Rosa Luxemburg
Sara Balzerano



Giulia Tassi

 

Ci sono storie che andrebbero raccontate dalla fine, dall’ultimo atto, dall’istante immobile e sospeso che precede la chiusura del sipario. Sono semi, queste storie, germogli non ancora spuntati che hanno il destino di servire nel futuro, generazione e generazione, ancora e ancora, preziosi come le provviste inaspettate in un inverno rigido e interminabile. La fine di questa storia, la zolla di terra che copre l’ultimo scampolo di sole è il 15 gennaio 1919. Siamo a Berlino. Un uomo e una donna vengono prelevati da squadracce paramilitari nel quartiere di Wilmersdorf e condotti all’Hotel Eden. Qui vengono interrogati, torturati e uccisi. Lui, fucilato; lei, picchiata con il calcio delle armi e poi finita con un colpo alla testa; tutti e due sono poi gettati nelle fangose e gelide acque del Landwehrkanal. I nomi di questo uomo e questa donna sono Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Entrambi cittadini tedeschi. Entrambi fondatori della Lega di Spartaco — lo Spartakusbund — il movimento della sinistra radicale marxista sorto in Germania nel 1916 e nucleo embrionale di quello che sarà poi il Kommunistische Partei Deutschlands, il Kpd. Entrambi radicali, in un mondo ancora traballante e impolverato da ciò che ne restava dopo la mattanza della Prima guerra mondiale. Entrambi rivoluzionari, decisi a cambiare le vecchie rovine sulle quali, ormai, non poggia più nulla, se non idee e voci che il movimento della storia, orizzontale e verticale, sta cacciando via. Entrambi in prima fila, sul campo, nella regìa e nelle strade, affinché alle parole seguano azioni che mostrino quanto puro e reale sia il loro impegno. Ma lei è anche altro. È talmente tanto altro che le definizioni sembrano contraddirla perché essa stessa pare contraddirsi, pur rimanendo sempre salda e ferma nei princìpi e nei valori che sorreggerà e che la sorreggeranno per tutta la vita. Sarà indipendente e militerà in un partito; esprimerà le sue idee chiaramente e convintamente e non penserà mai di organizzare queste stesse idee in una forma sistemica; sarà una rivoluzionaria marxista e sarà una convinta pacifista nello stralcio di secolo che pare essersi dimenticato il silenzio di grida e armi; lotterà, contro i suoi compagni di lotta, per difendere la sua autonomia di pensiero e i suoi sentimenti di totale amore verso il mondo.

Comunque la si osservi, la si legga e la si conosca, Rosa Luxemburg ci appare come una sfumatura della tinta ben più complessa e preziosa che è stata. Nasce a Zamość, una città della Polonia sudorientale, nel voivodato di Lublino, il 5 marzo del 1871. La sua famiglia è di fede ebraica ashkenazita, agiata, con il padre commerciante di legname, di idee liberali, e la madre, donna religiosa e profondamente istruita che la indirizza allo studio della Torah e alla lettura dei grandi classici delle letterature polacca e tedesca. La sua infanzia, dunque, vive e respira già di altro, di libri e di cultura. E la piccola Rosa sembra raccogliere a piene mani questa compresenza e commistione: impara a leggere e a scrivere in tenera età e da autodidatta, e darà sempre alla scrittura una funzione di assoluta preziosità, tanto che, in una lettera del 23 giugno 1898 indirizzata a Robert Seidel, afferma: «Sono scontenta della maniera in cui la maggioranza dei membri del Partito scrive i propri articoli. Sono tutti così convenzionali, così legnosi, così stereotipati. […] Quando scrivo, mi impongo di non dimenticare mai di guardarmi dentro e di entusiasmarmi per quello che sto dicendo».

La politica la accompagna praticamente sempre: già nel 1884, mentre frequenta un liceo femminile di Varsavia, si avvicina al gruppo clandestino rivoluzionario Proletariat e, per sfuggire all’arresto dei suoi membri, nel 1889 attraversa il confine austro-ungarico nascosta in un carro di fieno. Si trasferisce quindi in Svizzera e a Zurigo frequenta prima la facoltà di filosofia e poi quella di giurisprudenza, nel 1892, dove si laurea nel 1897 con la tesi Die industrielle Entwicklung Polens (Lo sviluppo industriale della Polonia). Accanto a questi studi, però, Rosa Luxemburg segue anche corsi di matematica e — soprattutto — di botanica. E così sarà per il resto della sua vita. Alle barricate e alle piazze affianca l’amore e il bisogno fisico della natura, anche se questa le mostra quanto l’essere umano sia niente al suo confronto: «Credo che al cospetto del mare, di fronte alla sua perpetua, immutabile, sublime indifferenza non si possa che esseri colti dallo sconvolgente sentimento della propria nullità. […] È il nemico della vanità umana che è convinta di essere qualcosa e d’improvviso invece collassa nel nulla». Alle gonne infangate dell’eterno cammino verso uguaglianza e giustizia, affianca il desiderio di vedere i propri vestiti sporchi semplicemente di colori, olii e pastelli: «Ah, Dudu, se per due anni potessi dedicarmi solo alla pittura! Mi divorerebbe completamente. Non andrei a lezione da nessun pittore e non chiederei neppure consigli, vorrei imparare solo dipingendo e facendo magari qualche domanda a te di tanto in tanto. Ma questi sono sogni vani, non posso farlo. La mia miserabile pittura non serve a nessuno, e invece dei miei articoli le persone hanno bisogno». Alle sbarre serrate di una prigione contrappone il senso di libertà che sente invaderla al solo pensare alla vita, al fatto di esserlo ancora, viva, a ciò che fuori da quelle nere mura di costrizione la sta aspettando: «Me ne sto qui, ad esempio, in questa cella oscura, sopra un materasso duro come la pietra, intorno a me nell’edificio regna come di regola un silenzio di tomba, sembra di essere rinchiusi in un sepolcro: attraverso la finestra si disegna sul soffitto il riflesso della lanterna accesa l’intera notte davanti al carcere. Di tanto in tanto si sente, cupo, lo sferragliare di un treno che passa in lontananza; oppure, più vicina, proprio sotto la finestra, la guardia che si schiarisce la voce e per sgranchirsi le gambe fa lentamente qualche passo con i suoi stivaloni. La sabbia stride in modo così disperato, sotto quei passi, che nella notte scura e umida si sente risuonare tutta la desolazione e lo sconforto dell’esistenza. Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell’oscurità, della noia, della prigionia invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito. E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità».

È una donna libera, Rosa Luxemburg, indomita, mai remissiva, che sa andare anche contro i suoi stessi compagni quando si sente spodestata del proprio ruolo, della parola, della propria personalità: «Devo ammettere che a Jena ero furiosa con lei perché si era preso la briga di volermi difendere e la sua strategia tutta sbagliata mi ha causato più danni che altro. Voleva difendere la mia morale e per questo ha sacrificato la mia posizione politica. Ha fatto l’esatto contrario di quello che doveva. La mia morale non ha bisogno di alcuna difesa» (lettera a Konrad Haenisch, 2 dicembre 1911). Non ha mai sopportato l’addomesticazione del pensiero femminile, né da parte del partito né da parte degli uomini che la affiancano nella sua vita. Ecco cosa scrive a Leo Jogiches, conosciuto in Svizzera nel 1890: «Tu non ti accorgi affatto che tutta la tua corrispondenza ha un carattere disgustoso: il tono generale è quello di una predica noiosa e pedante, come le lettere del maestro a un caro alunno… Questa è la conseguenza di un tuo vecchio vizio che ha rovinato completamente la nostra convivenza, cioè il tuo vizio di far da mentore, per cui ti senti continuamente chiamato a insegnarmi e a fare sempre e in tutto la parte del mio maestro… Di fronte a questo, non posso che limitarmi a scrollare le spalle».

Il riscatto non lo cerca soltanto per le classi povere e sfruttate, ma anche per la natura in tutte le sue forme. Difende le ragioni degli ultimi e delle ultime, che sia in una cella o su una barricata. Combatte per cancellare brutture e orrori. E sa godere del più piccolo segnale che l’esistenza che le respira intorno le manda da cogliere. Pare vedere nel fermo immagine del carcere un sipario pronto a schiudersi su uno spettacolo sempre nuovo. Fa della gioia un’arte, di essa gode e si stupisce, e la mangia e la assapora, e sa, vuole, che essa sia per tutti e tutte. Si batte per la bellezza. Per la verità, che è bellezza. Per l’uguaglianza, che è bellezza. Per la giustizia, che è bellezza. Per la bellezza fine a sé stessa, che riesce a pareggiare — forse e in una qualche maniera — i conti che, nel calcolo del capitalismo e della guerra, non tornano mai. È un’aquila, così come Lenin l’ha definita, perché dell’aquila ha lo sguardo dall’alto, lo slancio di reni che le permette di volare dal battuto impervio e insanguinato della strada alle vette pulite e fresche, lì dove c’è ossigeno e fiato profondo. Eppure, anche lei che si indica come una cinciallegra — tanto da chiedere a una sua amica che sulla propria lapide sia inciso solo zvì zvì, il verso di questo piccolo uccellino — non sbaglia. Perché questo passero è intelligente e intraprendente, chiacchierone ed esploratore, e prezioso, poiché avverte col suo canto le persone di un pericolo imminente, prevedendo così il futuro. E cos’è una rivoluzionaria se non questo? E cosa fa una donna che cerca, sa, trova la felicità ovunque, se non questo? Rosa Luxemburg spende la propria vita nel tentare di combattere le sofferenze altrui, mentre lei, le proprie, non le esibisce mai, celandole nel pudore e nella speranza. Eppure, per la crudele ironia di cui a volte la vita si ammanta, le barbarie che soffre per mano dei suoi assassini sono invece ben visibili sul suo corpo martoriato. Ci sono storie che devono essere raccontate dalla fine, dall’ultimo atto, dall’istante immobile e sospeso che precede la chiusura del sipario. Di Rosa Luxemburg, quel 15 gennaio 1919 non rimane che una scarpa, raccolta da mano anonima e misericordiosa, e salvata dalla fanghiglia che la stava ricoprendo.

Quella scarpa ha bloccato l’ingranaggio del sipario, ha permesso al sole di arrivare e far germogliare il seme che si è provato a far seccare per sempre. «Vede, dappertutto è la felicità, se ne può trovare e raccogliere un po’ a ogni angolo della strada, e di continuo ci viene ricordato che la vita è bella e ricca».

 

Traduzione inglese
Syd Stapleton

There are stories that should be told from the end, from the last act, from the motionless and suspended instant that precedes the closing of the curtain. They are seeds, these stories, not yet sprouted shoots that have a destiny to serve in the future, generation after generation, again and again, as precious as unexpected supplies in a harsh and interminable winter. The end of this story, the lump of earth that covers the last remnant of the sun, is January 15, 1919. We are in Berlin. A man and a woman are picked up by paramilitary squads in the Wilmersdorf neighborhood and taken to the Eden Hotel. There they are interrogated, tortured and killed. He, shot; her, beaten with the butts of guns and then finished with a blow to the head. Both are then thrown into the icy, muddy waters of the Landwehrkanal. The names of this man and this woman are Karl Liebknecht and Rosa Luxemburg. Both German citizens. Both founders of the League of Spartacus - the Spartakusbund - the movement of the radical Marxist left born in Germany in 1916 and the embryonic nucleus of what would later become the Kommunistische Partei Deutschlands, the KPD. Both radicals, in a world still shaken and ravaged as a consequence of the slaughter that was the First World War. Both revolutionaries, determined to change the old ruins on which, by now, nothing rests, except ideas and voices that the movement of history, horizontal and vertical, is chasing away away. Both on the front lines, in the field of action, in the leadership and on the streets, such that their words are followed by actions that show how pure and real their commitment is. But she is also something else. She is so much more that definitions seem to contradict themselves, because she seems to be a contradiction herself, always remaining steadfast and firm in the principles and values ​​that she will uphold and that will sustain her throughout her life. She will be independent and will be active in a party; she will express her ideas clearly and with conviction, yet will never think of organizing these same ideas in a systemic form. She will be a Marxist revolutionary and she will also be a convinced pacifist at the turn of a century that seems to have forgotten that angry voices and weapons could be silent. She will fight, against her fellow fighters, to defend her autonomy of thought and her feelings of total love for the world.

However you look at her, read her and get to know her, Rosa Luxemburg will appears to us in much more complex and precious shades of color. She was born in Zamość, a city in southeastern Poland, in the Voivodeship (Duchy) of Lublin, on March 5, 1871. Her family was of the Ashkenazi Jewish faith, prosperous, her father a timber merchant of liberal ideas, and her mother, a religious and deeply educated woman who directed her to the study of the Torah and the reading of the great classics of Polish and German literature. Thus, her childhood already lived and breathed that “something else” - books and culture. And the little Rosa seemed to fully absorb and reflect this mixture. She learned to read and write at an early age, and as a self-taught person always had within her writing an absolute and precious independence, so much so that in a June 23, 1898 letter that she addressed to Robert Seidel, she said, «I am dissatisfied with the way in which the majority of Party members write their articles. They are all so conventional, so wooden, so stereotypical. […] When I write, I make it my duty never to forget to look inside myself and get excited about what I'm saying.»

She was almost always engaged in, and by, politics. Already in 1884, while attending a girls' high school in Warsaw, she joined with the underground revolutionary group Proletariat and in 1889, to escape the arrest of its members, she crossed the Austro-Hungarian border hidden in cartload of hay. She then moved to Switzerland and in Zurich she first attended the faculty of philosophy and, in 1892, that of law, where she graduated in 1897 with the thesis Die Industrielle Entwicklung Polens (The Industrial Development of Poland). Alongside these studies, however, Rosa Luxemburg also followed courses in mathematics and - above all - in botany. And she would for the rest of her life. Alongside the barricades and city squares she combined a love of and a physical need for nature, even if this showed her how much the human being is nothing in comparison. «I believe that in the presence of the sea, in the face of its perpetual, immutable, sublime indifference one cannot but be caught by the overwhelming feeling of one's own nothingness. [...] It is that enemy, human vanity, that is convinced of being something and then suddenly collapses into nothingness.» Alongside the muddy skirts of the eternal journey towards equality and justice, she also had the desire to see her clothes simply dirty with colors, oils and pastels: «Ah, Dudu, if I could only devote myself to painting for two years! It would consume me completely. I would not go to any painter’s class and I would not even ask for advice. I would like to learn only by painting and maybe by asking you a few questions from time to time. But these are empty dreams, I can't do it. My miserable painting is of no use to anyone, and instead, people need my articles.» To the locked bars of a prison, she contrasted the sense of freedom that she felt invading her just thinking about life, the fact that she is still alive, and with what is waiting for her outside those constraining black walls. «I am here, for example, in this dark cell, on a mattress as hard as stone, a grave-like silence reigns around me in the building as a rule, it seems like being enclosed in a tomb. Through the window the light of a lantern, lighted whole night in front of the prison, is shining on the ceiling. From time to time we hear the distant gloomy rattle of a train passing in the distance, or, closer, just under the window, the guard who clears his throat and stretches his legs slowly by taking a few steps with his boots. The sand screeches so desperately, under those boots, that in the dark and humid night you can hear all the echoing desolation and despair of existence. I lie here, alone, in silence, wrapped in these multiple black sheets of darkness, of boredom, of winter captivity - and meanwhile my heart beats with an incomprehensible and unknown inner joy, as if I were walking in the radiant sun. on a flowery meadow. And in the dark I smile at life, as if I were aware of some secret enchantment capable of unraveling every sad and evil thing and turning it into splendor and happiness.»

Rosa Luxemburg lived as a free woman, indomitable, never submissive, who also knew how to Stand up against her own companions when she feels dispossessed of her role, of speech, of her personality: "I must admit that I was furious with you in Jena precisely because, while you undertook to defend me, with your totally inappropriate strategy you stabbed me right in the back. You meant to defend my “morality” and to that end surrendered my political position; it was the worst possible way to proceed. My “morality” needs no defense.” (Letter to Konrad Haenisch, December 2, 1911). She never permitted the domestication of female thought, either by the party or by the men who were alongside her in her life. Here is what she wrote to Leo Jogiches, who she knew in Switzerland, in 1890: «You do not realize at all that all your correspondence has a disgusting character: the general tone is that of a boring and pedantic sermon, like the teacher's letters to a dear pupil. ... This is the consequence of an old vice of yours that has completely ruined our relationship, that is your vice of being a mentor, for which you feel continually called to teach me and always and in everything play the part of my teacher ... at this, I can only shrug my shoulders.»

She sought redemption not only for the poor and exploited classes, but also for nature in all its forms. She defended reason to the end, whether in a cell or on a barricade. She fought to erase ugliness and horrors. And she knew how to enjoy the smallest sign that the existence that breathed around her sent for her to grasp. She seemed to see in the still image of the prison a curtain ready to open on an ever new spectacle. She made joy an art, she enjoyed it and was amazed, and ate it and savored it, and she knew it was, wanted it to be, for everyone. She fought for beauty. For the truth, which is beauty. For equality, which is beauty. For justice, which is beauty. For beauty as an end in itself, which would equalize - perhaps and in some way - the accounts that, in the calculations of capitalism and war, never add up. She was an eagle, such as Lenin defined, because an eagle has the view from above, the impulse of adrenaline, that allows it to fly from the bloody beaten path to the clean and fresh peaks, where there is oxygen to breathe free. This is not wrong, even if she saw herself as a small songbird, the tomtit - so much so that she asked one of her friends to have only “zvì zvì” (a tomtit’s song) engraved on her tombstone. Because this small bird is intelligent and resourceful, talkative and an explorer, and precious, as it warns people of imminent danger with its song, thus foreseeing the future. And what is a revolutionary if not this? And what is a woman who seeks, and finds happiness everywhere, if not this? Rosa Luxemburg spent her entire life trying to fight the sufferings of others, while she never exhibited her own sufferings, hiding them with modesty and with hope. Yet, in the cruel irony with which life sometimes wraps itself, the barbarity she suffered at the hands of her murderers was clearly visible on her martyred body. There are stories that must be told from the end, from the last act, from the motionless and suspended instant that precedes the closing of the curtain. Of Rosa Luxemburg, that January 15, 1919, all that remained was a shoe, picked up by an anonymous and merciful hand, and saved from the mud that was covering it.

That shoe blocked the gears of the curtain, it allowed the sun to arrive and sprout the seed that they tried to stamp out forever. «Look, happiness is everywhere, you can find and collect a little on every street corner, and we are constantly reminded that life is beautiful and rich.»

 

Traduzione spagnola
Daniela Leonardi

Hay historias que habría que contar desde el final, desde el último acto, el instante inmóvil y suspendido que precede al cierre del telón. Son semillas, estas historias, brotes por nacer que tienen el destino de servir en el futuro, generación tras generación, una y otra vez, tan valiosos como las provisiones inesperadas en un invierno rígido e interminable. El final de esta historia, el terrón de tierra que cubre la última franja de sol es el 15 de enero de 1919. Estamos en Berlín. Un hombre y una mujer son detenidos por escuadrones paramilitares en el barrio de Wilmersdorf y conducidos al hotel Edén. Ahí son interrogados, torturados y asesinados. Él, fusilado; a ella, la golpearon con la culata de las armas y luego la mataron con un tiro en la cabeza; luego los dos son arrojados en las fangosas y heladas aguas del Landwehrkanal. Los nombres de este hombre y esta mujer son Karl Liebknecht y Rosa Luxemburg. Ambos ciudadanos alemanes. Ambos fundadores de la Liga de Espartaco –el Spartakusbund– el movimiento de izquierda marxista radical surgido en Alemania en 1916 y el núcleo embrionario de lo que luego será el Kommunistische Partei Deutschlands, el KPD. Ambos radicales, en un mundo todavía inestable y polvoriento por lo que quedaba de él después de la matanza de la Primera Guerra Mundial. Ambos revolucionarios, decididos a cambiar las viejas ruinas sobre las que ya no descansa nada, sino ideas y voces que el movimiento de la historia, horizontal y vertical, está desterrando. Ambos en primera fila, en los lugares de mando y en las calles, para que a las palabras sigan acciones que muestren cuán puro y real es su compromiso. Pero ella es mucho más. Es hasta tal punto mucho más que las definiciones parecen contradecirla porque ella misma parece contradecirse, aunque siempre se mantiene sólida y firme en los principios y en los valores que sostendrá y que la sostendrán durante toda su vida. Será independiente y militará en un partido; expresará sus ideas con claridad y convicción y nunca pensará en organizar estas mismas ideas de una manera sistémica; será una revolucionaria marxista y será una convencida pacifista en ese recorte de siglo que parece haber olvidado el silencio de gritos y armas; luchará, contra sus compañeros de lucha, para defender su autonomía de pensamiento y sus sentimientos de total amor hacia el mundo.

Se mire como se mire, se lea como se lea y se conozca como se conozca, Rosa Luxemburg se nos aparece como un matiz de lo que realmente fue, algo mucho más complejo y valioso. Nació en Zamość, una ciudad del sureste de Polonia, en el voivodato de Lublin, el 5 de marzo de 1871. Su familia era de fe judía ashkenazita, acomodada, con el padre comerciante de madera, de ideas liberales, y su madre, mujer religiosa y profundamente instruida que la dirigió al estudio de la Torá y a la lectura de los grandes clásicos de las literaturas polaca y alemana. En su infancia, pues, vivió y respiró ya otras cosas, libros y cultura. Y la pequeña Rosa parece recoger a manos llenas esta conmoción y mezcla: aprende a leer y a escribir a temprana edad y como autodidacta, y dará siempre a la escritura una función de absoluto valor, tanto que, en una carta del 23 de junio de 1898 dirigida a Robert Seidel, afirma: «Estoy descontenta con la forma en que la mayoría de los miembros del Partido escribe sus artículos. Todos son tan convencionales, tan adustos, tan estereotipados. [...] Cuando escribo, me obligo a no olvidarme nunca de mirarme dentro y entusiasmarme por lo que estoy diciendo».

La política la acompaña prácticamente siempre: ya en 1884, mientras frecuentaba un liceo femenino de Varsovia, se acercó al grupo clandestino revolucionario Proletariat y, para escapar del arresto de sus miembros, en 1889 cruzó la frontera austrohúngara escondida en un carro de heno. Luego se trasladó a Suiza y en Zúrich asistió primero a la facultad de filosofía y luego, en 1892, a la de derecho, donde se graduó en 1897 con la tesis Die industrielle Entwicklung Polens (El desarrollo industrial de Polonia). Junto a estos estudios, sin embargo, Rosa Luxemburg también siguó cursos de matemáticas y –sobre todo– de botánica. Y así será el resto de su vida. A las barricadas y a las plazas une el amor y la necesidad física de la naturaleza, aunque ésta le muestra que el ser humano no es nada en comparación con ella: «Creo que ante la presencia del mar, ante su perpetua, inmutable y sublime indiferencia, no se puede más que percibir el estremecedor sentimiento de la propia nulidad. [...] Es el enemigo de la vanidad humana que está convencida de ser algo mientras que, de repente, colapsa en la nada». A la ropa manchada por el eterno camino hacia la igualdad y la justicia, acompaña el deseo de ver sus vestidos sucios simplemente de colores, aceites y pasteles: «¡Ah, Dudu, si durante dos años pudiera dedicarme solo a la pintura! Me devoraría por completo. No iría a clase con ningún pintor y ni siquiera pediría consejos, solo aprendería pintando y quizás haciéndote algunas preguntas de vez en cuando. Pero estos son sueños vanos, no puedo hacerlo. Mi miserable pintura no le sirve a nadie, y en cambio las personas necesitan mis artículos». A los barrotes cerrados de una prisión contrapone el sentido de libertad que siente que la invade con solo pensar en la vida, en el hecho de estar todavía viva, a lo que afuera de esos negros muros de constricción la está esperando: «Estoy aquí, por ejemplo, en esta celda oscura, sobre un colchón duro como la piedra, a mi alrededor en el edificio reina como siempre un silencio de tumba, parece que esté encerrada en un sepulcro: a través de la ventana se dibuja en el techo el reflejo de la linterna encendida toda la noche delante de la prisión. De vez en cuando se oye, sombrío, el ruido de un tren que pasa a lo lejos; o, más cerca, justo debajo de la ventana, el guardia que se aclara la voz y para estirar las piernas hace lentamente unos pasos con sus botas. La arena chirría tan desesperadamente, bajo esos pasos, que en la noche oscura y húmeda se oye resonar toda la desolación y el desaliento de la existencia. Estoy aquí tumbada, sola, en silencio, envuelta en estas múltiples y negras sábanas de la oscuridad, del aburrimiento, de la prisión invernal –y mientras tanto mi corazón late de una alegría interior incomprensible y desconocida, como si caminara bajo el sol radiante en un prado de flores. Y en la oscuridad sonrío a la vida, como si conociera algún secreto mágico capaz de destripar todas las cosas tristes y malvadas y convertirlas en esplendor y felicidad».

Barbora Rezlerová-Švarcová
Marta Vischi



Giulia Tassi

 

Barbora Rezlerová-Švarcová è purtroppo una figura poco conosciuta, rimasta dimenticata nella generica militanza comunista e nascosta in qualche libro di storia al femminile. Una donna che, sotto molti aspetti, ha precorso i tempi parlando con anni di anticipo di importanti tematiche di genere e che ha sempre lottato per i diritti delle donne cecoslovacche, e non solo. Se dovessimo in qualche modo riassumere in una unica parola l’essenza di Barbora, questa potrebbe essere: “lavoratrice”; la sua intera vita è scandita dal suo instancabile lavoro, da quello svolto in fabbrica a quello di redazione fino a quello politico. Barbora Rezlerová nasce in Baviera, a Blaibach, il 7 luglio 1890. Suo padre, che era stato uno dei fondatori del Partito social-democratico ceco, è un operaio tessile, trasferitosi con la famiglia in Germania per cercare nuove opportunità professionali. La figlia si contraddistingue per essere una lavoratrice tenace; durante la giovinezza, infatti, lavora nell’industria tessile insieme al padre e al resto della famiglia (ha, infatti, cinque tra fratelli e sorelle).

Poi, allo scoppio della Prima guerra mondiale, si trova a svolgere il mestiere di cuoca a Praga, una città vivace e multiculturale. Durante gli anni della guerra si avvicina ai movimenti femminili e conosce il futuro marito, Ladislav Švarc, un attivista del Partito comunista, con il quale diventa una figura politica di riferimento per uomini e donne. Dal matrimonio nasceranno due figli maschi. Nel 1921 lui viene eletto segretario regionale del Partito comunista cecoslovacco, così la famiglia si trasferisce a Banska Bystrika. Barbora conosce personalmente le difficoltà della classe operaia e delle donne ed ha un fine ben preciso: aiutare le lavoratrici. Ha anche un talento non trascurabile: è bravissima nel tenere discorsi e nel parlare in pubblico. Non è difficile quindi per lei intraprendere la carriera politica: negli anni Venti è infatti la segretaria dell’Organizzazione delle donne slovacche Slovenské Zeny.

Barbora Rezlerová-Švarcová è poi conosciuta soprattutto per il suo lavoro editoriale: è stata la prima direttrice della rivista Proletarka (Proletarie) e la prima giornalista del suo Paese a scrivere ed occuparsi di diritti femminili, affrontando tematiche quali il divorzio, l'aborto, la parità di genere e i diritti sul lavoro con un notevole anticipo rispetto alla storia. Sotto la sua guida Proletarka passa dal vendere 120 copie settimanali a 2000, confermando così che le sue parole e le sue idee trovano terreno fertile nel pubblico femminile slovacco, nonostante si sappia che quasi tutte le conquiste sociali verranno raggiunte solo molti anni dopo. Barbora non è ben vista pubblicamente e spesso utilizza uno pseudonimo: Kamila Kmet’ovà. Nei suoi discorsi e scritti politici non ha paura di tenere posizioni apertamente critiche nei confronti del governo della Repubblica cecoslovacca: per questo viene più volte arrestata e processata, fino a quando nel biennio tra il 1925 e il 1926 non è costretta a fuggire con il marito, prima verso la Germania, poi in Unione Sovietica. Appena arrivata a Mosca si iscrive alla scuola di giornalismo e continua a inviare articoli nel suo Paese, allo stesso tempo scrivendo per il giornale Izvestia e lavorando per la stazione radio del Comintern. Nel 1930 lei e suo marito divorziano, un fatto abbastanza fuori dal comune per i tempi. Durante il periodo del ‘Grande Terrore’ in Urss, nel 1937 Barbora perde il lavoro e per sopravvivere inizia a insegnare la lingua ceca alle guide turistiche. Con il crescere delle tensioni politiche viene espulsa dal Partito comunista e arrestata nel 1941, per poi essere fucilata il 2 settembre dello stesso anno. La sua memoria viene riabilitata e le sue qualità personali degnamente riconosciute in Cecoslovacchia solo parecchio tempo dopo, alla fine della "guerra fredda" e alla caduta del muro di Berlino.

È possibile osservare come questa donna nata nel XIX secolo e vissuta nella prima metà del Novecento sia in realtà estremamente attuale: non possiamo non notare infatti una stretta vicinanza fra i suoi ideali e diversi obiettivi europei per l’Agenda 2030, in particolare gli obiettivi 5 (parità di genere), 8 (lavoro dignitoso e crescita economica), 10 (riduzione delle disuguaglianze) e 16 (pace, giustizia e istituzioni solide). L’intera esistenza di Barbora è stata dedicata al miglioramento della vita del prossimo. Come ha scritto una sua biografa, Jana Juranová, che si trattasse di diritto all'istruzione e alla salute, di libertà di pensiero e di parola, questa figura femminile si è sempre distinta, nonostante il suo Paese abbia compreso i suoi sforzi e le sue attività a distanza di anni dalla tragica morte. E noi, consapevoli di quanto questi valori siano stati in passato, siano oggi e saranno in futuro fondamentali, non possiamo dimenticare la storia di una lavoratrice attenta ai bisogni della comunità, che ha dedicato la sua vita a parlare di donne, emancipazione e diritti, e a operare di conseguenza.

 

 

Traduzione francese
Guenoah Mroue

Barbora Rezlerová-Švarcová est malheureusement une figure peu connue, oubliée et cachée dans les livres d’histoire au féminin. Une femme qui, à bien des égards, a devancé le temps en parlant 50 ans à l’avance de questions de genre importantes et qui a toujours lutté pour les droits des femmes slovaques. Si nous devions en quelque sorte résumer en un seul mot l’essence de Barbora, je crois que celle-ci est : "travailleuse"; toute sa vie est rythmée par son inlassable travail, de celui effectué en usine à celui de rédaction. Barbora Rezlerová-Švarcová est née en Bavière, à Blaibach, le 7 juillet 1890. Son père est un ouvrier textile qui a déménagé avec sa famille en Allemagne pour chercher de nouvelles opportunités d’emploi. Barbora se distingue par le fait d’être une travailleuse infatigable; pendant sa jeunesse, en effet, elle travaille dans l’industrie textile avec son père et le reste de sa famille (elle a en effet, cinq frères et sœurs).

Puis, au début de la Première Guerre mondiale, elle travaille comme cuisinière à Prague, une ville animée et multiculturelle. Pendant les années de guerre, elle se rapproche des mouvements féminins et fait la connaissance de son mari, Ladislav Švarc, un activiste du parti communiste, avec lequel elle devient une figure politique centrale pour les hommes et les femmes slovaques. Barbora connaît bien les difficultés de la classe ouvrière et des femmes et a un but bien précis : aider les travailleuses. Elle a également un talent non négligeable : elle est très douée pour faire des discours et parler en public. Dans les années 1920, elle est secrétaire de l’organisation des femmes slovaques Slovenské Zeny.

Barbora Rezlerová-Švarcová est surtout connue pour son travail éditorial : en effet, elle a été la première directrice de la revue Proletarka ("Prolétaires") et la première journaliste de son pays à écrire et s’occuper des droits des femmes, aborder des questions telles que le divorce, l’avortement, l’égalité des sexes et les droits au travail bien avant l’histoire. Sous sa direction, Proletarka passe de 120 exemplaires hebdomadaires à 2000, confirmant ainsi que ses paroles et ses idées trouvent un terrain fertile dans le public féminin slovaque, bien que nous sachions que certains acquis féminins ne seront atteints que de nombreuses années plus tard. Barbora n’est pas bien vue publiquement et publie sous le nom de Kamila Kmet’ovà (c’est son pseudonyme). Dans ses discours et ses écrits politiques, elle n’a pas peur de tenir des positions ouvertement critiques à l’égard de la République tchécoslovaque : c’est pourquoi elle est arrêtée et jugée à plusieurs reprises, jusqu’à ce qu’elle soit contrainte de fuir avec son mari en 1925-1926, d’abord vers l’Allemagne, puis en Union soviétique. Dès son arrivée à Moscou, elle s’inscrit à l’école de journalisme et continue à envoyer des articles dans son pays, tout en travaillant pour le journal Izvestia et pour la station de radio du Komintern. En 1930, elle et son mari divorcent, un fait assez inhabituel pour l’époque. En 1937, Barbora Rezlerová-Švarcová perd son emploi et commence à enseigner le tchèque aux guides touristiques. À mesure que les tensions politiques augmentent, Barbora est expulsée du parti communiste et arrêtée en 1941, avant d’être fusillée le 2 septembre de la même année. Sa mémoire est réhabilitée et reconnue en Slovaquie seulement dix ans plus tard.

On peut observer que cette figure née et vécue il y a près d’un siècle est en réalité extrêmement actuelle : on ne peut pas ne pas remarquer des voisinages étroits avec différents objectifs européens pour l’Agenda 2030, en particulier avec les objectifs 5 (égalité des sexes), 8 (travail décent et croissance économique), 10 (réduction des inégalités) et 16 (paix, justice et institutions solides). En effet, toute la vie de Barbora a toujours été consacrée à l’amélioration de la vie des autres. Qu’il s’agisse de droits, d’éducation, de liberté de pensée et de parole, cette figure féminine s’est toujours distinguée, bien que son pays n’ait réhabilité ses efforts et ses activités que par la suite. Et nous, conscients de combien ces valeurs ont été et seront toujours fondamentales, nous ne pouvons pas oublier l’histoire d’une travailleuse attentive aux besoins de sa communauté et qui a consacré sa vie à parler de femmes, de libertés et de droits.

 

Traduzione inglese
Syd Stapleton

Barbora Rezlerová-Švarcová, unfortunately, is a little-known figure who has remained forgotten in the category of generic communist militancy and tucked away in a few women's history books. A woman who, in many ways, was far ahead of her time, speaking out years in advance on important gender issues, and who always fought for the rights of Czechoslovakian women and more. category of generic communist militancy and tucked away in a few women's history books. A woman who, in many ways, was far ahead of her time, speaking out years in advance on important gender issues, and who always fought for the rights of Czechoslovakian women and more. If we were to somehow summarize the essence of Barbora in one word, it might be "worker". Her entire life was marked by her tireless work, from factory work to editorial work to political work. Barbora Rezlerová was born in Bavaria, in Blaibach, on July 7, 1890. Her father, who had been one of the founders of the Czech Social Democratic Party, was a textile worker who moved with his family to Germany to seek new professional opportunities. His daughter stood out as a tenacious worker, and during her youth she worked in the textile industry along with her father and the rest of the family (she had five brothers and sisters).

Then, at the outbreak of World War I, she found herself working as a cook in Prague, a vibrant and multicultural city. During the war years she became involved in women's movements and met her future husband, Ladislav Švarc, a Communist Party activist, and both became important political figures for both men and women. Two sons were born from the marriage. In 1921 her husband was elected regional secretary of the Czechoslovak Communist Party, so the family moved to Banska Bystrika. Barbora personally knew the difficulties of the working class and women and had a clear purpose - to help women workers. She also had a not inconsiderable talent - she was very good in political discussions and at public speaking. It was therefore not difficult for her to pursue a political career. In the 1920s she served as the secretary of the Slovak Women's Organization Slovenské Zeny.

Barbora Rezlerová-Švarcová then became best known for her editorial work. She was the first editor of the magazine Proletarka (Proletarians) and the first journalist in her country to write and cover women's rights, tackling issues such as divorce, abortion, gender equality, and labor rights in a way that was well in advance the times. Under her leadership Proletarka went from selling 120 copies per week to 2,000, confirming that her words and ideas found fertile ground in the Slovak female population, despite the fact that it was known that almost all social advances would not occur until many years later. Barbora was not well known publicly and often used a pseudonym - Kamila Kmet'ovà. In her political speeches and writings she was not afraid to take positions openly critical of the government of the Czechoslovak Republic. As a result, she was repeatedly arrested and prosecuted, until in the two years between 1925 and 1926 she was forced to flee with her husband, first to Germany, then to the Soviet Union. As soon as she arrived in Moscow, she enrolled in journalism school and continued to send articles back home, at the same time writing for the newspaper Izvestia and working for the Comintern radio station. In 1930 she and her husband divorced, a fairly uncommon occurrence for the times. During the period of the 'Great Terror' in the USSR, in 1937 Barbora lost her job, and to survive began teaching the Czech language to tour guides. As political tensions grew, she was expelled from the Communist Party and arrested in 1941, only to be shot on September 2 of that year. Her memory was rehabilitated and her personal qualities once again honored in Czechoslovakia only decades later, at the end of the "cold war" and the fall of the Berlin Wall.

It is possible to see how this woman, who was born in the 19th century and lived in the first half of the 20th century, is in fact extremely relevant today. Indeed, we cannot fail to notice a close relationship between her ideals and several European goals for the 2030 Agenda, in particular Goals 5 (gender equality), 8 (decent work and economic growth), 10 (reduced inequality) and 16 (peace, justice and strong institutions). Barbora's entire existence was dedicated to improving the lives of others. As one of her biographers, Jana Juranová, wrote, whether it was the right to education and health, or freedom of thought and speech, this female figure always stood out, even though her country only recognized her efforts and activities years after her tragic death. And we, aware of how fundamental these values have been in the past, are today and will be in the future, cannot forget the story of a worker who cared about the needs of the community, who dedicated her life to talking about women, emancipation and rights, and working accordingly.

 

Traduzione spagnola
Maria Carreras i Goicoechea

Lamentablemente Barbora Rezlerová-Švarcová es una figura poco conocida, prácticamente olvidada y escondida en los libros de historia mujeril. Una mujer que, bajo muchos aspectos, fue precursora, como con los temas relacionados con el género, que anticipó unos 50 años; también luchó siempre por los derechos de las mujeres eslovacas. Si tuviéramos que resumir de algún modo con una sola palabra la esencia de Barbora, creo que esta sería “trabajadora” pues toda su vida estuvo marcada por el fatigoso trabajo, tanto el realizado en la fábrica como el de redacción. Barbora Rezlerová-Švarcová nació en Blaibach (en Baviera) el 7 de julio de 1890. Su padre era un obrero textil que se había trasladado con su familia a Alemania para buscar nuevas oportunidades de trabajo. Barbora ya se caracterizó por ser una trabajadora inagotable desde jovencita; en efecto trabajó en la industria textil junto a su padre y al resto de su familia (con ella eran 6 hermanos entre chicos y chicas).

Cuando estalló la Primera Guerra Mundial, trabajó como cocinera en Praga, una ciudad vivaz y multicultural. Durante los años de la guerra se acercó a los movimientos femeninos y conoció a su futuro esposo Ladislav Švarc, un activista del partido comunista, junto al cual se convirtió en una figura política central para los hombres y las mujeres eslovacas. Barbora conoce bien las dificultades de la clase obrera y de las mujeres y tiene un objetivo determinado: ayudar a las trabajadoras. También tiene un talento digno de mención: su capacidad de hablar en público y de pronunciar discursos. Así pues, no se le hace difícil emprender la carrera polítca: efectivamente, en los años 20 ya es Secretaria de la organización de las mujeres eslovacas (Slovenské Zeny).

Barbora Rezlerová-Švarcová también es muy conocida por su trabajo editorial: de hecho fue la primera directora de la revista Proletarka (“Proletarias”) y la primera periodista de su país que se ocupó de los derechos de las mujeres y que escribió sobre estos, afrontado temas como el divorcio, el aborto, la igualdad de género y los derechos de las trabajadoras con un adelanto considerable respecto a la historia. Bajo su dirección, Proletarka pasó de vender 120 ejemplares semanales a 2000, confirmando así que sus palabras y sus ideas encontraban terreno fértil en el público femenino eslovaco, si bien sabemos que algunas de las conquistas de las mujeres no llegaron hasta muchos años después. Barbora no estaba bien vista públicamente y por ello firmaba con el pseudónimo Kamila Kmet’ovà. En sus discursos y escritos políticos no temía asumir posiciones abiertamente críticas hacia la República checoslovaca, motivo por el que la arrestaron y procesaron en más de una ocasión, hasta que –entre 1925 y 1926– se vio obligada a huir con su esposo, primero a Alemania y luego a la Unión Soviética. Nada más llegar a Moscú, se matriculó en la escuela de periodismo y siguió enviando artículos a su país, al mismo tiempo que colaboraba con el periódico ruso Isvetzia (Известия) y para la radio de la III Internacional Comunista (Коминтерн). En 1930 ella y su esposo se divorciaron, algo fuera de lo común en aquella época. Durante la fase del “Gran Terror” en Rusia, en 1937 Barbora Rezlerová-Švarcová perdió su trabajo y para sobrevivir empezó a enseñar checo a los/las guías de turismo. Con el aumento de las tensiones políticas, en 1941 fue expulsada del partido comunista, arrestada y, el 2 de septiembre del mismo año, fusilada. Su memoria fue rehabilitada y reconocida en Eslovaquia solo diez años más tarde.

Es posible observar como esta figura, que nació y vivió hace casi un siglo ya, en realidad es sumamente actual; efectivamente, no se pueden pasar por alto algunas coincidencias con una serie de objetivos europeos de la agenda 2030, en especial los objetivos n° 5 (Igualdad de género), 8 (Trabajo decente y crecimiento económico), 10 (Reducción de las desigualdades) y 16 (Paz, justicia e instituciones sólidas). En efecto, toda la vida de Barbora estuvo dedicada a la mejora de la vida de los y las demás. Ya se tratara de derechos, de instrucción o de libertad de pensamiento y de palabra, esta figura femenina siempre sobresalió, a pesar de que su país solo rehabilitara sus esfuerzos y actividades a posteriori. Concientes de la importancia de estos valores, fundamentales en el pasado, ahora y siempre, no podemos olvidar su historia de trabajadora atenta a las necesidades de su comunidad, quien dedicó su vida a hablar de mujeres, derechos y libertad.

 

Lucía Sánchez Saorni
Rosanna de Longis



Giulia Tassi

 

È impossibile non leggere la vicenda biografica di Lucía Sánchez Saornil come un rispecchiamento di momenti ed esperienze cruciali del Novecento e delle donne che in questo secolo sono vissute. La sua figura è emersa dall’oscurità grazie all’antologia curata nel 1975 da Mary Nash, tradotta successivamente in italiano (Mujeres libres - Donne libere: Spagna 1936-1939, Ragusa, La Fiaccola, 1991), dedicata al periodico e all’omonima organizzazione delle donne anarchiche fondati da Lucía nel corso della Guerra civile spagnola; ma è merito della recente e documentata ricerca di Michela Cimbalo (Ho sempre detto noi: Lucía Sánchez Saornil, femminista e anarchica nella Spagna della Guerra Civile, Roma, Viella, 2020) averne ricostruito la biografia in tutto il suo spessore e la sua ricchezza. Sánchez Saornil nasce a Madrid il 13 dicembre 1895 da una famiglia di braccianti agricoli emigrata due anni prima dalla meseta settentrionale in cerca di migliori opportunità nella capitale in piena espansione economica e urbanistica. Tuttavia, condizioni di lavoro precarie e alto costo della vita non consentono alla giovane coppia – Eugenio e Gabriela – e ai loro quattro figli – due dei quali moriranno in tenera età – di risollevare le proprie sorti e condurre una esistenza meno dura. Nel 1908, quando Lucía ha dodici anni e sua sorella Concepción due di meno, la madre muore durante un’epidemia di tubercolosi. Figlia di genitori analfabeti, dotata di scarsissimi mezzi, la ragazza è tuttavia animata da una grande fame di sapere: riceve sicuramente un’istruzione di base se a diciotto anni padroneggia a tal punto la scrittura da inviare a un giornale madrileno, La Correspondencia de España, una lettera nella quale auspicava che fosse istituita anche per le ragazze un’associazione analoga a quella dei giovani esploratori: era in realtà una timida rivendicazione a favore delle donne spagnole, prive di spazi e costrette a vivere senza ossigeno nelle strade cittadine. D’altro canto – sosteneva – godere di una maggiore libertà di movimento avrebbe consentito alle donne di adempiere meglio alle loro funzioni di spose e madri. Lucía si firmava come alunna del Centro de Hijos de Madrid, un’istituzione benefica fondata da imprenditori e intellettuali che offriva opportunità di istruzione e di formazione professionale alle fasce più bisognose della popolazione con un’attenzione particolare alle donne.

All’inizio dell’anno seguente il settimanale Avante pubblicava le prime prove poetiche di Lucía Sánchez Saornil, presentandola come una giovane e promettente scrittrice. La vena letteraria si svilupperà negli anni successivi portando Lucía a pubblicare su numerose altre testate fino ad approdare nel 1916 sulle pagine di Los Quijotes, una rivista letteraria edita a Madrid. Firmando con lo pseudonimo maschile di Luciano de San Saor – quasi un anagramma del proprio nome – Lucía si esprime in versi carichi di passione e di desiderio rivolti a una donna. La partecipazione a Los Quijotes si rivela un punto di svolta per la maturazione della giovane, sia sotto il profilo artistico che politico: nel 1918 il gruppo redazionale della rivista confluirà nel movimento dell’avanguardia spagnola noto come Ultraismo e in quello stesso ambiente Lucía verrà a contatto con l’anarchismo. L’Ultraismo fu un movimento ibrido che attinse a diverse tendenze artistiche degli inizi del secolo, dal futurismo al dadaismo al cubismo, da cui mutuò alcune parole d’ordine come l’antipassatismo, lo sperimentalismo linguistico ed estetico, l’esaltazione della scienza e della tecnica come tratti distintivi della modernità. Fino all’esaurirsi della parabola ultraista, nel corso degli anni Venti, Lucía continuò a pubblicare sulle testate vicine al movimento, come Gran Guiñol, Tableros, Ultra, Vertices, Plural e sull’importante rivista argentina Martin Fierro alla quale contribuiva Jorge Luis Borges.

Nel 1916 Lucía aveva iniziato a lavorare presso una compagnia telefonica di Madrid. Le società telefoniche, in Spagna come altrove, impiegavano infatti in larga parte manodopera femminile, specie ai livelli più bassi e meno qualificati della struttura aziendale: era tuttavia un impiego che non aveva i tratti e le caratteristiche del lavoro operaio, né si svolgeva in fabbrica. Era perciò appetibile sia dalle donne di ceto medio sia dalle proletarie, per le quali poteva rappresentare una possibilità di ascesa economica e sociale, come nel caso di Lucía. Era comunque un lavoro estremamente duro, con orari gravosi, obblighi e norme che influivano pesantemente sulla vita privata, come la clausola di nubilato. Nel 1924 l’azienda dove lavorava Lucía venne assorbita dalla Compañia Telefónica Nacional de España. A questa società anonima il governo dittatoriale di Primo de Rivera, salito al potere nel 1923, affidò in regime di monopolio la riorganizzazione del servizio telefonico del Paese. La maggiore azionista della Ctn era la società statunitense Itt (International Telephone and Telegraphic), che mirava a introdurre forme di razionalizzazione tayloristica nel lavoro al fine di ottimizzare i tempi e conseguire un maggiore rendimento. Le forti agitazioni che segnarono questa fase di modernizzazione del servizio telefonico riguardarono soprattutto la manodopera maschile: poche le donne che vi presero parte, tra queste Lucía, che nel 1927 venne trasferita a Valencia. Quattro anni dopo, nel 1931, veniva licenziata. Cadute nel 1930 la dittatura di Primo de Rivera e, l’anno dopo, la monarchia, a seguito delle elezioni che avevano espresso una maggioranza repubblicano-socialista, non si era attenuata la conflittualità sociale: lavoratrici e lavoratori della Telefónica scesero in agitazione in opposizione al monopolio privato dei servizi telefonici introdotto dalla dittatura. In realtà nei conflitti di lavoro i governi repubblicani, dopo alcune iniziali promesse, non avevano cambiato rotta e avevano continuato a favorire le forme di conciliazione già introdotte in precedenza, metodi che il sindacato anarchico, la Cnt, a differenza di quello socialista, l’Ugt, aveva sempre respinto: le proteste sindacali videro perciò non solo lo scontro diretto tra governo e Cnt, ma anche gravi contrasti tra i due principali sindacati spagnoli.

Una volta licenziata, Lucía iniziò a guadagnarsi da vivere come giornalista e attivista anarchica. Collaborò a molti giornali, tra cui El Libertario, settimanale dalla vita assai discontinua legato alla Federación Anarquista Ibérica (Fai); dal 1933 entrò, unica donna, nella redazione del quotidiano Cnt, organo del sindacato nazionale. Al centro dell’attenzione di Lucía e dei suoi interventi sulla stampa fu la “questione femminile”, un tema da sempre caro al pensiero anarchico, che affrontò da una prospettiva se non eterodossa certamente indipendente da quella assunta dal movimento. In un’ottica autenticamente anarchica di contestazione del sistema rappresentativo, Lucía critica il diritto di voto che la repubblica ha concesso alle donne, in assenza di una rivendicazione da parte delle donne stesse: tuttavia non si limita ad affermare che esso rappresenta una strumentalizzazione e un’assimilazione delle donne alle logiche dello Stato, ma afferma la necessità di una specifica iniziativa delle anarchiche, in totale autonomia – politica e organizzativa – dal movimento. Di fatto è l’annuncio di quanto Lucía realizzerà pochi anni dopo, fondando nell’aprile 1936, insieme con Mercedes Comaposada, il periodico Mujeres Libres, luogo di discussione e di aggregazione politica delle donne, vicino all’anarchismo ma del tutto indipendente. Identificando nel termine femminismo una parola d’ordine tesa a ottenere una mera equiparazione con gli uomini, Lucía e le sue compagne della redazione ne rifiutano gli obiettivi in nome di una visione radicale che considera le donne avanguardia di una società futura. La Guerra civile che scoppia di lì a poco è il terreno su cui si misura la capacità di iniziativa femminile. L’organizzazione Mujeres libres, che arriverà a riunire ventimila donne, presterà aiuto ai combattenti e alle loro famiglie, si adopererà negli approvvigionamenti e nella distribuzione di viveri, nell’assistenza alla popolazione e all’infanzia, organizzando mense, asili, corsi di alfabetizzazione e di puericultura. E il ruolo delle donne diventò ancora più incisivo nella dimensione internazionale: Lucía Sánchez fu tra le principali responsabili del progetto di sostegno intorno a cui nacque Solidaridad Internacional Antifascista (Sia); anche questa rete dedicò molta attenzione all'infanzia non limitandosi all’assistenza ma propugnando nuovi metodi educativi. Lucía organizzò colonie per bambine/i e adolescenti, rivolte soprattutto ad accogliere figli e figlie dei militanti anarchici, con lo scopo di assicurare alla gioventù un ambiente protetto dalle violenze della guerra.

Nel 1937, ritornata nuovamente a Valencia, Lucía vi conobbe América Barroso detta Mery, che sarà da allora la sua compagna di vita. Alla caduta della repubblica, nel 1939, fuggì in Francia, con quella che sarebbe stata da allora in avanti la sua famiglia: Mery, il padre Eugenio e la sorella Concepción con i quali si era riunita. Ma dopo l’occupazione nazista del Paese e la nascita del governo di Vichy, Lucía e i suoi sono costretti nuovamente a fuggire e a rientrare clandestinamente in Spagna, stabilendosi prima a Madrid e poi, definitivamente, a Valencia grazie all’aiuto della famiglia Barroso. Lucía muore il 2 giugno 1970, per un tumore ai polmoni; Mery le sopravvive per sette anni. Nell'ultimo periodo dell'esistenza, Lucía riprende a scrivere poesie, rimaste in gran parte inedite, molto diverse da quelle composte in gioventù, segnate dalla passione. Lontani ormai gli anni della militanza, cifra degli ultimi scritti non è più il “noi”, la dimensione collettiva, ma l’accento intimista, percorso dalle angosce della sconfitta, dalla paura della malattia e della morte incombente, e anche da un sentimento religioso incerto, tuttavia alimentato dalla speranza che la vita non sia finita. Sopra un fascio di poesie inedite conservato dalla famiglia Barroso si legge un titolo vergato dalla mano di Lucía: Siempre puede volver la esperanza (Poemas).

 

Traduzione francese
Guenoah Mroue

Il est impossible de ne pas lire l’histoire biographique de Lucia Sánchez Saornil comme un reflet des moments et des expériences cruciales du XXe siècle et des femmes qui ont vécu au cours de ce siècle. Sa personne est sortie de l’obscurité grâce à l’anthologie éditée en 1975 par Mary Nash, traduite ensuite en italien (Mujeres libres - Femmes libres : Espagne 1936-1939, Ragusa, La Fiaccola, 1991), dédiée au périodique et à l’organisation homonyme des femmes anarchistes fondées par Lucia au cours de la guerre civile espagnole; mais c’est grâce à la recherche récente et documentée de Michela Cimbalo (J’ai toujours dit: Lucia Sánchez Saornil, féministe et anarchiste en Espagne de la Guerre Civile, Rome, Viella, 2020) en a reconstruit la biographie dans toute son épaisseur et sa richesse. Sánchez Saornil est né à Madrid, le 13 décembre 1895, dans une famille d’ouvriers agricoles émigrés deux ans plus tôt de la meseta du Nord à la recherche de meilleures opportunités dans la capitale en pleine expansion économique et urbaine. Cependant, les conditions de travail précaires et le coût élevé de la vie ne permettent pas au jeune couple - Eugène et Gabriel - et à leurs quatre enfants - dont deux mourront en âge prècoce- de redresser leur sort et de mener une existence moins dure. En 1908, quand Lucia a douze ans et sa sœur Concepción plus jeune de deux ans, sa mère meurt lors d’une épidémie de tuberculose. Fille de parents analphabètes, dotée de moyens très faibles, elle est cependant animée d’une grande faim de savoir : elle reçoit sûrement une instruction de base si, à dix-huit ans, elle maîtrise à tel point l’écriture qu’elle envoie à un journal madrilène, La Dencorresponcia de España, une lettre dans laquelle elle souhaitait qu’une association analogue soit instituée pour les jeunes filles à celle des jeunes explorateurs : c’était en réalité une revendication timide en faveur des femmes espagnoles, privées d’espace et contraintes à vivre sans oxygène dans les rues de la ville. D’autre part - soutenait-elle - jouir d’une plus grande liberté de mouvement permettrait aux femmes de mieux remplir leurs fonctions d’épouses et de mères. Lucia se signa comme élève du Centro de Hijos de Madrid, une institution caritative fondée par des entrepreneurs et des intellectuels qui offrait des possibilités d’éducation et de formation professionnelle aux couches les plus nécessiteuses de la population avec une attention particulière pour les femmes.

Au début de l’année suivante, l’hebdomadaire Avante publiait les premières épreuves poétiques de Lucia Sánchez Saornil, la présentant comme une jeune et prometteuse écrivain. La veine littéraire se développa dans les années suivantes, conduisant Lucia à publier dans de nombreux autres journaux jusqu’à arriver en 1916 sur les pages de Los Quijotes, une revue littéraire éditée à Madrid. En signant sous le pseudonyme masculin de Luciano de San Saor - presque un anagramme de son nom - Luciano de San Saor s’exprime dans des vers chargés de passion et de désir adressés à une femme. La participation à Los Quijotes se révèle un tournant pour la maturation de la jeune fille, tant du point de vue artistique que politique : En 1918, le groupe de rédaction de la revue fusionnera avec le mouvement de l’avant-garde espagnole connu sous le nom d’ultraisme et dans ce même milieu, Lucia entrera en contact avec l’anarchisme. L’Ultraisme fut un mouvement hybride puisant dans différentes tendances artistiques du début du siècle, du futurisme au dadaïsme en passant par le cubisme, d’où elle emprunta quelques mots d’ordre comme l’antipaxysme, l’expérimentalisme linguistique et esthétique, l’exaltation de la science et de la technique comme traits distinctifs de la modernité. Jusqu’à l’épuisement de la parabole ultraiste, au cours des années 1920, Lucia a continué à publier dans les journaux proches du mouvement, comme Gran Guiñol, Tableros, Ultra, Vertices, Plural et l’importante revue argentine Martin Fierro à laquelle contribuait Jorge Luis Borges.

En 1916, Lucia a commencé à travailler dans une compagnie de téléphone à Madrid. En effet, les sociétés de téléphone, en Espagne comme ailleurs, employaient en grande partie de la main-d’œuvre féminine, notamment aux niveaux les plus bas et les moins qualifiés de la structure de l’entreprise : c’était pourtant un emploi qui n’avait pas les traits et les caractéristiques du travail ouvrier, elle ne se déroulait pas à l’usine. Elle était donc attractive aussi bien pour les femmes de classe moyenne que pour les prolétaires, pour lesquelles elle pouvait représenter une possibilité d’ascension économique et sociale, comme dans le cas de Lucia. C’était un travail extrêmement difficile, avec des horaires pénibles, des obligations et des règles qui affectaient lourdement la vie privée, comme la clause de célibat. En 1924, l’entreprise où travaillait Lucia fut absorbée par la Compañia Telefónica Nacional de España. C’est à cette société anonyme que le gouvernement dictatorial de Primo de Rivera, arrivé au pouvoir en 1923, confia en monopole la réorganisation du service téléphonique du pays. Le principal actionnaire de la CTN était la société américaine ITT (International Telephone and Telegraphic), qui visait à introduire des formes de rationalisation tayloristique dans le travail afin d’optimiser les temps et d’obtenir un rendement plus élevé. Les fortes agitations qui marquèrent cette phase de modernisation du service téléphonique touchèrent surtout la main-d’œuvre masculine : peu de femmes qui y prirent part, parmi lesquelles Lucia, qui en 1927 fut transférée à Valence. Quatre ans plus tard, en 1931, elle a été licenciée. La dictature de Primo de Rivera est tombée en 1930 et, l’année suivante, la monarchie, à la suite des élections qui avaient exprimé une majorité républicaine-socialiste, n’a pas atténué la conflictualité sociale : les travailleuses et les travailleurs de Telefónica sont tombés dans l’agitation en opposition au monopole privé des services téléphoniques introduit par la dictature. En réalité, dans les conflits du travail, les gouvernements républicains, après quelques promesses initiales, n’avaient pas changé de cap et avaient continué à favoriser les formes de conciliation déjà introduites auparavant, méthodes que le syndicat anarchiste, la CNT, contrairement au syndicat socialiste, l’Ugt, avait toujours rejeté : les protestations syndicales virent donc non seulement l’affrontement direct entre le gouvernement et le CNT, mais aussi de graves oppositions entre les deux principaux syndicats espagnols.

Une fois licenciée, Lucia commence à gagner sa vie en tant que journaliste et militante anarchiste. Elle collabore à de nombreux journaux, dont El Libertario, hebdomadaire à vie très discontinue lié à la Federación Anarquista Ibérica (FAI); à partir de 1933, elle entre, seule femme, dans la rédaction du quotidien Cnt, organe du syndicat national. Au centre de l’attention de Lucia et de ses interventions sur la presse fut la "question féminine", un thème depuis toujours cher à la pensée anarchiste, qu’elle affronta d’une perspective sinon hétérodoxe certainement indépendante de celle assumée par le mouvement. Dans une optique authentiquement anarchiste de contestation du système représentatif, Lucia critique le droit de vote que la république a accordé aux femmes, en l’absence de revendication de la part des femmes elles-mêmes : cependant, elle ne se limite pas à affirmer qu’elle représente une instrumentalisation et une assimilation des femmes aux logiques de l’État, mais elle affirme la nécessité d’une initiative spécifique des anarchistes, en totale autonomie - politique et organisationnelle - du mouvement. En effet, c’est l’annonce de ce que Lucia réalisera quelques années plus tard, en fondant en avril 1936, avec Mercedes Comaposada, le périodique Mujeres Libres, lieu de discussion et d’agrégation politique des femmes, proche de l’anarchisme mais tout à fait indépendant. Identifiant dans le terme féminisme un mot d’ordre visant à obtenir une simple égalisation avec les hommes, Lucia et ses compagnes de la rédaction rejettent ses objectifs au nom d’une vision radicale qui considère les femmes avant-gardistes d’une société future. La guerre civile qui éclate peu à peu est le terrain sur lequel se mesure la capacité d’initiative féminine. L’organisation Mujeres libres, qui parviendra à réunir vingt mille femmes, prêtera aide aux combattants et à leurs familles, s’emploiera dans les approvisionnements et dans la distribution de nourritures, dans l’assistance à la population et à l’enfance, en organisant des cantines, des crèches, des cours d’alphabétisation et de puériculture. Et le rôle des femmes devint encore plus incisif dans la dimension internationale : Lucia Sánchez fut parmi les principales responsables du projet de soutien autour duquel naquit Solidaridad Internacional Antifascista (Sia), ce réseau a également consacré beaucoup d’attention à l’enfance, non seulement en ce qui concerne les soins, mais aussi en ce qui concerne les nouvelles méthodes d’éducation. Lucia organisa des colonies pour les filles/adolescents, destinées surtout à accueillir les fils et les filles des militants anarchistes, dans le but d’assurer à la jeunesse un milieu protégé des violences de la guerre.

En 1937, de retour à Valence, Lucia y fait la connaissance d’América Barroso dite Mery, qui depuis, sera sa compagne de vie. À la chute de la République, en 1939, elle s’enfuit en France, avec ce qui sera désormais sa famille : Mery, son père Eugène et sa sœur Concepción avec qui elle s’était réunie. Mais après l’occupation nazie du pays et la naissance du gouvernement de Vichy, Lucia et ses hommes sont à nouveau contraints de fuir et de rentrer clandestinement en Espagne, s’installant d’abord à Madrid puis, définitivement, à Valence grâce à l’aide de la famille Barroso. Lucia meurt le 2 juin 1970 d’un cancer du poumon ; Mery lui survit pendant sept ans. Dans la dernière période de son existence, Lucia recommence à écrire des poèmes, restés en grande partie inédits, très différents de ceux composés dans sa jeunesse, marqués par la passion. Après les années de militantisme, le chiffre des derniers écrits n’est plus le "nous", la dimension collective, mais l’accent intimiste, parcouru par les angoisses de la défaite, par la peur de la maladie et de la mort imminente, et aussi par un sentiment religieux incertain, mais nourri par l’espoir que la vie n’est pas finie. Sur un paquet de poèmes inédits conservés par la famille Barroso, on peut lire un titre écrit par la main de Lucia : Siempre puede volver la esperanza (Poemas).

 

Traduzione inglese
Syd Stapleton

It is impossible not to read the biographical story of Lucía Sánchez Saornil as a reflection of crucial moments and experiences of the twentieth century, and of the women who lived in that century. Her figure emerged from obscurity thanks to the anthology edited in 1975 by Mary Nash, subsequently translated into Italian (Mujeres libres - Donne libere: Spagna 1936-1939, Ragusa, La Fiaccola, 1991), dedicated to the periodical and to the anarchist women's organization of the same name, founded by Lucía during the Spanish Civil War. But it is thanks to the recent and documented research of Michela Cimbalo (Ho sempre detto noi: Lucía Sánchez Saornil, femminista e anarchica nella Spagna della Guerra Civile, Rome, Viella, 2020) that we have her biography reconstructed in all its depth and richness. Sánchez Saornil was born in Madrid on December 13, 1895 to a family of farm laborers who emigrated two years earlier from the northern plateau in search of better opportunities in the capital, at that point in full economic and urban expansion. However, precarious working conditions and the high cost of living didn’t allow the young couple - Eugenio and Gabriela - and their four children (two of whom died at an early age) to raise their fortunes and lead a less difficult existence. In 1908, when Lucía was twelve and her sister Concepción was two years younger, her mother died during an epidemic of tuberculosis. The daughter of illiterate parents in difficult economic circumstances, Lucia as a young girl was nevertheless animated by a great hunger for knowledge. She certainly received a basic education, since at eighteen she had mastered writing to the point of sending a letter to a Madrid newspaper, La Correspondencia de España, in which she said she hoped that an association similar to that of the young explorers would also be established for girls. It was actually a modest request, in favor of Spanish women, deprived of space and forced to live without oxygen in the city streets. She argued that enjoying greater freedom of movement would allow women to better fulfill their functions as wives and mothers. Lucía signed up as a student of the Centro de Hijos de Madrid, a charity institution founded by entrepreneurs and intellectuals that offered education and professional training opportunities to the poorest sections of the population with particular attention to women.

At the beginning of the following year, the weekly Avante first published poetry by Lucía Sánchez Saornil, presenting her as a young and promising writer. Her literary output developed in the following years to the point that Lucía was published in numerous other newspapers, until arriving in 1916 on the pages of Los Quijotes, a literary magazine published in Madrid. Signing with the male pseudonym of Luciano de San Saor - almost an anagram of her own name - she expressed herself in verses addressed to a woman, full of passion and desire. Participation in Los Quijotes proved to be a turning point in the young woman's development, both from an artistic and political point of view. In 1918 the editorial team of the magazine merged into the Spanish avant-garde movement known as Ultraismo and in that same environment Lucía came into contact with anarchism. Ultraism was a hybrid movement that drew on different artistic trends of the beginning of the century, from futurism to Dadaism to cubism, from which it borrowed ideas such as antipassatismo (down with the past), linguistic and aesthetic experimentalism, and the exaltation of science and of technology as hallmarks of modernity. Until the ultraist movement dissapated during the 1920s, Lucía continued to be published in newspapers close to the movement, such as Gran Guiñol, Tableros, Ultra, Vertices, Plural and in the important Argentine magazine Martin Fierro to which Jorge Luis Borges contributed.

In 1916 Lucía started working for a Madrid telephone company. The telephone companies, in Spain as elsewhere, largely employed female labor, especially at the lowest levels of the company structure. Nevertheless, it was work that didn’t have the characteristics of blue-collar work, nor was it carried out in a factory. It was therefore attractive to both middle-class women and proletarians, for whom it could represent a possibility of economic and social ascent, as in the case of Lucía. It was, however, extremely hard work, with long hours, obligations and rules that heavily affected private life, such as forbidding female workers to marry (clausola di nubilato). In 1924 the company where Lucía worked was absorbed by the Compañia Telefónica Nacional de España. The dictatorial government of Primo de Rivera, which came to power in 1923, entrusted the reorganization of the country's telephone service to this corporation. The largest shareholder of CTN was the US company IT&T (International Telephone and Telegraphic), which aimed to introduce forms of Taylorist rationalization in work in order to optimize time and achieve greater profits. The turmoil that marked this phase of modernization of the telephone service mainly concerned the male workforce - few women took part in it, including Lucía, who in 1927 was transferred to Valencia. Four years later, in 1931, she was fired. After the fall of Primo de Rivera's dictatorship in 1930 and, the following year, the monarchy, following the elections that had expressed a republican-socialist majority, the social conflict had not subsided. Workers from Telefónica organized in opposition to the private monopoly of telephone services introduced by the dictatorship. In reality, the republican government, after some initial promises, had not changed course in labor conflicts, and had continued to favor the forms of conciliation already introduced, methods that the anarchist union, the CNT, had always rejected, unlike the socialist UGT. The trade union protests therefore involved not only the direct clash between the government and the CTN, but also serious conflicts between the two main Spanish unions.

Once fired, Lucía began earning a living as a journalist and anarchist activist. She collaborated with many newspapers, including El Libertario, an irregularly published weekly linked to the Federación Anarquista Ibérica (FAI). In 1933 she was the only woman in the editorial office of the CNT newspaper, the organ of the national union. At the center of Lucía's attention and her interventions in the press was the "women's question", a theme that has always been dear to anarchist thought, which she tackled from a perspective which was, if not unorthodox, certainly independent from that assumed by the movement. From an authentically anarchic viewpoint, of contesting the parliamentary system, Lucía criticized the right to vote that the republic granted to women, in the absence of demands by women themselves. Further, she didn’t limit herself to stating that it represented an exploitation and an assimilation of women to the logic of the state, but asserted the need for specific initiatives by anarchist women, in total autonomy - political and organizational - from the movement. The assertion of these ideas foreshadowed what Lucía would achieve a few years later. In April 1936, together with Mercedes Comaposada, she founded the periodical Mujeres Libres, a place for discussion and political organization by women, close to anarchism but completely independent. By identifying in the term feminism a slogan aimed at obtaining a mere equality with men, Lucía and her editorial teammates rejected that objective in the name of a radical vision that considered women to be the vanguard of a future society. The Civil War that broke out shortly thereafter became the terrain on which women's capacity for initiative was tested. The Mujeres Libres organization, which brought together twenty thousand women, helped the fighters and their families, worked in procurement and distribution of food, in assisting the population and children, organizing canteens, kindergartens, literacy courses and childcare. And the role of women became even more incisive on the international scene. Lucía Sánchez was among the main leaders of the support project around which Solidaridad Internacional Antifascista (SIA) was born. This network also devoted a lot of attention to children, not limiting itself to assistance but advocating new educational methods. Lucía organized colonies for young children and adolescents, aimed above all at accepting the sons and daughters of anarchist militants, with the aim of ensuring the youth an environment protected from the violence of war.

In 1937, when she returned to Valencia, Lucía met América Barroso, known as Mery, who became her life-long partner. At the fall of the republic, in 1939, she fled to France, with what would henceforth be her family - her father Eugenio, her sister Concepción, with whom she was reunited, and Mery. But after the Nazi occupation of the country and the birth of the Vichy government, Lucía and her family were again forced to flee and returned illegally to Spain, settling first in Madrid and then, finally, in Valencia thanks to the help of the Barroso family. Lucía died on June 2, 1970, of lung cancer. Mery survived her for another seven years. In the last period of her existence, Lucía resumed writing poems, largely unpublished, marked by her passion, and very different from those composed in her youth. Gone were the years of militancy - the central figure of the later writings is no longer the "we", the collective dimension, but an intimate accent, marked by the anguish of defeat, by the fear of illness and impending death, and also by a generic religious sentiment, fueled by the hope that life is never over. Above a bundle of unpublished poems preserved by the Barroso family we can read a title written by the hand of Lucía: Siempre puede volver la esperanza [Hope can always return] (Poemas).

 

Traduzione spagnola
Giulia Calì

Es imposible no leer la biografía de Lucía Sánchez Saornil como el reflejo de momentos y experiencias cruciales del siglo XX y de las mujeres que vivieron durante ese siglo. Su figura emergió de la oscuridad gracias a la antología editada por Mary Nash en 1975 (Barcelona, Tusquets), luego traducida al italiano (Mujeres libres - Donne libere: Spagna 1936-1939, Ragusa, La Fiaccola, 1991), dedicada al periódico y a la homónima organización de mujeres anarquistas fundados por Lucía durante la Guerra Civil española; pero solo gracias a la reciente y documentada investigación de Michela Cimbalo se pudo reconstruir la biografía en todo su importancia y riqueza. Sánchez Saornil nació en Madrid el 13 de diciembre de 1985 en una familia de obreros agrícolas que dos años antes había emigrado de la meseta septentrional en busca de mejores oportunidades en la capital en plena expansión económica y urbanística. Sin embargo, condiciones de trabajo precarias y un alto costo de la vida no le permitieron a la joven pareja –Eugenio y Gabriela– y a sus cuatro hijos –dos de los cuales morirán a temprana edad– mejorar su propio destino y llevar una existencia menos dura. En 1908, cuando Lucía tenía doce años y su hermana Concepción dos menos, su madre murió durante una epidemia de tuberculosis. A pesar de ser hija de padres analfabetos y pobre de recursos, la chica estaba animada su por gran hambre de conocimiento: recibió sin duda una educación básica pues con dieciocho años dominaba hasta tal punto la escritura que envió una carta a un periódico madrileño, La Correspondencia de España, en la que deseaba que también se instituyera una asociación análoga a la de los jóvenes exploradores para las chicas: en realidad se trataba de una tímida reivindicación en favor de las mujeres españolas, privadas de un espacio propio y obligadas a vivir sin oxígeno en las calles de la ciudad. Por otra parte –sostenía– gozar de mayor libertad de movimiento permitiría a las mujeres cumplir mejor con sus funciones de esposas y madres. Lucía se firmaba como alumna del Centro de Hijos de Madrid, una institución benéfica fundada por emprendedores e intelectuales que ofrecía oportunidades de educación y formación profesional a las capas más necesitadas de población, con especial atención a las mujeres.

A principios del año siguiente el semanario Avante publicaba las primeras pruebas poéticas de Lucía Sánchez Saornil, presentándola como una escritora joven y prometedora. Su vena literaria se irá desarrollando en los años siguientes llevándola a publicar en muchos otros periódicos hasta llegar en 1916 a las paginas de Los Quijotes, una revista literaria editada en Madrid. Firmando con el seudónimo masculino de Luciano de San Saor –casi un anagrama de su nombre– Lucía se expresa en versos cargados de pasión y deseo hacia una mujer. La participación en Los Quijotes se revela un punto de inflexión para la maduración de la joven, tanto desde el punto de vista artístico como político: en 1918 el grupo de redacción de la revista confluirá en el movimiento de vanguardia española conocido como Ultraísmo y en ese mismo ambiente Lucía entrará en contacto con el anarquismo. El Ultraísmo fue un movimiento híbrido que recurrió a diferentes tendencias artísticas de principios de siglo, desde el futurismo hasta el dadaísmo y el cubismo, de los que tomó algunas palabras clave como el antipasatismo, el experimentalismo lingüístico y estético, la exaltación de la ciencia y de la técnica como rasgos distintivos de la modernidad. A lo largo de los años Veinte, hasta que se agotó la parábola ultraísta, Lucía siguió publicando en los periódicos cercanos al movimiento, como Gran Guiñol, Tableros, Ultra, Vertices, Plural y la importante revista argentina Martin Fierro a la que contribuía Jorge Luis Borges.

En 1916 Lucía había empezado a trabajar en una compañía telefónica de Madrid. De hecho, las empresas telefónicas en España, como en otras partes, empleaban en gran medida mano de obra femenina, sobre todo en los niveles más bajos y menos cualificados de la estructura empresarial: sin embargo, era un empleo que no tenía los rasgos del trabajo obrero, ni se llevaba a cabo en la fábrica. Por eso era atractivo tanto para las mujeres de clase media como para las proletarias, para las que podía representar una posibilidad de ascenso económico y social, como en el caso de Lucía. Aun así, era un trabajo muy duro, con horarios pesados, obligaciones y normas que influían notablemente en la vida privada, como la cláusula de soltería. En 1924 la empresa donde trabajaba Lucía fue absorbida por la Compañía Telefónica Nacional de España. El gobierno dictatorial de Primo de Rivera, que llegó al poder en 1923, confió la reorganización del servicio telefónico del país en régimen de monopolio a esta empresa anónima. La mayor accionista de la CTN era la empresa estadounidense ITT (International Telephone and Telegraphic), que aspiraba a introducir formas de racionalización taylorista en el trabajo con el objetivo de optimizar tiempos y obtener un mayor rendimiento. Las fuertes protestas que marcaron esta etapa de modernización del servicio telefónico afectaron sobre todo a la mano de obra masculina: pocas mujeres tomaron parte en ellas, entre ellas a Lucía, que en 1927 fue trasladada a Valencia. Cuatro años después, en 1931, la despidieron. Cuando cayeron la dictadura de Primo de Rivera, en 1930, y la monarquía el año siguiente, tras las elecciones que habían expresado una mayoría republicano-socialista, no se había atenuado la conflictividad social: la clase trabajadora de la Telefónica se levantó contra el monopolio privado de los servicios telefónicos introducido por la dictadura. En realidad, los gobiernos republicanos, tras algunos compromisos iniciales, no habían cambiado de rumbo en los conflictos laborales y seguían favoreciendo formas de conciliación ya antes introducidas, métodos que el sindicato anarquista, la CNT, al contrario que el socialista, la UGT, siempre había rechazado: así que las protestas sindicales vieron no solo el enfrentamiento directo entre gobierno y CNT, sino también graves contrastes entre los dos principales sindicatos españoles.

Tras su despido, Lucía empezó a ganarse la vida como periodista y activista anarquista. Colaboró en muchos periódicos, entre los cuales El Libertario, semanario con publicación discontinua asociado a la Federación Anarquista Ibérica (Fai); desde 1933 entró en la redacción del periódico CNT, órgano del sindicato nacional donde era la única mujer. El foco de atención de Lucía y de sus intervenciones en la prensa fue la “cuestión de la mujer”, un tema importante para el pensamiento anarquista, que lo abordó desde una perspectiva si no heterodoxa, sin duda independiente de la adoptada por el movimiento. En una óptica auténticamente anarquista de refutación del sistema representativo, Lucía critica el derecho de voto que la República concedió a las mujeres, sin que lo hubieran reivindicado ellas mismas: sin embargo, no se limita a afirmar que eso representa una instrumentalización y una asimilación de las mujeres a las lógicas del Estado, sino que afirma la necesidad de una iniciativa específica de las anarquistas, en total autonomía –política y organizativa– del movimiento. De hecho, es el anuncio de lo que Lucía realizará pocos años después, fundando en abril de 1936, junto con Mercedes Comaposada, el periódico Mujeres libres, lugar de debate y de agregación política de las mujeres, cercano al anarquismo pero totalmente independiente. Identificando en el término feminismo una palabra clave dirigida a obtener una mera equiparación con los hombres, Lucía y sus compañeras de la redacción rechazan sus objetivos en nombre de una visión radical que considera a las mujeres como vanguardia de una sociedad futura. La Guerra Civil que estalla poco después es el terreno en el que se mide la capacidad de iniciativa de las mujeres. La organización Mujeres libres, que llegará a reunir a veinte mil mujeres, prestará ayuda a los combatientes y a sus familias, trabajará en el abastecimiento y en la distribución de víveres, en la asistencia a la población y a la infancia, organizando comedores, guarderías, cursos de alfabetización y de puericultura. Y el rol de las mujeres se hizo aún más decisivo en la dimensión internacional: Lucía Sánchez fue una de las principales responsables del proyecto de apoyo alrededor del cual nació Solidaridad Internacional Antifascista (SIA); también esta red dedicó mucha atención a la infancia, sin limitarse a la asistencia sino propugnando nuevos métodos educativos. Lucía organizó colonias para infantes y adolescentes, dirigidas sobre todo a acoger a los hijos e hijas de los militantes anarquistas, con el fin de asegurar a la juventud un ambiente protegido de las violencias de la guerra.

En 1937 Lucía volvió nuevamente a Valencia, donde conoció a América Barroso, llamada Mery, quien desde ese entonces será su compañera de vida. A la caída de la república en 1939 huyó a Francia, con la que de ahí en adelante sería su familia: Mery, su padre Eugenio y su hermana Concepción, con los que se había reunido. Pero después de la ocupación nazi del país y del nacimiento del gobierno de Vichy, Lucía y los suyos se vieron obligados a huir nuevamente y a volver clandestinamente a España, estableciéndose primero en Madrid y después definitivamente en Valencia gracias a la ayuda de la familia Barroso. Lucía murió el 2 de junio de 1970 por un cáncer de pecho.

 

Carolina Beatriz Ângelo
Gemma Mastrocicco



Giulia Tassi

 

Molto si conosce dei movimenti femministi anglosassoni e dell’importanza che hanno avuto per la lotta a favore dei diritti delle donne, ma poco invece di altri Paesi dove il fenomeno non è stato meno attivo. Tra questi vi è il Portogallo, dove spicca ancora oggi il nome di Carolina Beatriz Ângelo, a cui addirittura sono state dedicate in parte le celebrazioni dell’anniversario della Repubblica portoghese, nata con la pacifica "rivoluzione dei garofani" del 1974.

Nacque a Guarda, São Vicente, il 16 aprile 1878, dove visse l’infanzia in un ambiente familiare liberale: suo padre e suo nonno materno sostennero il Partito progressista e furono legati all’attività giornalistica, ciò le permise di entrare al Liceu da Guarda nel 1891, dove terminò gli studi primari e secondari. Si trasferì poi a Lisbona per studiare medicina, specializzandosi in ginecologia presso la facoltà medico-chirurgica, iniziando la sua carriera professionale nel 1902: è stata la prima donna portoghese ad operare nell’Hospital de São José. Il 3 dicembre 1902, all’età di 24 anni, sposò suo cugino Januário Gonçalves Barreto Duarte, nella chiesa parrocchiale di Santa Justa e Santa Rufina, a Lisbona. Dal matrimonio nacque una sola figlia: Maria Emília. La brillante posizione lavorativa di Ângelo si concilia con una intensa partecipazione politica e sociale: è stata infatti una delle principali attiviste del suo tempo nel difendere i diritti delle donne e nel combattere per cause come l’emancipazione e il suffragio femminile. Il suo attivismo iniziò nel 1906 nel Comitato portoghese dell'associazione francese La Paix et le Désarmement par les Femmes che mirava a risolvere i conflitti attraverso la pacificazione, il disarmo e il dialogo. Nel 1907 entrò nel Gruppo portoghese di studi femministi fondato da Ana de Castro Osório, sua cara amica e nota femminista repubblicana, e nello stesso anno si unì alla Massoneria, una mossa comune all'inizio del XX secolo per le donne ben istruite che desideravano avere un ruolo attivo nella società, poiché l'organizzazione era aperta a loro e ne sosteneva le idee. Aveva lo status di "venerabile" presso la Loggia dell'Umanità, riservata alle sole donne.

Nel 1909 fece parte del gruppo che fondò la Lega delle donne repubblicane portoghesi (Lrmp) allo scopo di difendere e propugnare gli ideali repubblicani, il suffragio femminile, il diritto al divorzio, l'educazione di bambini e bambine, nonché la parità di diritti e doveri per uomini e donne. Nel 1910 rimase precocemente vedova perché il marito morì di tubercolosi. Nel 1911 fondò, insieme ad Ana de Castro Osório, l'Associazione portoghese di propaganda femminista allo scopo di promuovere il suffragio femminile. In questo ambito fu pianificata la creazione di una scuola infermieristica, ulteriore indice del suo coinvolgimento nell'emancipazione delle donne attraverso l'istruzione e l'attività lavorativa. Beatriz ngelo è stata la prima donna a votare in Portogallo. In un momento in cui il diritto di voto era concesso ai cittadini portoghesi di età superiore ai 21 anni, che sapessero leggere e scrivere e capifamiglia, approfittò dell'ambiguità della legge per utilizzare il suo diritto al voto: per il fatto di lavorare, di essere vedova e di avere una figlia, doveva essere considerata una “capofamiglia”anche lei; scrisse quindi alla commissione elettorale chiedendo che il suo nome fosse aggiunto al registro elettorale, richiesta che però venne respinta. Fece allora appello in tribunale. Nel 1911 un giudice, il padre dell'amica Ana de Castro Osório, si pronunciò a suo favore: «Escludere le donne... solo perché sono donne... è semplicemente assurdo e ingiusto e in opposizione alle idee stesse di democrazia e giustizia proclamate dal Partito Repubblicano». Aggiunse poi che la legge non distingueva tra uomini e donne e quindi nemmeno lui poteva. Ordinò che fosse aggiunta immediatamente nelle liste elettorali e ciò le permise di votare il 28 maggio 1911 per eleggere i deputati dell’Assemblea costituente. Questo suo atto fu ampiamente reso noto in Portogallo e apprezzato in diversi Paesi del mondo dalle associazioni femministe, ma causò anche una reazione tale da portare all’aggiunta di una nota specifica alla legge: solamente i “capifamiglia maschi” potevano esercitare il loro diritto di voto. Le donne portoghesi avrebbero dovuto aspettare fino al 1931 per ottenere questo diritto e ancora con restrizioni: solo coloro che avevano un'istruzione secondaria o superiore potevano votare, mentre per gli uomini era sufficiente saper leggere e scrivere.

Questa grande figura di suffragista, medica, ginecologa, fervente repubblicana morì giovanissima a Lisbona di sincope cardiovascolare: era il 3 ottobre 1911 e aveva solo 33 anni. Dicono i rapporti sanitari che si sentì male durante il percorso in tram, mentre tornava alla sua residenza in Rua António Pedro, nella parrocchia di São Jorge de Arroios, dopo essere stata presente a un incontro politico con altre attiviste dell'Associazione di propaganda femminista. Fu sepolta in una tomba privata nel Cemiteiro dos Prazeres. Pur non avendo assistito all'attuazione del suffragio universale nel suo Paese, per aver sfidato le norme conservatrici della società portoghese e compiuto l’impresa di diventare la prima donna a votare in Portogallo, Carolina Beatriz Ângelo è una delle suffragette più amate e riconosciute del XX secolo, ancora oggi onorata dai movimenti femministi sia portoghesi che internazionali. Molte vie la ricordano, a Almada, Barreiro, Guarda, Moita, Oeiras, Odivelas, Sesimbra, Setúbal, Sintra, Tavira. Con l'atto firmato il 20 aprile 1988, le è stata intitolata anche una strada del quartiere di Caselas, 77 anni dopo la sua morte, su richiesta del Consiglio parrocchiale di São Francisco Xavier. Il suo nome è stato attribuito ad un ospedale a Loures e nel 2019 una mostra è stata organizzata dall'Università di Porto per celebrarla, insieme all'altra medica ginecologa Adelaide Cabete e alla prima laureata in quella sede, Leopoldina Ferreira Paulo. Il 5 ottobre 2009 i Servizi postali del Portogallo (Ctt) hanno emesso una serie di francobolli destinati a rendere omaggio a un gruppo di «donne le cui azioni e testimonianze le hanno trasformate in figure indelebilmente associate alla storia della Repubblica». Tale collezione, giustamente intitolata Donne della Repubblica, evoca una bella serie di attiviste per i diritti femminili, e in essa si trova fra le altre Carolina Beatriz Ângelo, insieme a Maria Veleda, Ana de Castro Osório, Carolina Michaëlis de Vasconcelos, Angelina Vidal, Adelaide Cabete, Virgínia Quaresma ed Emília de Sousa Costa, altrettante figure esemplari. Ben quattro spettacoli teatrali la hanno vista protagonista fra 2012 e 2020, persino Google le ha dedicato un doodle il 28 maggio 2021. La sua fama sembra essere davvero destinata a durare nel tempo perché Carolina Beatriz Ângelo rimanga un modello per le nuove generazioni.

 

Traduzione francese
Guenoah Mroue

On connaît beaucoup de choses sur les mouvements féministes anglo-saxons et l’importance qu’ils ont eu pour la lutte en faveur des droits des femmes, mais peu de choses par rapport à d’autres pays où le phénomène n’a pas été moins actif. Parmi ceux-ci se trouve le Portugal, où se détache encore aujourd’hui le nom de Carolina Beatriz ngelo, à laquelle ont même été consacrées en partie les célébrations de l’anniversaire de la République portugaise, née avec la pacifique "révolution des œillets" de 1974.

Née à Guarda, São Vicente, le 16 avril 1878, où elle a vécu son enfance dans un milieu familial libéral : son père et son grand-père maternel ont soutenu le Parti progressiste et ont été liés à l’activité journalistique, ce qui lui a permis d’entrer au Liceu da Guarda en 1891, où elle a terminé ses études primaires et secondaires. Elle déménage ensuite à Lisbonne pour étudier la médecine, en se spécialisant en gynécologie à la faculté médico-chirurgicale, et en commençant sa carrière professionnelle en 1902 : elle est la première femme portugaise à opérer à l’hôpital de São José. Le 3 décembre 1902, à l’âge de 24 ans, elle épouse son cousin Januário Gonçalves Barreto Duarte, dans l’église paroissiale de Santa Justa et Santa Rufina, à Lisbonne. De ce mariage naît une seule fille : Maria Emília. La brillante position de travail d’ Ângelo se concilie avec une intense participation politique et sociale: elle a en effet été l’une des principales activistes de son temps pour défendre les droits des femmes et lutter pour des causes telles que l’émancipation et le suffrage féminin. Son activisme commence en 1906 au Comité portugais de l’association française La Paix et le Désarmement par les Femmes qui vise à résoudre les conflits par la pacification, le désarmement et le dialogue. En 1907, elle rejoint le Groupe portugais d’études féministes fondé par Ana de Castro Osório, sa chère amie et célèbre féministe républicaine, et la même année, elle rejoint la franc-maçonnerie, une démarche commune au début du XXe siècle pour les femmes bien éduquées qui souhaitaient avoir un rôle actif dans la société, car l’organisation leur était ouverte et en soutenait les idées. Elle avait le statut de "vénérable" à la Loge de l’Humanité, réservée aux femmes. En 1909, elle fait partie du groupe qui fonde la Ligue des femmes républicaines portugaises (LRMP) afin de défendre et de plaider en faveur des idéaux républicains, du suffrage féminin, du droit au divorce, de l’éducation des enfants, ainsi que l’égalité des droits et des devoirs des hommes et des femmes.

En 1910, elle est veuve prématurément parce que son mari est mort de la tuberculose. En 1911, elle fonde, avec Ana de Castro Osório, l’Association portugaise de propagande féministe dans le but de promouvoir le suffrage féminin. Dans ce cadre, il a été prévu de créer une école de soins infirmiers, signe supplémentaire de son implication dans l’émancipation des femmes à travers l’éducation et l’activité professionnelle. Beatriz Ângelo a été la première femme à voter au Portugal. À une époque où le droit de vote était accordé aux citoyens portugais de plus de 21 ans, qui savaient lire et écrire et chefs de famille, elle profita de l’ambiguïté de la loi pour utiliser son droit de vote : pour le fait de travailler, d’être veuve et d’avoir une fille, elle devait être considérée comme une "chef de famille"; elle écrivit donc à la commission électorale demandant que son nom soit ajouté au registre électoral, demande qui cependant fut rejetée. Elle fit alors appel au tribunal. En 1911, un juge, le père de son amie Ana de Castro Osório, se prononce en sa faveur : « Exclure les femmes... simplement parce qu’elles sont des femmes... est tout simplement absurde et injuste et en opposition aux idées mêmes de démocratie et de justice proclamées par le Parti républicain ». Il a ajouté que la loi ne faisait pas la différence entre les hommes et les femmes et qu’il ne pouvait donc pas le faire non plus. Il ordonna qu’elle soit immédiatement ajoutée sur les listes électorales, ce qui lui permit de voter le 28 mai 1911 pour élire les députés de l’Assemblée constituante. Son acte fut largement rendu connu au Portugal et apprécié dans différents pays du monde par les associations féministes, mais provoqua aussi une réaction telle qu’il conduisit à l’ajout d’une note spécifique à la loi : seulement les "chefs de famille masculins" pouvaient exercer leur droit de vote. Les femmes portugaises auraient dû attendre jusqu’en 1931 pour obtenir ce droit et encore avec des restrictions : seules celles qui avaient suivi un enseignement secondaire ou supérieur pouvaient voter, alors que pour les hommes, il suffisait de savoir lire et écrire.

Cette grande figure de suffragiste, médecin, gynécologue, fervent républicain mourut très jeune à Lisbonne de syncope cardiovasculaire: c’était le 3 octobre 1911 et elle n’avait que 33 ans. Les rapports médicaux disent qu’elle se sentait mal pendant le trajet en tram, alors qu’elle retournait à sa résidence dans la Rua António Pedro, dans la paroisse de São Jorge de Arroios, après avoir été présente à une rencontre politique avec d’autres activistes de l’Association de propagande féministe. Elle fut enterrée dans une tombe privée dans le Cemiteiro dos Prazeres. Même si elle n’avait pas assisté à la mise en place du suffrage universel dans son pays, pour avoir défié les normes conservatrices de la société portugaise et accompli l’exploit de devenir la première femme à voter au Portugal, Carolina Beatriz Ângelo est l’une des suffragettes les plus aimées et reconnues du XXe siècle, toujours honorée par les mouvements féministes portugais et internationaux. De nombreuses rues la rappellent, à Almada, Barreiro, Guarda, Moita, Oeiras, Odivelas, Sesimbra, Setúbal, Sintra, Tavira. Avec l’acte signé le 20 avril 1988, une rue du quartier de Caselas, 77 ans après sa mort, lui a également été dédiée à la demande du Conseil paroissial de São Francisco Xavier. Son nom a été attribué à un hôpital à Loures et en 2019, une exposition a été organisée par l’Université de Porto pour la célébrer, avec le médecin gynécologue Adelaide Cabete et la première diplômée de cette université, Leopoldina Ferreira Paulo. Le 5 octobre 2009, les services postaux du Portugal (CTT) ont émis une série de timbres destinés à rendre hommage à un groupe de «femmes dont les actions et les témoignages les ont transformées en figures indélébiles associées à l’histoire de la République». Cette collection, à juste titre intitulée Femmes de la République, évoque une belle série de militantes pour les droits féminins, et on y trouve entre autres Carolina Beatriz Ângelo, avec Maria Veleda, Ana de Castro Osório, Carolina Michaëlis de Vasconcelos, Angelina Vidal, Adelaide Cabete, Virgínia Quaresma et Emília de Sousa Costa, et tant d’autre personnalités exemplaires. Elle a été représente durant quatre représentations théâtrales entre 2012 et 2020, même Google lui a dédié un doodle le 28 mai 2021. Sa renommée semble vraiment destinée à durer dans le temps parce que Carolina Beatriz Ângelo reste un modèle pour les nouvelles générations.

 

Traduzione inglese
Syd Stapleton

Much is known about Anglo-Saxon feminist movements and the importance they have had in the fight for women's rights, but little is known about other countries where the phenomenon has been no less active. Among these is Portugal, where the name of Carolina Beatriz Ângelo still stands out today, to whom were even dedicated, in part, the celebrations of the anniversary of the Portuguese Republic, born from the peaceful "Carnation Revolution" of 1974.

She was born in Guarda, São Vicente, on April 16, 1878, where she lived her childhood in a liberal family environment. Her father and maternal grandfather supported the Progressive Party and were linked to journalistic activity, which allowed her to enter the Liceu da Guarda in 1891, where she finished her primary and secondary studies. She then moved to Lisbon to study medicine, specializing in gynecology at the medical-surgical faculty, starting her professional career in 1902. She was the first Portuguese woman to operate in the Hospital de São José. On 3 December 1902, at the age of 24, she married her cousin Januário Gonçalves Barreto Duarte, in the parish church of Santa Justa and Santa Rufina, in Lisbon. From the marriage only one daughter was born: Maria Emília. Ângelo's brilliant professional history was combined with intense political and social participation. She was one of the main activists of her time in defending women's rights and fighting for causes such as emancipation and women's suffrage. Her activism began in 1906 with the Portuguese committee of the French association La Paix et le Désarmement par les Femmes, which aimed to resolve conflicts through pacification, disarmament and dialogue. In 1907 she joined the Portuguese Group for Feminist Studies founded by Ana de Castro Osório, her close friend and a well-known republican feminist, and in the same year she joined the Freemasonry, a common move in the early 20th century for well-educated women who wished to play an active role in society, as the organization was open to them and supported their ideas. She had "venerable" status at the Lodge of Humanity, which was reserved for women only.

In 1909 she was part of the group that founded the League of Portuguese Republican Women (LRMP) with the aim of defending and advocating republican ideals, women's suffrage, the right to divorce, the education of boys and girls, as well as equal rights and duties for women and men. In 1910 she was widowed early when her husband died of tuberculosis. In 1911 she founded, together with Ana de Castro Osório, the Portuguese Association of Feminist Propaganda in order to promote women's suffrage. The creation of a nursing school was planned in this context, a further indication of her involvement in the emancipation of women through education and professional development. Beatriz Ângelo was the first woman to ever vote in Portugal. At a time, the right to vote was granted to Portuguese citizens over the age of 21, who could read and write and who were heads of a household. She took advantage of the ambiguity of the law to pursue her right to vote. Because she worked, was a widow and had a daughter, she asserted that she should also be considered a "head of a household". She therefore wrote to the electoral commission asking that her name be added to the electoral register, but her request was rejected. She then appealed in court. In 1911, a judge, the father of her friend Ana de Castro Osório, ruled in her favor, saying, "To exclude women...just because they are women.... is simply absurd and unjust and in opposition to the very ideas of democracy and justice proclaimed by the Republican Party." He then added that the law did not distinguish between men and women and therefore neither could he. He ordered that she be added immediately to the electoral roll, which allowed her to vote on May 28, 1911 to elect deputies to the Constituent Assembly. This act of hers was widely publicized in Portugal and appreciated in several countries around the world by feminist associations, but it also caused such a reaction that it led to the addition of a specific note to the law, that only "male heads of households" could exercise their right to vote. Portuguese women would have to wait until 1931 to obtain this right, even then with restrictions - only those with secondary education or higher could vote, while for men it was sufficient to be able to read and write.

This great figure, suffragist, doctor, gynecologist, and fervent Republican, died very young of a heart attack in Lisbon on October 3, 1911. She was only 33 years of age. Health reports say that she fell ill during a streetcar ride, while returning to her residence in Rua António Pedro, in the parish of São Jorge de Arroios, after attending a political meeting with other activists of the Association of Feminist Propaganda. She was buried in a private vault in the Cemiteiro dos Prazeres. Although she didn’t witness the implementation of universal suffrage in her country, for defying the conservative norms of Portuguese society and accomplishing the feat of becoming the first woman to vote in Portugal, Carolina Beatriz Ângelo is one of the most beloved and recognized suffragists of the 20th century, still honored by both Portuguese and international feminist movements. Many streets are named after her, in Almada, Barreiro, Guarda, Moita, Oeiras, Odivelas, Sesimbra, Setúbal, Sintra, Tavira. Through an act signed on April 20, 1988, a street in the Caselas neighborhood was also named after her, 77 years after her death, at the request of the São Francisco Xavier Parish Council. A hospital in Loures was named after her, and in 2019 an exhibition was organized by the University of Porto to honor her, along with another gynecologist doctor Adelaide Cabete, and also the first graduate from that institution, Leopoldina Ferreira Paulo. On October 5, 2009, the Postal Service of Portugal (CTT) issued a set of stamps intended to pay tribute to a group of "women whose actions and testimonies have transformed them into figures indelibly associated with the history of the Republic." That collection, aptly titled Women of the Republic, celebrates a wide array of women's rights activists, including Carolina Beatriz Ângelo, along with Maria Veleda, Ana de Castro Osório, Carolina Michaëlis de Vasconcelos, Angelina Vidal, Adelaide Cabete, Virgínia Quaresma and Emília de Sousa Costa, as well as other exemplary figures. Between 2012 and 2020, as many as four theatrical productions included her as a protagonist, and even Google dedicated a doodle to her on May 28, 2021. Her fame seems to be truly destined to last, because Carolina Beatriz Ângelo will remain as a role model for coming generations.

 

Traduzione spagnola
Lizet Angulo

Se sabe mucho de los movimientos feministas anglosajones y de la importancia que han tenido para la lucha por los derechos de las mujeres, mientras poco se sabe de otros países donde el fenómeno no ha sido menos activo. Entre ellos se encuentra Portugal, donde aún hoy sobresale el nombre de Carolina Beatriz Ângelo, a quien incluso le han dedicado una parte de las celebraciones del aniversario de la República Portuguesa, nacida con la pacífica "Revolución de los Claveles" de 1974.

Carolina nació en Guarda, São Vicente, el 16 de abril de 1878. Vivió su infancia en un ambiente familiar liberal: su padre y su abuelo materno apoyaron al Partido Progresista y estuvieron vinculados a la actividad periodística, lo que le permitió entrar en el Liceu de Guarda en 1891, donde terminó sus estudios primarios y secundarios. Luego se trasladó a Lisboa para estudiar medicina, especializándose en ginecología en la facultad de medicina y cirugía, iniciando su carrera profesional en 1902: fue la primera mujer portuguesa que operó en el Hospital de São José. El 3 de Diciembre de 1902, a la edad de 24 años, se casó con su primo Januário Gonçalves Barreto Duarte, en la Iglesia Parroquial de Santa Justa y Santa Rufina, en Lisboa. Del matrimonio nació una sola hija: María Emília. El excelente puesto de trabajo de Ângelo se concilia con una intensa participación política y social: en efecto, fue una de las principales activistas de su tiempo en la defensa de los derechos de las mujeres y en la lucha por causas como la emancipación y el sufragio femenino. Su activismo inició en 1906 en el Comité portugués de la asociación francesa La Paix et le Désarmement par les Femmes, que trataba de resolver los conflictos a través de la pacificación, el desarme y el diálogo. En 1907 entró en el Grupo Portugués de Estudios Feministas fundado por Ana de Castro Osório, su querida amiga y conocida feminista republicana, y en el mismo año se unió a la Masonería, un movimiento común a principios del siglo XX para las mujeres cultas que deseaban tener un papel activo en la sociedad, ya que la organización las aceptaba y sostenía sus ideas. Tenía el estatus de "venerable" en la Logia de la Humanidad, reservada solo a mujeres.

En 1909 formó parte del grupo que fundó la Liga de las Mujeres Republicanas Portuguesas (LRMP) con la finalidad de defender y propugnar los ideales republicanos, el sufragio femenino, el derecho al divorcio, la educación de niños y niñas, así como la igualdad de derechos y obligaciones para hombres y mujeres. En 1910 quedó tempranamente viuda porque su esposo murió de tuberculosis. En 1911 fundó, junto con Ana de Castro Osório, la Asociación Portuguesa de Propaganda Feminista con el fin de promover el sufragio femenino. En este contexto, se planificó la creación de una escuela de enfermería, ulterior indicador de su participación en la emancipación de las mujeres a través de la educación y el trabajo. Beatriz Ângelo fue la primera mujer en votar en Portugal. En un momento en que el derecho de voto se concedía a los ciudadanos portugueses mayores de 21 años, que supieran leer y escribir y a los cabezas de familia, aprovechó la ambigüedad de la ley para utilizar su derecho de voto: por el hecho de trabajar, ser viuda y tener una hija, ella también debía ser considerada una "cabeza de familia"; escribió entonces a la comisión electoral pidiendo que su nombre fuera añadido al registro electoral, sin embargo, la petición fue rechazada. Entonces ngelo apeló ante el tribunal. En 1911 un juez, el padre de su amiga Ana de Castro Osório, se pronunció a su favor: «Excluir a las mujeres... solo porque son mujeres... es simplemente absurdo e injusto y en oposición a las ideas mismas de democracia y justicia proclamadas por el Partido Republicano». También agregó que la ley no distinguía hombres y mujeres y que, por lo tanto, él tampoco podía. Ordenó que se añadiera su nombre inmediatamente en las listas electorales, lo que le permitió votar el 28 de Mayo de 1911 para elegir a los diputados de la Asamblea Constituyente. Este acto fue ampliamente conocido en Portugal y apreciado en varios países del mundo por las asociaciones feministas, pero también causó una reacción que llevó a la adición de una nota específica a la ley: solo los "cabezas de familia varones" podían ejercer el derecho de voto. Las mujeres portuguesas tendrían que esperar hasta 1931 para obtener este derecho y aún con restricciones: solo aquellas con educación secundaria o superior podían votar, mientras que para los hombres era suficiente saber leer y escribir.

Esta gran figura, Carolina Beatriz Ângelo, sufragista, médica, ginecóloga y ferviente republicana, murió en Lisboa, el 3 de Octubre de 1911 con solo 33 años de síncope cardiovascular. Los informes médicos dicen que se sintió mal durante el recorrido en tranvía, mientras regresaba a su residencia en la Rua António Pedro, en la parroquia de San Jorge de Arroios, después de haberse presentado en un encuentro político con otras activistas de la Asociación de propaganda feminista. Fue enterrada en una tumba privada en el Cemiteiro dos Prazeres. A pesar no haber asistido a la instauración del sufragio universal en su país, por haber desafiado las normas conservadoras de la sociedad portuguesa y haber logrado convertirse en la primera mujer en votar en Portugal, Carolina Beatriz Ângelo es una de las sufragistas más queridas y reconocidas del siglo XX, aún hoy honrada por los movimientos feministas tanto portugueses como internacionales. Muchas calles la recuerdan, en Almada, Barreiro, Guarda, Moita, Oeiras, Odivelas, Sesimbra, Setúbal, Sintra, Tavira. Con el acta firmada el 20 de abril de 1988, fue también nombrada una calle del barrio de Caselas, 77 años después de su muerte, a petición del Consejo parroquial de San Francisco Xavier. Su nombre también fue atribuido a un hospital en Loures, y en 2019 se organizó una exposición por la Universidad de Oporto para celebrarla, junto con la otra médica ginecóloga Adelaide Cabete y a la primera graduada de esa sede, Leopoldina Ferreira Paulo. El 5 de octubre del 2009, los Servicios Postales de Portugal (CTT) emitieron una serie de sellos destinados a rendir homenaje a un grupo de «mujeres cuyas acciones y testimonios las transformaron en figuras indeleblemente asociadas a la historia de la República». Dicha colección, justamente titulada Mujeres de la República, evoca una hermosa serie de activistas por los derechos de las mujeres, y en ella se encuentra, entre otras, Carolina Beatriz Ângelo, junto con Maria Veleda, Ana de Castro Osório, Carolina Michaëlis de Vasconcelos, Angelina Vidal, Adelaide Cabete, Virgínia Quaresma y Emília de Sousa Costa, entre otras tantas figuras ejemplares. Cuatro espectáculos teatrales la vieron protagonista entre 2012 y 2020, incluso Google le dedicó un doodle el 28 de Mayo de 2021. Su fama parece estar destinada a durar en el tiempo para que Carolina Beatriz ngelo siga siendo un modelo para las nuevas generaciones.

Františka Plamínková
Fabiola Frroku



Giulia Tassi

 

Dimenticate, oscurate, destinate a non superare il vaglio impetuoso del tempo degli uomini, questo è il destino di molte donne artefici di grandi lotte e rivoluzioni, ma, nonostante ciò, estromesse dalla storia raccontata nei libri. Františka Plamínková è stata un’attivista per il suffragio, senatrice per più di dieci anni, fondatrice del Women's National Council (Žnr), vicepresidente dell' International Woman Suffrage Alliance (Iwsa) e dell' International Council of Women (Icw), eppure di lei non si ha una biografia chiara ed esaustiva, solamente alcuni documenti desecretati dopo il 1990, a più di cinquanta anni dalla sua morte. La grande repressione staliniana, avvenuta dopo gli eventi successivi alla Seconda guerra mondiale, aveva fatto sì che molti personaggi della Prima Repubblica cecoslovacca venissero ostracizzati perché considerati troppo sovversivi e lei fu una di questi. Tuttavia, dal 1993, anno di apertura del Gender Institute di Praga, il femminismo ceco riparte da colei che è stata una delle protagoniste più attive della vita politica ceca tra Ottocento e Novecento: Madame Plam. Nata il 5 febbraio 1875 a Praga, in un contesto familiare sempre attento alle questioni politiche e sociali, studia pianoforte, canto, pittura e affianca queste sue passioni alla sua prima vocazione: l’insegnamento. Entra a far parte dell’Associazione degli insegnanti cechi e si esprime con forza contro la legge austro-ungarica che vietava il matrimonio delle docenti e richiedeva che rimanessero nubili.

Porre al centro del discorso pubblico la donna era la base del suo lavoro, che aveva, inoltre, la particolarità di voler far capire agli uomini che le donne con una educazione migliore e più libera erano delle colleghe più efficienti a livello lavorativo. L’ambito in cui ci si muove, in questa prima fase del suo pensiero, è quello universitario il quale rimaneva ancora fossilizzato su posizioni di forte misoginia e ghettizzazione delle figure femminili. Non abbandona mai il mondo della politica e s’interessa soprattutto delle ingiustizie che colpivano le donne, ancora schiave di un’egemonia culturale maschile che le relegava ai margini di una società cieca di fronte alle loro esigenze. L’esclusione delle donne dal potere e, di conseguenza, dalla partecipazione attiva era il punto su cui Madame Plam sentiva la necessità di dover intervenire; da questa intuizione, l’idea di fondare, nel 1903, il Czech Women’s Club, organizzazione che, attraverso comizi e incontri, problematizzava argomenti focali come la questione legale, quella sanitaria e quella culturale con un taglio progressista e con lo scopo di aprire uno spazio di discussione per e con le donne, presentando l’immagine della Donna moderna, come chiamerà una delle sue lectures, ossia una donna dalle esigenze del tutto nuove.

Altro punto cruciale del suo intervento era il sostegno al diritto al suffragio universale. Nel 1905 dà vita al Committee for Women’s Suffrage che combatteva per l’elezione di una donna all’Assemblea nazionale; dal 1907, agli uomini fu concesso il diritto al voto per le elezioni imperiali, le donne, invece, ne rimanevano escluse. Františka, però, ebbe un’illuminazione: inviare alcune candidate per le elezioni provinciali, con dei partiti minori. La legge locale boema non impediva, infatti, la presentazione delle donne nelle liste elettorali e quindi questo tentativo assumeva un forte messaggio di contrasto alle politiche di limitazione delle libertà e di repressione dell’Austro-Ungheria nei confronti di un nazionalismo ceco sempre più acceso e pronto allo scontro. Il lavoro di Františka servì ad aprire il discorso, del tutto nuovo in quel contesto, sull’empowerment femminile, ed ebbe successo: Bozena Vikova-Kuneticka viene eletta nel 1912 all’Assemblea nazionale. Sebbene il governatore decidesse di annullare il risultato, il processo di rinnovamento e di presa di coscienza era ormai avviato e, parallelamente a questo, anche il declino dell’Impero. La lotta trasversale, da una parte per i diritti delle donne ma in realtà per un obiettivo più grande, ossia la libertà da schemi politici e culturali imposti dall’alto, ebbe i primi risultati dopo la fine della Grande Guerra. Con la costituzione della Prima Repubblica cecoslovacca, nel 1918, le donne ottengono il diritto al voto. Plamínková continua le sue battaglie in prima linea, come giornalista: prestò, infatti, servizio come corrispondente nella Prima guerra balcanica, e poi direttamente in Senato. Eletta e poi riconfermata dopo 5 anni, aveva come obiettivo quello di una riforma della legge in tema di famiglia, al fine di rivoluzionare il ruolo della donna, ancora considerata come un minore.

Intanto il mondo cadeva nella confusione che precedette la Seconda guerra mondiale. L’aggressività della Germania nazista preoccupava la senatrice che scrisse direttamente una lettera aperta a Hitler per protestare contro l’attacco alla Cecoslovacchia. Ciò la fece diventare bersaglio di rappresaglie e, allo scoppio della guerra, divenne ufficialmente un personaggio pericoloso e perseguibile. Nel 1942 viene incarcerata a Terezin e dopo pochi giorni fucilata dalla Gestapo. Represse da tradizioni, da pratiche e da costrutti mentali che le vogliono imbrigliate e silenziose, donne come Františka Plamínková hanno sentito la vocazione di squarciare il velo che le divideva dall’autodeterminazione e sono diventate protagoniste. È questo il motivo per il quale ricordare le loro gesta e riportare alla luce i loro risultati diventa per noi un dovere: imparare da queste grandi figure e farci ispirare per iniziare così il nostro percorso di cambiamento della società.

 

Traduzione francese
Guenoah Mroue

Oubliées, obscurcies, destinées à ne pas dépasser le criblage impétueux du temps des hommes, telle est la destinée de nombreuses femmes artisans de grandes luttes et révolutions, mais, malgré cela, exclues de l’histoire racontée dans les livres. Františka Plamínková a été une militante du suffrage, sénatrice pendant plus de dix ans, fondatrice du Women’s National Council (Žnr), vice-présidente de l’International Woman Suffrage Alliance (Iwsa) et de l’International Council of Women (Icw) pourtant, on n’a pas de biographie claire et exhaustive d’elle, seulement quelques documents désagrégés après 1990, plus de cinquante ans après sa mort. Après les événements de la Seconde Guerre mondiale, la grande répression stalinienne, avait entraîné l’ostracisation de nombreux personnages de la Première République tchécoslovaque parce qu’ils étaient considérés comme trop subversifs et elle en faisait partie. Cependant, depuis 1993, l’année d’ouverture du Gender Institute de Prague, le féminisme tchèque repart de celle qui a été l’une des protagonistes les plus actives de la vie politique tchèque entre les XIXe et XXe siècles : Madame Plam. Née le 5 février 1875 à Prague, dans un contexte familial toujours attentif aux questions politiques et sociales, elle étudie le piano, le chant, la peinture et partage ses passions avec sa première vocation : l’enseignement. Elle rejoint l’Association des enseignants tchèques et s’exprime avec force contre la loi austro-hongroise qui interdisait le mariage des enseignants et exigeait qu’ils restent célibataires.

Placer la femme au centre du discours public était la base de son travail, qui avait, en outre, la particularité de vouloir faire comprendre aux hommes que les femmes ayant une éducation meilleure et plus libre étaient des collègues plus efficaces au niveau du travail. Le domaine dans lequel on évolue, dans cette première phase de sa pensée, est celui universitaire qui restait encore figé sur des positions de misogynie forte et de ghettoïsation des figures féminines. Elle n’abandonne jamais le monde de la politique et s’intéresse surtout aux injustices qui frappaient les femmes, encore esclaves d’une hégémonie culturelle masculine qui les reléguait en marge d’une société aveugle face à leurs exigences. L’exclusion des femmes du pouvoir et, par conséquent, de la participation active était le point sur lequel Madame Plam sentit la nécessité d’intervenir; de cette intuition, l’idée de fonder, en 1903, le Czech Women’s Club, organisation qui, à travers posait des problèmes de fond tels que les questions juridiques, sanitaires et culturelles avec une orientation progressiste et dans le but d’ouvrir un espace de discussion pour, et avec les femmes, en présentant l’image de la Femme moderne, comme elle appellera l’une de ses lectures, c’est-à-dire une femme aux besoins totalement nouveaux.

Un autre point crucial de son intervention était le soutien au droit au suffrage universel. En 1905, elle crée le Committee for Women’s Suffrage qui se bat pour l’élection d’une femme à l’Assemblée nationale ; à partir de 1907, les hommes se voient accorder le droit de vote pour les élections impériales, mais les femmes en sont exclues. Františka, cependant, a eu une illumination : envoyer quelques candidates pour les élections provinciales, avec des partis mineurs. En effet, la loi locale de Bohême n’empêchait pas la présentation des femmes sur les listes électorales et, par conséquent, cette tentative exprimait un fort message de contraste avec les politiques de limitation des libertés et de répression de l’AutricheLa Hongrie face à un nationalisme tchèque de plus en plus vif et prêt à se battre. Le travail de Františka a servi à ouvrir le discours, tout nouveau dans ce contexte, sur l’autonomisation des femmes, et a eu du succès : Bozena Vikova-Kuneticka a été élue en 1912 à l’Assemblée nationale. Bien que le gouverneur décide d’annuler le résultat, le processus de rénovation et de prise de conscience est désormais engagé et, parallèlement à cela, le déclin de l’Empire est également engagé. La lutte transversale, d’une part pour les droits des femmes, mais en réalité pour un objectif plus grand, à savoir la libération des schémas politiques et culturels imposés d’en haut, eut les premiers résultats après la fin de la Grande Guerre. Avec la création de la Première République tchécoslovaque en 1918, les femmes obtiennent le droit de vote. Plamínková poursuit ses batailles en première ligne, en tant que journaliste : elle a servi comme correspondante dans la Première Guerre balkanique, puis directement au Sénat. Élue puis reconfirmée après 5 ans, elle avait comme objectif une réforme de la loi sur le thème de la famille, afin de révolutionner le rôle de la femme, encore considérée comme un mineur.

Pendant ce temps, le monde sombrait dans la confusion qui précédait la Seconde Guerre mondiale. L’agressivité de l’Allemagne nazie inquiétait la sénatrice qui a écrit directement une lettre ouverte à Hitler pour protester contre l’attaque de la Tchécoslovaquie. Cela la fit devenir la cible de représailles et, au début de la guerre, elle devint officiellement un personnage dangereux et punissable. En 1942, elle est emprisonnée à Terezin et fusillée quelques jours plus tard par la Gestapo. Réprimées par des traditions, des pratiques et des constructions mentales qui les veulent maîtrisées et silencieuses, des femmes comme Františka Plamínková ont ressenti la vocation de déchirer le voile qui les séparait de l’autodétermination et sont devenues protagonistes. C’est la raison pour laquelle se souvenir de leurs exploits et mettre en lumière leurs résultats devient pour nous un devoir : apprendre de ces grandes figures et nous inspirer pour commencer ainsi notre parcours de changement de la société.

 

Traduzione inglese
Chiara Celeste Ryan

Forgotten, eclipsed, destined never to pass the impetuous scrutiny of men’s time: this is the fate of many women who have led important struggles and revolutions, but who have nevertheless been excluded from the history books. Františka Plamínková was an activist for women’s suffrage, a senator for more than ten years, founder of the Women’s National Council (Žnr), vice-president of the International Woman Suffrage Alliance (IWSA) and of the International Council of Women (ICW), yet there exists no clear or exhaustive biography about her. Instead, only a few documents that were desecretised after 1990, over fifty years after her death, have come to light. During the great Stalinist repression, which took place after the Second World War, many figures of the First Czechoslovak Republic were ostracised because they were considered too subversive. Františka Plamínková was one of them. However, since 1993, when the Gender Institute in Prague was opened, Czech feminism made a fresh start with one of the most active protagonists of Czech political life in the 19th and 20th centuries: Madame Plam. Born in Prague, on 5 February 1875, into a family that was aware of political and social issues, she studied piano, singing and painting and combined these passions with her first vocation: teaching. She joined the Czech Teachers’ Association and spoke out fervently against the Austro-Hungarian law prohibiting teachers from marrying and requiring them to remain celibate.

Her work was focused on placing women at the centre of public discourse, attempting to make men understand that better educated women with greater freedoms were more efficient work colleagues. The university environment, the sphere in which she operated at this stage, was still fossilised into rigid misogynistic attitudes and the ghettoization of women. She remained ever committed to the world of politics and was particularly interested in the injustices affecting women, who were still enslaved to a male cultural hegemony that relegated them to the margins of society, oblivious to their needs. The exclusion of women from power and, consequently, from active participation, was the point upon which Madame Plam felt the need to intervene. From this intuition stemmed her idea of founding, in 1903, the Czech Women’s Club, an organisation which, through rallies and meetings, delved into questions related to law, health and culture, all with a progressive approach and the aim of opening a space for discussion for and with women. The modern woman, the title of one of her lectures, was presented as a woman with completely new needs.

Another crucial issue was her support for the right to universal suffrage. In 1905 she set up the Committee for Women’s Suffrage, which promoted the rights of women to be elected to the National Assembly. Men were granted the right to vote in imperial elections in 1907, but women were excluded. Františka, however, had a brilliant idea, putting up female candidates for provincial elections with minor parties, as local Bohemian law did not prevent women standing in electoral lists. This tactic thus sent a strong message opposing Austro-Hungarian policies of restriction of freedoms and repression, against the background of an increasingly heated and confrontational Czech nationalism. Františka’s work contributed to opening a new area of debate in this context, of female empowerment. And she was successful: in 1912 Bozena Vikova-Kuneticka was elected to the National Assembly. Although the governor then annulled the result, the process of renewal and consciousness-raising had begun and, contemporaneously, so had the decline of the Empire. The wide-sweeping struggle, ostensibly for women’s rights but in reality for a larger goal, freedom from political and cultural constraints imposed from above, had its first results after the end of the Great War. With the constitution of the First Czechoslovak Republic in 1918, women were granted the right to vote. Plamínková continued her battles in the front line, as a journalist, having already served as a correspondent in the First Balkan War. She was then elected directly to the Senate. Reconfirmed after five years, her aim was to reform family law so as to revolutionise the role of women, who were still considered as having similar rights to minors.

In the meanwhile, Europe descended into the confusion preceding the Second World War. Worried by the hostility of Nazi Germany, the senator wrote an open letter to Hitler protesting against the attack on Czechoslovakia. This made her the target of reprisals and, at the outbreak of war, she was declared to be a dangerous character to be kept under surveillance. In 1942, Madame Plam was incarcerated in Theresienstadt and shot by the Gestapo a few days later. Repressed by traditions, practices and mental constructs aimed at muzzling and silencing them, women like Františka Plamínková felt the calling to tear away the veil separating them from self-determination and to became protagonists. This is why we have the duty to recall their deeds and to disseminate their achievements: to learn from these great figures and to be inspired by them and thus to begin our own journey to change society.

 

Traduzione spagnola
Alessandra Frigenti

Olvidadas, oscurecidas, destinadas a no lograr pasar por el tamiz impetuoso del tiempo de los hombres, éste es el destino de muchas mujeres artífices de grandes luchas y revoluciones y, a pesar de esto, excluidas de la historia contada en los libros. Františka Plamínková fue una activista para el sufragio, senadora durante más de diez años, fundadora del Consejo Nacional de Mujeres de la República Checoslovaca (ŽNR), vicepresidenta de la Alianza Internacional para el Sufragio Femenino (IWSA) y del Consejo Internacional de Mujeres (ICW), y con todo no existe una biografía suya clara y completa, solo algunos documentos desvelados después de 1990, más de cinquenta años tras su muerte. La gran represión estalinista, que tuvo lugar después de los acontecimientos posteriores a la Segunda guerra mundial, hizo que muchas personas de la Primera República Checoslovaca fueran condenadas al ostracismo porque consideradas demasiado subversivas y Františka fue una de ellas. Sin embargo, desde 1993, año de la apertura del Instituto de Género de Praga, el feminismo checo reinició desde una de las mujeres protagonistas más activas de la vida política checa entre los siglos XIX y XX: Madame Plam. Nació el 5 de febrero de 1875 en Praga, en un contexto familiar siempre atento a las cuestiones políticas y sociales, estudió piano, canto, pintura y combinó con estas pasiones su principal vocación: la enseñanza. Se unió a la Asociación de profesorado checo y se opuso enérgicamente a la ley austrohúngara que prohibía el matrimonio de las profesoras y requeriá su celibato.

Poner a la mujer en el centro del discurso público era la base de su trabajo que incluso tenía como intento particular el de hacer entender a los hombres que las mujeres con una educación mejor y más libre resultaban compañeras más eficientes en el trabajo. En esta primera fase de su pensamiento, el marco es el de la universidad que aún permanecía fosilizada en posiciones de fuerte misoginia y segregación de las figuras femeninas. Nunca abandonó el mundo de la política y se interesó especialmente por las injusticias contra las mujeres, aún esclavas de una hegemonía cultural masculina que las relegaba al margen de una sociedad ciega a sus necesidades. La exclusión de las mujeres del poder y, en consecuencia, de la participación activa fue el punto en el que Madame Plam sintió la necesidad de intervenir; de esta intuición surgió la idea de fundar, en 1903, el Club de Mujeres Checas, una organización que, a través de mítines y encuentros, problematizaba temas focales como cuestiones jurídicas, sanitarias y culturales con un sesgo progresista y con el objetivo de abrir un espacio de debate por y con las mujeres, presentando la imagen de la Mujer Moderna, como titulará una de sus conferencias, es decir, una mujer con necesidades completamente nuevas.

Otro aspecto fundamental de su intervención fue su suporte al derecho al sufragio universal. En 1905 fundó el Comité para el Sufragio Femenino que luchaba para poder elegir a una mujer para la Asamblea Nacional; desde 1907 a los hombres se les dió la posibilidad de votar para las elecciones imperiales, por el contrario, las mujeres seguían siendo excluidas. Sin embargo, a Františka se le ocurrió una idea: enviar algunas candidatas a las elecciones provinciales, con partidos minoritarios. En efecto, la ley bohema no impedía que las mujeres figuraran en el padrón electoral y entonces ese intento fue un firme mensaje de contraste con las políticas de limitación de las libertades y de represión de Austria-Hungría contra un nacionalismo checo cada vez más acalorado y listo para el enfrentamiento. El trabajo de Františka sirvió para abrir el discurso sobre el empoderamiento femenino, totalmente nuevo en ese contexto, y tuvo éxito: Bozena Vikova-Kuneticka fue elegida en 1912 a la Asamblea nacional. Aunque el gobernador decidiera anular el resultado, el proceso de renovación ya había empezado y paralelamente tembién el declino del Imperio. La lucha trasversal, por un lado para los derechos de las mujeres y en realidad para un objetivo más grande, es decir la libertad de esquemas políticos y culturales impuestos desde arriba, tuvo sus primeros resultados después del fin de la Gran Guerra. Con la constitución de la Primera República checoslovaca, en 1918, las mujeres obtuvieron el derecho al voto. Plamínková continuó sus batallas en primera línea como periodista: en efecto, trabajó como corresponsal durante la Primera Guerra de los Balcanes, y después directamente en el Senado. Elegida y luego reconfirmada después de 5 años, tenía como objetivo reformar la ley sobre el materia de familia para revolucionar el papel de la mujer aún considerada como un menor.

Entretanto, el mundo estaba viviendo la confusión que precedió a la Segunda Guerra mundial. La agresividad de la Alemania nazi preocupó a la senadora que escribió una carta abierta directamente a Hitler para protestar contra el ataque a Checoslvaquia. Ésto la convirtió en blanco de ataques y, al estallar la guerra, en un personaje peligroso y perseguible. En 1942 fue encarcelada en Terezin y unos días después fue fusilada por la Gestapo. Reprimidas por tradicciones, prácticas y construcciones mentales que las quieren atadas y calladas, mujeres como Františka Plamínková han sentido la vocación de rasgar el velo que las separaba del autodeterminación y han llegado a ser protagonistas. Ésta es la razón por la cual recordar sus obras y sacar a luz sus resultados se convierte en un deber para nosotros: aprender de estas grandes figuras y dejarnos inspirar para empezar nuestro camino para el cambio en la sociedad.

Toponomastica femminile ha deciso di dedicare Calendaria 2023 alle vincitrici di Premi Nobel. In ogni tavola verrà indicata la sola tipologia del Nobel e il relativo anno di conseguimento, ma ogni settimana, sulla testata giornalistica www.vitaminevaganti.com, saranno pubblicati – in italiano, francese, spagnolo, inglese – cenni biografici delle protagoniste e motivazioni del premio.

Toponomastica femminile a décidé de dédier Calendaria 2022 a  62 femmes européennes du passé, qui se sont distinguées dans les différents domaines liés aux 17 objectifs de développement durable de l’Agenda 2030. Chaque semaine les courts profils trilingues des protagonistes seront accompagnés de récits biographiques publiés en italien sur le journal en ligne www.vitaminevaganti.com et traduits sur le site www. toponomasticafemminile.com

Toponomastica femminile ha decidido dedicar Calendaria 2023 a las ganadoras de Premios Nobel. En cada tabla se indicará solamente la tipología del Nobel y el año de otorgación, pero cada semana, en la revista www.vitaminevaganti.com, se publicarán –en italiano, francés, inglés y español– noticias sobre las protagonistas y las motivaciones del galardón.

Toponomastica femminile has decided to dedicate our 2022 Calendaria to 62 key female figures in Εuropean history, drawn from diverse fields related to the 17 objectives of the Agenda 2030. The short trilingual profiles of the protagonists will be accompanied, every week, by biographical stories published in Italian in the www.vitaminevaganti.com newspaper, translated into other languages and made available on the www. toponomasticafemminile.com website.

  • Progetto editoriale Projet éditorial Proyecto editorial Editorial project: Donatella Caione, Maria Pia Ercolini, Livia Fabiani, Marta Vischi
  • Progetto grafico Projet Graphique Proyecto gráfico Graphic project: Livia Fabiani
  • Illustrazioni Illustrations Ilustraciones Iillustrations:

Viola Gesmundo (Copertina, Couverture, Tapa, Cover), Giulia Tassi (Gennaio, Janvier, Enero, January), Dongni Wei (Febbraio, Février, Febrero, February), Tonka Uzu (Marzo, Mars, Marzo, March), Daniela Godel (Aprile, Avril, Abril, April), Martina Zinni (Maggio, Mai, Mayo, May), Caori Murata (Giugno, Juin, Junio, June), Laura Zernik (Luglio, Juillet, Julio, July), Katarzyna Oliwia Serkowska (Agosto, Août, Agosto, August), Giulia Canetto (Settembre, Septembre, Septiembre, September), Juliette Bonvallet (Ottobre, Octobre, Octubre, October), Giada Ionà (Novembre, Novembre, Noviembre, November), Giulia Capponi (Dicembre, Décembre, Deciembre, December).

  • Testi, traduzioni e collaborazioni Textes, traductions et collaborations Textos, traducciones y contribuciones Texts, translations and contributions:

Federica Agosta, Lizet Angulo, Danila Baldo, Sara Balzerano, Giulia Basile, Cinzia Belmonte, Sara Benesperi, Laura Bertolotti, Donatella Caione, Arianna Calabretta, Giulia Calì, Laura Candiani, Irene Cannata, Livia Capasso, Nadia Cario, Alessia Carofiglio, Brunella Carratù, Maria Carreras i Goicoechea, Cecilia Cavagna, Alessia Concetta Coluccio, Tiziana Concina, Roberta Delia, Eleonora De Longis, Rosanna De Longis, Giuliana De Luca, Vanessa Dumassi, Francesca Emiliani, Alessandra Frigenti, Antonella Gargano, Anastasia Grasso, Erika Incatasciato, Giuseppina Incorvaia, Loretta Junck, Rossana Laterza, Daniela Leonardi, Ina Macina, Paola Malacarne, Erika Mancusi, Virginia Mariani, Sara Marsico, Elisabetta Mattei, Kay McCarthy, Gabriella Milia, Bruno Miranda, Marina Misuraca, Guenoah Mroue, Gemma Pacella, Flavia Palumbo, Carlotta Pennavaria, Alina Petelko, Maria Chiara Pulcini, Francesco Rapisarda, Angela Scozzafava, Simona Serafin, Sara Sesti, Syd Stapleton, Fiorenza Taricone, Elisabetta Uboldi, Julia Vegro, Annamaria Vicini, Marta Vischi, Delia Zampetti, Andrea Zennaro, Mauro Zennaro e studenti Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, CdL L-11, L-20, LM37 e LM38 (Español)


Nobel Gennaio
Calendaria 2023 - Marie Skłodowska Curie
Calendaria 2023 - Bertha von Suttner
Calendaria 2023 - Selma Lagerlöf
Calendaria 2023 - Marie Curie
C
alendaria 2023 - Grazia Deledda

Nobel Febbraio
Calendaria 2023 - Sigrid Undset
Calendaria 2023 - Jane Addams
Calendaria 2023 - Irène Joliot-Curie
Calendaria 2023 - Pearl Buck
Calendaria 2023 - Gabriela Mistral

Nobel Marzo
Calendaria 2023 - Emily Greene Balch
Calendaria 2023 - Gerty Radnitz Cori
Calendaria 2023 - Maria Goeppert Mayer
Calendaria 2023 - Dorothy Crowfoot Hodgkin
Calendaria 2023 - Nelly Sachs

Nobel Aprile
Calendaria 2023 - Betty Williams
Calendaria 2023 - Mairead Corrigan
Calendaria 2023 - Rosalyn Sussman Yalow
Calendaria 2023 - Madre Teresa di Calcutta
Calendaria 2023 - Alva Reimer Myrdal


Nobel Maggio
Calendaria 2023 - Barbara McClintock
Calendaria 2023 - Rita Levi-Montalcini
Calendaria 2023 - Gertrude B. Elion

Calendaria 2023 - Nadine Gordimer
Calendaria 2023 - Aung San Suu Kyi 

Nobel Giugno
Calendaria 2023 - Rigoberta Menchú Tum
Calendaria 2023 - Toni Morrison
Calendaria 2023 - Christiane Nüsslein – Volhard
Calendaria 2023 - Wisława Szymborska
Calendaria 2023 - Jody Williams

Nobel Luglio
Calendaria 2023 - Shirin Ebadi 
Calendaria 2023 - Linda B. Buck
Calendaria 2023 - Elfriede Jelinek
Calendaria 2023 - Wangari Maatha
Calendaria 2023 - Doris Lessing

Nobel Agosto
Calendaria 2023 - Françoise Barré – Sinouss
Calendaria 2023 - Ada Yonath
Calendaria 2023 - Elizabeth H. Blackburn
Calendaria 2023 - Carol W. Greider
Calendaria 2023 - Herta Müller

Nobel Settembre
Calendaria 2023 - Elinor Awan – Ostrom
Calendaria 2023 - Ellen Johnson – Sirleaf
Calendaria 2023 - Leymah Gbowee
Calendaria 2023 - Tawakkul Karman
Calendaria 2023 - Alice Munro

Nobel Ottobre
Calendaria 2023 - Malala Yousafzai
Calendaria 2023 - May Britt – Moser
Calendaria 2023 - Svetlana Aleksievic
Calendaria 2023 - Tu Youyou
Calendaria 2023 - Donna Strickland

Nobel Novembre
Calendaria 2023 - Frances Hamilton – Arnold
Calendaria 2023 - Nadia Murad
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Calendaria 2023 - Esther Duflo
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