ricorda la propria indipendenza. Come può dunque il primo vagito esimersi dal diventare grido unanime di resistenza e rivoluzione?
Non può, anche se Mercedes Sosa si opporrà, almeno all’inizio, alla condivisione della propria voce con altri e altre che non siano sé stessa e la sua famiglia, egoista del dono che invece poi farà al mondo ultimo, quello del buio e del margine, quello della polvere e del sangue, regalandogli alla fine la via d’uscita e il riconoscimento dei canti e della musica.
Un mondo che ella stessa conosce perfettamente, perché da lì viene, lì nasce e vive, almeno fino al suo successo, inaspettato e in parte non voluto. Sarà, infatti, solo la responsabilità di dare parola e visibilità agli uomini e alle donne nei cui confronti la Storia pare soffrire di afasia che la manterrà sul palcoscenico: «un giorno, dopo tanti spettacoli in giro per il mondo – dice lei –, mi portò [Pocho Mazzitelli, ndr] in banca perché vedessi i dollari che avevo guadagnato grazie al mio lavoro. Mi impressionò così tanto che dovetti uscire subito per andare a vomitare, perché io i dollari li ho odiati per tutta la vita». È un’idealista, Mercedes Sosa, nel significato più alto e nobile che il termine può assumere. Ed è, di conseguenza, una comunista. La madre, Ema del Carmen, presta servizio in case facoltose nelle quali prepara pasti abbondanti e succulenti, ma alla propria famiglia fa spesso mangiare pane e risata. Il padre, Ernesto Quiterio Sosa, fa lo stivatore al porto, il borsettaio, l’operaio in segheria, l’alimentatore di caldaie in uno zuccherificio, e ciò che porta a casa, oltre a un salario misero, è l’amaro gusto di una società che dà il dolce solo a chi può permetterselo. Nonostante questo, la giovinezza di Sosa è piena di allegria e serenità.
«Ci mancava tutto ma era come se non ci mancasse niente».
Il primo approccio “pubblico” alla musica avviene nel 1950, con la partecipazione a un concorso organizzato da LV12, un’emittente locale. Quando il padre ascolta la voce della figlia va su tutte le furie: troppa è la vergogna, troppo poco il decoro, e si fa promettere che mai più accadrà una cosa del genere. C’è però la genetica delle finestre aperte e del 9 luglio, e pochi giorni dopo, a casa della famiglia Sosa, bussa il direttore della radio. La giovane Mercedes ha vinto il primo premio e un contratto: cantare una volta alla settimana per duecento pesos, lo stipendio che Ernesto Quiterio guadagna in un intero mese. L’uomo si arrende. Nasce Gladys Osorio. Solo che Gladys Osorio è Mercedes e Mercedes odia cantare per qualcun altro che non sia la sua famiglia. I soldi però servono e allora si ingoia il malessere e ci si esibisce. Almeno finché a Tucumán non arriva Oscar Matus. Matus è un chitarrista e compositore, e crede fermamente che il folklore debba allontanarsi dalla natura e donarsi all’essere umano. Sosa, che sta per sposarsi con un altro, ne rimane folgorata. In breve tempo, i due si innamorano. E il loro sodalizio, sentimentale e artistico, segnerà la nascita della musica popolare dell’intera America Latina. Basta con l’imitazione posticcia di canti sempre uguali a sé stessi. Le melodie e le parole possono assumere una dignità del tutto nuova. Nuova e necessaria: quella della lotta e della resistenza. I canti nazionali argentini possono e devono essere canti politici. Canti che si dividono per unire, che rappresentano le molteplici realtà locali e regionali divenendo, così, un ecumenico inno di umanità. È una vera e propria rivoluzione.
Il progetto, che prende il nome di Nuevo Cancionero, è presentato ufficialmente l’11 febbraio 1963, nel salone del circolo dei giornalisti di Buenos Aires, città nella quale Sosa e Matus sono andati a vivere in cerca di fama e fortuna. La carriera di entrambi, però, stenta a decollare: i due lavorano di giorno in una portineria e di notte si esibiscono nei locali. Talmente pesante è l’indigenza che nel 1962 avevano anche deciso di lasciare l’Argentina. Insieme al figlioletto Fabián, si erano trasferiti in Uruguay, dove stava nascendo proprio in quel periodo un nuovo movimento artistico, molto simile al Nuevo Cancionero argentino, intorno a nomi quali Eduardo Galeano e Mario Benedetti. Lì effettivamente un certo successo arriva. A mancare, però, è il battesimo artistico dell’Argentina. Così, nel 1965, Mercedes Sosa, spinta dal folclorista Jorge Cafrune, e con un biglietto pagato grazie alla colletta di alcuni amici, partecipa al Festival Nacional de Folklore, a Cosquín, cittadina nella provincia di Córdoba. Lei è ancora la ragazzina timida di Tucumán, che odia esibirsi in pubblico. Quando è il suo momento — vestita di un poncho, con i lunghi e neri capelli lasciati sciolti, accompagnata soltanto dal bombo legüero, lo strumento di percussione andino — e iniziano le note e le parole di Canción del derrumbe indio, nella sala si fa un silenzio netto e denso.
E mentre gli organizzatori si indignano, riconoscendo in lei tematiche e simpatie comuniste, il pubblico è completamente e perdutamente ammaliato. Per la prima volta, uomini e donne del popolo argentino hanno potuto ascoltare la voce della loro Pachamama e in essa riconoscersi e ritrovarsi. Al festival seguono alcuni dischi, come Romance de la muerte de Juan Lavalle, Yo no canto por cantar, Para cantarle a mi gente. Arrivano i primi soldi che però non bastano per uscire dallo stato di indigenza nel quale Sosa e Matu hanno vissuto finora. L’uomo è inoltre geloso del successo di Mercedes. Diventa violento e la donna è costretta a fuggire insieme al figlio, di pensione in pensione, cantando nei locali notturni della capitale per mantenere entrambi, almeno finché non deciderà di lasciare il piccolo a Tucumán, a casa dei propri genitori. Il matrimonio con Matu finisce così, con una Mercedes Sosa sprofondata in una solitudine sia artistica che affettiva dalla quale faticherà a uscire. Lo farà, ovviamente, grazie alla musica e grazie anche a un nuovo amore. Con Pocho Mazzitelli, infatti, secondo marito e suo manager, nasce l’artista internazionale.
Mercede Sosa, la Negra, calca i palcoscenici di Miami, Lisbona, Porto, Roma, Varsavia, Leningrado, Baku e Tbilisi: «la mia esistenza è stata questo: un inesausto viaggio per le città di tutti i continenti». Poco prima dell’uscita del suo nuovo album, Mercedes Sosa, dedicato ai poeti latinoamericani come Pablo Neruda e Víctor Jara, a seguito del colpo di Stato del 24 marzo 1976, in Argentina si instaura la dittatura del generale Jorge Rafael Videla. La censura, che sempre e da sempre ha colpito la cantante, diventa più aspra e asfissiante. Come se non bastasse, nel 1978 muore nel giro di una settimana il suo amato compagno per un tumore al cervello. Otto mesi dopo, durante un concerto a La Plata, viene arrestata e trattenuta insieme al pubblico presente per qualche ora, liberata grazie alle pressioni internazionali. In breve tempo, tutti i suoi spettacoli sono cancellati, la sua voce sparisce dalla radio e i suoi dischi dai negozi. Il regime sta provando a cancellare la cantora del popolo argentino:
«Mi tornano in mente le immagini della sera in cui mi arrestarono a La Plata. Era tutto preparato, la polizia organizzò l’azione e l’esercito circondò il posto. Dovevano entrare mentre cantavo Cuando tenga la tierra. Mi sforzai e la cantai, stavo quasi per cantare El mundo prometito a Juanito Laguna, quando arriva Fabían disperato e mi grida: Mercedes, scendi dal palco! Avevamo già la polizia addosso».
Le azioni di repressione non colpiscono soltanto lei, ma anche il suo pubblico, le persone che la amano e la seguono. Il messaggio è chiaro: deve andarsene. Nel 1979, la Negra va in esilio in Spagna, poi a Parigi. Canta in Germania e in Giappone. E ovunque le sue canzoni raccontano l’oppressione e la lotta, la schiavitù e la libertà, il potere ingiusto e gli uomini e le donne che a esso si oppongono. Non serve capire le parole. Ovunque la sua voce, che esce suono e arriva in ogni angolo, diventa liquida e lambisce e occupa spazi, si fa infine roccia e massa, terra sulla quale arrampicarsi per respirare l’ossigeno dell’orgoglio e della rivoluzione. Sarà soltanto nel 1982 che potrà tornare in Argentina. La dittatura è ormai agli sgoccioli, ma i militari per le strade ancora sparano e la censura ancora morde feroce.
«Mi chiamo Mercedes Sosa, sono argentina», dirà la cantante al grande concerto a Buenos Aires, organizzato per il suo rientro. E mentre fuori dal teatro l’esercito dà voce alle armi, sul palcoscenico lei canta tutto il suo repertorio, molto del quale ancora vietato. Ripeterà lo spettacolo per tredici sere, iniziando sempre con il brano Todavía cantamos, una dedica ai tanti desaparecidos, suoi fratelli e sue sorelle, ingoiati dalla follia e dall’odio umani. Con il ritorno della democrazia, l’impegno politico e sociale di Sosa non si ferma. Continuerà a cantare e a viaggiare per il mondo, battendosi, anche grazie alla sua musica, per la depenalizzazione dell’aborto, contro le dittature, per la verità sui desaparecidos, per la pace e i diritti civili, per la salvaguardia dell’ambiente. Nel 1997, parteciperà, in veste di Vice Presidente della Commissione per la stesura della Carta della Terra, al convegno in cui viene stilato un documento per la Tutela dell’Ambiente.
La Negra si spegne nella capitale argentina il 4 ottobre del 2009, a causa di un’insufficienza renale. Nel “Salone dei passi perduti” viene allestita la camera ardente e il governo indice tre giorni di lutto nazionale. Simbolo dell’America Latina, Mercedes Sosa è stata la Cantora della libertà: dei popoli, delle donne, individuale. Ha fatto respirare un’intera terra con il fiato primordiale che le apparteneva, facendolo volare lontano da quelle oppressioni che non le sono mai state risparmiate. Ha cantato e lottato. Lottato e cantato, sperando che la propria voce, qualsiasi voce di qualsiasi canto, si sostituisse finalmente all’urlo mostruoso delle armi, delle violenze e delle ingiustizie.
«Pero no cambia mi amor/por más lejos que me encuentre/ni el recuerdo ni el dolor/de mi pueblo y de mi gente/y lo que cambió ayer/tendrá que cambiar mañana/así como cambio yo/ En esta tierra lejana. Cambia, todo cambia..
Ma non cambia il mio amore/per quanto lontano mi trovi,/né il ricordo né il dolore/della mia terra e della mia gente./E ciò che è cambiato ieri /di nuovo cambierà domani/così come cambio io/in questa terra lontana. Cambia, tutto cambia».
Traduzione francese Rachele Stanchina
Haydée Mercedes Sosa nait avec la fenêtre ouverte. C’était ainsi que l’on venait au monde en Argentine, à Tucuman, avec la fenêtre ouverte et sans prétention. Mais ces volets grands ouverts ce sont la génétique d’une voix de Pachamama, chtonie et pèlerine, destinée à voyager pour raconter l’identité, le destin, la douleur et l’espoir de toute une terre et de tout un peuple amérindien. Et peut-être que la génétique a aussi un lien avec sa date de sa naissance , le 9 juillet 1935, journée durant laquelle le pays fête son Indépendance: le premier cri de Mercedes est destiné à devenir la voix unanime de la résistance et de la révolution.
Cependant Mercedes Sosa, à ses débuts, ne souhaite pas partager sa voix avec d’autres interprètes qui n’appartiennent pas à son entourage et à sa famille, révélant ainsi une sorte d’égoïsme. Mais elle changera d’avis en la partageant avec le monde des oubliés, celui des gens qui vivent dans l’ombre, à l’écart, dans la poussière et le sang, leur donnant ainsi la possibilité d’en sortir et de se montrer grâce au chant et à la musique.
Elle connaît parfaitement ce monde, elle y est née, elle y a vécu, du moins jusqu’à son succès inattendu et, d’une certaine façon, non désiré. En effet, c’est la responsabilité qu’elle ressent à donner de la voix et de la visibilité à ceux que l’Histoire veut muets qui la pousse à monter sur scène. Elle dira “Un jour, après un grand nombre de spectacles partout dans le monde, il (Pocho Mazzitelli) m’a conduit à la banque afin de me montrer tous les dollars que j’avais gagné grâce à mon travail. Cela m’a tellement choqué que j’ai dû m’enfuir pour aller vomir, car j’ai détesté les dollars pendant toute ma vie”. Mercedes Sosa est une idéaliste au sens noble du terme. C’est une communiste convaincue. Sa mère, Ema del Carme, travaille comme domestique chez des gens aisés, pour qui elle prépare des repas riches et copieux, alors qu’elle ne peut offrir à sa famille que du pain et des rires. Son père, Ernesto Quiterio Sosa, est à la fois manutentionnaire au port, cordonnier, ouvrier dans une scierie, responsable de la chaudière d’une sucrerie… Avec son misérable salaire, il porte avec lui dans la maison l’amertume d’une société qui donne de la douceur seulement à ceux qui peuvent y arriver. Mais malgré la situation, la jeunesse de Mercedes est riche de gaieté et de sérénité.
«Tout nous manquait, mais c’était comme si nous ne manquions de rien».
Mercedes a son premier contact musical avec le “public” en 1950 lors de sa participation à un concours organisé par LV12, une radio locale. Quand le père écoute la voix de sa fille il s’enrage: trop de honte, trop peu de décorum…Mercedes doit lui promettre que jamais plus elle ne se produira ainsi. Mais la génétique de la fenêtre ouverte et du 9 juillet est toujours là. Quelques jours après, le directeur de la radio frappe à la porte des Sosa avec un contrat et la nouvelle que Mercedes a obtenu le premier prix. Elle chantera une fois par semaine pour deux-cents pesos, le salaire que Ernesto Quiterio gagne pendant un mois entier. Son père capitule et c’est ainsi que nait Gladys Osorio. D’un côté Gladys- Mercedes déteste chanter pour des personnes qui ne sont pas de son entourage mais de l’autre sa famille a besoin d’argent. Elle met ainsi de côté son malaise. Du moins jusqu’à l’arrivée d’ Oscar Matus à Tucuman. Matus est un guitariste et un compositeur qui a la conviction que la folklore doit s’éloigner de la nature pour entrer au service de l’humanité. Pour Mercedes, qui était sur le point de se marier avec un autre, c’est le coup de foudre. En peu de temps ils tombent amoureux et leur union, à la fois sentimentale et artistique, marquera la naissance de la musique populaire de toute l’Amérique Latine. Elle en a fini avec les chants qui se ressemblent tous: les mélodies et les mots peuvent acquérir une dignité tout à fait nouvelle et nécessaire, celle de la lutte et de la résistance. Les chants nationaux argentins peuvent et doivent être des chants politiques, différents, afin d’unir et avec l’espoir de représenter la multiplicité des réalités locales et régionales, devenant ainsi un hymne de l’humanité. Et c’est une véritable révolution.
Le projet, qui porte le nom de NUEVO CANCIONERO, est présenté officiellement le 11 février 1963 dans le Salon du Cercle des journalistes de Buenos Aires, ville où Sosa et Matus se sont installés en quête de célébrité et de fortune. Cependant la carrière du couple fatigue à démarrer: ils travaillent le jour dans une conciergerie et la nuit ils se produisent dans les clubs. Leur vie est si précaire qu’ils décident en 1962 de quitter l’Argentine avec leur fils Fabian alors agé de quelque mois. Ils partent en Uruguay où, dans la même période, se développait un nouveau mouvement artistique autour de certains artistes tels que Eduardo Galeano et Mario Benedetti, mouvement proche au NUEVO CANCIONERO argentin. Et effectivement, en Uruguay, ils connaissent un certain succès. Mais ce qui manque à Mercedes c’est son baptême artistique en Argentine. En 1965, poussée par le chanteur folklorique Jorge Cafrune, elle part pour Cosquin dans la province de Cordoba, avec un billet payé par ses amis, pour participer au Festival nacional de folklore. Elle est encore la jeune fille timide de Tucuman qui déteste se produire en public. Lorsque son tour arrive et que démarrent les premières notes et les premieres mots de Canciòn del derrumbe indio, la salle, admirative, plonge dans le silence. Elle est vêtue d’un poncho, elle porte de longs cheveux noirs, et elle est accompagnée d’un simple bombo leguero, un instrument de percussion des Andes.
Les organisateurs s’indignent en reconnaissant les thématiques et les inclinations communistes de Mercedes alors que le public est sous le charme. Pour la toute première fois, des hommes et des femmes argentins ont pu écouter la voix de leur Pachamama, s’y reconnaître et s’y retrouver. Le festival est suivi de plusieurs disques comme Romance de la muerte de Juan Lavalle, Yo no canto por cantar, Para cantarle a mi gente. L’ argent arrive, mais insuffisant pour permettre au couple de sortir de sa situation financière précaire. De plus, l’époux de Mercedes est jaloux de son succès. Il devient violent et la chanteuse est obligée de fuir avec son enfant, de maisons d’hôtes en maisons d’hôtes, s’exhibant dans les bars, le soir, dans la capitale, pour pouvoir assurer l’éducation de son fils. Finalement, elle décide de confier Fabian à ses parents à Tucuman. C’est ainsi que se conclut l’union de Mercedes et Matu. Elle sombre dans une solitude artistique et affective dont elle aura du mal à s’en sortir. Elle y parviendra, bien évidemment, grâce à la musique et à l’amour. C’est avec Pocho Mazzitelli, son deuxième époux et agent, que Mercedes naît en tant qu’artiste de renommée internationale.
Mercedes Sosa, surnommée la Negra, se produit sur les scènes de Miami, Lisbona, Porto, Rome, Varsovie, Leningrad, Baku et Tbilisi “Mon existence a été cela: un voyage inépuisable à travers les villes de tous les continents.” Mais la dictature du Général Jorge Rafael Videla s’installe en Argentine à la suite du coup d’état du 24 mars 1976, peu avant la sortie de son nouvel album MERCEDES SOSA, dédié aux poètes latino-américains Pablo Neruda et Victor Jara. La chanteuse a toujours été visée par la censure toujours plus dure et étouffante. De plus, en 1978, son époux bien-aimé meurt en seulement une semaine d’un cancer du cerveau. Huit mois après, pendant un concert à La Plata, elle est arrêtée et retenue pour quelques heures avec le public qui assistait au spectacle puis libérée grâce aux pressions internationales. En peu de temps, tous ses spectacles sont annulés, ses disques disparaissent des magasins ainsi que sa voix des ondes radio.
Le régime essaie d’effacer la cantora auprès du peuple argentin
“Je me souviens des évènements de ce soir là, lors de mon arrestation à La Plata. Tout avait été préparé, la police avait organisé l’action et la milice avait bouclé les lieux. Ils devaient entrer pendant que je chantais Cuando tenga la tierra. Je chantai, j’allai entamer El mundo prometido a Juanito Laguna lorsqu’arriva Fabian en criant: Mercedes, descends de la scène! Nous avons déjà la police sur le dos.”
La répression frappe non seulement Mercedes mais aussi son public, les personnes qui l’aiment et la suivent. Le message est clair: elle doit s’en aller. En 1979 la Negra s’exile en Espagne, puis à Paris, chante en Allemagne et au Japon. Partout, ses chansons racontent l’oppression et la lutte, l’esclavage et la liberté, le pouvoir injuste et les gens qui s’y opposent. Il n’est pas nécéssaire de comprendre les paroles: sa voix arrive à toucher tout le monde, comme un liquide qui atteint chaque endroit, puis devient rocher et terrain au-dessus duquel elle s’érige pour mieux respirer l’oxygène de l’orgueil et de la révolution. Mercedes ne pourra retourner en Argentine qu’en 1982. La dictature touche à sa fin, mais la milice tire encore dans les rues ainsi que la censure qui continue à faire pression férocement.
Lors du grand concert organisé à Buenos Aires pour sa rentrée elle proclame “Je m’appelle Mercedes Sosa, je suis argentine”, et sur la scène elle chante tout son répertoire, en grande partie encore interdit, pendant que dehors la milice fait écouter la voix des armes. Pendant treize soirées, elle répètera le même répertoire en ouvrant le spectacle avec toujours la même chanson Todavia cantamos, dédiée au grand nombre de desaparecidos qu’elle considère comme des frères et des soeurs, ensevelis par la folie et la haine humaine. Son engagement politique et social ne s’arrête pas avec le retour de la démocratie: elle continue à chanter et à voyager partout dans le monde, se battant à travers sa musique pour la dépénalisation de l’avortement, la vérité sur les desaparecidos, la paix et les droits civils, la sauvegarde de l’environnement et contre toutes les dictatures. En 1997, elle participe, en tant que vice présidente de la Commission chargée de la rédaction de la Carte de la Terre, au congrès qui doit élaborer un document sur la protection de la nature.
La Negra s’éteint le 4 octobre 2009 dans sa maison de Buenos Aires d’une insuffisance rénale. Une chapelle ardente est aménagée dans le “Salon des pas perdus” et le gouvernement décrète trois jours de deuil national. En tant que symbole de l’Amérique Latine, Mercedes Sosa a été la Cantora de la liberté des peuples, des femmes, de l’individu. Elle a permis à toute une terre de respirer avec ce souffle primordial qui lui appartenait, en le poussant loin des oppressions qu’elle avait elle-même subies. Elle a chanté et s’est battue, elle s’est battue et a chanté avec l’espoir que sa voix, ou bien la voix de n’importe quel autre chanteur ne réussisse à supplanter le cri monstrueux des armes, des violences et des injustices.
Pero no cambia mi amor/por más lejos que me encuentre/ni el recuerdo ni el dolor/de mi pueblo y de mi gente/y lo que cambió ayer/tendrá que cambiar mañana/así como cambio yo/ En esta tierra lejana. Cambia, todo cambia».
Mais mon amour ne change pas/ même si je me trouve loin/ ni le souvenir ni la douleur/de ma terre et de mes gens./ Et ce qui a changé hier/ à nouveau changera demain/ainsi je change/dans cette terre lointaine. Elle change, tout change».
Traduzione inglese Syd Stapleton
Haydeé Mercede Sosa was born by an open window. That was how people came into the world back then in Argentina, in Tucumán. With the window open and no pretenses. But those wide-open windows are the genetics of a voice from Pachamana, deeply rooted and original, destined to tell of the identity, destiny, pain and hope of a whole land, a whole people. And the genetics are perhaps also in the date, July 9, 1935. It’s the day Argentina celebrates and remembers its independence. How then can the first wail on an infant exempt itself from becoming a unanimous cry of resistance and revolution?
It cannot, although Mercedes Sosa will resist, at least at first, sharing her voice with those other than herself and her family, selfish of the gift she will instead later give to the entire world, the world of darkness and margin, the world of dust and blood, eventually giving it the way out through the recognition of songs and music.
A world she herself knew perfectly well, for that is where she came from, where she was born and where she lived, at least until her success – which was both unexpected and partly unwanted. It will, in fact, be only the responsibility of giving voice and visibility to men and women towards whom history seems to suffer from aphasia that will keep her on the stage. "One day, after so many performances around the world," she said, "he [Pocho Mazzitelli, ed.] took me to the bank so that I could see the dollars I had earned through my work. He impressed me so much that I had to leave immediately to go throw up, because I have hated dollars all my life." She was an idealist, Mercedes Sosa, in the highest and noblest meaning the term can take. And she was, consequently, a communist. Her mother, Ema del Carmen, served in wealthy homes in which she prepared hearty and succulent meals, but her own family was often fed with bread and laughter. Her father, Ernesto Quiterio Sosa, was a stevedore at the port, a worker in a sawmill, a boiler feeder in a sugar mill, and what he brought home, besides a meager salary, is the bitter taste of a society that gives desserts only to those who can afford it. Despite this, Sosa's youth was full of joy and serenity.
«We missed everything but it was as if we didn't miss anything».
Her first "public" approach to music came in 1950, with her participation in a contest organized by LV12, a local radio station. When her father heard his daughter's voice he went into a rage - too much shame, too little decorum, and he made himself promise that never again would such a thing happen. There was, however, the genetics of open windows and July 9, and a few days later, at the Sosa family home, the radio director knocked. Young Mercedes had won first prize and a contract - to sing once a week for two hundred pesos, the salary Ernesto Quiterio earns in an entire month. The man gave in. Gladys Osorio is born. Only Gladys Osorio is Mercedes and Mercedes hated singing for anyone other than her family. The money was needed, though, and so she swallowed the discomfort and performed. At least until Oscar Matus came to Tucumán. Matus was a guitarist and composer, and he firmly believed that folklore should move away from nature and give itself to the human being. Sosa, who was about to marry someone else, was thunderstruck. Before long, the two fell in love. And their partnership, sentimental and artistic, marked the birth of popular music throughout Latin America. No more posturing imitation of songs that are always the same. The melodies and words could take on an entirely new dignity. New and necessary - that of struggle and resistance. Argentine national songs can and must be political songs. Songs that divide in order to unite, that represent the multiple local and regional realities thus becoming an ecumenical hymn of humanity. It was a true revolution.
The project, which took the name Nuevo Cancionero, was officially presented on Feb. 11, 1963, in the hall of the journalists' club in Buenos Aires, the city to which Sosa and Matus went to live in search of fame and fortune. The careers of both, however, struggled to take off. The two worked in a concierge's office during the day and performed in clubs at night. So heavy was their destitution that by 1962 they had even decided to leave Argentina. Together with their young son Fabián, they moved to Uruguay, where a new artistic movement, much like Argentina's Nuevo Cancionero, was emerging around names such as Eduardo Galeano and Mario Benedetti at that very time. There, some success finally arrived. Lacking, however, was Argentina's artistic baptism. Thus, in 1965, Mercedes Sosa, urged on by folklorist Jorge Cafrune, and with a ticket paid for thanks to the collection of some friends, participated in the Festival Nacional de Folklore, in Cosquín, a town in the province of Córdoba. She was still the shy little girl from Tucumán, who hated performing in public. When it was her moment - dressed in a poncho, with her long, black hair left loose, accompanied only by the bombo legüero, the Andean percussion instrument - and the notes and words of Canción del derrumbe indio began, there was a stark, dense silence in the hall.
And while the organizers were indignant, recognizing communist themes and sympathies in her, the audience was completely and hopelessly captivated. For the first time, men and women of the Argentine people, were able to hear the voice of their Pachamana and recognize and find themselves in it. The festival was followed by some records, such as Romance de la muerte de Juan Lavalle, Yo no canto por cantar, Para cantarle a mi gente. The first money arrived, but it was not enough to get out of the state of destitution in which Sosa and Matu lived to that point. The man was also jealous of Mercedes' success. He became violent and she was forced to flee with her son, from boarding house to boarding house, singing in nightclubs in the capital to support both of them, at least until she decided to leave the little one in Tucumán, at her own parents' home. Marriage to Matu thus ended, with a Mercedes Sosa plunged into both artistic and emotional loneliness from which she would struggle to emerge. She would do so, of course, thanks to music and also thanks to a new love. With Pocho Mazzitelli, her second husband and manager, the international artist was born.
Mercedes Sosa, la Negra, strode the stages of Miami, Lisbon, Porto, Rome, Warsaw, Leningrad, Baku and Tbilis. "My existence has been this: an inexhaustible journey through cities on every continent." Shortly before the release of her new album, Mercedes Sosa, dedicated to Latin American poets such as Pablo Neruda and Víctor Jara, following the March 24, 1976 coup d'état, the dictatorship of General Jorge Rafael Videla was established in Argentina. Censorship, which always and forever affected the singer, became harsher and more suffocating. As if that were not enough, in 1978 her beloved partner died within a week from a brain tumor. Eight months later, during a concert in La Plata, she was arrested and detained along with the audience present for a few hours, released thanks to international pressure. Before long, all her shows were canceled, her voice disappeared from the radio and her records from the stores.
The regime was trying to erase the cantor of the Argentine people:
"I am reminded of the images of the night I was arrested in La Plata. Everything was prepared, the police organized the action and the army surrounded the place. They had to enter while I was singing Cuando tenga la tierra. I made an effort and sang it, I was almost about to sing El mundo prometito a Juanito Laguna, when desperate Fabían came in and shouted at me, ‘Mercedes, get off the stage!’ We already had the police on us."
The actions of repression affected not only her, but also her audience, the people who loved and followed her. The message was clear - she had to leave. In 1979, La Negra went into exile in Spain, then to Paris. She sang in Germany and Japan. And everywhere her songs told of oppression and struggle, slavery and freedom, unjust power and the men and women who oppose it. No need to understand the words. Everywhere her voice, which came out sound and reached every corner, became liquid and lapped and occupied spaces, finally became rock and mass, earth on which to climb to breathe the oxygen of pride and revolution. It would not be until 1982 that she could return to Argentina. The dictatorship was now in its last throes, but the military in the streets still shot and censorship still bit fiercely.
"My name is Mercedes Sosa, I am Argentine," the singer would say at the big concert in Buenos Aires organized for her return. And while outside the theater the army gave voice to the guns, on stage she sang her entire repertoire, much of it still banned. She would repeat the show for thirteen nights, always beginning with the song Todavía cantamos, a dedication to the many desaparecidos, her brothers and sisters, swallowed by human madness and hatred. With the return of democracy, Sosa's political and social engagement did not stop. She continued to sing and travel the world, fighting, partly through her music, for the decriminalization of abortion, against dictatorships, for the truth about the desaparecidos, for peace and civil rights, and for environmental protection. In 1997, she participated, as vice president of the Earth Charter Commission, in the conference where a document for the Protection of the Environment was drafted.
La Negra passed away in the Argentine capital on Oct. 4, 2009, due to kidney failure. A funeral chamber was set up in the "Hall of Lost Steps," and the government called for three days of national mourning. A symbol of Latin America, Mercedes Sosa was the Cantora of freedom: of peoples, of women, and individuals. She made an entire land breathe with the primordial breath that belonged to her, making it fly away from those oppressions that never spared her. She sang and struggled. Struggled and sang, hoping that her own voice, any voice of any song, would finally replace the monstrous roar of guns, violence and injustice.
«Pero no cambia mi amor/por más lejos que me encuentre/ni el recuerdo ni el dolor/de mi pueblo y de mi gente/y lo que cambió ayer/tendrá que cambiar mañana/así como cambio yo/ En esta tierra lejana. Cambia, todo cambia».
«But it doesn't change my love/no matter how far away I am,/neither the memory nor the pain/of my land and my people./And what changed yesterday/again will have to change tomorrow/just like I change /In this faraway land. Changes, everything changes».
Traduzione spagnola Monica Savoca
Haydeé Mercede Sosa nació con las ventanas abiertas. Así se venía al mundo en Argentina, en Tucumán. Con las ventanas abiertas y sin pretensiones. Pero esas ventanas abiertas de par en par son la genética de una voz de la Pachamama, telúrica y peregrina, destinada a librarse para contar la identidad, el destino, el dolor y la esperanza de toda una tierra, de todo un pueblo. Y la genética, quizás, está representada también por la fecha de su nacimiento, 9 de julio de 1935, día en que Argentina celebra y recuerda su independencia. Entonces, el primer vagido ¿puede no convertirse en un grito unánime de resistencia y revolución?
No, no puede, aunque Mercedes Sosa se resistiera. Al principio, no está dispuesta a mezclar su voz con la de otros y otras que no sean ella y su familia, cuidadora del regalo que hará al mundo “último” —el de la oscuridad y el margen, el del polvo y la sangre—; regalo que, efectivamente, representará una escapatoria y una forma de rescate gracias a su canto y a su música.
Un mundo que conoce perfectamente, porque es el de donde ella misma procede, donde nació y donde vive, al menos hasta que no alcance el éxito, inesperado y en parte no deseado. De hecho, sólo la responsabilidad de dar voz y visibilidad a hombres y mujeres contra los que la historia parece padecer afasia, la mantendrá sobre el escenario: «un día, después de tantos espectáculos por todo el mundo», dice, «me llevó [Pocho Mazzitelli, ed.,] al banco para que viera los dólares que había ganado con mi trabajo; me impresionó tanto que tuve que salir a vomitar, porque yo llevo toda la vida odiando los dólares». Es una idealista, Mercedes Sosa, en el sentido más alto y noble que el término puede asumir. Y es, en consecuencia, comunista. Su madre, Ema del Carmen, trabaja en hogares acomodados en los que prepara comidas copiosas y suculentas, pero su propia familia suele comer pan y arroz. Su padre, Ernesto Quiterio Sosa, es estibador en el puerto, bolsero, obrero en un aserradero, alimentador de calderas en una refinería de azúcar, y lo que lleva a casa, aparte de un escaso sueldo, es el sabor amargo de una sociedad que sólo da postre a quien puede permitírselo.A pesar de ello, la juventud de Sosa está llena de alegría y serenidad:
«nos faltaba de todo pero era como si no nos faltara nada».
Su primer acercamiento «público» a la música tiene lugar en 1950, con su participación en un concurso organizado por LV12, una emisora local. Cuando el padre escucha la voz de su hija, entra en cólera: demasiada vergüenza, demasiado poco decoro, y se hace prometer que nunca más volverá a ocurrir algo así. Está, sin embargo, la genética de las ventanas abiertas y del 9 de julio, y unos días después, en casa de la familia Sosa, llama a la puerta el director de la radio. La joven Mercedes había ganado el primer premio y un contrato: cantar una vez a la semana por doscientos pesos, el sueldo que Ernesto Quiterio ganaba en todo un mes. El hombre cede. Nace Gladys Osorio. Sólo que Gladys Osorio es Mercedes y Mercedes odia cantar para alguien que no sea su familia. El dinero, sin embargo, es necesario y por eso se traga la incomodidad y actúa. Al menos hasta que Oscar Matus llega a Tucumán. Matus es guitarrista y compositor, y cree firmemente que el folclore debe alejarse de la naturaleza para entregarse al ser humano. Sosa, que está a punto de casarse con otra persona, se queda boquiabierta. Al poco tiempo, los dos se enamoran. Su unión, sentimental y artística, marcará el nacimiento de la música popular en toda América Latina. Se acabó la imitación postiza de canciones siempre iguales. Melodías y palabras pueden adquirir una dignidad totalmente nueva. Nueva y necesaria: la de la lucha y la resistencia. Las canciones nacionales argentinas pueden y deben ser cantos políticos. Canciones que se parten para unir, que representan las múltiples realidades locales y regionales, convirtiéndose así en un himno ecuménico de la humanidad. Es una verdadera revolución.
El proyecto, que toma el nombre de Nuevo Cancionero, se presenta oficialmente el 11 de febrero de 1963 en el salón del círculo de periodistas de Buenos Aires, ciudad a la que Sosa y Matus se fueron a vivir en busca de fama y fortuna. Las carreras de ambos, sin embargo, apenas despegan: los dos trabajan en una portería durante el día y actúan en clubes por la noche. Tan pesada es la pobreza que deciden abandonar Argentina en 1962. Junto con su hijito Fabián, se trasladan a Uruguay, donde surge en esa misma época un nuevo movimiento artístico, muy similar al Nuevo Cancionero argentino, en torno a nombres como Eduardo Galeano y Mario Benedetti. A partir de entonces, efectivamente, Sosa y Matus alcanzaron un cierto éxito. Faltaba, sin embargo, el bautismo de fuego en Argentina. Así, en 1965, Mercedes Sosa, alentada por el folclorista Jorge Cafrune, y con una entrada pagada gracias a la colecta de algunos amigos, participa en el Festival Nacional de Folclore, en Cosquín, localidad de la provincia de Córdoba. Ella sigue siendo la niña tímida de Tucumán, que odia actuar en público. Cuando llega su momento —vestida con un poncho, con el pelo largo y negro suelto, acompañada únicamente por el bombo legüero, instrumento de percusión andino— y comienzan las notas y la letra de Canción del derrumbe indio, en la sala cae un silencio profundo y espeso.
Y mientras los organizadores se indignan, reconociendo en ella temas y simpatías comunistas, el público queda total y absolutamente cautivado. Por primera vez, hombres y mujeres del pueblo argentino pudieron escuchar la voz de su Pachamama y reconocerse e identificarse en ella. Al festival le siguieron algunos discos, como Romance de la muerte de Juan Lavalle, Yo no canto por cantar, Para cantarle a mi gente. Llega el primer dinero que, sin embargo, no es suficiente para salir del estado de indigencia en el que Sosa y Matu vivían hasta entonces. Además, el hombre estaba celoso del éxito de Mercedes. Se vuelve violento y la mujer se ve obligada a huir con su hijo, de pensión en pensión, cantando en locales nocturnos de la capital para mantener a ambos, al menos hasta que decide dejar al pequeño en Tucumán, en casa de sus padres. El matrimonio con Matu termina así, con una Mercedes Sosa sumida en una soledad, tanto artística como emocional, de la que luchará por salir. Lo hará, por supuesto, gracias a la música y también a un nuevo amor. Con Pocho Mazzitelli, su segundo marido y su representante, de hecho, nace la artista internacional.
Mercede Sosa, la Negra, pisa las tablas de Miami, Lisboa, Oporto, Roma, Varsovia, Leningrado, Bakú y Tiflis: «mi existencia ha sido esto: un viaje sin fin por ciudades de todos los continentes». Poco antes de la publicación de su nuevo álbum, Mercedes Sosa, dedicado a poetas latinoamericanos como Pablo Neruda y Víctor Jara, se instauró en Argentina la dictadura del general Jorge Rafael Videla tras el golpe de Estado del 24 de marzo de 1976. La censura, que siempre y desde siempre afectó a la cantante, se hizo más dura y asfixiante. Por si fuera poco, en 1978 su amado compañero murió de un tumor cerebral en menos de una semana. Ocho meses más tarde, durante un concierto en La Plata, es detenida y encarcelada durante unas horas junto con el público presente y liberada gracias a la presión internacional. Al poco tiempo, todos sus conciertos son cancelados, su voz desaparece de la radio y sus discos de las tiendas.
El régimen intenta borrar a la cantante del pueblo argentino:
«Me vienen a la memoria las imágenes de la noche en que me detuvieron en La Plata. Todo estaba preparado, la policía organizó la acción y el ejército rodeó el lugar. Tuvieron que entrar mientras yo cantaba Cuando tenga la tierra. Hice un esfuerzo y la canté, estaba casi por cantar El mundo prometido a Juanito Laguna, cuando llegó Fabían, desesperado, y me gritó: “¡Mercedes, bájate del escenario!” Ya teníamos a la policía encima».
Las acciones de represión no sólo la afectan a ella, sino también a su público, la gente que la quiere y la sigue. El mensaje es claro: debe marcharse. En 1979, La Negra se exilia en España y luego en París. Canta en Alemania y Japón. En todas partes, sus canciones hablan de opresión y lucha, de esclavitud y libertad, de poder injusto y de hombres y mujeres que se oponen a él. No hace falta entender la letra. En todas partes su voz, que sale sonora y llega a todos los rincones, se hace líquida y toca y ocupa espacios, se convierte finalmente en roca y masa, tierra sobre la que trepar para respirar el oxígeno del orgullo y la revolución. Hasta 1982 no pudo regresar a Argentina. La dictadura ha terminado, pero los militares siguen disparando en las calles y la censura sigue mordiendo con fuerza.
«Me llamo Mercedes Sosa, soy argentina», dirá la cantante en el gran concierto de Buenos Aires, organizado con motivo de su regreso. Y mientras fuera del teatro el ejército da voz sus armas, sobre el escenario ella canta todo su repertorio, gran parte del cual sigue prohibido. Repetirá el espectáculo durante trece noches, comenzando siempre con la canción Todavía cantamos, una dedicatoria a los muchos desaparecidos, sus hermanos y hermanas, engullidos por la locura y el odio humanos. Con el retorno a la democracia, el compromiso político y social de Sosa no se detiene. Seguirá cantando y viajando por el mundo, luchando, también a través de su música, por la despenalización del aborto, contra las dictaduras, a favor de la verdad sobre los desaparecidos, por la paz y los derechos civiles, por la protección del medio ambiente. En 1997 participó, como Vicepresidenta de la Comisión en la redacción de la “Carta de la Tierra”, en la Conferencia en la que se redactó un documento para la protección del medio ambiente.
La Negra falleció en la capital argentina el 4 de octubre de 2009, a causa de una insuficiencia renal. La capilla ardiente se instaló en el Salón de los Pasos Perdidos y el Gobierno convocó tres días de luto nacional. Símbolo de América Latina, Mercedes Sosa fue la cantora de la libertad: de los pueblos, de las mujeres, de las personas. Hizo respirar a toda una tierra con el aliento primordial que le pertenencía, haciéndola volar lejos de aquellas opresiones que siempre la amenazaron. Cantó y luchó. Luchó y cantó, esperando que su propia voz, cualquier voz de cualquier canción, sustituyera por fin el grito monstruoso de las armas, la violencia y la injusticia.
«Pero no cambia mi amor / por más lejos que me encuentre / ni el recuerdo ni el dolor / de mi pueblo y de mi gente / y lo que cambió ayer / tendrá que cambiar mañana / así como cambio yo. / En esta tierra lejana. Cambia, todo cambia».
«Osservo una formica e vedo me stessa: una sudafricana dotata dalla natura di una forza molto più grande del suo stesso corpo, per poter sostenere il peso di un razzismo che ne frantuma lo spirito. Guardo un uccello volare e vedo me stessa: una sudafricana che si innalza al di sopra delle ingiustizie dell’apartheid con ali di orgoglio, l’orgoglio di uno splendido popolo. Guardo un ruscello e vedo me stessa: una sudafricana che fluttua irresistibilmente al di sopra di ostacoli insormontabili fino a che questi non si riducono, per poi un giorno scomparire».
L’incipit del libro Miriam Makeba - La mia storia (Edizioni lavoro coordinamento donne e sviluppo, 1989), scritto a quattro mani con James Hall, regala fin da subito l’immagine di una donna che, nonostante la sofferenza e le privazioni, si è sempre spesa per la liberazione del suo popolo.
Miriam Makeba in uno studio di registrazione
Nata il 4 marzo del 1932 a Johannesburg, nel Sudafrica del colonialismo in cui il mondo bianco vive alle spese del mondo nero, conosce fin da bambina il significato della discriminazione razziale e della negazione dei diritti fondamentali. Ha solo pochi giorni di vita quando la madre viene incarcerata con l’accusa di vendere alcolici, il cui consumo è vietato ai neri, e passa con lei i sei mesi della detenzione in una cella angusta e sporca. A 5 anni perde il padre e rimane a vivere con il resto della famiglia nella casa della nonna, mentre la madre trova lavoro come domestica e si trasferisce a Pretoria. È il 1947 quando nel linguaggio di tutto il popolo sudafricano fa il suo ingresso la parola apartheid, termine derivato da apart, che nella lingua afrikaans significa separato. Da quel momento in poi ci saranno ospedali, scuole, mezzi di trasporto, supermercati, chiese, ristoranti divisi per la popolazione bianca e per quella nera. In questo modo i colonizzatori riescono a rendere invisibile e a rimuovere dallo scenario sociale intere etnie autoctone del Paese. Nel 1948 viene introdotto anche il lasciapassare, ovvero un documento che tutta la popolazione nera deve portare con sé, pena l’arresto, e sta a indicare che una persona nera ha il permesso di trovarsi in un determinato luogo, rendendo legale la sua presenza.
Esplicitate le dovute premesse storiche, è indubbio che la vita di Miriam Makeba sarà segnata dal razzismo e dalla discriminazione, ma grazie alla musica il suo futuro potrà essere riscritto: il coro della chiesa e le gare di canto a scuola le permettono di muovere i primi passi in questo mondo e renderla consapevole della sua bravura. A soli 16 anni si vede però costretta ad abbandonare gli studi per lavorare come cameriera in una famiglia bianca e a 17 partorisce la sua prima e unica figlia, Bongi. Per evitare che la bambina cresca fuori dal matrimonio, si sposa con il padre e fidanzato dell’epoca, ma si ritrova a essere vittima di violenza domestica; decide quindi di divorziare e tornare a vivere con la madre che nel frattempo ha fatto rientro dalla capitale.
La svolta avviene quando partecipa al concerto di un gruppo musicale poco conosciuto e viene notata dal frontman della band che le chiede di cantare per loro: a 19 anni si esibisce per la prima volta di fronte a un pubblico, anche se in parecchi la criticano perché non è consono per una donna calcare un palcoscenico. La fortuna continua a girare perché, proprio durante un’esibizione, il leader del gruppo Manhattan Brothers rimane incantato dalla sua performance e le propone di diventare la voce solista. Grazie a questo trampolino di lancio, molto presto compone e incide le sue prime canzoni, con l’appoggio di una casa discografica.
Miriam Makeba insieme a Dizzie Gillespie in concerto a Deauville, 20 giugno 1991, Roland Godefroy
Il suo primo brano, dal titolo originale Lakutshuna Ilangu, attraversa l’oceano e diventa famoso negli Stati Uniti; le arrivano proposte da ogni dove per incidere anche dischi in inglese, ma il Sudafrica dell’apartheid permette alla popolazione nera di esprimersi solo nella lingua indigena ed è vietato l’insegnamento dell’inglese pure nelle scuole. Una sera, dopo un concerto con i Manhattan Brothers, Miriam conosce tra il pubblico un giovanissimo Nelson Mandela che le rivolge apprezzamenti per il suo stile canoro unico e straordinario.
La sua vera possibilità di svolta arriva quando il regista americano Lionel Rogosin la scopre mentre si esibisce in un piccolo locale di Johannesburg. Le propone di interpretare sé stessa in un documentario sulla musica africana, sostenendo che un talento come il suo non può rimanere relegato al Sudafrica, ma merita di essere conosciuto in tutto il mondo. Riesce così a convincerla e in breve tempo Miriam si ritrova su un aereo che la porta ad Amsterdam e nel novembre del 1959 inizia la sua carriera tra New York e Los Angeles, dove si esibisce in diversi locali e viene invitata a partecipare a una delle trasmissioni televisive più seguite negli States, condotta da Steve Allen. Grazie alla sua comparsa sul piccolo schermo, sempre più persone la notano e la riconoscono per le strade; in breve tempo diventa una celebrità. Qualche mese più tardi, la madre la contatta dal Sudafrica, informandola che per motivi di salute non è più in grado di occuparsi di Bongi, quindi, dopo aver richiesto tutti i permessi necessari, anche la figlia la raggiunge in America. I suoi spettacoli continuano ed è sempre più richiesta, persino dal Presidente Kennedy che è intenzionato a conoscerla e la invita a partecipare al party per il proprio compleanno. Nella sua vita incontrerà diverse figure di spicco del mondo dello spettacolo come Marlon Brando, con cui intesserà una profonda amicizia, Marilyn Monroe, Aretha Franklin, Stevie Wonder e tante altre. Ma il suo cuore non dimentica che la sua casa è l’Africa e nel 1963 tiene un discorso dinanzi agli undici membri della Commissione speciale per i problemi dell’apartheid istituita presso le Nazioni Unite. Questa scelta le costa molto cara, poiché il Sudafrica la considera una traditrice della patria e la condanna all’esilio, mettendo anche al bando la vendita di tutti i suoi dischi. Proprio nello stesso periodo Nelson Mandela viene arrestato e condannato all’ergastolo per la lotta contro l’apartheid.
La scoperta di un cancro al collo dell’utero la obbliga a fermarsi e ritirarsi dalle scene per diversi mesi, costringendola a rinunciare a partecipare alla grande marcia per i diritti civili, in programma a Washington, guidata da Martin Luther King. L’intervento per rimuovere il tumore va a buon fine, Miriam si riprende totalmente e inizia a viaggiare in vari Stati africani, quali il Kenya, la Namibia, il Ghana, la Nigeria, il Mozambico e la Guinea che diventerà la sua seconda casa per diverso tempo. Il Presidente della Guinea Sékou Touré prende Miriam sotto la sua ala protettrice e la ospita in diverse occasioni nella sua dimora, chiedendole di diventare ambasciatrice del Paese presso le Nazioni Unite, richiesta che Miriam accetta di buon grado. I due manterranno un saldo e reciproco rapporto di amicizia fino alla morte di Touré avvenuta nel 1984.
Agli inizi di giugno del 1967, si combatte la Guerra dei sei giorni che vede contrapposti Israele e tre nazioni coalizzate: Egitto, Siria e Giordania. Il panorama politico arriva a influenzare anche la tournée estiva che Miriam sta per intraprendere come tutti gli anni: viene infatti avvicinata dai delegati africani delle Nazioni Unite che le chiedono di escludere dalla scaletta dei suoi concerti una canzone ebraica, in solidarietà con l’Egitto, in guerra contro Israele. Decide di parlarne subito con il suo manager Harry Belafonte, chiamato anche Big Brother, ribadendo che la musica non ha nulla a che vedere con la politica e che le canzoni sono solo canzoni, ma l’uomo contatta i giornali per informarli che Miriam ha deciso di non cantare volutamente una canzone ebraica, finendo per diffamarla e consegnarla in pasto all’opinione pubblica che la taccia di antisemitismo. Questo avvenimento segna l’epilogo della sua amicizia con Big Brother e l’inizio della fine della sua permanenza in America, infatti nell’estate del 1968 lascia definitivamente New York per trasferirsi in Guinea.
Anche il matrimonio con l’attivista per l’indipendenza nera, Stokely Carmichael, arreca diversi problemi alla sua carriera musicale, poiché l’uomo è nella lista nera degli agenti federali come pericoloso dissidente politico. La cantante si vede costretta a dover rispondere delle azioni del marito ogni volta che viene incarcerato per le sue proteste. Il matrimonio finisce nel 1973, quando il presidente Touré accetta di concedere il divorzio alla coppia. L’Onu dichiara il 1976 “anno internazionale contro l’apartheid” e Miriam viene incaricata di pronunciare un altro discorso di apertura presso le Nazioni Unite, parlando delle discriminazioni e delle violazioni dei diritti di cui lei stessa è stata vittima e alle quali soggiacciono ancora le popolazioni indigene del Sudafrica.
Anche la figlia di Miriam, Bongi, affronta un periodo difficile: dopo il primo matrimonio e la nascita di due figli, dal secondo marito ha un altro figlio che morirà all’età di un anno, lasciando tutta la famiglia nella disperazione. Miriam è una presenza costante per la figlia e i nipoti, li aiuta a studiare, compra loro una casa e li invita a vivere insieme a lei in Guinea. Bongi conosce un uomo, se ne innamora e si sposa per la terza volta, rimanendo incinta, ma muore poco più che trentenne qualche giorno dopo il parto cesareo effettuato d’urgenza. Per Miriam questo è il lutto più grande della sua vita, dopo la morte della madre avvenuta in Sudafrica, senza che lei potesse farvi ritorno per salutarla un’ultima volta. Nel 1990 si esibisce in Italia al Festival di Sanremo con la canzone Give me a reason e grazie all’intercessione di Nelson Mandela, scarcerato lo stesso anno, riesce a tornare in patria, dopo un’assenza di più di tre decenni: il suo impegno per aiutare le popolazioni schiacciate dall’apartheid non si ferma neanche un singolo giorno, fino all’abolizione delle leggi razziali il 27 aprile 1991.
Nel 1992 accetta un ruolo nel film Sarafina! Il profumo della libertà che racconta la storia della rivolta di Soweto, un sobborgo di Johannesburg in cui per diversi giorni molte/i giovani hanno protestato contro la segregazione razziale. Miriam ricopre il ruolo della madre dell’attivista Sarafina che partecipa, rischiando la vita, alle proteste. Le manifestazioni vengono soffocate nel sangue e l’evento colpisce fortemente l’opinione pubblica mondiale, provocando una serie di rivolte anche negli Stati Uniti da parte del movimento per il riconoscimento di pari diritti alle persone nere. Sempre continuando i suoi concerti in giro per il mondo, nel 1999 viene nominata ambasciatrice di buona volontà dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), nel 2001 riceve la Medaglia Otto Hahn per la Pace, nel 2002 prende parte a un nuovo documentario sull’apartheid e vince il Polar Music Prize, premio internazionale assegnato per meriti raggiunti in ambito musicale. Nel 2005 organizza il suo tour mondiale di addio alle scene, anche se malferma di salute. Nell'autunno 2008 partecipa in Italia a un concerto in memoria dei sei immigrati africani uccisi dalla camorra nella cosiddetta strage di Castel Volturno, in provincia di Caserta. Muore proprio a Castel Volturno il 9 novembre all’età di 76 anni, per un arresto cardiaco sopraggiunto poche ore dopo la sua ultima esibizione.
Miriam Makeba, detta Mama Africa, la cui vita è stata irrimediabilmente segnata da lutti, perdite, violenza, discriminazione e sofferenza, ha dimostrato che la musica ha un valore universale che può unire intere popolazioni, indipendentemente dalla lingua e dal colore della pelle. Come lei stessa ha scritto nel suo libro autobiografico:
«se mi fosse stato dato di scegliere, avrei certamente preferito essere ciò che sono: una fra gli oppressi, anziché una fra gli oppressori, ma in verità non ho avuto scelta. […] Ma ci sono tre cose con le quali sono venuta al mondo, tre cose che rimarranno con me fino al giorno in cui morirò: speranza, determinazione e la mia musica».
Traduzione francese Rachele Stanchina
“J’observe une fourmi et je me reconnais: une Sud-Africaine douée par la nature d’une force bien plus grande que son propre corps afin de pouvoir soutenir le poids d’un racisme qui brise son esprit. Je regarde un oiseau qui vole et je me reconnais: une Sud-Africaine qui se lève au-dessus des injustices de l’apartheid avec les ailes de l’orgueil, l’orgueil d’un peuple merveilleux. Je regarde un ruisseau et je me reconnais: une Sud-Africaine qui flotte invinciblement au-dessus des obstacles insurmontables, jusqu’a ce qu’ils ne se réduisent et finalement ne s’évanouissent.”
Les premières lignes du livre MIRIAM MAKEBA-MON HISTOIRE (Edizioni lavoro coordinamento donne e sviluppo, 1989, écrit à quatre mains avec James Hall) nous décrivent l’image d’une femme qui a toujours lutté pour l’affranchissement de son peuple et le respect des droits civiques.
Miriam Makeba dans un studio d'enregistrement
Miriam naît le 4 mars 1932 à Johannesburg, en Afrique du Sud, là où le colonialisme permet au monde blanc de vivre aux dépens de celui noir. Dès son enfance, elle connaît la discrimination raciale et la négation des droits fondamentaux. Elle vient de naitre lorsque sa mère est condamnée à six mois de prison pour avoir produit et vendu de l’alcool dont la consommation était interdite aux noirs. Elle passe donc les premiers mois de sa vie avec sa mère dans une cellule de détention petite et insalubre. Son père décède alors qu’elle n’ a que cinq ans. Sa mère décide de partir pour Pretoria pour travailler comme femme de ménage tandis qu’elle est accueillie dans la famille de sa grand-mère. En 1947 le mot APARTHEID (qui prend son origine de APART, séparé d’après la langue afrikaans) fait son entrée dans la langue de tout le peuple Sud-Africain. A partir de là, il y aura des hôpitaux, des écoles, des supermarchés, des moyens de transport, des églises, des restaurants différents pour les blancs et les noirs. Ainsi, de nombreuses ethnies autochtones du Pays sont rendues invisibles et effacées du scénario social par les colonisateurs. En 1948, le laisser-passer est introduit, c’est-à-dire un document que toute la population noire doit porter avec soi sous peine d’arrestation et qui déclare qu’un individu noir a la permission de se trouver dans un certain endroit, ce qui rend légale sa présence.
Dans ce contexte historique, la vie de Miriam Makeba aurait pu être marquée par le racisme et la discrimination, mais son futur prendra une autre direction grâce à la musique. Sa participation à la chorale de l’église et les compétitions de chant à l’école lui donnent la possibilité de faire ses premiers pas dans le milieu musical tout en lui faisant prendre conscience de son talent. Cependant, elle n’a que seize ans lorsqu’elle est obligée d’abandonner ses études pour travailler comme servante dans une famille blanche. À dix-sept ans, elle met au monde sa première et unique fille Bongi. Pour donner à la petite une vie familiale stable, Miriam se marie avec le père de sa fille, qui était son fiancé à l’époque, mais très vite elle est victime de violences domestiques. Elle décide alors de divorcer et de vivre avec sa mère à Johannesburg.
Sa vie change lorsqu’elle participe au concert d’un groupe musical peu connu. En effet, elle est remarquée par le frontman qui lui propose de chanter avec eux: à 19 ans, elle se produit pour la première fois devant un public même si elle est critiquée par certains hostiles à l’exhibition d’une femme sur une scène. Sa bonne étoile ne la quittera pas: lors d’ un concert, le leader du groupe Manhattan Brothers est frappé par la performance de Miriam et lui propose d’être la chanteuse principale du groupe. Grâce à ce tremplin, elle compose et enregistre ses premières chansons avec l’appui d’une maison de disques.
Miriam Makeba avec Dizzie Gillespie en concert à Deauville, le 20 juin 1991, Roland Godefroy
Son premier disque, au titre original LAKUTSUHUNA ILANGU, franchit l’Océan et devient célèbre aux Etats Unis. Miriam reçoit un grand nombre d’offres pour enregistrer des disques en anglais, mais les lois en Afrique du Sud ne permettent aux noirs de s’exprimer dans une langue autre que la leur, l’enseignement de l’anglais étant interdit même dans les écoles. Un soir, après le concert avec les Manhattan Brothers, Miriam fait la connaissance parmi le public d’un jeune homme nommé Nelson Mandela qui lui déclare son admiration pour le style extraordinaire et original de son interprétation vocale.
Mais le grand changement se produit lorsque le cinéaste américain Lionel Rogosin participe à une exhibition de Miriam dans un petit local de Johannesburg: il lui propose d’interpréter son propre personnage dans un documentaire sur la musique africaine, tout en soutenant que son talent ne pouvait pas demeurer confiné en Afrique du Sud, il méritait d’ être connu partout dans le monde. Convaincue, Miriam se retrouve en peu de temps à Amsterdam, et, au mois de novembre 1959, elle débute sa carrière entre New York et Los Angeles où elle se produit sur plusieurs scènes. Elle est invitée à participer aux émissions télévisées les plus célèbres, conduites par Steve Allen. C’est grâce à cette participation sur le petit écran qu’un nombre toujours plus grand de personnes la reconnaît dans la rue et devient rapidement une célébrité. Quelque mois plus tard, sa mère lui annonce que pour des raisons de santé elle ne peut plus s’occuper de Bongi: une fois obtenus les documents nécessaires, Miriam accueille sa fille aux Etats Unis. Les concerts se multiplient. Elle est également plébiscitée par le Président Kennedy qui souhaite la connaître et l’invite à participer à la réception donnée pour son anniversaire. Toute sa vie, elle rencontrera des personnalités de premier plan du monde du spectacle telles que Marlon Brando (qui deviendra un bon ami), Marilyn Monroe, Aretha Franklin, Stevie Wonder et tant d’autres. Cependant, son cœur n’oublie pas ses origines africaines : en 1963 elle tient un discours face à onze membres de la Commission Spéciale des Nations Unies sur la question de l’apartheid. Cette intervention lui coûtera très cher car, par réaction, l’Afrique du Sud la déclarera une traître pour son pays et la condamne à l’exil, tout en interdisant la vente de ses disques. Durant cette même période, Nelson Mandela est enfermé et condamné à la prison à vie pour sa lutte contre l’apartheid.
A la suite de la découverte d’un cancer du col de l’utérus, elle est forcée durant plusieurs mois de supprimer ses concerts et de se retirer de la scène. Elle doit également renoncer à participer à la grande marche pour les droits civils conduite par Martin Luther King à Washington. L’intervention chirurgicale pour retirer la tumeur est une réussite: Miriam reprend des forces et commence à voyager dans plusieurs Etats africains tels que la Namibie, le Ghana, le Kenya, le Nigéria, le Mozambique et la Guinée qui deviendra comme sa deuxième maison pendant plusieurs années. Le Président de la Guinée, Sékou Touré prend Miriam sous sa protection et l’accueille à plusieurs occasions dans sa demeure tout en lui demandant de devenir ambassadrice du Pays au sein des Nations Unies, ce qu’elle acceptera de bon gré. Leur amitié restera solide et réciproque jusqu’à la mort de Touré en 1984.
Au début du mois de juin 1967 éclate la Guerre des six jours qui voit Israel combattre contre une coalition composée de l’Egypte, la Syrie et la Jordanie. Le climat politique arrive à influencer la tournée d’été que Miriam, comme chaque année, va bientôt entamer. Les délégués africains des Nations Unies lui demandent d’exclure du programme de ses concerts une chanson juive en solidarité avec l’Egypte qui est en guerre contre Israel. Miriam decide d’en parler avec son manager Harry Belafonte, nommé aussi Big Brother, soutenant que la musique n’a rien à voir avec la politique mais Belafonte contacte les journaliste et déclare que Miriam a décidé personnellement de ne pas interpréter la chanson juive. En agissant ainsi, Miriam est soumise à l’opinion publique qui l’accuse d’antisémitisme. Cet événement marquera non seulement la fin de son amitié avec Big Brother mais remettra aussi en question sa permanence aux Etats-Unis. Durant l’été 1968, elle quitte définitivement New York et s’installe en Guinée.
Son mariage avec l’activiste pour l’indépendance des noirs Stokely Carmichael, aura des conséquences sur sa carrière musicale: l’homme est inscrit dans la liste noire des agents fédéraux comme un dangereux dissident politique. Chaque fois que son époux est emprisonné pour ses contestations, elle est obligée de répondre aux exactions de son mari. Finalement, en 1973, le Président Touré accepte la demande de divorce du couple. L’année 1976 est déclarée par l’ONU “Année internationale contre l’Apartheid” et Miriam est chargée de prononcer un discours d’ouverture aux Nations Unies pour parler des discriminations et des violations des droits dont elle-même a été victime et qui frappent encore les populations indigènes de l’Afrique du Sud.
C’est une période difficile aussi pour la fille de Miriam, Bongi: après un premier mariage et la naissance de deux enfants, elle aura de son deuxième époux un autre fils qui mourra à l’âge de un an, laissant ainsi dans la douleur toute une famille. Miriam est un soutien constant pour sa fille et ses petits-enfants. Elle les aide dans les études, leur achète une maison et les invite à vivre avec elle en Guinée. Bongi connaît un autre homme et se marie pour la troisième fois. Elle meurt à l’âge de trente ans peu après son accouchement, à la suite d’une césarienne en urgence L e décès de sa fille sera pour Miriam la plus grande douleur de sa vie, après celle ressentie par la mort de sa mère survenue en Afrique du Sud alors qu’elle n’était pas à ses côtés lors de ses derniers instants. En 1990, elle se produit en Italie au Festival de San Remo avec la chanson GIVE ME A REASON et grâce à l’intervention de Nelson Mandela, libéré cette même année, elle réussit à retourner dans son pays natal après une absence de presque trente ans. Elle poursuit son engagement quotidien, sans faille, pour aider les populations suffoquées par l’apartheid et ce jusqu’à l’abolition des lois raciales le 27 avril 1991.
En 1992, elle accepte un rôle dans long métrage intitulé SERAFINA! LE PARFUM DE LA LIBERTE’ qui raconte l’histoire de l’insurrection de Soweto, un faubourg de Johannesburg où pendant plusieurs jours un gran nombre de jeunes s’étaient élevés contre la ségrégation raciale. Miriam y joue le personnage de la mère de l’activiste Serafina qui participe, au risque de sa propre vie, aux événements. Les manifestations sont réprimées dans le sang. Cependant l’opinion publique du monde entier est violemment frappée par ce film, au point que même aux Etats Unis se déclenche toute une série de révoltes de la part du mouvement qui vise la reconnaissance de l’égalité des droits pour les noirs. Tout en continuant ses concerts autour du monde, en 1999, Miriam est nommée ambassadrice de bonne volonté de l’ONU pour l’alimentation et l’agriculture (FAO). En 2001, elle obtient la Médaille Otto Han pour la Paix. En 2002, elle a un rôle dans un nouveau documentaire sur l’Apartheid et elle gagne le Polar Music Prize, un prix International attribué pour récompenser toute personne ou institution ayant contribué favorablement à la musique. En 2005, elle organise un tour mondial pour ses adieux à la scène, tout en étant en mauvaise santé. Durant l’automne 2008 elle participe en Italie au concert organisé en mémoire des six immigrés africains tués par la camorra dans ce qui sera appelé la STRAGE DI CASTEL VOLTURNO, près de Caserte. Elle meurt à Castel Volturno le 9 novembre, agée de 76 ans, à la suite d’une crise cardiaque survenue quelques heures après sa dernière exhibition.
Miriam Makeba, dite Mama Africa, malgré une vie marquée de deuils, de pertes, de violences, de discriminations et de souffrances, a montré que la musique a une valeur universelle, une force qui permet l’union des populations malgré leurs différences de langues et de couleurs de peau. Dans son autobiographie, elle écrit:
«Si j’avais pu choisir, j’aurais sûrement préféré être ce que je suis: une femme parmi les opprimés plutôt qu’une femme parmi les oppresseurs, mais en réalité je n’ai pas eu la possibilité de choisir. (…) Mais je suis venue au monde avec trois choses qui resteront avec moi jusqu’à ma mort: l’espoir, la determination et ma musique».
Traduzione inglese Syd Stapleton
“"I look at an ant and see myself: a South African endowed by nature with a strength far greater than her own body to be able to bear the weight of a racism that shatters her spirit. I look at a bird flying and I see myself: a South African rising above the injustices of apartheid with wings of pride, the pride of a beautiful people. I look at a stream and I see myself: a South African floating irresistibly above insurmountable obstacles until they diminish, and then one day disappear."
From the opening of the book Miriam Makeba - My Story (Women's Coordination Work and Development Editions, 1989), co-written with James Hall, giving from the outset the image of a woman who, despite suffering and hardship, always spent herself for the liberation of her people.
Miriam Makeba in a recording studio
Born on March 4, 1932, in Johannesburg, in the South Africa of colonialism where the white world lived at the expense of the black world, she knew from childhood the meaning of racial discrimination and the denial of basic rights. She was only a few days old when her mother was imprisoned on charges of selling alcohol, the consumption of which was forbidden to blacks, and she spent the six months of her mother’s imprisonment with her in a cramped and dirty cell. At age 5, she lost her father and then lived with the remainder of the family in her grandmother's house, while her mother found work as a maid and moved to Pretoria. It was 1947 when the word apartheid, a term derived from “apart”, which in the Afrikaans language means separated, made its entrance into the language of all South African people. From then on there would be hospitals, schools, transportation, supermarkets, churches, and restaurants divided for the white and black population. In this way the colonizers succeeded in rendering invisible and removing from the social scene entire ethnic groups indigenous to the country. In 1948, the pass was also introduced, which was a document that all black people had to carry, under penalty of arrest, and stood to indicate that a black person has permission to be in a particular place, making their presence legal.
After stating the necessary historical premises, there could be no doubt that Miriam Makeba's life would be marked by racism and discrimination, but thanks to music her future could be rewritten. The church choir and singing competitions at school allowed her to take her first steps in this world and made her aware of her strength. At only 16, however, she was forced to abandon her studies to work as a maid for a white family, and at 17 she gave birth to her first and only daughter, Bongi. To prevent the child from growing up out of wedlock, she married her boyfriend at the time, father of the girl, but found herself a victim of domestic violence. She then decided to divorce and return to live with her mother, who had since returned from the capital.
The turning point came when she attended a concert of a little-known musical group and was noticed by the band's frontman who asked her to sing for them. At 19, she performed for the first time in front of an audience, although several people criticized her because it was not considered appropriate for a woman to perform on stage. Her luck kept rolling because, during one performance, the leader of the group Manhattan Brothers was enchanted by her performance and offered her to be the lead vocalist. Thanks to this springboard, she was very soon composing and recording her first songs, with the support of a record company.
Miriam Makeba with Dizzie Gillespie in concert in Deauville, 20 June 1991, Roland Godefroy
Her first song, with the original title Lakutshuna Ilangu, crossed the ocean and became famous in the United States. She got proposals from all over to also record records in English, but apartheid South Africa allowed the black population to express themselves only in indigenous language and it was forbidden to teach English even in schools. One evening, after a concert with the Manhattan Brothers, Miriam met a very young Nelson Mandela in the audience, who expressed appreciation for her unique and extraordinary singing style.
Her real breakthrough opportunity came when American director Lionel Rogosin discovered her performing in a small Johannesburg club. He offered her an opportunity play herself in a documentary about African music, arguing that a talent like hers cannot remain relegated to South Africa, but deserves to be known worldwide. He thus succeeded in convincing her, and before long Miriam found herself on a plane to Amsterdam, and in November 1959 she began her career between New York and Los Angeles, where she performed in various venues and was invited to participate in one of the most-watched television shows in the United States, hosted by Steve Allen. Thanks to her appearance on the small screen, more and more people noticed and recognized her on the streets. In a short time she became a celebrity. A few months later, her mother contacted her from South Africa, informing her that for health reasons she was no longer able to take care of Bongi, so after applying for all the necessary permits, her daughter also joined her in America. Her performances continued and she was increasingly in demand, even by President Kennedy who was intent on meeting her and invited her to attend his own birthday party. In her life she would meet several prominent figures from the world of show business such as Marlon Brando, with whom she wove a deep friendship, Marilyn Monroe, Aretha Franklin, Stevie Wonder and many others. But her heart did not forget that her home was Africa, and in 1963 she delivered a speech before the eleven members of the Special Commission on Apartheid Problems established at the United Nations. This choice cost her dearly, as South Africa considered her a traitor to her homeland and condemned her to exile, also banning the sale of all her records. At the very same time Nelson Mandela was arrested and sentenced to life in prison for his struggle against apartheid.
The discovery of cervical cancer forced her to withdraw from the stage for several months, and to forgo participating in the great civil rights march scheduled to take place in Washington, DC, led by Martin Luther King. The surgery to remove the tumor was successful, Miriam made a full recovery and began traveling to various African states, such as Kenya, Namibia, Ghana, Nigeria, Mozambique and Guinea, which would become her second home for quite some time. Guinea's President Sékou Touré took Miriam under his wing and hosted her on several occasions at his residence, asking her to become the country's ambassador to the United Nations, a request that Miriam willingly accepted. The two would maintain a firm and mutual friendship until Touré's death in 1984.
In early June 1967, the Six-Day War was fought, pitting Israel against three coalesced nations - Egypt, Syria and Jordan. The political landscape affected even the summer tour that Miriam was about to embark on as she did every year. She was approached by the African delegates of the United Nations who asked her to exclude a Jewish song from her concert set list, in solidarity with Egypt, which is at war with Israel. She decided to talk about it right away with her manager Harry Belafonte, also called “Big Brother”, reiterating that music has nothing to do with politics and that songs are just songs, but the man contacted the newspapers to inform them that Miriam had decided not to sing a Jewish song on purpose, ending up defaming her in public opinion, which branded her with anti-Semitism. This event marked the end of her friendship with “Big Brother” and the beginning of the end of her stay in America. In the summer of 1968 she left New York for good and moved to Guinea.
Her marriage to black independence activist Stokely Carmichael also brought several problems to her musical career, as the man was blacklisted by U.S. federal agents as a dangerous political dissident. The singer was forced to answer for her husband's actions whenever he was jailed for his protests. The marriage ended in 1973, when President Touré agrees to grant the couple a divorce. The UN declared 1976 as the "International Year Against Apartheid," and Miriam was commissioned to deliver another keynote address at the United Nations, speaking about the discrimination and rights violations she herself had been a victim of and which South Africa's indigenous peoples still suffered.
Miriam's daughter Bongi also faced a difficult time. After her first marriage and the birth of two children, she had another child, by her second husband, who died at the age of one year, leaving the whole family in despair. Miriam was a constant presence for her daughter and grandchildren, helping them study, buying them a house, and inviting them to live with her in Guinea. Bongi met a man, fell in love with him and married for the third time, becoming pregnant, but died in her early thirties a few days after an emergency C-section delivery. For Miriam this was the greatest grief of her life, after her mother's death in South Africa, without her being able to return to say goodbye one last time. In 1990 she performed in Italy at the San Remo Festival with the song Give Me a Reason, and thanks to the intercession of Nelson Mandela, who was released from prison the same year, she was able to return to her homeland, after an absence of more than three decades. Her commitment to help the people crushed by apartheid did not stop a single day, until the abolition of the racial laws on April 27, 1991.
In 1992 she accepted a role in the film Sarafina! The Scent of Freedom, which tells the story of the uprising in Soweto, a suburb of Johannesburg where for several days many people protested against racial segregation. Miriam plays the role of the mother of young activist Sarafina who participates, risking her life, in the protests. The demonstrations are suppressed in blood and the event strongly affects world opinion, causing a series of riots even in the United States by the movement for equal rights for black people. Still continuing her concerts around the world, in 1999 she was appointed goodwill ambassador of the Food and Agriculture Organization of the United Nations (FAO), in 2001 she received the Otto Hahn Medal for Peace, in 2002 she took part in a new documentary on apartheid, and won the Polar Music Prize, an international award given for merits achieved in the field of music. In 2005 she organized her farewell world tour to the stage, although she was in ill health. In 2008 she participated in a concert in Italy in memory of the six African immigrants killed by the Camorra in the so-called Castel Volturno massacre, in the province of Caserta. She died in Castel Volturno on Nov. 9 at the age of 76, from cardiac arrest, a few hours after her last performance
Miriam Makeba, known as Mama Africa, whose life was irreparably marked by grief, loss, violence, discrimination and suffering, proved that music has a universal value that can unite entire populations, regardless of language or skin color. As she wrote in her autobiographical book:
«If I had been given a choice, I would certainly have preferred to be what I am: one among the oppressed, rather than one among the oppressors, but in truth I had no choice. [...] But there are three things with which I came into the world, three things that will stay with me until the day I die: hope, determination and my music».
Traduzione spagnola Simone Addario
“ «Observo una hormiga y me veo a mí misma: una sudafricana dotada por la naturaleza con una fuerza mucho mayor que su propio cuerpo, para poder soportar el peso de un racismo que destroza su espíritu. Veo un pájaro volar y me veo a mí misma: una sudafricana que se eleva por encima de las injusticias del apartheid con alas de orgullo, el orgullo de un pueblo espléndido. Veo un arroyo y me veo a mí misma: una sudafricana que flota irresistiblemente por encima de obstáculos insuperables hasta que estos se reducen, para luego un día desaparecer.»
El comienzo del libro Miriam Makeba. My history (Denöel 1988), escrito a cuatro manos con James Hall, ofrece desde el principio la imagen de una mujer que, a pesar del sufrimiento y las privaciones, siempre se ha esforzado por la liberación de su pueblo.
Miriam Makeba en un estudio de grabación
Nacida el 4 de marzo de 1932 en Johannesburgo, en la Sudáfrica del colonialismo donde el mundo blanco vive a costa del mundo negro, conoce desde niña el significado de la discriminación racial y la negación de los derechos fundamentales. Tiene solo pocos días de vida cuando encarcelan a su madre acusada de vender alcohol, cuyo consumo les está prohibido a los negros, y pasa con ella los seis meses de detención en una celda estrecha y sucia. A los 5 años pierde a su padre y se queda a vivir con el resto de la familia en la casa de su abuela, mientras su madre encuentra trabajo como empleada doméstica y se traslada a Pretoria. Es 1947 cuando en el lenguaje de todo el pueblo sudafricano hace su entrada la palabra apartheid, término derivado de apart, que en afrikáans significa ‘separado’. Desde ese momento habrá hospitales, escuelas, medios de transporte, supermercados, iglesias, restaurantes separados para la población blanca y para la negra. De esta manera, los colonizadores logran hacer invisibles y eliminar del escenario social a enteras (etnias autóctonas) del país. En 1948 también se introduce el salvoconducto, es decir, un documento que toda la población negra debe llevar consigo, bajo pena de arresto, y que indica que una persona negra tiene permiso para estar en un determinado lugar, legalizando su presencia.
Explicadas las debidas premisas históricas, es indudable que la vida de Miriam Makeba resulte marcada por el racismo y la discriminación, sin embargo gracias a la música se podrá reescribir su futurosu futuro podrá ser reescrito: el coro de la iglesia y las competiciones de canto en la escuela le permiten dar sus primeros pasos en este mundo y tomar conciencia de su talento. A los 16 años se ve obligada a abandonar sus estudios para trabajar como camarera en una familia blanca y a los 17 da a luz a su primera y única hija, Bongi. Para evitar que la niña crezca fuera del matrimonio, se casa con padre de la niña, que era su novio , peroes es víctima de violencia doméstica; decide entonces divorciarse y volver a vivir con su madre que mientras tanto ha regresado de la capital.
El cambio se produce cuando participa en el concierto de un grupo musical poco conocido y el líder de la banda la nota y le pide que cante para ellos: a los 19 años se presenta por primera vez ante un público, aunque muchos la critican porque no es apropiado para una mujer subirse a un escenario. La suerte le sigue sonriendo porque, durante una actuación, el líder del grupo Manhattan Brothers queda encantado con su actuación y le propone convertirse en la voz solista. Gracias a este trampolín, muy pronto compone y graba sus primeras canciones, con el apoyo de una discográfica.
Miriam Makeba con Dizzie Gillespie en concierto en Deauville, 20 de junio de 1991, Roland Godefroy
Su primera canción, titulada Lakutshona Ilanga, cruza el océano y se hace famosa en Estados Unidos; recibe propuestas de todas partes también para grabar discos en inglés, pero el Sudáfrica del apartheid solo permite a la población negra expresarse en la lengua indígena y está prohibida la enseñanza del inglés incluso en las escuelas. Una noche, después de un concierto con los Manhattan Brothers, Miriam conoce entre el público a un jovencísimo Nelson Mandela que la elogia por su estilo vocal único y extraordinario.
Su verdadera oportunidad de cambio llega cuando el director estadounidense Lionel Rogosin la descubre mientras actúa en un pequeño local de Johannesburgo. Le propone interpretarse a sí misma en un documental sobre la música africana, argumentando que un talento como el suyo no puede quedar relegado a Sudáfrica, sino que merece ser conocido en todo el mundo. Logra convencerla y en poco tiempo Miriam se encuentra en un avión que la lleva a Ámsterdam y en noviembre de 1959 comienza su carrera entre Nueva York y Los Ángeles, donde actúa en varios locales y la invitan a participar en uno de los programas de televisión más vistos de Estados Unidos, conducido por Steve Allen. Gracias a esta aparición en la pequeña pantalla, cada vez más personas la notan y la reconocen por las calles; en poco tiempo se convierte en una celebridad. Unos meses más tarde, su madre la contacta desde Sudáfrica, informándole que por motivos de salud ya no puede ocuparse de Bongi, así que, después de solicitar todos los permisos necesarios, su hija se reúne con ella en América. Sus espectáculos continúan y cada vez es más solicitada, incluso por el presidente Kennedy que está interesado en conocerla y la invita a participar en la fiesta de su cumpleaños. En su vida conocerá a varias figuras destacadas del mundo del espectáculo como Marlon Brando, con quien entablará una profunda amistad, Marilyn Monroe, Aretha Franklin, Stevie Wonder y muchas otras. Pero su corazón no olvida que su hogar es África y en 1963 pronuncia un discurso ante los once miembros de la Comisión Especial para los Problemas del Apartheid establecida en las Naciones Unidas. Esta elección le cuesta muy cara, ya que Sudáfrica la considera una traidora a la patria y la condena al exilio, prohibiendo también la venta de todos sus discos. Justo en ese mismo periodo, Nelson Mandela es arrestado y condenado a cadena perpetua por la lucha contra la segregación racial.
El descubrimiento de un cáncer de cuello uterino la obliga a detenerse y retirarse de los escenarios durante varios meses, obligándola a renunciar a participar en la gran marcha por los derechos civiles, programada en Washington, liderada por Martin Luther King. La cirugía para extirpar el tumor resulta exitosa, Miriam se recupera totalmente y comienza a viajar por varios estados africanos, como Kenia, Namibia, Ghana, Nigeria, Mozambique y Guinea, que se convertirá en su segundo hogar durante mucho tiempo. El presidente de Guinea, Sékou Touré, toma a Miriam bajo su protección y la hospeda en varias ocasiones en su residencia, pidiéndole que se convierta en embajadora del país ante las Naciones Unidas, solicitud que Miriam acepta con gusto. Los dos mantendrán una sólida y mutua amistad hasta la muerte de Touré en 1984.
A principios de junio de 1967, se libra la Guerra de los Seis Días que enfrenta a Israel y tres naciones coaligadas: Egipto, Siria y Jordania. El panorama político también influye en la gira de verano que Miriam está a punto de emprender como todos los años: los delegados africanos de las Naciones Unidas la abordan para pedirele que excluya de la lista de sus conciertos una canción hebrea, en solidaridad con Egipto, en guerra contra Israel. Decide hablarlo inmediatamente con su manager Harry Belafonte, también llamado Big Brother, reiterando que la música no tiene nada que ver con la política y que las canciones son solo canciones, pero el hombre contacta a los periódicos para informarles de que Miriam ha decidido no cantar deliberadamente una canción hebrea, acabando por difamarla y entregarla a la opinión pública que la tacha de antisemita. Este acontecimiento marca el final de su amistad con Big Brother y el comienzo del fin de su estancia en Estados Unidos, ya que en el verano de 1968 deja definitivamente Nueva York para trasladarse a Guinea.
También el matrimonio con el activista por la independencia negra, Stokely Carmichael, causa varios problemas a su carrera musical, ya que el hombre está en la lista negra de los agentes federales como un peligroso disidente político. La cantante se ve obligada a tener que responder por las acciones de su marido cada vez que es encarcelado por sus protestas. El matrimonio termina en 1973, cuando el presidente Touré acepta conceder el divorcio a la pareja. La ONU declara 1976 "año internacional contra el apartheid" y Miriam es la encargada de pronunciar otro discurso de apertura en las Naciones Unidas, hablando de las discriminaciones y violaciones de derechos que ella misma ha sufrido y de aquellas a las que aún están sujetas las poblaciones indígenas de Sudáfrica.
También la hija de Miriam, Bongi, enfrenta un periodo difícil: después de su primer matrimonio y el nacimiento de dos hijos, tiene otro hijo de su segundo esposo que morirá a la edad de un año, dejando a toda la familia en la desesperación. Miriam es una presencia constante para su hija y sus nietos, los ayuda a estudiar, les compra una casa y los invita a vivir con ella en Guinea. Bongi conoce a un hombre, se enamora de él y se casa por tercera vez, y se quedando embarazada, pero muere con poco más de treinta años después de parto por cesárea realizado de urgencia. Para Miriam esta es la mayor pérdida de su vida, después de la muerte de su madre ocurrida en Sudáfrica, sin poder regresar para despedirse de ella. En 1990 participa al Festival de San Remo (Italia) con la canción Give me a reason y gracias a la mediación de Nelson Mandela, que ese mismo año había salido de la cárcel, puede volver a su patria tras tres décadas de ausencia: su compromiso para ayudar a las poblaciones pisoteadas por la segregación racial no se detiene un solo día, hasta la abolición de las leyes raciales el 27 de abril de 1991.
En 1992 acepta un papel en la película Sarafina! que narra la historia del levantamiento de Soweto, un suburvio de Johannesburgo donde durante varios días muchas y muchos jóvenes protestaron contra la segregación racial. En la película Miriam tiene el papel de la madre de la activista Sarafina que participa a las protestas arriesgando su vida. Las manifestaciones fueron reprimidas con violencia y este hecho llamó la atención de la opinión pública mundial, provocando una serie de levantamientos en los Estados Unidos por parte del movimiento para el reconocimiento de la igualdad de derechos de las personas negras. Sin interrumpir sus conciertos por todo el mundo, en 1999 recibe el nombramiento de Embajadora de buena voluntad de la Organización de las Naciones Unidas para la alimentación y la agricultura (FAO), en 2001 recibe la medalla de la Paz Otto Hahn, en 2002 participa en un nuevo documental sobre el apartheid y gana el Polar Music Prize, un premio internacional otorgado por méritos enel ámbito musical. En 2005 organiza su gira mundial de despedida del escenario, aunque con poca salud. En otoño de 2008 participa en un concierto en Italia en memoria de seis migrantes africanos asesinados por la camorra en la que se conoce como la ‘matanza de Castel Volturno’, en la región de Campania. Muere justamente en Castel Volturno el 9 de noviembre con 76 años de edad por un ataque de corazón pocas horas tras su exhibición.
Miriam Makeba, conocida como Mamá África, cuya vida había quedado irreparablemente marcada por duelos, pérdidas, violencia, discriminación y sufrimiento, ha demostrado que la música tiene un valor universal que puede unir a poblaciones, independientemete de la lengua y del color de la piel. Como ella misma escribió en su autobiografía:
«Si me hubieran dado a elegir, sin duda habría preferido ser lo que soy: una entre los oprimidos, en lugar de una entre los opresores, aunque en realidad no tenía elección. [...] Pero hay tres cosas con las que vine a este mundo, tres cosas que me acompañarán hasta el día de mi muerte: la esperanza, la determinación y mi música».
La vita di Rosa Balistreri somiglia alla trama di un romanzo: sin da quando vide la luce, la sua esistenza fu un susseguirsi vertiginoso di eventi tragici, luttuosi che si alternarono a momenti di gioia e successi. Si stenta a credere che tutti questi avvenimenti possano essere stati vissuti da un’unica persona. Rosa è stata sicuramente una delle personalità femminili indipendenti più significative nella storia della musica popolare, di cui è stata interprete ma anche autrice, lasciandoci incise ben 120 canzoni. Alcune di queste ci raccontano la gioia delle festività natalizie o il dolore dei giorni della Settimana santa e della Crocifissione; altri sono testi politici, testi contro la mafia, per la maggior parte scritti da Ignazio Buttitta e Ciccio Busaccca e da lei interpretati.
Suo il grande merito di aver riportato alla ribalta il patrimonio musicale della canzone popolare siciliana, frugando in un archivio che non ha documenti ma voci di popolo che raccontano usi, costumi, avvenimenti. Cantautrice e cantastorie : così viene definita, ma anche l’“Amalia Rodriguez italiana” o “la Cantatrice del Sud”.Era nata a Licata il 21 Marzo del 1917 da Emanuele e Vincenza Gibaldi e visse la sua infanzia nel quartiere Marina: un dedalo di vicoli e viuzze dove abitavano poche famiglie abbienti e la maggior parte della popolazione viveva una vita di miseria e di rinunce. Il suo canto, sin da ragazzina, si intrufolava tra quelle pietre antiche. Erano gli anni del regime fascista e dell’emigrazione di massa.
A sedici anni è costretta a sposare Gioacchino Torregrossa (Iachinazzu), un uomo violento, un ubriacone che venderà il corredino della figlia per saldare i debiti di gioco. A quel punto Rosa, accecata dalla rabbia e dall’esasperazione, aggredì e ferì il marito e per quella sua reazione, rubricata come tentato omicidio, scontò sei mesi di carcere. Non era certo stato un matrimonio d’amore. Il suo cuore aveva sussultato, prima, per il cugino Angelino e poi per Frank, un soldato americano ma lei era troppo povera, non possedeva dote per potersi sposare con chi desiderava. Erano aspirazioni irrealizzabili in quel tempo e in quel contesto. Rosa, uscita dal carcere, svolse vari lavori: raccoglieva lumache, capperi, spighe, verdure varie e si impegnava nella salatura delle sarde per pochi spiccioli. Quando la assunsero in una vetreria, un giorno venne stuprata dal proprietario. Esasperata da quel destino avverso decise di recarsi a Palermo dove sistemò la figlioletta in un collegio e si” mise a servizio” di una famiglia benestante, il cui rampollo squattrinato e indebitato per il vizio del gioco, la convinse ad avere rapporti sessuali. Rosa restò incinta, lui le promise di non abbandonarla e la convinse al contempo a rubare dei gioielli alla madre per iniziare quella vita in comune. Ma era solo un vile stratagemma per pagare altri debiti di gioco.
Rosa, perseguitata dalla malasorte, trovò lavoro come custode della Chiesa Santa Maria degli Agonizzanti e dopo un periodo di relativa quiete, venne molestata dal nuovo prete che appena arrivato. A quel punto la misura è colma, Rosa ruba i soldi della cassetta delle elemosine e compra due biglietti di sola andata per Firenze: per sé e il fratello paralitico. In seguito la raggiungeranno gli altri familiari, anche loro decisi a recidere il legame con l’ingrata terra siciliana. In terra toscana la violenza del destino la colpirà duramente: sua sorella Maria verrà uccisa dal marito e il padre per la disperazione si impiccherà a un albero del Lungarno. Dopo il dolore e la disperazione riuscì a reagire: aprì un banchetto di frutta e verdura nel quartiere San Lorenzo, e lì, negli anni sessanta incontrò il pittore Manfredi Lombardi. Nacquero così due grandi amori: quello per l’artista e quello per la chitarra. Tramite Manfredi si inserì nel mondo artistico e iniziò a cantare ammaliando i critici dell’epoca e i suoi nuovi amici intellettuali. Iniziarono i concerti: cantava in dialetto siciliano, cantava nelle Feste dell’Unità, con la sua voce graffiante in cui si percepiva la disperazione della vita vissuta, ma anche la dolcezza delle nenie della sua terra. Dario Fo la scelse per rappresentare la Sicilia in una rassegna. Fu un successo travolgente e i suoi concerti venivano richiesti non solo in Europa ma anche in America e in Australia. Incontrò in questi nuovi mondi milioni di emigrati che la acclamavano, la riverivano apprezzando quel suo timbro di voce quasi arcaico e primordiale.
Rosa Balistreri, Sanremo 1973
Nel frattempo Manfredi l’aveva lasciata per un’altra donna e anche questa volta Rosa, dopo il grande dolore che l’aveva spinta al suicidio, reagì. Importanti anche le sue esperienze teatrali: non aveva alle spalle alcuno studio ma la sua autenticità era la chiave del suo successo. Debuttò a Firenze, nel 1968, con il Teatro stabile di Catania in La rosa di Zolfo e poi in altri spettacoli tra cui La ballata del sale, scritta appositamente per lei dal giornalista Salvo Licata. Reciterà e canterà anche ne La Lupa con Anna Proclemer e ne La lunga notte di Medea, con Piera degli Espositi. Nel 1970 ritornò in Sicilia con la madre e il nipote Luca. Andò a vivere a Palermo circondata dai suoi amici, tra cui Renato Guttuso e Giuseppe Ganduscio. Partecipò anche a un Festival di Sanremo, ma all’ultima selezione venne esclusa. Non era facile comprendere il senso della sua voce straziata e straziante, frutto del suo tormentato vissuto, della sua sofferenza e della sua insofferenza, del suo grande orgoglio, della sua forza e della sua dignità. Così dichiarò dopo l’esclusione:
«Ho deciso di gridare le mie proteste, le mie accuse, il dolore della mia terra, dei poveri che la abitano, di quelli che l’abbandonano, dei compagni operai, dei braccianti, dei disoccupati, delle donne siciliane che vivono come bestie… era questo il mio scopo»
«Ho deciso di gridare le mie proteste, le mie accuse, il dolore della mia terra, dei poveri che la abitano, di quelli che l’abbandonano, dei compagni operai, dei braccianti, dei disoccupati, delle donne siciliane che vivono come bestie… era questo il mio scopo». Rosa è stata la voce della gente povera, anzi miserabile, delle ultime e degli ultimi fra gli ultimi, dei braccianti senza terra, dei minatori, delle donne stuprate e vittime di violenze. La sua era la voce di un popolo che reclamava il diritto a una vita migliore e a un lavoro dignitoso.
In particolare nella canzone Mafia e parrini (Mafia e preti) denuncia la sopraffazione degli ordini religiosi sulla povera gente, li definisce come delle sanguisughe; persone che nulla hanno da spartire con il senso autentico della sua religiosità. In molti testi è presente l’opposizione netta al fenomeno mafioso con denunce chiare e coraggiose: «La mafia disonora questa terra povera e onesta che vuole solo pane e lavoro, libertà e giustizia». Il canto di Rosa inquietava le coscienze: una voce scomoda per chi preferiva chiudere gli occhi e girare indifferente le spalle alla miseria e alla violenza di quel mondo da lei quasi gridato.
Dopo i successi ritorna anche nella sua Licata, ma non viene accolta con il calore che solitamente il pubblico le riservava. Era rimasta per le sue e i suoi concittadini, semplicemente “la moglie di Iachinazzo”. È morta a Palermo il 20 Settembre del 1990. Così dichiarò in un’intervista: «Si può fare politica e protestare in mille modi. Io canto.ma non sono una cantante… diciamo che sono un’attivista che fa comizi con la chitarra».
Il suo grande impegno e il suo talento oggi sono ampiamente riconosciuti quasi a voler esaudire un suo desiderio espresso nella canzone Quannu moru:
«Quando morirò pensatemi ogni tanto, perché per questa terra in croce sarò morta senza voce»
Traduzione francese Ibtisam Zaazoua
La vie de Rosa Balistreri ressemble à l'intrigue d'un roman : dès sa naissance, son existence est un enchaînement vertigineux d'événements tragiques, de deuils, qui se sont alternés à des moments de joie et de succès. Il est difficile de croire qu'une seule personne ait pu vivre tous ces événements. Rosa est sûrement l'une des personnalités féminines indépendantes les plus significatives de l'histoire de la musique populaire, dont elle a été non seulement interprète mais aussi auteure, en nous laissant pas moins de 120 chansons enregistrées. Certaines de ces chansons racontent la joie des fêtes de Noël ou la douleur des jours de la Semaine Sainte et de la Crucifixion; d'autres sont des textes politiques, des textes contre la mafia, pour la plupart écrits par Ignazio Buttitta et Ciccio Busacca et interprétés par elle.
Elle a eu le grand mérite de remettre en lumière le patrimoine musical de la chanson populaire sicilienne, en fouillant dans un archive qui n'a pas de documents mais des voix du peuple racontant des coutumes, des usages, des événements. Chanteuse et conteuse : c'est ainsi qu'elle est définie, mais aussi "l'Amalia Rodriguez italienne" ou "la Chanteuse du Sud". Elle est née à Licata le 21 mars 1917 de Emanuele et Vincenza Gibaldi et a vécu son enfance dans le quartier Marina : un dédale de ruelles où vivaient quelques familles aisées tandis que la majorité de la population menait une vie de misère et de privations. Dès son plus jeune âge, sa voix se faufilait parmi ces vieilles pierres. C'étaient les années du régime fasciste et de l'émigration de masse.
À seize ans, elle est contrainte d'épouser Gioacchino Torregrossa (Iachinazzu), un homme violent, un ivrogne qui vendra le trousseau de leur fille pour payer ses dettes de jeu. À ce moment-là, Rosa, aveuglée par la colère et l'exaspération, attaque et blesse son mari et, pour cette réaction, qualifiée de tentative de meurtre, elle purgera six mois de prison. Ce n'était certainement pas un mariage d'amour. Son cœur avait battu, auparavant, pour son cousin Angelino puis pour Frank, un soldat américain, mais elle était trop pauvre, elle n'avait pas de dot pour pouvoir se marier avec celui qu'elle désirait. C'étaient des aspirations irréalisables en ce temps-là et dans ce contexte. Après être sortie de prison, Rosa a exercé divers métiers : elle récoltait des escargots, des câpres, des épis, divers légumes et elle s'occupait de la salaison des sardines pour quelques sous. Lorsqu'elle fut embauchée dans une verrerie, un jour, elle fut violée par le propriétaire. Exaspérée par ce destin contraire, elle décide de se rendre à Palerme où elle place sa petite fille dans un internat et se "met au service" d'une famille aisée, dont le fils sans le sou et endetté à cause de son vice du jeu, la convainc d'avoir des relations sexuelles. Rosa tombe enceinte, il lui promet de ne pas l'abandonner et la convainc en même temps de voler des bijoux à sa mère pour commencer leur vie commune. Mais ce n'était qu'un stratagème vil pour payer d'autres dettes de jeu.
Rosa, poursuivie par la malchance, trouve un emploi de gardienne à l'église Santa Maria degli Agonizzanti et après une période de relative tranquillité, elle est harcelée par le nouveau prêtre à peine arrivé. À ce stade, elle en a assez, elle vole l'argent de la boîte des aumônes et achète deux billets aller simple pour Florence : pour elle et son frère paralytique. Par la suite, d'autres membres de sa famille la rejoindront, eux aussi décidés à couper les liens avec la terre ingrate de la Sicile. En terre toscane, la violence du destin la frappera durement : sa sœur Maria sera tuée par son mari et son père, dans le désespoir, se pendra à un arbre sur les bords de l'Arno. Après la douleur et le désespoir, elle réussit à réagir : elle ouvre un étal de fruits et légumes dans le quartier San Lorenzo, et c'est là, dans les années soixante, qu'elle rencontre le peintre Manfredi Lombardi. Deux grands amours naissent ainsi : celui pour l'artiste et celui pour la guitare. Par l'intermédiaire de Manfredi, elle s'intègre dans le monde artistique et commence à chanter, envoûtant les critiques de l'époque et ses nouveaux amis intellectuels. Les concerts commencent : elle chantait en dialecte sicilien, chantait aux Fêtes de l'Unité, avec sa voix rugueuse dans laquelle on percevait le désespoir de la vie vécue, mais aussi la douceur des berceuses de sa terre. Dario Fo la choisit pour représenter la Sicile dans un festival. Ce fut un succès retentissant et ses concerts étaient demandés non seulement en Europe mais aussi en Amérique et en Australie. Dans ces nouveaux mondes, elle a rencontré des millions d'émigrés qui l'acclamaient, la vénéraient en appréciant son timbre de voix presque archaïque et primitif.
Rosa Balistreri, Sanremo 1973
Entre-temps, Manfredi l'avait quittée pour une autre femme et cette fois encore Rosa, après la grande douleur qui l'avait poussée au suicide, réagit. Ses expériences théâtrales sont également importantes : elle n'avait aucune formation, mais son authenticité était la clé de son succès. Elle débute à Florence, en 1968, avec le Teatro Stabile de Catane dans "La rosa di Zolfo" puis dans d'autres spectacles, dont "La ballata del sale", écrite spécialement pour elle par le journaliste Salvo Licata. Elle jouera et chantera également dans "La Lupa" avec Anna Proclemer et dans "La lunga notte di Medea", avec Piera degli Espositi. En 1970, elle retourne en Sicile avec sa mère et son neveu Luca. Elle s'installe à Palerme entourée de ses amis, parmi lesquels Renato Guttuso et Giuseppe Ganduscio. Elle participe également à un Festival de Sanremo, mais à la dernière sélection, elle est exclue. Il n'était pas facile de comprendre le sens de sa voix déchirante et déchirée, fruit de sa vie tourmentée, de sa souffrance et de son impatience, de sa grande fierté, de sa force et de sa dignité. Voici ce qu'elle déclara après son exclusion:
«J'ai décidé de crier mes protestations, mes accusations, la douleur de ma terre, des pauvres qui l'habitent, de ceux qui l'abandonnent, des compagnons ouvriers, des paysans, des chômeurs, des femmes siciliennes qui vivent comme des bêtes… c'était là mon but».
Rosa a été la voix des gens pauvres, voire misérables, des derniers et des dernières parmi les derniers, des paysans sans terre, des mineurs, des femmes violées et victimes de violences. C'était la voix d'un peuple qui réclamait le droit à une vie meilleure et à un travail digne.
En particulier dans la chanson "Mafia e parrini" (Mafia et prêtres), elle dénonce la domination des ordres religieux sur les pauvres, les qualifiant de sangsues; des personnes qui n'ont rien à voir avec le sens authentique de sa religiosité. Dans de nombreux textes, on trouve une opposition nette au phénomène mafieux avec des dénonciations claires et courageuses : "La mafia déshonore cette terre pauvre et honnête qui ne veut que du pain et du travail, de la liberté et de la justice." Le chant de Rosa troublait les consciences : une voix gênante pour ceux qui préféraient fermer les yeux et tourner le dos indifférent à la misère et à la violence de ce monde qu'elle exprimait presque en criant.
Après ses succès, elle retourne également dans sa Licata, mais elle n'est pas accueillie avec la chaleur que le public lui réservait habituellement. Elle était restée pour ses concitoyens simplement "la femme de Iachinazzu". Elle est décédée à Palerme le 20 septembre 1990. Voici ce qu'elle déclara dans une interview : "On peut faire de la politique et protester de mille manières. Moi, je chante… mais je ne suis pas une chanteuse… disons que je suis une militante qui fait des discours avec la guitare."
Son grand engagement et son talent sont aujourd'hui largement reconnus, comme pour exaucer un de ses souhaits exprimés dans la chanson Quannu moru:
«Quand je mourrai, pensez à moi de temps en temps, car pour cette terre en croix je mourrai sans voix»
Traduzione inglese Syd Stapleton
Rosa Balistreri's life resembles the plot of a novel. Ever since she first saw light, her existence was a dizzying succession of tragic, mournful events that alternated with moments of joy and success. One can hardly believe that all these things could have been experienced by a single person. Rosa was certainly one of the most significant independent female personalities in the history of popular music. She was not only a performer but also a songwriter, leaving us with as many as 120 recorded songs. Some of these tell us about the joy of the Christmas holidays or the pain of the days of Holy Week and the Crucifixion. Others are political lyrics, lyrics against the Mafia, mostly written by Ignazio Buttitta and Ciccio Busaccca and interpreted by her.
It is her great merit to have brought back to the forefront the musical heritage of Sicilian folk song, rummaging through an archive that has no documents but voices of the people telling of customs, traditions and events. Singer-songwriter and storyteller - so she is called, but also the "Italian Amalia Rodriguez" or "the Singer of the South." She was born in Licata on March 21, 1917, to Emanuele and Vincenza Gibaldi, and lived her childhood in Licata’s Marina district - a maze of alleys and lanes where few wealthy families lived and most of the population lived a life of misery and deprivation. Her singing, even as a young girl, intruded among those ancient stones. Those were the years of the fascist regime and mass emigration.
At sixteen she was forced to marry Gioacchino Torregrossa (Iachinazzu), a violent man, a drunkard who would sell his daughter's layette to pay off gambling debts. At that point Rosa, blinded by rage and exasperation, attacked and wounded her husband, and for that reaction, judged to be attempted murder, she served six months in prison. It had certainly not been a loving marriage. Her heart had yearned, first, for her cousin Angelino and then for Frank, an American soldier, but she was too poor and possessed no dowry to marry whomever she wished. These were unattainable aspirations in that time and context. Rosa came out of prison and worked at various jobs: picking snails, capers, ears of corn, various vegetables and engaged in salting sardines for pennies. When she was hired in a glassworks, one day she was raped by the owner. Exasperated by that outrage, she decided to go to Palermo, where she placed her little daughter in a boarding school and "put herself at the service" of a wealthy family, whose penniless scion, indebted to the vice of gambling, convinced her to have sexual relations. Rosa became pregnant, he promised not to abandon her and at the same time persuaded her to steal jewelry from his mother to begin that life together. But it was just a cowardly ploy to pay off more gambling debts.
Rosa, haunted by ill fortune, got a job as janitor of the Church of St. Mary of the Agonizing, and after a period of relative quiet, she was harassed by the newly arrived priest. At that point the measure was full - Rosa stole money from the alms box and bought two one-way tickets to Florence, for herself and her paralytic brother. She was later joined by other family members, who were also determined to sever ties with the ungrateful Sicilian land. In Tuscany the violence of fate hit her hard: her sister Maria was killed by her husband, and her father, in deep depression, hung himself from a tree on the Lungarno. After all the pain and despair she managed to react. She opened a fruit and vegetable stall in the San Lorenzo district, and there, in the 1960s, she met the painter Manfredi Lombardi. Thus two great loves were born - that for the artist and that for the guitar. Through Manfredi she entered the artistic world and began to sing, bewitching the critics of the time and her new intellectual friends. The concerts began - she sang in the Sicilian language, she sang in the Feste dell'Unità, with her scratchy voice in which the desperation of life lived could be perceived, but also the sweetness of the anthems of her land. Dario Fo chose her to represent Sicily in a review. It was an overwhelming success and her concerts were in demand not only in Europe but also in America and Australia. In these new worlds she was heard by millions of emigrants who acclaimed her, revered her, appreciating that almost archaic and primordial timbre of her voice.
Rosa Balistreri, Sanremo 1973
In the meantime Manfredi had left her for another woman, and again Rosa, after the great pain that nearly drove her to suicide, continued. Also important were her theatrical experiences. She had no formal education behind her, but her authenticity was the key to her success. She debuted in Florence, in 1968, with the Teatro stabile di Catania in La rosa di Zolfo and then in other plays including La ballata del sale, written especially for her by journalist Salvo Licata. She also acted and sang in La Lupa with Anna Proclemer and in La lunga notte di Medea, with Piera degli Espositi. In 1970 she returned to Sicily with her mother and grandson Luca. She went to live in Palermo surrounded by her friends, including Renato Guttuso and Giuseppe Ganduscio. She also participated in a San Remo Festival, but at the final selection she was excluded. It was not easy to understand the meaning of her ragged and heartbreaking voice, the result of her tormented life, her suffering and impatience, her great pride, strength and dignity. This is what she declared after her exclusion:
«I decided to shout out my protests, my accusations, the pain of my land, of the poor who inhabit it, of those who abandon it, of fellow workers, laborers, the unemployed, Sicilian women who live like beasts... that was my purpose».
Rosa was the voice of the poor, indeed miserable people, of the last and the last among the last, the landless laborers, the miners, the raped and abused women. Hers was the voice of a people claiming the right to a better life and decent work.
Particularly in the song Mafia e parrini (Mafia and Priests) she denounces the domination of religious orders over the poor people, she defines them as leeches - people who have nothing to do with an authentic sense of religiosity. Clear opposition to the Mafia is present in many texts with clear and courageous denunciations, "The Mafia dishonors this poor and honest land that only wants bread and work, freedom and justice." Rosa's song troubled consciences – hers was an uncomfortable voice for those who preferred to close their eyes and indifferently turn their backs on the misery and violence of that world that she almost shouted out.
After her successes she also returned to her Licata, but was not greeted with the warmth that the public usually reserved for her. She had remained for fellow citizens, simply "Iachinazzo's wife." She died in Palermo on September 20, 1990. She declared in an interview, "You can do politics and protest in a thousand ways. I sing, but I'm not a singer...let's say I'm an activist who creates protests with a guitar."
Her great commitment and talent today are widely recognized almost as if to fulfill a wish she expressed in the song Quannu moru:
«When I die, think of me now and then, because in this crucified land, I died without a voice»
Traduzione spagnola Maria Carreras
La vida de Rosa Balistreri se parece a la trama de una novela: desde su nacimiento, su existencia fue una vertigionsa serie de eventos trágicos, lutos que se alternaron a momentos de felicidad y de éxito. Parece imposible que todos estos acontecimientos los haya vivido una sola persona. Sin duda Rosa fue una de las personalidades femeninas independientes más significativas de la historia de la música popular, de la que fue intérprete y autora, dejándonos 120 canciones. Algunas de ellas nos cuentan la felicidad de las fiestas navideñas o el dolor de los días de Semana santa y de la Crucificación; otras son textos políticos, textos en contra de la mafia, la mayoría de estos últimos escritos por Ignazio Buttita y Ciccio Busacca e interpretados por ella.
Es suyo el gran mérito de haber recuperado el patrimonio musical de la canción popular siciliana, rastreando en un archivo que no contiene documentos sino voces del pueblo que cuentan usos, costumbres, eventos. Cantautora y cantastorie, ha sido definida “la Amalia Rodríguez italiana” y “la Cantante del Sur”. Nació en Licata el 21 de marzo de 1917 hija de Emanuele y Vincenza Gibaldi y pasó su infancia en el barrio Marina: una maraña de callejuelas y callejones donde vivían unas pocas familias bienestantes mientras la mayoría de la población llevaba una vida de miseria y de renuncias. Su canto, desde chica, se metía por todas partes entre aquellas piedras antiguas. Eran los años del régimen fascista y de la emigración masiva.
A los dieciséis años la obligaron a casarse con Gioacchino Torregrossa (apodado Iachinazzu), un hombre violento, un borracho que vendería la ropita de su hija para pagar deudas de juego. Rosa, cegada por la rabia y la exasperación, agredió a su esposo hiriéndolo, y por aquella reacción suya, clasificada como delito por intento de asesinato, pasó seis meses en la cárcel. Sin duda no se habían casado por amor. Su corazón había latido primero por su primo Angelo y más tarde por Frank, un soldado estadounidense, pero ella era demasiado pobre, no tenía dote para poderse casar con quien deseaba. Eran aspiraciones irrealizables en aquella época y en aquel contexto. Al salir de la cárcel, Rosa realizó distintos trabajos: recogía caracoles, alcaparras, espigas, varios tipos de verdura y se dedicaba a salar sardinas por unas pocas monedas. Tras encontrar trabajo en una vidriería, el propietario un día la violó. Exasperada por aquel destino cruel, decidió irse a Palermo donde dejó a su hija en un internado y se “puso a servir” en casa de una familia bienestante, cuyo vástago sin dinero y lleno de deudas de juego la convenció a mantener relaciones sexuales. Rosa se quedó embarazada, él le prometió que no la abandonaría y la convenció a robarle algunas joyas a su madre para empezar una vida juntos, pero no era más que una vil artimaña para pagar otras deudas de juego.
Rosa, perseguida por la mala suerte, encontró trabajo como sacristana de la Iglesia de Santa María de los Agonizantes pero, tras un periodo de relativa tranquilidad, un nuevo cura recién llegado la acosó sexualmente. De modo que, harta de todo, robó el dinero de la caja de las limosnas y compró dos billetes de ida para Florencia: uno para ella y otro para su hermano paralítico. Más tarde la siguieron otros familiares, decididos como ella a cortar toda relación con la ingrata tierra siciliana. En la Toscana la violencia del destino la golpea duramente: su hermana Maria es asesinada por su esposo y el padre de Rosa, desesperado, se ahorca de un árbol en la orilla del Arno. Tras el dolor y la desesperación, logró reaccionar: abrió una paradita de fruta y verdura en el barrio de San Lorenzo donde, en los años sesenta, conoció al pintor Manfredi Lombardi. Así nacieron dos grandes amores: uno por el artista y otro por la guitarra. Gracias a Manfredi se introdujo en el mundo artístico y empezó a cantar fascinando a los críticos de su época y a sus nuevos amigos intelectuales. Empezaron los conciertos: cantaba en siciliano, cantaba en las Feste dell’Unità (los festivales organizados en verano por el partido comunista italiano), con su voz rasgada en la que se percibía la desesperación de la vida vivida, junto a la dulzura de las tonadas de su tierra. Dario Fo la escogió para representar a Sicilia en un espectáculo suyo. Fue un éxito brutal y solicitaban sus conciertos no solo en toda Europa sino también en estados Unidos y en Australia. En estos nuevos mundos conoció a millones de emigrados que la aclamaban, la veneraban apreciando aquel timbre de voz casi arcaico y primordial.
Rosa Balistreri, Sanremo 1973
Mientras tanto Manfredi la había dejado por otra mujer y de nuevo, tras un terrible dolor que la había llevado a intentar suicidarse, Rosa reaccionó. También fueron importantes sus experiencias teatrales; no había realizado ningún tipo de estudio pero la autenticidad era la clave de su éxito. Debutó en Florencia, en 1968, con el Teatro Stabile di Catania en La rosa di Zolfo del autor catanés Antonio Aniante, luego participó en otros espectáculos como La ballata del sale, escrito expresamente para ella por el periodista Salvo Licata. Actuó y cantó en La Lupa de Verga con Anna Proclemer y en La lunga notte di Medea con Piera degli Espositi. En 1970 volvió a Sicilia con su madre y su nieto Luca. Se fue a vivir a Palermo rodeada de sus amistades, entre quienes se encontraban Renato Guttuso y Giuseppe Ganduscio. Participó a un Festival de San Remo pero la excluyeron en la última fase de selección. No era fácil comprender el sentido de su voz lacerada y lacerante, fruto de una vida atormentada, de su sufrimiento y de su repugnancia, de su enorme orgullo, de su fuerza y de su dignidad. Tras la exclusión de San Remo dijo:
«He decidido gritar mis protestas, mis acusaciones, el dolor de mi tierra, de los pobres que viven en ella, de quienes la abandonan, de los compañeros obreros, de los campesinos, de los parados, de las mujeres sicilianas que viven como animales… este era mi objetivo».
Rosa fue la voz de la gente pobre, es más miserable, de las últimas y de los últimos entre los últimos, de los campesinos sin tierra, de los mineros, de las mujeres violadas y víctimas de violencia. La suya era la voz de un pueblo que reclamaba el derecho a una vida mejor y a un trabajo digno.
En particular, en la canción Mafia e parrini (Mafia y curas) denuncia el abuso de las órdenes religiosas respecto a la pobre gente, las define unas sanguijuelas; personas que no tienen nada que ver con el sentido auténtico de su religiosidad. En muchos textos se aprecia una oposición clara al fenómeno mafioso con denuncias precisas y valientes: «La mafia deshonra esta tierra pobre y honesta que solo quiere pan y trabajo, libertad y justicia». El canto de Rosa inquietaba las conciencias: una voz incómoda para quienes preferían cerrar los ojos y dar la espalda indiferentes a la miseria y a la violencia de aquel mundo que ella denunciaba casi gritando.
Tras el éxito vuelve a su Licata pero no la acogen con el calor que el público solía reservarle. Para sus conciudadanos y conciudadanas seguía siendo simplemente ‘la mujer de Iachinazzo’. Murió en Palermo el 20 de septiembre de 1990. En una entrevista había declarado: «Se puede hacer política y protestar de mil maneras. Yo canto. Sin embargo no soy una cantante… digamos que soy una activista que hace mítines con la guitarra.»
Su gran compromiso y su talento hoy resultan ampliamente reconocidos, haciendo real su deseo expresado en la canción (Cuando me muera) Quannu moru:
«Cuando me muera de vez en cuando pensad en mí, porque me habré muerto sin voz para esta tierra crucificada»..