Wisława Szymborska
Gabriella Milia





Caori Murata

 

Premio Nobel per la letteratura 1996. «Una poesia che con ironica precisione permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti di realtà umana».

Wisława Szymborska nasce a Bnin, oggi parte di Kórnik, nei pressi di Poznan il 2 luglio 1923. Nel 1929 si trasferisce con la famiglia a Cracovia dove frequenta il ginnasio e più tardi, tra il 1941 e il 1943, lavora come impiegata alle ferrovie per evitare la deportazione. Pubblica la sua prima poesia nel 1945 sul quotidiano Dziennik Polski e in quell’anno si iscrive alla facoltà di lettere e sociologia, ma interrompe gli studi perché, come lei stessa più tardi spiegò: «Nel 1947 la sociologia diventò mortalmente noiosa; si doveva spiegare tutto con il marxismo. Ho lasciato l’università perché già allora dovevo guadagnarmi da vivere».

Nel 1952 esce il suo primo volumetto di poesie Per questo viviamo e in quello stesso anno entra a far parte del Partito Operaio Unificato Polacco. Nel 1954 esce Domande poste a me stessa. Di queste due prime raccolte Szymborska non ha mai più autorizzato la ristampa. Nel 1957 pubblica Appello allo Yeti, nel quale già mostra di essersi allontanata dall’ideologia comunista anche se la rottura formale arriverà nel 1966, quando per solidarietà con il filosofo Kolakowski, espulso dal Partito, Szymborska ed altri scrittori restituiranno la tessera. Tre anni dopo tiene anonimamente la rubrica Posta Letteraria della rivista Vita Letteraria, in cui esamina manoscritti di aspiranti scrittori e sceglie quali poesie pubblicare. Negli anni Settanta abbandona questo incarico e continua la sua intensa attività di traduttrice dal francese. Nel frattempo insegna, pubblica alcuni libri tradotti dal ceco e dallo slovacco, abbandona l’ostello di via Krupnicza e si trasferisce per la prima volta in un piccolo appartamento tutto suo, “il cassetto”. Quando nel 1983 viene sciolta l’Unione dei letterati polacchi, gli scrittori e le scrittrici continuano a incontrarsi in clandestinità in circoli organizzati da Szymborska e dal filosofo Filipowicz, suo compagno. Nel 1991 le viene assegnato il premio Goethe. Nel 1995 riceverà la laurea honoris causa dell’Università di Poznan e il premio Herder dall’Università di Vienna. I riconoscimenti nel corso degli anni si moltiplicano fino al Nobel nel 1996. Nel 2002 esce Attimo, primo volume di poesie dopo il Premio Nobel e, nel 2003, Filastrocche per bambini grandi, un’insolita raccolta di poesie scherzose illustrate da suoi collage. Seguono nel 2005 Due punti e nel 2009 il volumetto Qui. Il 1º febbraio 2012 Wisława Szymborska muore nel sonno nella sua casa di Cracovia. All’epoca del Nobel, Szymborska in Italia è quasi sconosciuta, anche perché tutta la letteratura polacca non era popolare e la critica italiana accoglie la notizia con una certa diffidenza e perplessità. In pochi anni però, la sua posizione nel panorama culturale italiano cambia completamente e le sue opere vengono tradotte, stampate e ristampate in tutta Europa.

 Wisława Szymborska non ha mai amato parlare di sé e delle sue opere: è schiva, timida, riservata. In occasione del Nobel è costretta a farlo ma lo fa a suo modo, con l’ironia che la contraddistingue. Inizia così il discorso pronunciato il 7 dicembre 1996 all’Accademia Reale di Svezia:

«In un discorso, pare, la prima frase è sempre la più difficile. E dunque l’ho già alle mie spalle... Ma sento che anche le frasi successive saranno difficili, la terza, la sesta, la decima, fino all’ultima, perché devo parlare della poesia. Su questo argomento mi sono pronunciata di rado, quasi mai. E sempre accompagnata dalla convinzione di non farlo nel migliore dei modi…».

Al centro del discorso, Szymborska pone i tre punti fondamentali del suo essere poeta: l’ispirazione, i “non so” e lo stupore. Riguardo all’ispirazione afferma che essa non è una prerogativa dei poeti ma è di tutti gli individui che svolgono un lavoro con passione e con curiosità che non viene mai meno perché ogni volta che risolvono un problema, immediatamente in loro nascono nuovi interrogativi. Così «… il poeta, se è vero poeta, deve ripetere di continuo a se stesso “non so”. Con ogni sua opera cerca di dare una risposta, ma non appena ha finito di scrivere già lo invade il dubbio e comincia a rendersi conto che si tratta d’una risposta provvisoria e del tutto insufficiente…» E proprio dai “non so”, due paroline “brevi ma alate” come lei stessa le definisce, nasce l’ispirazione, dall’incessante ripeterle a se stessi in modo da non adagiarsi sul già noto e non dare nulla per scontato. E infine lo stupore: il mondo, secondo Szymborska, è uno “smisurato teatro” stupefacente «Ma nella definizione “stupefacente” si cela una sorta di tranello logico. Dopotutto ci stupisce ciò che si discosta da una qualche norma nota e generalmente accettata, da una qualche ovvietà a cui siamo abituati. Ebbene, un simile mondo ovvio non esiste affatto. Il nostro stupore esiste per se stesso e non deriva da nessun paragone con alcunché […] nel linguaggio della poesia, in cui ogni parola ha un peso, non c’è più nulla di ordinario e normale.» E la capacità di meravigliarsi, di stupirsi, l’accompagnerà per tutta la vita; anche da anziana, Szymborska avrà sempre lo stupore dei bambini che riescono così a vedere il mondo nella sua interezza. Lo stupore sarà una componente fondamentale della sua poesia. La poesia è allora lo strumento per parlare dello straordinario nell’ordinario.

«Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.»

[Ogni caso, 1972]

Nelle poesie di Wisława Szymborska anche l’ironia ha un ruolo fondamentale e, affiancata a immagini concrete, alleggerisce il testo proprio quando il centro dei suoi versi sembrano essere le grandi domande e il senso dell’esistenza, trasformando la drammaticità in un sorriso. E c’è anche la malinconia che deriva da un lato dalle vicende storiche – ha vissuto il nazismo, il totalitarismo comunista – e dall’altro dalle sofferenze e dalle perdite affrontate nella vita, anche se non traspare disperazione o angoscia. Nelle sue opere, inoltre, non mancano l’attualità e una componente di denuncia per ciò che il mondo si trova a vivere che lei esprime sempre senza retorica, con uno stile semplice e lineare, in versi liberi. In Vietnam (dalla raccolta Uno spasso, 1967), Szymborska va oltre il momento storico per giungere alla condizione della guerra di ogni tempo e luogo. E i dubbi, i “non so”, acquisiscono un valore universale così come l’unica certezza: l’amore della madre per i figli.

«Donna, come ti chiami? – Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? – Non lo so.
Perché ti sei scavata una tana sotterranea? – Non lo so.
Da quando ti nascondi qui? – Non lo so.
Perché mi hai morso la mano? – Non lo so.
Sai che non ti faremo del male? – Non lo so.
Da che parte stai? – Non lo so.
Ora c’è la guerra, devi scegliere. – Non lo so.
Il tuo villaggio esiste ancora? – Non lo so.
Questi sono i tuoi figli? – Sì.»

Monumento in memoria di Wisława Szymborska, Kórnik.

 


Traduzione francese

Guenoah Mroue

Prix Nobel de littérature 1996 «Un poème qui, avec une ironie précise, permet au contexte historique et biologique de venir à la lumière en fragments de réalité humaine».

Wisława Szymborska est né à Bnin, aujourd’hui partie de Kórnik, près de Poznan, le 2 juillet 1923. En 1929, elle s’installe avec sa famille à Cracovie où elle fréquente le gymnase et plus tard, entre 1941 et 1943, elle travaille comme employée aux chemins de fer pour éviter la déportation. Elle publie son premier poème en 1945 dans le quotidien Dziennik Polski et cette année-là, elle s’inscrit à la faculté de lettres et de sociologie, mais interrompt ses études car, comme elle l’explique plus tard : «En 1947, la sociologie devint mortellement ennuyeuse; on devait tout expliquer avec le marxisme. J’ai quitté l’université parce que je devais déjà gagner ma vie».

En 1952, elle publie son premier volume de poèmes Pour cela nous vivons et cette même année elle entre dans le Parti ouvrier unifié polonais. En 1954 sort Questions posées à moi-même. De ces deux premières collections, Szymborska n’a plus jamais autorisé la réimpression. En 1957, elle publie Appel au Yéti, dans lequel elle montre déjà qu’elle s’est éloigné de l’idéologie communiste même si la rupture formelle arrivera en 1966, quand par solidarité avec le philosophe Kolakowski, expulsé du Parti, Szymborska et d’autres écrivains rendront la carte. Trois ans plus tard, elle tient anonymement la rubrique Posta Letteraria de la revue Vita Letteraria, dans laquelle elle examine les manuscrits de futurs écrivains et choisit les poèmes à publier. Dans les années 1970, elle abandonne ce poste et poursuit son activité de traductrice française. Entre-temps, elle enseigne, publie des livres traduits du tchèque et du slovaque, elle quitte l’auberge de la rue Krupnicza et s’installe pour la première fois dans son propre petit appartement , "le tiroir". Lorsque l’Union des lettrés polonais est dissoute en 1983, les écrivains continuent à se rencontrer clandestinement dans des cercles organisés par Szymborska et son compagnon, le philosophe Filipowicz. En 1991, elle reçoit le prix Goethe. En 1995, elle reçoit le doctorat honoris causa de l’université de Poznan et le prix Herder de l’université de Vienne. Les prix au fil des ans se multiplient jusqu’au prix Nobel en 1996. En 2002 sort Attimo, premier volume de poèmes après le Prix Nobel et, en 2003, Comptines pour jeunes enfants, un recueil inhabituel de poèmes farcis illustrés par ses collages. Deux points suivent en 2005 et le volume Qui en 2009. Le 1er février 2012, Wisława Szymborska meurt dans son sommeil dans sa maison de Cracovie. À l’époque du Prix Nobel, Szymborska en Italie est presque inconnue, notamment parce que toute la littérature polonaise n’était pas populaire et que la critique italienne accueille la nouvelle avec une certaine méfiance et perplexité. En quelques années, cependant, sa position dans le paysage culturel italien change complètement et ses œuvres sont traduites, imprimées et réimprimées dans toute l’Europe.

Wisława Szymborska n’a jamais aimé parler d’elle-même et de ses œuvres: elle est pudique, timide, et réservé. Elle est obligée de le faire à l’occasion du Prix Nobel, mais elle le fait à sa manière, avec l’ironie qui la caractérise. Ainsi commence le discours prononcé le 7 décembre 1996 à l’Académie royale de Suède:

«Dans un discours, il semble, la première phrase est toujours la plus difficile. Et donc je l’ai déjà derrière moi... Mais je sens que même les phrases suivantes seront difficiles, la troisième, la sixième, la dixième, jusqu’à la dernière, parce que je dois parler du poème. Sur ce sujet, je me suis rarement prononcée, presque jamais. Et toujours accompagnée de la conviction de ne pas le faire de la meilleure façon...».

Au centre du discours, Szymborska pose les trois points fondamentaux de son être poète : l’inspiration, les "je ne sais pas" et l’étonnement. Quant à l’inspiration, elle affirme qu’elle n’est pas une prérogative des poètes mais qu’elle est de tous les individus qui accomplissent un travail avec passion et avec curiosité qui ne faiblit jamais car chaque fois qu’ils résolvent un problème, immédiatement de nouvelles interrogations naissent en eux. Ainsi, «... le poète, s’il est vrai poète, doit se répéter "je ne sais pas". Avec chacune de ses œuvres, elle cherche à donner une réponse, mais dès qu’elle a fini d’écrire, elle envahit déjà le doute et commence à se rendre compte qu’il s’agit d’une réponse provisoire et tout à fait insuffisante...» Et justement des "je ne sais pas", deux mots "courts mais ailés" comme elle les définit elle-même, naît l’inspiration, de la répétition incessante à soi-même afin de ne pas se reposer sur le déjà connu et de ne rien prendre pour acquis. Et enfin l’étonnement : le monde, selon Szymborska, est un "théâtre démesuré" étonnant «Mais dans la définition "étonnant" se cache une sorte de piège logique. Après tout, ce qui nous étonne, c’est ce qui s’écarte d’une norme connue et généralement acceptée, d’une certaine évidence à laquelle nous sommes habitués. Or, un tel monde évident n’existe pas du tout. Notre étonnement existe pour elle-même et ne découle d’aucune comparaison avec quoi que ce soit [...] dans le langage de la poésie, où chaque mot a un poids, il n’y a plus rien d’ordinaire et de normal.» Et la capacité de s’émerveiller, l’accompagnera toute sa vie; même en étant âgée, Szymborska aura toujours l’étonnement des enfants qui réussissent ainsi à voir le monde dans sa totalité. L’étonnement sera une composante fondamentale de sa poésie. La poésie est alors l’instrument pour parler de l’extraordinaire dans l’ordinaire.

«Il n’y a pas de fin à mon étonnement, à mon silence.
Écoute
Comme ton cœur bat fort»

[Chaque cas, 1972]

Dans les poèmes de Wisława Szymborska, l’ironie joue également un rôle fondamental et, aux côtés d’images concrètes, elle allège le texte précisément lorsque le centre de ses vers semble être les grandes questions et le sens de l’existence, transformant le drame en un sourire. Et il y a aussi la mélancolie qui dérive d’une part des événements historiques - elle a vécu le nazisme, le totalitarisme communiste - et d’autre part des souffrances et des pertes affrontées dans la vie, même si elle ne transparaît pas de désespoir ou d’angoisse. De plus, dans ses œuvres, l’actualité ne manque pas et une composante de dénonciation pour ce que le monde doit vivre qu’elle exprime toujours sans rhétorique, avec un style simple et linéaire, en vers libres. Au Vietnam (de la collection Un Fun, 1967), Szymborska va au-delà du moment historique pour arriver à la condition de la guerre de tous les temps et de tous les lieux. Et les doutes, les "je ne sais pas", acquièrent une valeur universelle ainsi que la seule certitude: l’amour de la mère pour les enfants.

«Femme, quel est ton nom ? - Je ne sais pas.
Quand es-tu née, d’où viens-tu ? - Je ne sais pas.
Pourquoi as-tu creusé un terrier ? - Je ne sais pas.
Depuis quand tu te caches ici ? - Je ne sais pas.
Pourquoi tu m’as mordu la main ? - Je ne sais pas.
Tu sais qu’on ne te fera pas de mal ? - Je ne sais pas.
De quel côté es-tu ? - Je ne sais pas.
Maintenant, il y a la guerre, vous devez choisir. - Je ne sais pas.
Ton village existe toujours ? - Je ne sais pas.
Ce sont tes enfants ? - Oui.»

Monument à la mémoire de Wisława Szymborska, Kórnik.

 


Traduzione inglese

Syd Stapleton

1996 Nobel Prize in Literature Awarded «for poetry that with ironic precision allows historical and biological context to come to light in fragments of human reality».

Wisława Szymborska was born in Prowent (Poland), now part of Kórnik, near Poznan on July 2, 1923. In 1929 she moved with her family to Kraków, where she attended high school and later, between 1941 and 1943, working as a railway clerk, was able to avoid deportation. She published her first poem in 1945 in the newspaper Dziennik Polski and in that year enrolled in the faculty of literature and sociology, but interrupted her studies because, as she later explained, «In 1947 sociology became deadly boring; one had to explain everything with Marxism. I left the university because even then I had to earn a living».

In 1952 her first small volume of poems That’s Why We Are All Alive was published, and in that same year she joined the Polish Unified Workers' Party. In 1954 Questioning Yourself came out. Szymborska refused to ever authorized reprinting of these first two collections. In 1957 she published Calling Out to Yeti, in which she showed that she had already moved away from Communist ideology, although the formal break would come in 1966, when out of solidarity with the philosopher Kolakowski, expelled from the Party, Szymborska and other writers returned their membership cards. Three years later she anonymously wrote a book review column for the journal Życie Literackie [Literary Life], in which she examined manuscripts from aspiring writers and chose which poems to publish. In the 1970s she abandoned that post and continued her intense activity as a translator from French. In addition, she taught, published a few books translated from Czech and Slovak, left the hostel on Krupnicza Street and moved for the first time into a small apartment of her own, which she called "the drawer." When the Union of Polish Literati was dissolved in 1983, writers continued to meet in hiding in circles organized by Szymborska and her close friend, the philosopher and writer Filipowicz. In 1991 she was awarded the Goethe Prize. In 1995 she received an honorary degree from the University of Poznan and the Herder Prize from the University of Vienna. The awards over the years multiplied until the Nobel Prize in 1996. In 2002 Moment, the first volume of poems after the Nobel Prize, was published and, in 2003, Rhymes for Big Kids, an unusual collection of playful poems illustrated by her collages. This was followed in 2005 by Colon and in 2009 by the small volume Here. On February 1, 2012, Wisława Szymborska died in her sleep at her home in Krakow. At the time of the Nobel Prize, Szymborska was almost unknown in Italy, partly because Polish literature in general was not popular, and Italian critics greeted the news with a certain indifference and perplexity. Within a few years, however, her position in the Italian cultural scene changed completely and her works were translated, printed and reprinted throughout Europe.

Wisława Szymborska had never liked to talk about herself and her works - she was shy, timid, and reserved. On the occasion of the Nobel she was required to give a talk, but she did it in her own way, with her trademark irony. Thus, the speech she delivered on December 7, 1996, at the Royal Swedish Academy begins this way:

«They say the first sentence in any speech is always the hardest. Well, that one’s behind me, anyway. But I have a feeling that the sentences to come – the third, the sixth, the tenth, and so on, up to the final line – will be just as hard, since I’m supposed to talk about poetry. I’ve said very little on the subject, next to nothing, in fact. And whenever I have said anything, I’ve always had the sneaking suspicion that I’m not very good at it».

At the center of the discourse, Szymborska placed the three fundamental points of her being a poet: inspiration, "I don't know," and wonder. Regarding inspiration, she states that it is not the prerogative of poets but is the prerogative of all individuals who carry out work with a passion and curiosity that never fails because every time they solve a problem, new questions immediately arise in them. Thus, "Poets, if they’re genuine, must also keep repeating ‘I don’t know.’ Each poem marks an effort to answer this statement, but as soon as the final period hits the page, the poet begins to hesitate, starts to realize that this particular answer was pure makeshift that’s absolutely inadequate to boot…” And it is from the "I don't know" - words she described as "short but winged" - that inspiration is born, from the incessant repeating of them to oneself so as not to rest on the already known and not to take anything for granted. And finally, astonishment. The world, according to Szymborska, is a "boundless theater" and then adds, «But ‘astonishing’ is an epithet concealing a logical trap. We’re astonished, after all, by things that deviate from some well-known and universally acknowledged norm, from an obviousness we’ve grown accustomed to. Now the point is, there is no such obvious world. Our astonishment exists per se and isn’t based on comparison with something else. […] But in the language of poetry, where every word is weighed, nothing is usual or normal». And the ability to wonder, to be amazed, accompanied her throughout her life. Even as an elderly woman, Szymborska continued with the amazement of children who are thus able to see the world in its entirety. Awe is a fundamental component of her poetry. Poetry is then the tool to speak of the extraordinary in the ordinary.

«I can’t stop wondering at it, can’t be silent enough.
Listen,
How quickly your heart is beating in me».

From “Any Case” (1972)

Irony also plays a key role in Wisława Szymborska's poems and, placed side by side with concrete images, it lightens the text, turning drama into a smile, just when the center of her verses seems to be the big questions and the meaning of existence. And there is also the melancholy that stems on the one hand from historical events - she lived through Nazism and Communist totalitarianism - and on the other hand from the suffering and losses she faced in life, although no personal despair or anguish emerges in her work. Her works also do not lack topicality and an element of denunciation of what the world is experiencing, which she always expresses without rhetoric, in a simple, straightforward style, in free verse. In Vietnam (from the collection No End of Fun, 1967), Szymborska goes beyond the historical moment to the condition of warfare in every time and place. And the doubt, the "I don't know," acquires universal value as well as the one certainty - a mother's love for her children.

«Why did you dig that burrow? I don't know.
How long have you been hiding? I don't know.
Why did you bite my finger? I don't know.
Don't you know that we won't hurt you?
I don't know. Whose side are you on? I don't know.
This is war, you've got to choose. I don't know.
Does your village still exist? I don't know.
Are those your children? Yes.»

Monument in memory of Wisława Szymborska, Kórnik.

 


Traduzione spagnola

Martina Randazzo

Premio Nobel de Literatura 1996 «Una poesía que con precisión irónica deja que el contexto histórico y biológico aparezca en fragmentos de humana realidad».

Wisława Szymborska nació el 2 de julio de 1923 en Bnin, ahora parte de Kórnik, cerca de Poznan. En 1929 ella y su familia se mudaron a Cracovia donde ella fue al colegio y más tarde, entre los años 1941 y 1943, trabajó de ferroviaria para evitar la deportación. En 1945 publicó su primera poesía en el periódico Dziennik Polski y se matriculó en la Facultad de Literatura y Sociología, pero tuvo que abandonar sus estudios porque, como ella misma luego explicó: «en 1947 la sociología se había convertido en algo mortalmente aburrido; todo tenía que explicarse por medio del marxismo. Abandoné la universidad porque ya entonces tenía que ganarme la vida».

IEn 1952 salió su primer pequeño volumen de poesías, Dlatego żyjemy (Por eso vivimos), y ese mismo año se unió al Partido Obrero Unificado Polaco. En 1954 vio la luz Pytania zadawane sobie (Preguntas a mí misma). Szymborska nunca más autorizó la reimpresión de estas dos primeras recolecciones. En 1957 publicó Wołanie do Yeti (Llamando al Yeti), donde ya demostraba su distanciamiento de la ideología comunista, aunque el abandono formal se realizó en 1966, cuando por solidaridad con el filósofo Kolakowski, quien había sido expulsado del Partido, Szymborska y otros escritores devolvieron su carné del partido. Tres años después publicó de forma anónima la columna Correo Literario en la revista «Życie Literackie» (Vida Literaria), donde examinaba unos manuscritos de aspirantes a escritores y eligía los que se iban a publicar. En los años setenta abandonó ese trabajo y continuó su intensa actividad de traductora del francés. Mientras tanto dio clases, publicó unos libros traducidos del checo y del eslovaco, abandonó el albergue en la calle Krupnicza y se mudó por primera vez a un pequeño piso de su propriedad, “el cajón”. Cuando en 1983 se deshizo la Unión de Escritores Polacos, los escritores y las escritoras continuaron reuniéndose clandestinamente en círculos coordinados por Szymborska y por el filósofo Filipowicz, su pareja. En 1991 srecibió el premio Goethe. En 1995 fue nombrada honoris causa por la Universidad de Poznan y recibió el premio Herder de la Universidad de Viena. Con los años los reconocimientos se multiplicaron hasta el premio Nobel en 1996. En 2002 se publicó Chwila (Instante, trad. Gerardo Beltrán, Abel A. Murcia; Igitur, Tarragona, 2004), primer volumen de poesías después del premio Nobel y en 2003 Rymowanki dla dużych dzieci (literalmente Rimas para chicos grandes, sin traducción al español), una recolección original de poesías jocosas ilustradas por unos collages suyos. En 2005 salió Dwukropek (Dos puntos, trad. Gerardo Beltrán, Abel A. Murcia; Igitur, Tarragona, 2007) y en 2009 el pequeño volumen Tutaj (Aquí, trad. Gerardo Beltrán y Abel A. Murcia; edición bilingüe, Bartleby, Madrid, 2009). El 1 de febrero 2012 Wisława Szymborska murió mientras dormía en su casa, en Cracovia. Cuando recibió el Nobel, Szymborska era prácticamente desconocida en Italia (y en España donde la primera traducción de su obra tuvo lugar en 1997), porque la literatura polaca no era popular y la crítica italiana recibió la noticia con cierta desconfianza y perplejidad. Con pocos años, sin embargo, su lugar en el panorama cultural italiano cambió totalmente y sus obras fueron traducidas, imprimidas y reimprimidas por toda Europa.

A Wisława Szymborska nunca le gustó hablar de sí misma y de sus obras: ella era recatada, tímida y reservada. Con ocasión del premio Nobel tuvo que hablar en público, pero a su manera, con la auto ironía por la que ella destacaba. Así empieza el discurso pronunciado el 7 de diciembre de 1996 ante la Real Academia de Suecia:

«Se dice que en un discurso lo más difícil es siempre la primera frase… Pues ya la dije… Pero presiento que las que siguen van a ser igualm de difíciles, la tercera, la sexta, la décima, hasta la última, ya que debo hablar sobre poesía. Muy raras veces me he expresado acerca de este tema, casi nunca, y siempre con la convicción de que no lo hago muy bien...».

En el centro del discurso están los tres puntos esenciales del ser poeta para ella: la inspiración, los “no sé” y el asombro. Con respecto de la inspiración, ella sostiene que no es una prerrogativa de los poetas, sino de todos los individuos que trabajan con pasión y con la curiosidad que nunca falta, porque cada vez que ellos solucionan un problema otros interrogativos se originan de inmediato en ellos mismos. Así: «el poeta, si es un verdadero poeta, tiene que repetirse perpetuamente «no sé». Con cada verso intenta responder, pero en el momento en que pone el punto final, le asaltan las dudas y empieza a advertir que su respuesta es temporal y en ningún caso satisfactoria…». Y a partir de “no sé”, dos palabritas “dotadas de alas para su vuelo” como ella misma dice, se origina la inspiración, a partir de la interminable repetición de estas palabras por cada uno a sí mismo para no apoyarse en lo ya conocido y no dar nada por sentado. Y por fin el asombro: para Szymborska el mundo es un “teatro inmenso asombroso” «pero en la expresión asombroso se esconde una trampa lógica. Nos causa asombro lo que sobresale de la norma conocida y comúnmente aceptada, de una obviedad a la cual estamos acostumbrados. Pues bien, un mundo así, obvio, no existe. Nuestro asombro es autónomo y no procede de ninguna comparación de ningún tipo [...] en la lengua de la poesía, donde se pesa cada palabra, ya nada es común.» La capacidad de maravillarse, de asombrarse la acompañaron durante toda su vida; ya anciana, Szymborska admiró siempre a los niños porque pueden ver el mundo en su totalidad. El asombro fue parte fundamental de su poesía. Pues la poesía es el instrumento que sirve para hablar de lo extraordinario en lo ordinario.

«Nie umiem się nadziwić, namilczeć się temu.
Posłuchaj,
jak mi prędko bije twoje serce.»

(Wszelki wypadek, Czytelnik, 1972)

«Mi asombro no tiene límite,
mi silencio tampoco.
Escucha Como late fuerte tu corazón.»

En las poesías de Wisława Szymborska la auto ironía desempeña un papel fundamental y, junto a imágenes concretas, modera el texto precisamente cuando parece que el foco de sus versos son el sentido de existencia y las preguntas importantes, así que el drama se convierte en sonrisa. Se percibe también la melancolía que por un lado se origina de los acontecimientos históricos –vivió el nazismo y el totalitarismo comunista– y por otro lado de las penas y de las pérdidas a las cuales hizo frente en su vida, aunque no transparenten desesperación o aflicción. En sus obras, además, no faltan temas de actualidad y una componente de denuncia contra lo que está pasando en el mundo, algo que ella siempre expresa sin retórica, con un estilo simple y lineal, en verso libre. En Vietnam (en la recolección Sto pociech [ Un encanto]), Szymborska deja atrás el momento histórico para llegar a la condición de la guerra en todos tiempos y en cada lugar. Y las dudas, los “no sé”, adquieren valor universal tal como lo que sólo es cierto: el amor de una madre hacia sus hijos.

«Kobieto, jak się nazywasz? - Nie wiem.
Kiedy się urodziłaś, skąd pochodzisz? - Nie wiem.
Dlaczego wykopałaś sobie norę w ziemi? - Nie wiem.
Odkąd się tu ukrywasz? - Nie wiem.
Czemu ugryzłaś mnie w serdeczny palec? - Nie wiem.
Czy wiesz, że nie zrobimy ci nic złego? - Nie wiem.
Po czyjej jestes stronie? - Nie wiem.
Teraz jest wojna musisz wybrać. - Nie wiem.
Czy twoja wieś jeszcze istnieje? - Nie wiem.
Czy to są twoje dzieci? - Tak.»


«Mujer, ¿cómo te llamas? —No sé.
¿Cuándo naciste, de dónde eres? —No sé.
¿Por qué cavaste esta madriguera? —No sé.
¿Desde cuándo te escondes? —No sé.
¿Por qué me mordiste el dedo cordial? —No sé.
¿Sabes que no te vamos a hacer nada? —No sé.
¿A favor de quién estás? —No sé.
Estamos en guerra, tienes que elegir. —No sé.
¿Existe todavía tu aldea? —No sé.
¿Estos son tus hijos? —Sí.»

Monumento en memoria de Wisława Szymborska, Kórnik.

 


Traduzione ucraina

Alina Petelko

Нобелівська премія з літератури 1996 року. «Поезія, яка з іронічною точністю дозволяє історичному та біологічному контексту висвітлитися у фрагментах людської реальності».

Віслава Шимборська народилася 2 липня 1923 року в Бніні, тепер район Ку́рника, поблизу Познані. У 1929 році вона переїхала з родиною до Кракова, де відвідувала гімназію, а пізніше, між 1941 і 1943 роками, працювала на залізниці, щоб уникнути депортації. Свою першу поезію вона опублікувала в 1945 році в газеті Dziennik Polski і того року вступила на факультет літератури та соціології, але не закінчила навчання, тому що, як вона сама пізніше пояснила: «У 1947 році соціологія стала смертельно нудною; все треба було пояснювати марксизмом. Я покинула університет, бо вже тоді треба було заробляти на життя».

У 1952 році вийшла її перша збірка Ось чому ми живемо (Dlatego żyjemy) і того ж року вона вступила до Польської об’єднаної робітничої партії. У 1954 році вона опублікувала Питання для себе. З цих перших двох збірок Шимборська ніколи не дозволяла перевидання. У 1957 році вона опублікувала Волання до Єті, де вже видно, що вона відійшла від комуністичної ідеології, навіть якщо формальний розрив стався в 1966 році, коли Шимборська та інші письменники повернули партквиток на знак солідарності з філософом Колаковським, виключеним з партії. Через три роки вона анонімно веде рубрику Додаткові лекції (Lektury nadobowiązkowe) в журналі Życie Literacki, у якій вивчає рукописи письменників-початківців і обирає, які вірші опублікувати. У сімдесятих роках залишила цю посаду і продовжила інтенсивну діяльність як перекладач з французької. Тим часом вона викладає, видає кілька книжок, перекладених чеською та словацькою мовами, залишає гуртожиток на вулиці Крупнича та вперше переїжджає у маленьку власну квартиру, «шухляду». Коли Спілку польських письменників було розпущено в 1983 році, письменники продовжували збиратися, переховуючись, у гуртках, організованих Шимборською та її компаньйоном, філософом Філіповичем. У 1991 році вона була нагороджена премією Гете. У 1995 році вона отримає почесний ступінь Познанського університету та Гердерівську премію Віденського університету. Нагороди множилися з роками, до отримання Нобелівської премії в 1996 році. У 2002 році вийшов перший збірник поезій після Нобелівської премії Мить, а в 2003 році — Римованки для дорослих дітей — незвичайна збірка жартівливих віршів, проілюстрованих її колажами. У 2005 році вийшов Двокрапка, а в 2009 році буклет Тут. 1 лютого 2012 року Віслава Шимборська померла уві сні у своєму будинку в Кракові. На час отримання Нобелівської премії Шимборська була майже невідома в Італії ще й тому, що вся польська література не була популярною, а італійська критика сприйняла цю новину з деякою невпевненістю та здивуванням. Однак за кілька років її позиція на італійській культурній сцені повністю змінилася, її твори перекладалися, друкувались і перевидавалися по всій Європі.

Віслава Шимборська ніколи не любила розповідати про себе та свої твори: вона сором'язлива і замкнута. З нагоди вручення Нобелівської премії вона змушена розповідати про себе, але робить це по-своєму, з іронією, яка її вирізняє. Так починається промова, виголошена 7 грудня 1996 року в Королівській академії Швеції:

«У промові, здається, завжди найважче перше речення. І так у мене це вже позаду... Але я відчуваю, що навіть наступні речення будуть важкими, третє, шосте, десяте, аж до останнього, тому що я маю говорити про поезію. На цю тему я рідко, майже ніколи не висловлювався. І мене завжди супроводжує переконання, що я роблю це не найкращим чином...».

У центрі промови Шимборська ставить три фундаментальні моменти: натхнення, її «не знаю» та здивування. Стосовно натхнення вона стверджує, що це прерогатива не поетів, а всіх людей, які виконують роботу з пристрастю та цікавістю, яка завжди присутня, тому що щоразу, коли вони вирішують проблему, у них негайно виникають нові питання. Таким чином «…поет, якщо він справжній поет, повинен постійно повторювати собі «не знаю». Кожним своїм твором він намагається дати відповідь, але як тільки він закінчує писати, його вже охоплює сумнів, і він починає розуміти, що це тимчасова і зовсім недостатня відповідь...» І з «не знаю» два «короткі, але крилаті» слова, як вона сама їх визначає, народжується натхнення, з безперервного повторення їх собі, щоб не зупинятися на вже відомому і не сприймайте нічого як належне. І нарешті здивування: світ, за Шимборською, є дивовижним «величезним театром» «Але у визначенні «дивовижний» криється якась логічна пастка. Адже ми дивуємося тому, що відхиляється від якоїсь відомої і загальноприйнятої норми, від якоїсь очевидності, до якої ми звикли. Ну, такого очевидного світу взагалі не існує. Наше здивування існує саме по собі і не походить від жодного порівняння ні з чим [...] у мові поезії, в якій кожне слово має вагу, немає нічого звичайного і нормального». І вміння дивуватися супроводжуватиме її все життя; навіть будучи літньою жінкою, Шимборська завжди буде дивуватися дітям, які таким чином можуть бачити світ у його повноті. Здивування буде основною складовою її поезії. Тоді поезія є інструментом для розмови про надзвичайне у звичайному.

«Нема кінця моєму подиву, моєму мовчанню.
Слухай
як моє серце швидко б'ється«дивовижний».

Wszelki wypadek, 1972

У віршах Віслави Шимборської іронія також відіграє фундаментальну роль і, поєднана з конкретними образами, полегшує текст саме тоді, коли центром її поезій є великі питання та сенс існування, перетворюючи драму на посмішку. І є також меланхолія, яка походить, з одного боку, від історичних подій – вона пережила нацизм, комуністичний тоталітаризм – а з іншого – від страждань і втрат, з якими довелося зіткнутися в житті, однак в її творах не відчуваєш відчаю чи страждання. Крім того, в її творах не бракує злободенності та складової викриття того, що переживає світ, що вона завжди висловлює без риторики, простим і лінійним стилем, у вільному вірші. У В’єтнам (зі збірки Сто потіх, 1967) Шимборська виходить за межі історичного моменту, щоб досягти стану війни в будь-який час і в будь-якому місці. Сумніви, i багато «не знаю» набувають загальнолюдської цінності, а також єдиної певності: любов матері до дітей.

«Жінка, як тебе звати? — Не знаю.
Коли ти народилася, звідки ти? — Не знаю.
Навіщо ти вирила підземне лігво? — Не знаю.
Відколи ти тут ховаєшся? — Не знаю.
Чому ти вкусила мене за руку? — Не знаю.
Ти знаєш, що ми тобі нічого поганого не зробимо? — Не знаю.
На чиєму ти боці? — Не знаю.
Тепер війна, мусиш вибирати. — Не знаю.
А де твоє село? Не спалене? — Не знаю.
Чи то твої діти. — Так.»

Пам'ятник пам'яті Віслави Шимборської, Корник.

 

Jody Williams
Eleonora de Longis





Caori Murata

 

Jody Williams ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace 1997 ex-aequo con l’International Campaign to Ban Landmines (Icbl)

«per la sua azione a favore della messa al bando e dell’eliminazione delle mine antiuomo. Al momento attuale si valuta che almeno cento milioni di mine antiuomo sono sparse in larghe aree di più di un continente. Si tratta di ordigni tali da menomare e uccidere indiscriminatamente e rappresentano non solo una gravissima minaccia per le popolazioni civili, ma anche un ostacolo allo sviluppo economico e sociale di molti dei Paesi coinvolti. L’Icbl e Jody Williams hanno dato inizio a un processo che nello spazio di pochi anni ha fatto diventare la messa al bando delle mine da utopia, quale era, una prospettiva reale. La Convenzione che sarà firmata a Ottawa nel dicembre di quest'anno [1997 n.d.r.] è in gran parte il risultato del loro importante lavoro. Sono oltre mille le organizzazioni piccole e grandi affiliate nell’Icbl, che formano una rete attraverso la quale è stato possibile esprimere e veicolare una vasta e forte ondata di impegno popolare. Quando i governi di molti Paesi piccoli e medi hanno fatto proprie e portato avanti queste istanze, esse si sono trasformate in un concreto ed efficace progetto di pace. Il Comitato norvegese per il Nobel auspica che il processo che prenderà il via a Ottawa acquisisca un sostegno sempre più ampio. In quanto modello per analoghe esperienze future, si rivelerà decisivo per favorire gli impegni internazionali verso il disarmo e la pace».

Oslo, October 10, 1997

Una sintesi efficace della vita e dell’esperienza di Jody Williams la possiamo leggere nella premessa al suo libro autobiografico – My name is Jody Williams: A Vermont Girl's Winding Path to the Nobel Peace Prize – scritta con Eve Ensler, la ben nota autrice dei Monologhi della vagina:

«Jody Williams è molte cose: una ragazza del Vermont, la sorella di un ragazzo disabile, una moglie amorevole, una donna forte piena di impeto e di cattiveria, una grande stratega, una grande organizzatrice, una coraggiosa e instancabile avvocata, una vincitrice del Premio Nobel per la Pace. Per me è, innanzitutto e principalmente, una militante. Che cos’è una militante? Dice il dizionario: “sostenitrice particolarmente attiva ed energica di una causa, specialmente politica”. Nella mia personale accezione della parola – e credo che questo risalti chiaramente in questa ricca autobiografia – è militante chi non può fare a meno di battersi per una causa. Una persona che solitamente non è attratta dal potere o dal denaro o dalla notorietà, ma che quasi perde il lume della ragione di fronte a un’ingiustizia, a una violenza, a un abuso a tal punto da sentirsi costretta a reagire da una sorta di meccanismo morale interiore. Mi sono spesso chiesta in quale momento una persona diventa militante. Siamo nati con il gene della militanza e poi un evento o un episodio casuale lo attiva?».

Come mai di fronte alle iniquità compiute contro le persone amate, alcuni individui reagiscono e altri, invece, subiscono l’ingiustizia? Lo racconta senza retorica, con un linguaggio asciutto e lineare, la stessa Williams nella sua autobiografia.

Nasce a Poultney nel Vermont (Usa) il 9 ottobre 1950, seconda di cinque figli di una famiglia cattolica di sentimenti democratici: la sua infanzia è fortemente segnata dall’educazione religiosa ricevuta e dalle paure – del comunismo, dell’Unione Sovietica – indotte dal clima della guerra fredda. Una precoce sensibilità contro le ingiustizie viene suscitata in lei dalle condizioni del fratello maggiore sordo dalla nascita a causa della rosolia contratta dalla madre in gravidanza. La menomazione del ragazzo, progressivamente aggravatasi perché la situazione di disagio economico e culturale in cui versava la famiglia aveva impedito che fosse trattata adeguatamente, lo aveva reso vittima di abusi e prevaricazioni da parte di insegnanti e coetanei. Terminata la scuola superiore, Jody frequenta a Brattelboro – dove nel frattempo si era trasferita con la famiglia – la School for International Training, dedicandosi poi all’insegnamento dell’inglese e dello spagnolo, che la porterà nella primavera del 1976 in Messico, dove lavorerà per due anni. Sarà per Jody l’inizio di un forte interesse per le relazioni internazionali e, in particolare, per la politica degli Stati Uniti verso i Paesi dell’America centrale. Ritorna dal Messico intenzionata a proiettarsi in una dimensione di respiro “internazionale”, pensando che Washington D.C. avrebbe potuto soddisfare le sue aspirazioni. Decide infatti di stabilirvisi e trova un impiego prima come segretaria di un’agenzia di collocamento, poi come insegnante di inglese in una scuola agraria. Si rende ben presto conto che per realizzare le sue ambizioni ha bisogno di studi più qualificati e programma di iscriversi alla prestigiosa Johns Hopkins School of Advanced International Studies. Nel frattempo, entra casualmente in contatto con il Commettee in Solidarity with El Salvador (Cispes), nel periodo in cui nel Paese centroamericano, teatro di aspre lotte civili, viene ucciso l’arcivescovo Romero, che aveva preso aperta posizione contro la crescente ingerenza degli Stati Uniti. Mentre studia al Sais, Jody, contemporaneamente, si impegna nel Cispes che concentra le proprie attività nell’opposizione al coinvolgimento degli Stati Uniti a El Salvador e negli altri Paesi del Centroamerica, in un’escalation che assomiglia sempre più a quella compiuta nel Vietnam.

All’indomani della laurea alla Johns Hopkins School, Williams risponde a un annuncio per la partecipazione al Nicaragua-Honduras Education Project, al quale lavorerà dal 1984 al 1986. Alla chiusura del progetto, assorbito nell’alveo di un altro piano internazionale, Jody passa oltre cinque anni a El Salvador, occupata nel Medical Aid. Se le notizie della guerra del Vietnam erano state all’epoca la finestra sul mondo per la ragazza del Vermont, il soggiorno a El Salvador cambia il corso della vita di Jody e la immette sulla strada dell’impegno umanitario. Il lavoro in quei luoghi consisteva nell’individuare bambine e bambini che avevano subito una mutilazione per fatti bellici e organizzare il trasferimento loro e di un familiare – per lo più la madre – in ospedali statunitensi dove sarebbero stati curati, raccogliendo anche finanziamenti e donazioni per sovvenzionare il viaggio e la permanenza. All’inizio degli anni Novanta Jody, il cui impegno nella cura dell'infanzia salvadoregna aveva riscosso un ampio apprezzamento nell’ambito delle associazioni umanitarie, viene contattata per allestire con l’organizzazione tedesca Medico International, già sostenitrice di molti dei progetti di Medical Aid, e con la Vietnam Veterans of America Foundation, una campagna di sensibilizzazione dell'opinione pubblica mondiale finalizzata a impedire l'uso delle mine antiuomo. A partire dal 1992 si uniscono all’iniziativa numerose associazioni di personale sanitario, giuriste/i e altre figure professionali e Jody, coordinatrice della campagna, lavorerà indefessamente per diffondere la consapevolezza della peculiarità di un’arma che agisce e produce effetti devastanti ben oltre la fine dei combattimenti e, a differenza delle altre, non “torna a casa” a guerra finita insieme con gli eserciti, ma continua a colpire, uccidere, mutilare i civili, uomini, donne e bambine/i mentre svolgono le loro attività quotidiane. Jody prenderà parte a numerose conferenze e incontri in ogni parte del mondo e presso le organizzazioni internazionali, il Parlamento Europeo, le Nazioni Unite, le organizzazioni per l’unità africana. Scriverà inoltre molti contributi che approfondiscono gli aspetti sociali e le conseguenze economiche della presenza di mine antiuomo in vari Paesi.

Dalla metà degli anni 2000 Jody Williams si è dedicata in particolare alla Women’s Nobel Initiative, fondata da sei vincitrici di Nobel per la Pace: oltre a lei stessa, Shirin Ebadi, Wangari Maathai, Rigoberta Menchú, Mairead Maguire e Betty Williams. È pure a capo della fondazione della Città della Pace in Basilicata, nata dalla volontà di Betty Williams, scomparsa nel 2020; in occasione del suo soggiorno a Potenza si è espressa sulla situazione politica attuale e sulla guerra in Ucraina. In una intervista a Repubblica (24 maggio 2022) ha affermato: «La Fondazione Città della Pace ha accolto dal 2012 a oggi oltre 900 rifugiati che provengono da 30 Paesi. Di questi, più di 350 sono bambini con le loro famiglie e minori stranieri non accompagnati. Secondo il modello dell'accoglienza diffusa, sono ospitati in piccoli centri della Basilicata, garantendo loro un percorso di integrazione che coinvolge le comunità locali in un processo collettivo di crescita. «Cominciamo a cambiare il futuro dalle nostre comunità, insieme ai rifugiati" è lo slogan della Fondazione». Ha anche ricordato il percorso che la portò al Nobel: «Cominciammo con una persona: me. Siamo arrivati a coinvolgere 19 Paesi e organizzazioni, inclusa l'Italia, che attivò una mobilitazione incredibile. Insieme, la società civile, il comitato internazionale Croce rossa e altre organizzazioni abbiamo raggiunto questo obiettivo. Non significa che abbiamo cambiato il mondo, ma abbiamo fatto vedere come questo sia possibile». Ma ― avverte ― dobbiamo prepararci perché il cambiamento climatico e le crisi politiche in corso porteranno certamente una crisi alimentare globale e un flusso migratorio enorme; il suo impegno perciò resta più attivo che mai.


Traduzione francese

Guenoah Mroue

Jody Williams a reçu le Prix Nobel de la Paix 1997 ex aequo avec l’International Campaign to Ban Landmines (ICBL)

«pour son action en faveur de l’interdiction et de l’élimination des mines antipersonnel. Actuellement, on estime qu’au moins cent millions de mines antipersonnel sont disséminées dans de larges zones de plus d’un continent. Ces engins sont de nature à mutiler et à tuer sans discernement et représentent non seulement une menace très grave pour les populations civiles, mais aussi un obstacle au développement économique et social de nombreux pays concernés. L’ICBL et Jody Williams ont initié un processus qui, en l’espace de quelques années, a fait de l’interdiction des mines une utopie telle qu’elle était, une perspective réelle. La Convention qui sera signée à Ottawa en décembre de cette année [1997 n.d.r.] est en grande partie le résultat de leur important travail. Plus d’un millier de petites et grandes organisations affiliées à l’ICBL forment un réseau à travers lequel il a été possible d’exprimer et de véhiculer une vaste et forte vague d’engagement populaire. Quand les gouvernements de nombreux pays petits et moyens ont fait siennes et portées en avant ces instances, elles se sont transformées en un projet concret et efficace de paix. Le Comité Nobel norvégien espère que le processus d’Ottawa sera de plus en plus soutenu. En tant que modèle pour des expériences analogues futures, il se révélera décisif pour favoriser les engagements internationaux vers le désarmement et la paix».

Oslo, October 10, 1997

Un résumé efficace de la vie et de l’expérience de Jody Williams peut être lu dans le préambule de son livre autobiographique - My name is Jody Williams : A Vermont Girl’s Winding Path to the Nobel Peace Prize - écrit avec Eve Ensler, la célèbre auteur des Monologues du vagin:

«Jody Williams est: une fille du Vermont, la sœur d’un garçon handicapé, une épouse aimante, une femme forte pleine de fougue et de méchanceté, une grande stratège, une grande organisatrice, une avocate courageuse et infatigable, une lauréate du prix Nobel de la paix. Pour moi, elle est avant tout une militante. Qu’est-ce qu’une militante ? Le dictionnaire dit : "partisane particulièrement active et énergique d’une cause, spécialement politique". Dans mon sens personnel de la parole - et je crois que cela ressort clairement dans cette riche autobiographie - est militant celui qui ne peut s’empêcher de se battre pour une cause. Une personne qui n’est généralement pas attirée par le pouvoir ou l’argent ou la notoriété, mais qui perd presque la lumière de la raison face à une injustice, à une violence, à un abus au point de se sentir obligée de réagir par une sorte de mécanisme moral intérieur. Je me suis souvent demandé à quel moment une personne devient militante. Nous sommes nés avec le gène du militantisme et puis un événement ou un épisode aléatoire l’active?».

Comment se fait-il que face aux iniquités commises contre les personnes aimées, certains individus réagissent et d’autres, au contraire, subissent l’injustice? ElleIl le raconte sans rhétorique, avec un langage sec et linéaire, Williams elle-même dans son autobiographie.

Elle naît à Poultney dans le Vermont (USA) le 9 octobre 1950, deuxième d’une famille catholique de sentiments démocratiques : son enfance est fortement marquée par l’éducation religieuse reçue et par les peurs - du communisme, de l’Union soviétique - induites par le climat de la guerre froide. Une sensibilité précoce contre les injustices est suscitée en elle par l’état du frère aîné sourd de naissance à cause de la rubéole contractée par la mère enceinte. Le handicap du garçon, qui s’est progressivement aggravé parce que la situation de malaise économique et culturel dans laquelle se trouvait la famille l’avait empêché d’être traitée de manière adéquate, l’avait rendu victime d’abus et de prévarications de la part d’enseignants et de pairs. Après avoir terminé ses études secondaires, Jody fréquente à Brattelboro - où elle a déménagé avec sa famille - la School for International Training, se consacrant ensuite à l’enseignement de l’anglais et de l’espagnol, qui l’amènera au printemps 1976 au Mexique, où elle travaillera deux ans. Ce sera pour Jody le début d’un vif intérêt pour les relations internationales et, en particulier, pour la politique des États-Unis envers les pays d’Amérique centrale. Elle revient du Mexique avec l’intention de se projeter dans une dimension de souffle "international", en pensant que Washington D.C. aurait pu satisfaire ses aspirations. Elle décide de s’y installer et trouve un emploi d’abord comme secrétaire d’une agence de placement, puis comme professeur d’anglais dans une école agricole. Elle se rend vite compte que pour réaliser ses ambitions, elle a besoin d’études plus qualifiées et d’un programme d’inscription à la prestigieuse Johns Hopkins School of Advanced International Studies. Entre-temps, elle entre accidentellement en contact avec le Commettee in Solidarity with El Salvador (Cispes), au moment où, dans le pays d’Amérique centrale, théâtre de violentes luttes civiles, l’archevêque Romero est tué, qui avait pris ouvertement position contre l’ingérence croissante des États-Unis. Tout en étudiant à Sais, Jody, en même temps, s’engage dans le Cispes qui concentre ses activités dans l’opposition à l’implication des États-Unis au Salvador et dans d’autres pays d’Amérique centrale, dans une escalade qui ressemble de plus en plus à celle du Vietnam.

Au lendemain de son diplôme de la Johns Hopkins School, Williams répond à une annonce de participation au Nicaragua-Honduras Education Project, auquel elle travaillera de 1984 à 1986. À la clôture du projet, absorbé dans le cadre d’un autre plan international, Jody passe plus de cinq ans à El Salvador, occupée dans le Medical Aid. Si les nouvelles de la guerre du Vietnam avaient été à l’époque la fenêtre sur le monde pour la fille du Vermont, le séjour au Salvador change le cours de la vie de Jody et l’engage dans la voie de l’engagement humanitaire. Le travail dans ces lieux consistait à identifier les filles et les garçons qui avaient subi une mutilation pour des faits de guerre et à organiser leur transfert ainsi qu’un membre de la famille - principalement la mère - dans des hôpitaux américains où ils seraient soignés, en collectant également des fonds et des dons pour financer le voyage et le séjour. Au début des années Quatre-vingt-dix, Jody, dont l’engagement dans la garde de l’enfance salvadorienne avait été largement apprécié au sein des associations humanitaires, est contactée pour mettre en place avec l’organisation allemande Medico International, e a déjà soutenu de nombreux projets de Medical Aid, et avec la Vietnam Veterans of America Foundation, une campagne de sensibilisation de l’opinion publique mondiale visant à empêcher l’utilisation des mines antipersonnel. A partir de 1992, de nombreuses associations de personnel de santé, juristes et autres professionnels de la santé et Jody, coordinatrice de la campagne, se joignent à l’initiative, travaillera sans relâche pour sensibiliser à la particularité d’une arme qui agit et produit des effets dévastateurs bien au-delà de la fin des combats et, contrairement aux autres, elle ne "rentre pas chez elle à la guerre finie avec les armées, mais continue à frapper, tuer, mutiler les civils, hommes, femmes et fillettes tout en accomplissant leurs activités quotidiennes. Jody prendra part à de nombreuses conférences et rencontres dans le monde entier et auprès des organisations internationales, le Parlement européen, les Nations Unies, les organisations pour l’unité africaine. Elle écrira également de nombreuses contributions qui approfondissent les aspects sociaux et les conséquences économiques de la présence de mines antipersonnel dans différents pays.

Depuis le milieu des années 2000, Jody Williams se consacre en particulier à la Women’s Nobel Initiative, fondée par six lauréates du prix Nobel de la Paix : Shirin Ebadi, Wangari Maathai, Rigoberta Menchú, Mairead Maguire et Betty Williams. Elle est également à la tête de la fondation de la Cité de la Paix en Basilicate, née de la volonté de Betty Williams, disparue en 2020; à l’occasion de son séjour à Potenza, elle s’est exprimée sur la situation politique actuelle et sur la guerre en Ukraine. Dans une interview à Repubblica (24 mai 2022), elle a déclaré : «La Fondazione Città della Pace a accueilli depuis 2012 plus de 900 réfugiés provenant de 30 pays. Parmi eux, plus de 350 sont des enfants avec leurs familles et des mineurs étrangers non accompagnés. Selon le modèle de l’accueil diffus, ils sont hébergés dans de petits centres de la Basilicate, leur garantissant un parcours d’intégration qui implique les communautés locales dans un processus collectif de croissance. «Nous commençons à changer l’avenir de nos communautés, avec les réfugiés" est le slogan de la Fondation». Elle a également rappelé le chemin qui l’a amenée au Prix Nobel : «Nous avons commencé avec une personne : moi. Nous sommes arrivés à impliquer 19 pays et organisations, dont l’Italie, qui a déclenché une mobilisation incroyable. Ensemble, la société civile, le Comité international de la Croix-Rouge et d’autres organisations ont atteint cet objectif. Cela ne signifie pas que nous avons changé le monde, mais nous avons fait voir comment cela est possible». Mais nous devons nous préparer à ce que le changement climatique et les crises politiques actuelles entraînent certainement une crise alimentaire mondiale et un flux migratoire énorme; son engagement reste donc plus actif que jamais.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Jody Williams was awarded the 1997 Nobel Peace Prize on an equal footing with the International Campaign to Ban Landmines (ICBL)

«for their work to ban and eliminate landmines. At the present time it is estimated that at least one hundred million landmines are scattered over large areas of more than one continent. These devices are such that they maim and kill indiscriminately and pose not only a very serious threat to civilian populations, but also an obstacle to the economic and social development of many of the countries involved. The ICBL and Jody Williams began a process that in the space of a few years has changed banning landmines from a utopia, which it was, to a real prospect. The Convention to be signed in Ottawa in December of this year [1997 ed.] is largely the result of their important work. There are over a thousand small and large organizations affiliated in the ICBL, forming a network through which it has been possible to express and convey a vast and strong wave of popular commitment. When the governments of many small and medium-sized countries have taken up and carried forward these demands, they have been transformed into a concrete and effective peace project. The Norwegian Nobel Committee hopes that the process that will kick off in Ottawa will gain increasingly broad support. As a model for similar future experiences, it will prove decisive in furthering international commitments to disarmament and peace».

Oslo, October 10, 1997

An effective summary of Jody Williams' life and experience can be read in the foreword to her autobiographical book - My Name is Jody Williams: A Vermont Girl's Winding Path to the Nobel Peace Prize. The foreword, written by Eve Ensler, the well-known author of The Vagina Monologues, reads:

«Jody Williams is many things: a Vermont girl, the sister of a disabled boy, a loving wife, a strong woman full of impetus and nastiness, a great strategist, a great organizer, a courageous and tireless advocate, a Nobel Peace Prize winner. To me she is, first and foremost, a militant. What is a militant? The dictionary says: ‘a particularly active and energetic advocate of a cause, especially a political one.’ In my personal understanding of the word - and I think this stands out clearly in this rich autobiography - a militant is someone who cannot help but fight for a cause. A person who is usually not attracted to power or money or notoriety, but who almost loses his or her wits when faced with injustice, violence, or abuse to such an extent that he or she feels compelled to react by some sort of inner moral mechanism. I have often wondered at what point a person becomes militant. Are we born with the militancy gene and then a random event or episode activates it?»

Why is it that when faced with injustices done against loved ones, some individuals react and others, instead, submit to the injustice? Williams herself asks this without rhetoric, in dry, straightforward language, in her autobiography.

She was born in Poultney, Vermont, USA, on October 9, 1950, the second of five children in a Catholic family of democratic sentiments. Her childhood was strongly marked by the religious upbringing she received and the fears - of communism, of the Soviet Union - induced by the climate of the Cold War. An early sensitivity against injustice was aroused in her by the condition of her older brother who had been deaf since birth due to rubella contracted by his mother during pregnancy. The boy's impairment, which had progressively worsened because the family's economic and cultural hardships had prevented it from being properly treated, had made him a victim of abuse and bullying by teachers and peers. After finishing high school, Jody attended the School for International Training in Brattleboro, Vermont, where she had meanwhile moved with her family. She then devoted herself to teaching English and Spanish, which would take her in the spring of 1976 to Mexico, where she worked for two years. It became the beginning of a strong interest for Jody in international relations and, in particular, in U.S. policy toward Central American countries. She returned from Mexico intending to project herself into a dimension of "international" scope, thinking that Washington, D.C. could fulfill her aspirations. She decided to settle there and found employment first as a secretary in an employment agency, then as an English teacher in an agricultural school. She soon understood that to realize her ambitions she needed more qualified studies and planned to enroll in the prestigious Johns Hopkins School of Advanced International Studies (SAIS). In the meantime, she accidentally came into contact with the Committee in Solidarity with the People of El Salvador (CISPES) at a time when Archbishop Romero, who had taken an open stand against growing U.S. interference, was killed in the Central American country, the scene of bitter civil strife. While studying at the SAIS, Jody simultaneously became involved in CISPES, which focused its activities on opposing U.S. involvement in El Salvador and other Central American countries in an escalation that increasingly resembled that carried out in Vietnam.

In the aftermath of her graduation from the Johns Hopkins School, Williams responded to an advertisement for participation in the Nicaragua-Honduras Education Project, on which she worked from 1984 to 1986. When the project closed, absorbed into the fold of another international plan, Jody spent more than five years in El Salvador, employed in Medical Aid. If news of the Vietnam War had been the window on the world for the Vermont girl at the time, the stay in El Salvador changed the course of Jody's life and set her on the road to humanitarian engagement. The work there consisted of identifying girls and children who had been mutilated by war-related events and arranging for them and a family member – most often their mother - to be transferred to U.S. hospitals where they would be treated, while also raising funding and donations to subsidize the trip and stay. In the early 1990s, Jody, whose commitment to Salvadoran child care had been widely appreciated in the humanitarian arena, was approached to set up with the German organization Medico International, already a supporter of many of Medical Aid's projects, and the Vietnam Veterans of America Foundation, a worldwide public awareness campaign aimed at preventing the use of landmines. Starting in 1992, numerous associations of medical personnel, lawyers and other professionals joined the initiative, and Jody, coordinator of the campaign, worked tirelessly to spread awareness of the particular nature of a weapon that acts and produces devastating effects well after the end of combat and, unlike the others, does not "come home" at the end of the war along with the armies, but continues to strike, kill, and maim civilians, men, women and children as they go about their daily activities. Jody took part in many conferences and meetings in all parts of the world and at international organizations, the European Parliament, the United Nations, and the Organizations for African Unity. She also wrote many contributions that delve into the social aspects and economic consequences of the presence of landmines in various countries.

Since the mid-2000s Jody Williams has been particularly dedicated to the Women's Nobel Initiative, founded by six Nobel Peace Prize winners: in addition to herself, Shirin Ebadi, Wangari Maathai, Rigoberta Menchú, Mairead Maguire, and Betty Williams. She is also the head of the City of Peace Foundation in Basilicata, established by the will of Betty Williams, who passed away in 2020. During her stay in Potenza she spoke on the current political situation and the war in Ukraine. In an interview with Repubblica (May 24, 2022), she said, "The City of Peace Foundation has welcomed more than 900 refugees from 30 countries since 2012. Of these, more than 350 are children with their families and unaccompanied foreign minors. According to the model of widespread reception, they are hosted in small towns in Basilicata, guaranteeing them a path of integration that involves local communities in a collective process of growth. «Let's start changing the future from our communities, together with refugees' is the slogan of the Foundation.» She also recalled the path that led her to the Nobel - «We started with one person: me. We came to involve 19 countries and organizations, including Italy, which activated an incredible mobilization. Together with civil society, the International Committee Red Cross and other organizations we achieved this goal. It doesn't mean we have changed the world, but we have shown how it is possible.” But, she warns, "we must prepare ourselves because climate change and ongoing political crises will certainly bring a global food crisis and a huge flow of migration». Her commitment therefore remains more active than ever.


Traduzione spagnola

Erika Incatasciato

Jody Williams recibió el Premio Nobel de la Paz en 1997 ex-aequo con la Campaña Internacional para la Prohibición de las Minas Terrestres (International Campaign to Ban Landmines - ICBL):

«[…] por su acción en favor de la prohibición y la eliminación de las minas antipersonas. En la actualidad, se calcula que al menos cien millones de minas antipersonas están diseminadas por amplias zonas de más de un continente. Se trata de artefactos capaces de mutilar y matar indiscriminadamente y representan no solo una amenaza terrible para la población civil, sino también un obstáculo para el desarrollo económico y social de muchos de los países implicados. La ICBL y Jody Williams iniciaron el proceso que en unos pocos años ha hecho que la prohibición de las minas pase de ser una utopía, como era, a una perspectiva real. La convención que se firmóra en Ottawa en diciembre de este año [1997 NDR], en gran medida, es el resultado de su importante labor. Hay más de mil organizaciones pequeñas y grandes afiliadas a la ICBL, que forman una red a través de la cual se ha expresado y trasmitido una vasta y fuerte oleada de compromiso popular. En cuanto los gobiernos de muchos países pequeños y medianos asumieron y llevaron adelante estas solicitudes, se transformaron en un proyecto de paz concreto y eficaz. El Comité Noruego del Nobel espera que el proceso que se iniciara en Ottawa obtenga un apoyo cada vez más amplio. Como modelo para experiencias futuras similares, dicho proyecto, resultará decisivo para impulsar los compromisos internacionales del desarme y la paz. Oslo, 10 de Octubre de 1997».

Un eficaz resumen de la vida y la experiencia de Jody Williams puede leerse en el prólogo de su libro autobiográfico: My Name is Jody Williams: A Vermont Girl’s Winding Path to the Nobel Peace Prize (cuya traducción en español sería Mi nombre es Jody Williams: El Sinuoso camino de una Chica del Vermont hacia el Premio Nobel de la Paz) – escrito con Eve Ensler, la conocida autora de los Monólogos de la vagina:

«Jody Williams es muchas cosas: una chica del Vermont, la hermana de un chico discapacitado, una esposa cariñosa, una mujer fuerte llena de ímpetu y malicia, una gran estratega, una gran organizadora, una valiente e incansable defensora, una ganadora del Premio Nobel de la Paz. Para mí, ante todo, es una militante. ¿Qué es una militante? El diccionario dice: “partidaria particularmente activa y enérgica de una causa, especialmente política”. En mi interpretación personal de la palabra –y creo que esto se destaca claramente en esta rica autobiografía–, una militante es alguien que no puede evitar luchar por una causa. Una persona que no suele sentirse atraída por el poder, el dinero o la notoriedad, sino que casi pierde la cabeza cuando se enfrenta a una injusticia, a una violencia o un abuso hasta que se siente obligada a reaccionar por una especie de mecanismo moral interior. A menudo me he preguntado en qué momento una persona se convierte en militante. ¿Nacemos con el gen de la militancia y luego un suceso o episodio aleatorio lo activa?».

¿Por qué ante las iniquidades cometidas contra los seres queridos, unos reaccionan y otros sufren las injusticias? La propria Williams lo cuenta sin retórica, con un lenguaje seco y directo, en su autobiografía.

Nace en Poultney en el Vermont (EEUU) el 9 de octubre del 1950, la segunda de cinco hermanos en una familia católica de sentimientos demócratas: su infancia está fuertemente marcada por la educación religiosa que recibió y los temores –al comunismo; a la Unión Soviética– inducidos por el clima de la Guerra Fría. Una temprana sensibilidad contra las injusticias se despertó en ella por la condición de su hermano mayor, sordo de nacimiento debido a la rubéola contraída por su madre durante el embarazo. La discapacidad del niño que se había agravado progresivamente porque la situación de penuria económica y cultural de la familia había impedido tratarlo adecuadamente, le había convertido en víctima de abusos y prevaricaciones por parte de profesores y compañeros. Al terminar el bachillerado, Jody atiende en Brattelboro –donde entretanto se había traslado con su familia– la Escuela de Formación Internacional, dedicándose más tarde a la enseñanza de la lengua inglesa y española, que la llevó en México en la primavera de 1976, donde trabajará durante dos años. Para Jody, será el comienzo de un gran interés por las relaciones internacionales y, especialmente, por la política estadounidense hacia los países centroamericanos. Regresa de México con la intención de proyectarse en una dimensión de gusto “internacional”, pensando que Washington DC podría colmar sus aspiraciones. Decide instalarse allí y encuentra trabajo primero como secretaria en una agencia de empleo, luego como profesora de inglés en una escuela agrícola. Pronto se da cuenta de que para realizar sus ambiciones necesita estudios más cualificados y piensa en inscribirse en la prestigiosa School of Advanced International Studies (SAIS, en español Escuela de Estudios Internacionales Avanzados) de la Universidad John Hopkins. Mientras tanto, se pone accidentalmente en contacto con el Comité de solidaridad con El Salvador (ICBL), en un momento en que el arzobispo Romero, que había adoptado una postura abierta contra la creciente injerencia de los Estados Unidos, era asesinado en el país centroamericano, escenario de amargos enfrentamientos civiles. Mientras ella estudiaba en la SAIS, Jody se involucró en el Cispes que centraba sus actividades frente a las implicaciones de los Estados Unidos en El Salvador y en otros países centroamericanos, en una escalada que cada vez más se parecía a la del Vietnam.

Tras graduarse en la John Hopkins, Williams responde a un anuncio para participar en el Proyecto Educación de Nicaragua-Honduras, en el que trabajará de 1984 a 1986. Cuando terminó el Proyecto, absorbida por otro plan internacional, Jody pasó más de cinco años en El Salvador, empleada en la “Ayuda Médica para El Salvador”. Si las noticias de la guerra de Vietnam habían sido una ventana sobre el mundo para la chica del Vermont, su estancia en El Salvador cambió el curso de la vida de Jody y la encaminó hacia el compromiso humanitario. El trabajo allí consistía en identificar a niños y niñas que habían sufrido mutilaciones relacionadas con la guerra y organizar su traslado y el de un familiar –principalmente la madre– a hospitales estadounidenses donde recibirían tratamientos, incluso recaudando fondos y donaciones para subvencionar los viajes y las estancias. Al principio de los años Noventa, la organización alemana “Medico Internacional”, que ya apoyaba muchos de los proyectos de la “Ayuda Médica”, y la fundación de los Veteranos de Vietnam contactaron a Jody, cuyo compromiso con la atención de los niños salvadoreños había sido ampliamente aclamado en la comunidad humanitaria, para poner en marcha una campaña de sensibilización de la opinión pública mundial destinada a prevenir el uso de minas antipersonas. Desde 1992, numerosas asociaciones de personal médico, juristas y otro tipo de profesionales se unieron a la iniciativa, y Jody, coordinadora de la campaña, trabajará incansablemente para dar a conocer la peculiaridad de un arma que actúa y produce efectos devastadores mucho después del final de los combates y que, a diferencia de las demás, no “vuelve a casa” al final de la guerra junto con los ejércitos, sino que sigue golpeando, matando, mutilando a civiles, hombres, mujeres, niñas/niños durante sus actividades diarias. Jody participará en numerosas conferencias y reuniones en todo el mundo y en organizaciones internacionales, el Parlamento Europeo, las Naciones Unidas y organizaciones para la unidad africana. También escribirá muchas contribuciones que profundizan los aspectos sociales y las repercusiones económicas de la presencia de minas antipersonas en diversos países.

Desde mediados de los años 2000, Jody Williams se ha dedicado especialmente a la iniciativa de las Mujeres Nobel, fundada por seis ganadoras del Premio Nobel de la Paz, además de ella misma, Shirin Ebadi, Wangari Maathai, Rigoberta Menchú, Mairead Maguire y Betty Williams. También dirige la fundación de la Ciudad de la Paz en Basilicata, establecida por Betty Williams, fallecida en 2020; durante su estancia en Potenza, comentó la situación política actual y la guerra en Ucrania. En una entrevista con el periódico italiano «Republica» (24 de mayo 2022) afirmó que: «Desde 2012, la Fundación de la Ciudad de la Paz ha acogido a más de 900 refugiados llegados de 30 países. De ellos, más de 350 son niños con familias y menores extranjeros no acompañados. Según el programa de acogida extendido, están alojados en pequeños centros de la Basilicata, garantizándoles un camino de integración que implica a las comunidades locales en un proceso colectivo de crecimiento. «Empecemos a cambiar el futuro de nuestras comunidades junto con los refugiados” es el lema de la Fundación». También recordó el camino que la llevó al Premio Nobel «Empezamos con una persona: yo. Llegamos a implicar 19 países y organizaciones, incluída Italia, lo que desencadenó una movilización increíble. Juntos, la sociedad civil, el Comité Internacional de la Cruz Roja y otras organizaciones, conseguimos este objetivo. No significa que hayamos cambiado el mundo, pero hemos demostrado que es posible». Sin embargo –advierte– tenemos que prepararnos ya que el cambio climático y las crisis políticas en curso traerán sin duda una crisis alimentaria mundial y un enorme flujo migratorio; por lo tanto, su compromiso sigue tan activo como siempre. En 2017 firmó el manifiesto Let Catalan Vote a favor del derecho del pueblo catalán a votar sobre su futuro político.


Traduzione ucraina

Alina Petelko

Джоді Вільямс був удостоєний Нобелівської премії миру 1997 року ex-aequo разом з Міжнародною кампанією по забороні протипіхотних мін (Icbl):

«за його діяльність на користь заборони та ліквідації протипіхотних мін". Наразі оцінюється, що щонайменше сто мільйонів протипіхотних мін розкидані на великих територіях більш ніж одного континенту. Ці пристрої калічать і вбивають без розбору і становлять не лише дуже серйозну загрозу цивільному населенню, але й перешкоду для економічного і соціального розвитку багатьох країн, до яких вони застосовуються. Icbl та Джоді Вільямс ініціювали процес, який за кілька років перетворив заборону мін з утопії на реальну перспективу. Конвенція, яка буде підписана в Оттаві в грудні цього року [1997 р.], значною мірою є результатом їхньої важливої роботи. Понад тисяча малих і великих організацій, пов'язаних з ICBL, утворюють мережу, через яку виражається і передається широка і сильна хвиля народної прихильності. Коли уряди багатьох малих і середніх країн підхопили і продовжили ці вимоги, вони трансформувалися в конкретний і ефективний мирний проект. Норвезький Нобелівський комітет сподівається, що процес, який розпочнеться в Оттаві, отримає дедалі ширшу підтримку. Як модель для подібного досвіду в майбутньому, він матиме вирішальне значення для просування міжнародних зобов'язань щодо роззброєння і миру. »

Oslo, October 10, 1997

Ефективний підсумок життя та досвіду Джоді Вільямс можна прочитати у передмові до її автобіографічної книги "Мене звуть Джоді Вільямс: звивистий шлях дівчини з Вермонта до Нобелівської премії миру", написаної у співавторстві з Євою Енслер, відомою авторкою "Монологів вагіни":

«Джоді Вільямс - це багато чого: дівчинка з Вермонта, сестра хлопчика-інваліда, любляча дружина, сильна жінка, сповнена пориву і пустощів, великий стратег, чудовий організатор, мужній і невтомний захисник, лауреат Нобелівської премії миру. Для мене вона, в першу чергу, бойовик. Що таке бойовик? У словнику сказано: "особливо активний і енергійний прихильник якої-небудь справи, особливо політичної". У моєму особистому розумінні цього слова - і я думаю, що це чітко простежується в цій багатій автобіографії - бойовик - це той, хто не може не боротися за ідею. Людина, яку зазвичай не приваблюють ні влада, ні гроші, ні слава, але яка майже втрачає розум, коли стикається з несправедливістю, насильством, зловживанням до такої міри, що відчуває себе змушеною реагувати якимось внутрішнім моральним механізмом. Я часто задавався питанням, в який момент людина стає войовничою. Чи ми народжуємося з геном войовничості, а потім випадкова подія чи епізод його активує?».

Чому, стикаючись з беззаконнями, вчиненими проти близьких, одні реагують, а інші терплять несправедливість? Про це без риторики, сухою і прямою мовою розповідає сама Вільямс у своїй автобіографії.

Народилася 9 жовтня 1950 року в м. Поултні, штат Вермонт (США), другою з п'яти дітей у католицькій родині з демократичними настроями: її дитинство було сильно позначене релігійним вихованням та страхами - перед комунізмом, Радянським Союзом - викликаними атмосферою холодної війни. Рання чутливість до несправедливості була викликана станом її старшого брата, який був глухим від народження через краснуху, перенесену його матір'ю під час вагітності. Порушення здоров'я хлопчика, яке прогресивно погіршувалося через економічні та культурні труднощі сім'ї, що перешкоджали його адекватному лікуванню, зробило його жертвою жорстокого поводження та знущань з боку вчителів та однолітків. Після закінчення середньої школи Джоді навчалася в Школі міжнародної підготовки в Браттельборо, куди вона переїхала з родиною, а потім присвятила себе викладанню англійської та іспанської мов, що навесні 1976 року привело її до Мексики, де вона працювала протягом двох років. Для Джоді це стало початком стійкого інтересу до міжнародних відносин і, зокрема, політики США щодо країн Центральної Америки. Вона повертається з Мексики з наміром проектувати себе в "міжнародному" вимірі, вважаючи, що Вашингтон може задовольнити її прагнення. Вона вирішила оселитися там і влаштувалася спочатку секретарем в агентстві з працевлаштування, потім викладачем англійської мови в сільськогосподарському училищі. Незабаром вона розуміє, що для реалізації своїх амбіцій їй необхідне більш кваліфіковане навчання і планує вступити до престижної Школи передових міжнародних досліджень ім. Джона Хопкінса. У той же час він випадково контактував з Комітетом солідарності з Сальвадором (Cispes) в той час, коли в цій центральноамериканській країні, яка є ареною запеклого громадянського протистояння, було вбито архієпископа Ромеро, який займав відкриту позицію проти посилення втручання США. Навчаючись в Саїсі, Джоді, в той же час, долучилася до організації Cispes, яка зосередила свою діяльність на протидії втручанню США в Сальвадор та інші країни Центральної Америки, ескалації, яка все більше нагадувала в'єтнамську.

Після закінчення Школи Джона Хопкінса Вільямс відгукнулася на оголошення про участь в освітньому проекті Нікарагуа-Гондурас, над яким вона працювала з 1984 по 1986 рік. Коли проект закрився, поглинутий іншим міжнародним планом, Джоді провела більше п'яти років в Сальвадорі, працюючи в організації "Медична допомога". Якщо новини про війну у В'єтнамі були вікном у світ для дівчини з Вермонта в той час, то перебування в Сальвадорі змінило хід життя Джоді і поставило її на шлях гуманітарної роботи. Робота там полягала у виявленні дівчат і дітей, які зазнали каліцтв, пов'язаних з війною, та організації переправлення їх і членів їхніх родин, переважно матері, до лікарень США, де вони проходили лікування, а також у зборі коштів і пожертвувань для субсидування їхньої подорожі та перебування в лікарні. На початку 1990-х років Джоді, чия відданість справі опіки над сальвадорськими дітьми отримала широке визнання в середовищі гуманітарних асоціацій, було запропоновано започаткувати разом з німецькою організацією "Медіко Інтернешнл", яка вже підтримувала багато проектів "Медичної допомоги", та Американською фундацією ветеранів В'єтнаму всесвітню кампанію з інформування громадськості щодо запобігання використанню протипіхотних мін. З 1992 року до ініціативи приєдналися численні асоціації медичних працівників, юристів та інших фахівців, а координатор кампанії Джоді невтомно працюватиме над поширенням інформації про особливу природу зброї, яка діє і спричиняє руйнівні наслідки ще довго після закінчення бойових дій і, на відміну від інших, не "повертається додому" разом з арміями після закінчення війни, а продовжує вражати, вбивати, калічити цивільне населення, чоловіків, жінок і дітей, коли вони займаються своїми повсякденними справами. Джоді візьме участь у багатьох конференціях та зустрічах по всьому світу, а також у міжнародних організаціях, Європейському Парламенті, Організації Об'єднаних Націй, Організації Африканської Єдності. Вона також напише багато статей, які досліджують соціальні аспекти та економічні наслідки присутності наземних мін у різних країнах.

З середини 2000-х років Джоді Вільямс присвятила себе, зокрема, Жіночій Нобелівській ініціативі, заснованій шістьма лауреатами Нобелівської премії миру: окрім неї, Ширін Ебаді, Вангарі Маатаї, Рігоберта Менчу, Майред Магуайр та Бетті Вільямс. Вона також є головою фундації "Місто миру" в Базилікаті, народженої за заповітом Бетті Вільямс, яка відійшла у вічність у 2020 р. Під час перебування в Потенці вона прокоментувала поточну політичну ситуацію та війну в Україні. В інтерв'ю Repubblica (24 травня 2022 року) вона сказала: "Фонд "Місто миру" з 2012 року прийняв понад 900 біженців з 30 країн світу. З них понад 350 - діти з сім'ями та неповнолітні іноземці без супроводу дорослих. Відповідно до моделі широкого прийому, їх приймають у невеликих містечках Базилікати, гарантуючи їм шлях інтеграції, який залучає місцеві громади до колективного процесу зростання. «Почнемо змінювати майбутнє з наших громад, разом з біженцями" - гасло Фонду». Вона також згадала шлях, який привів її до Нобелівської премії: «Ми починали з однієї людини - з мене. Нам вдалося залучити 19 країн та організацій, в тому числі Італію, яка провела неймовірну мобілізацію. Спільними зусиллями громадянського суспільства, Міжнародного Комітету Червоного Хреста та інших організацій ми досягли цієї мети. Це не означає, що ми змінили світ, але ми показали, як це можливо». Але, - попереджає він, - ми повинні підготуватися, оскільки зміна клімату і триваючі політичні кризи неодмінно призведуть до глобальної продовольчої кризи і величезного міграційного потоку; тому його прихильність залишається такою ж активною, як і раніше.

 

Shirin Ebadi
Elisabetta Uboldi





Laura Zernik

 

Shirin Ebadi è una giudice e avvocata iraniana vincitrice del Premio Nobel per la Pace nell’anno 2003, per i suoi sforzi a favore della democrazia e del rispetto dei diritti umani. È stata la prima donna musulmana a ricevere tale riconoscimento. Gravemente minacciata dal governo iraniano, ora vive in esilio in Europa. Il ritorno nel suo Paese d’origine costituirebbe per lei una condanna al carcere o, peggio, a morte.

Nasce ad Hamadan il 21 giugno 1947, cresce a Teheran dove frequenta la facoltà di Giurisprudenza e partecipa agli esami per diventare magistrata. Nel 1971 ottiene anche il dottorato in Diritto privato e dal 1975 al 1979 ricopre la carica di presidente di una sezione del Tribunale nella capitale. Con la rivoluzione islamica del 1979 e la caduta dello scià, si vede disconoscere, in quanto donna, il ruolo di giudice e le viene permesso di lavorare in tribunale solo come impiegata. Qualche anno più tardi le verrà concesso di esercitare l’avvocatura.

Sposata e madre di due figlie, ha sempre rifiutato di lasciare l’Iran ed è stata più volte minacciata di morte. Come racconta in uno dei suoi libri, i biglietti lasciati dai suoi oppositori erano sempre dello stesso tenore: «se continui così saremo costretti a porre fine alla tua vita». Nonostante le minacce neanche troppo velate, Shirin Ebadi continua a lottare per i diritti di donne, prigioniere/i politici e minori. L’Iran è uno dei pochi Paesi che ancora commina condanne a morte a minorenni: nel 2004 una sedicenne venne condannata per aver avuto rapporti sessuali prematrimoniali ed essersi macchiata di un “reato contro la castità”. Il giudice la accompagnò alla forca, bendandola e azionando la gru che l’avrebbe sollevata da terra, uccidendola. Nel 2000, Shirin viene arrestata con l’accusa di aver divulgato le prove della complicità dello Stato iraniano in un’aggressione ad alcuni/e studenti. Passa ben 25 giorni nel carcere di Evin rendendosi conto delle terribili condizioni delle persone detenute al suo interno. Quando vince il Nobel per la Pace nel 2003, il governo fa di tutto per oscurare la notizia, ma nonostante questo la popolazione ne viene comunque a conoscenza e da quel momento l’avvocata diventa l’àncora di salvezza di coloro a cui vengono negati i diritti fondamentali. Con i proventi avuti per il Nobel acquista un appartamento che diviene in poco tempo il quartier generale del Centro per la difesa dei diritti umani, in cui lavorano avvocate e avvocati per la tutela di prigioniere e prigionieri politici. Grazie a questi soldi, riesce a garantire una vasta assistenza legale gratuita a dissidenti e oppositori/trici del regime islamico. Dà pure vita all’Associazione di cooperazione per lo sminamento, prima Ong dell’Iran, con l’obiettivo di rimuovere le mine antiuomo disperse nel terreno, dopo la fine della guerra con l’Iraq. A causa di un tale pericolo, molte persone sono infatti cadute vittime delle mine, restando gravemente mutilate o perdendo la vita. Grazie al lavoro della sua Ong, Shirin viene invitata a partecipare al Convegno per la campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo da Jody Williams, Premio Nobel nel 1997 per l'impegno a favore dello sminamento di vaste aree. Proprio in quella occasione, conosce Wangari Maathai, vincitrice del Nobel per la sua lotta nella difesa dell’ambiente. Grazie a questo incontro, le tre attiviste decidono di fondare la Nobel Women’s Initiative, una comunità di donne impegnate a favore della pace e al miglioramento della condizione femminile nel mondo.

Nel dicembre del 2008 alcuni agenti dell’intelligence iraniana irrompono negli uffici della sua associazione per i diritti umani nel cuore di Teheran, arrestando la segretaria e mettendo i sigilli all'attività, credendo erroneamente di aver posto fine al suo lavoro. In realtà Shirin continua a difendere chiunque abbia bisogno di lei dal suo ufficio legale personale, subendo anche il sequestro di alcuni documenti privati della sua clientela da parte del governo e diverse minacce di morte per il suo lavoro. Nel 2009 avviene l’irreparabile: Shirin parte per Maiorca, per tenere un discorso sulla libertà d’espressione, proprio nello stesso momento in cui viene riconfermato presidente il conservatore Ahmadinejad. La rielezione crea sgomento nella popolazione iraniana che scende in piazza contestando i brogli elettorali, ma le proteste, seppure pacifiche, vengono soffocate con la violenza e il sangue. La polizia spara sui/lle manifestanti e diverse persone perdono la vita. Shirin capisce che fare ritorno in Iran significherebbe essere arrestata in aeroporto e perdere la possibilità di continuare la sua attività. Decide quindi di stabilirsi a Londra con la figlia. Gli agenti dei servizi segreti non si accaniscono solo su di lei, ma anche sui suoi famigliari, sequestrando il passaporto della figlia, che poi le verrà restituito, e arrestando il marito e la sorella, in seguito rilasciati. Suo marito viene costretto sotto minaccia a dichiarare in un video, trasmesso dalla televisione nazionale, che la moglie è una spia dell’Occidente e non lavora per il popolo iraniano, bensì per gli interessi degli imperialisti stranieri che tentano di indebolire l’Iran. Tuttavia Shirin anche dall’estero riesce a difendere i diritti del suo popolo.

Nel 2009 il governo iraniano oscura i canali Bbc Persian e Voa Persian che forniscono notizie veritiere su quanto sta avvenendo all’interno del Paese, mentre le tv e le radio di Stato danno informazioni distorte e di parte, evitando di rendere note le repressioni sanguinarie nei confronti di chi manifesta contro il regime. L’azienda europea che gestisce i canali li dirotta su un satellite secondario, proprio per evitare uno scontro con il governo iraniano, ma la tenacia di Shirin che si appella a diverse associazioni, a personalità di spicco e alle Nazioni Unite riesce ad accendere l’interesse dell’opinione pubblica internazionale su quanto sta avvenendo e sul diritto della popolazione iraniana di avere libero accesso all’informazione. In poco tempo la stessa società europea che aveva scollegato l’Iran dal resto del mondo, si vede costretta a tornare sui suoi passi. Il governo arriva persino a sequestrarle la medaglia del Nobel e a dichiarare che non ha pagato le tasse relative alla vincita in denaro del premio. Nel giro di pochi giorni si trova espropriata di ogni suo bene, pur sapendo che il denaro di un premio non è tassabile e quindi non si è resa colpevole di alcuna evasione. L'avvocata e amica Nasrin Sotoudeh, che si occupa della sua difesa, viene arrestata e a oggi è ancora detenuta nel carcere di Teheran, nonostante gli appelli della comunità internazionale e di associazioni come Amnesty International.

Ormai esule dal Paese d’origine, Shirin sceglie Londra come base per la sua nuova associazione, fondata nel 2013, con il nome Centre for Supporters of Human Rights (Cshr). La maggior parte delle persone che lavoravano nella sua associazione a Teheran sono ormai in carcere e gli/le avvocati/e ancora in libertà si trovano in uno stato di massima vulnerabilità. La sua nuova associazione londinese ha l’obiettivo di aiutare sia chi si batte per i diritti, sia chi viene accusato/a di reati di opinione e incarcerato/a ingiustamente. Il suo sogno resta sempre quello di tornare nel suo Paese e spera dall’esilio di riuscire a lavorare per costruire un nuovo Iran, affinché il suo popolo abbia la libertà e la giustizia che merita.


Traduzione francese

Guenoah Mroue

Shirin Ebadi est juge et avocate iranienne gagnante du prix Nobel de la paix en 2003, pour ses efforts en faveur de la démocratie et du respect des droits de l'homme. Elle a été la première femme musulmane à recevoir une telle reconnaissance. Gravement menacée par le gouvernement iranien, elle vit maintenant en exil en Europe. Retourner dans son pays d'origine constituerait une peine de prison ou, pire, une condamnation à mort pour elle.

Elle est né à Hamadan le 21 juin 1947, elle a grandi à Téhéran où elle a fréquenté la faculté de droit et a participé à des examens pour devenir magistrat. En 1971, elle a également obtenu son doctorat en droit privé et, de 1975 à 1979, elle a occupé le poste de président d'une section du Tribunal dans la capitale. Avec la révolution islamique de 1979 et la chute du Shah, elle est perçue comme désavoue, en tant que femme, le rôle de juge et n'est autorisée à travailler au tribunal qu'en tant qu'employée. Quelques années plus tard, elle est autorisé à exercer l’avocat.

Mariée et mère de deux filles, elle a toujours refusé de quitter l'Iran et elle a été menacée de mort à plusieurs reprises. Comme elle le raconte dans l'un de ses livres, les cartes laissées par ses adversaires ont toujours été du même ténor: «si vous continuez ainsi, nous serons forcés de mettre fin à votre vie». Malgré des menaces encore trop voilées, Shirin Ebadi continue de se battre pour les droits des femmes, des prisonnières, politiciens et des mineurs. L'Iran est l'un des rares pays à commettre encore des condamnations à mort contre des mineurs : en 2004, une jeune femme de seize ans a été reconnue coupable d'avoir eu des relations sexuelles avant le mariage et de s'être commise avec un « crime contre la chasteté ». Le juge l'accompagnait jusqu'à la potence, la baguant et actionnant la grue qui la soulèverait du sol, la tuant. En 2000, Shirin a été arrêté pour avoir divulgué des preuves de la complicité de l'État iranien dans une agression contre certains étudiants. Elle passe 25 jours à la prison d'Evin pour se rendre compte de la terrible condition des personnes détenues à l'intérieur. Lorsqu'elle a remporté le prix Nobel de la paix en 2003, le gouvernement s'est donné beaucoup de mal pour obscurcir la nouvelle, mais malgré cela, la population en prend toujours conscience et à partir de ce moment, l'avocat devient l'ancre du salut de ceux qui sont privés de droits fondamentaux. Avec la prime qu'elle a obtenu pour le prix Nobel, elle a acheté un appartement qui est rapidement devenu le siège du Centre pour la défense des droits de l'Homme, où des avocats et des avocates travaillent pour la protection des prisonniers en général et politiques. Grâce à cet argent, elle parvient à garantir une large assistance juridique gratuite aux dissidents et aux opposants au régime islamique. Elle a également fondée la Demining Cooperation Association, la première ONG iranienne, dans le but de supprimer les mines antipersonnel dispersées dans le sol, après la fin de la guerre avec l'Irak. En raison d'un tel danger, de nombreuses personnes ont été victimes de mines terrestres, ont été sévèrement mutilées ou ont perdu la vie. Grâce au travail de son ONG, Shirin est invitée à assister à la Conférence pour la Campagne internationale pour l'interdiction des mines terrestres par Jody Williams, gagnante du prix Nobel 1997 pour son engagement à déminer de vastes zones. C'est précisément à cette occasion qu'elle a rencontré Wangari Maathai, gagnante du prix Nobel pour sa lutte pour la défense de l'environnement. Grâce à cette réunion, les trois militantes décident de fonder la Nobel Women's Initiative, une communauté de femmes engagées en faveur de la paix et de l'amélioration de la condition des femmes dans le monde.

En décembre 2008, des agents de renseignement iraniens ont fait irruption dans les bureaux de son association de défense des droits humains au cœur de Téhéran, arrêtant le secrétaire et scellant l'activité, croyant à tort qu'elle avait mis fin à son travail. En fait, Shirin continue de défendre toute personne qui a besoin de son service juridique personnel, subissant également la saisie de certains documents privés de sa clientèle par le gouvernement et plusieurs menaces de mort pour son travail. En 2009, l'irréparable a lieu : Shirin part pour Majorque, pour prononcer un discours sur la liberté d'expression, en même temps que le conservateur Ahmadinejad est reconfirmé président. La réélection crée la consternation de la population iranienne qui descend dans la rue pour lutter contre la fraude électorale, mais les manifestations, bien que pacifiques, sont étouffées par la violence et le sang. La police tire sur les manifestants et plusieurs personnes perdent la vie. Shirin comprend que retourner en Iran signifierait être arrêtée à l'aéroport et perdre la chance de poursuivre ses activités. Elle décide alors de s'installer à Londres avec sa fille. Les agents des services secrets font rage non seulement contre elle, mais aussi contre les membres de sa famille, saisissant le passeport de sa fille, qui lui sera ensuite rendu, et arrêtant son mari et sa sœur, libérés plus tard. Son mari est menacé de déclarer dans une vidéo, diffusée à la télévision nationale, que sa femme est une espionne de l'Occident et ne travaille pas pour le peuple iranien, mais pour les intérêts des impérialistes étrangers qui tentent d'affaiblir l'Iran. Cependant, Shirin parvient également à défendre les droits de son peuple depuis l'étranger.

En 2009, le gouvernement iranien obscurcit les chaînes persanes et persanes Voa de la BBC qui fournissent des informations véridiques sur ce qui se passe à l'intérieur du pays, tandis que la télévision et la radio d'État donnent des informations déformées et biaisées, évitant de faire connaître les répressions sanglantes contre ceux qui manifestent contre le régime. La société européenne qui gère les chaînes les détourne vers un satellite secondaire, précisément pour éviter un conflit avec le gouvernement iranien, mais la ténacité de Shirin qui fait appel à diverses associations, à des personnalités éminentes et aux Nations Unies parvient à susciter l'intérêt de l'opinion publique internationale pour ce qui se passe et sur le droit de la population iranienne à avoir libre accès à l'information. En peu de temps, la même société européenne qui avait déconnecté l'Iran du reste du monde est forcée de revenir sur ses pas. Le gouvernement va même jusqu'à saisir sa médaille Nobel et déclare qu'elle n'a pas payé d'impôts liés à la victoire du paiement du prix. En quelques jours, elle se retrouve expropriée de tous ses biens, bien qu'elle sache que le paiement d'un prix n'est pas imposable et n'a donc été coupable d'aucune évasion. L'avocate et son amie Nasrin Sotoudeh, qui s'occupe de sa défense, est arrêtée et toujours détenue à la prison de Téhéran à ce jour, malgré les appels de la communauté internationale et d'associations telles qu'Amnesty International.

Maintenant hors de son pays d'origine, Shirin choisit Londres comme base de sa nouvelle association, fondée en 2013, sous le nom de Centre for Supporters of Human Rights (CSHR). La plupart des personnes qui ont travaillé dans son association à Téhéran sont maintenant en prison et les avocats toujours en liberté sont dans un état de vulnérabilité maximale. Sa nouvelle association londonienne vise à aider à la fois ceux qui se battent pour les droits et ceux qui sont accusés de crimes d'opinion et emprisonnés à tort. Son rêve reste toujours de retourner dans son pays et elle espère de l'exil pouvoir travailler à la construction d'un nouvel Iran, afin que son peuple ait la liberté et la justice qu'il mérite.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Shirin Ebadi was an Iranian judge and lawyer when she won the Nobel Peace Prize in the year 2003 for her efforts in favor of democracy and respect for human rights. She was the first Muslim woman to receive such an award. Severely threatened by the Iranian government, she now lives in exile in Europe. Returning to her home country would result in her imprisonment or, worse, a death sentence.

Born in Hamadan, Iran on June 21, 1947, she grew up in Tehran where she attended law school and took the exams to become a magistrate. In 1971 she also obtained a doctorate in private law and from 1975 to 1979 served as president of a court chamber in the capital. With the Islamic revolution of 1979 and the fall of the shah, she was prohibited, as a woman, from the role of judge and was allowed to work in the court only as a clerk. A few years later she would be allowed to practice law.

Married and the mother of two daughters, she had always refused to leave Iran and had been threatened with death several times. As she recounts in one of her books, the notes left by her opponents were always of the same tenor: "If you continue like this we will be forced to end your life." Despite the not-so-subtle threats, Shirin Ebadi continued to fight for the rights of women, political prisoners and children. Iran is one of the few countries that still imposes death sentences on minors. In 2004 a 16-year-old girl was convicted of having premarital sex and being guilty of an "offense against chastity." The judge accompanied her to the gallows, blindfolding her and operating the crane that would lift her off the ground, killing her. In 2000, Shirin was arrested on charges of divulging evidence of the Iranian state's complicity in an attack on students. She spent a full 25 days in Evin Prison exposed to the terrible conditions of the people held inside. When she won the Nobel Peace Prize in 2003, the government did everything in its power to obscure the news, but in spite of this, the population learned about it anyway, and from that moment on, the advocate became the anchor of salvation for those who were denied basic rights. With the proceeds she was awarded for the Nobel Prize, she bought an apartment which quickly became the headquarters of the Center for the Defense of Human Rights, where lawyers worked to protect female prisoners and political prisoners. With that money, she was able to provide extensive free legal assistance to dissidents and opponents of the Islamic regime. She also started the Association of Cooperation for Mine Clearance, Iran's first NGO, with the goal of removing landmines scattered in the ground after the end of the war with Iraq. Because of the danger of unexploded land mines, many people have fallen victim, being severely maimed or losing their lives. Through the work of her NGO, Shirin was invited to attend the International Campaign to Ban Landmines Conference by Jody Williams, a Nobel Laureate in 1997 for her efforts to demine large areas. On that occasion, she met Wangari Maathai, a Nobel laureate for her struggle in environmental advocacy. Through this meeting, the three activists decided to found the Nobel Women's Initiative, a community of women committed to peace and to improving the status of women around the world.

In December 2008, Iranian intelligence agents raided the offices of her human rights association in the heart of Tehran, arresting the secretary and sealing off the headquarters, mistakenly believing they had ended her work. In reality, Shirin continued to advocate for anyone who needed her from her personal legal office, even though suffering the government's seizure of some of her clientele's private documents and several death threats for her work. In 2009, the irreparable happened. Shirin left for Majorca, to give a speech on freedom of expression, at the same time that the conservative Ahmadinejad was re-elected president. The re-election created consternation in the Iranian population, which took to the streets protesting election fraud, but the protests, though peaceful, were suppressed with violence and bloodshed. Police fired on the protesters and several people lost their lives. Shirin realized that returning to Iran would mean being arrested at the airport and losing the ability to continue her work. She therefore decided to settle in London with her daughter. Secret Service agents turned not only on her but also on her family members, seizing her daughter's passport, which was later returned to her, and arresting her husband and sister, who were later released. Her husband was forced under duress to declare in a video, broadcast on national television, that his wife was a spy for the West and did not work for the Iranian people, but for the interests of foreign imperialists trying to weaken Iran. However, Shirin even from abroad managed to defend the rights of her people.

In 2009, the Iranian government blacked out the BBC Persian and VOA Persian channels that provided truthful news about what was happening inside the country, while state TV and radio stations gave biased and distorted information, avoiding disclosing the bloody crackdowns on those demonstrating against the regime. The European company that ran the channels diverted them to a secondary satellite, precisely to avoid a clash with the Iranian government, but Shirin's tenacity in appealing to various associations, prominent personalities and the United Nations succeeded in igniting the interest of international public opinion in what was happening and to the right of the Iranian people to have free access to information. Before long, the same European society that had disconnected Iran from the rest of the world was forced to retrace its steps. The government even went so far as to seize her Nobel medal and claim that she had not paid the taxes related to the prize money. Within days, she found herself bankrupted of all her assets, even though she knew that the prize money was not taxable and therefore she had not been guilty of any evasion. Her lawyer and friend Nasrin Sotoudeh, who handled her defense, was arrested and to this day is still held in Tehran prison, despite appeals from the international community and organizations such as Amnesty International.

An exile from her home country, Shirin chose London as the base for her new association, founded in 2013 under the name Center for Supporters of Human Rights (CSHR). Most of the people who worked in her association in Tehran are now in jail, and the lawyers still at large are in a very vulnerable state. Her new London association aims to help both those who fight for rights and those who are accused of crimes of opinion and unjustly imprisoned. Her dream has remained to return to her country and she hopes, from exile, to be able to work to build a new Iran so that her people will have the freedom and justice they deserve.


Traduzione spagnola

Martina Randazzo

Shirin Ebadi es jueza y abogada iraní, ganadora del Premio Nobel de la Paz en 2003 por sus esfuerzos a favor de la democracia y del respeto de los derechos humanos. Fue la primera mujer musulmana en obtener este reconocimiento. Gravemente amenazada por el gobierno iraní, ella vive ahora en el exilio en Europa. Regresar a su país natal le costarían una sentencia de cárcel o, peor aún, de muerte.

Nació en Hamadan el 21 de junio de 1947, creció en Teheran donde estudió derecho y se examinó como magistrada. En 1971 obtuvo su doctorado en Derecho privado y de 1975 a 1979 fue presidenta de una sección del Tribunal en la capital. Con la revolución islámica de 1979 y la caída del Sah, le fue negado su papel de jueza por ser mujer y le permitieron trabajar en el tribunal solo como empleada. Unos años después pudo volver a ejercer la abogacía.

Casada y madre de dos hijas, siempre rehusó abandonar Irán y varias veces fue amenazada de muerte. Como cuenta en uno de sus libros, las notas que sus opositores le dejaban tenían siempre el mismo tenor: «sigue así y vas a obligarnos a quitarte la vida». A pesar de las amenazas poco disimuladas, Shirin Ebadi sigue luchando por los derechos de las mujeres, las presas y los presos políticas/os y los menores. Irán es uno de los pocos países que impone condenas a muerte a los menores: en 2004 una chica de 16 años fue condenada a muerte por haber mantenido relaciones sexuales antes de casarse y cometer portanto un “delito contra la castidad”. El juez la acompañó al patíbulo y la bendó y accionó la grúa que la iba a levantar y a matar. En 2000 Shirin fue arrestada con el cargo de divulgación de las evidencias de la complicidad del Estado de Irán en la agresión a unos estudiantes. Pasó 25 días en la cárcel de Evin donde se dio cuenta de las terribles condiciones de los presos. Cuando fue galardonada con el Nobel de la Paz en 2003, el gobierno hizo todo lo posible para ocultar la noticia, la población se enteró y la abogada se convirtió en el ancla de salvación para las personas a las que se le negaban los derechos fundamentales. Con el dinero del premio compró un apartamento que pronto se convirtió en la sede central del Centro para la defensa de los derechos humanos, donde abogadas y abogados trabajaban para la protección de las presas y los presos políticas/os. Gracias al dinero, pudo asegurar asistencia jurídica gratuita a disidentes y opositores/as del régimen islámico. Dio vida a la Asociación de cooperación para el desminado, primera Ong de Irán, con el fin de retirar las minas antipersona dispersas por el país después de la guerra con Iraq. Debido a este peligro, muchas personas han sido víctimas de las minas y han resultado gravemente mutiladas o perdieron la vida. Gracias a su Ong, Shirin recibió una invitación de Jody Williams – Premio Nobel por la paz en 1997 por su trabajo a favor del desminado de grandes áreas– al Congreso de la campaña internacional para la prohibición de las minas antipersona. En aquella ocasión conoció a Wangari Maathai, ganadora del Nobel por su lucha para la defensa del medioambiente. Gracias a este encuentro, las tres activistas decidieron fundar la Noble Women’s Initiative (Iniciativa de las mujeres Nobel), comunidad de mujeres que trabajaban a favor de la paz y de una mejor condición de la mujer en el mundo.

En diciembre de 2008 unos agentes de los Servicios secretos iranís asaltaron los despachos de la Asociación para los derechos humanos en el centro de Teherán, arrestaron la a secretaria y precintaron la actividad, pensando que iban a detener también su trabajo. En realidad Shirin siguió defendiendo en su propio despacho legal a todos los que necesitaban su ayuda de modo que el gobierno también le secuestó algunos documentos privados de su clientela y ella recibió amenazas de muerte varias veces debido a su trabajo. En 2009 ocurrió lo irreparable: Shirin salió para Mallorca, para pronunciar un discurso sobre la libertad de expresión, en el mismo momento en que el presidente conservador Ahmadineyad era reelegido. Su reelección consternó a la población iraní, que salió a la calle para protestar contra el fraude electoral, pero las protestas, aunque pacíficas, fueron reprimidas con violencia y derramamiento de sangre. La policía disparó contra los manifestantes y varias personas perdieron la vida. Shirin se dio cuenta de que volver a Irán hubiera significado ser detenida en el aeropuerto y perder la posibilidad de continuar su actividad. Por esta razón, decidió instalarse en Londres con su hija. Los agentes de los servicios secretos no solo se ensañaron con a ella, sino también con su familia, confiscando el pasaporte de su hija, que más tarde le devolverían, y deteniendo a su marido y a su hermana, después liberados. Su marido fue obligado bajo coacción a declarar en un vídeo, emitido por la televisión nacional, que su mujer era una espía de Occidente y que no trabajaba para el pueblo iraní, sino para los intereses de los imperialistas extranjeros que intentaban debilitar a Irán. Sin embargo, Shirin consiguió defender los derechos de su pueblo incluso desde el extranjero.

En 2009, el gobierno iraní cerró los canales BBC Persian y Voa Persian que divulgaban noticias veraces sobre lo que ocurría en el país, mientras que la televisión y la radio estatales daban información sesgada y distorsionada, evitando informar sobre la represión sangrienta de los que manifestaban contra el régimen. La empresa europea que gestionaba los canales los desvió a un satélite secundario, precisamente para evitar un enfrentamiento con el gobierno iraní, pero la tenacidad de Shirin, quien apeló a diversas asociaciones, a personalidades destacadas y a las Naciones Unidas, logró despertar el interés de la opinión pública internacional hacia lo que estaba ocurriendo y hacia el derecho del pueblo iraní de tener libre acceso a la información. En poco tiempo la sociedad europea que había desconectado Irán del resto del mundo se vio obligada a volver sobre sus pasos. El gobierno llegó incluso a confiscarle a Shirin su medalla del Nobel declarando que no había pagado los impuestos relativos al dinero del premio. En pocos días se vio desposeída de todos sus bienes, a pesar de que el dinero del premio no estaba sujeto a impuestos y, por lo tanto, ella no era culpable de ninguna evasión. La abogada y amiga Nasrin Sotoudeh, encargada de su defensa, fue detenida y todavía está presa en la cárcel de Teherán, a pesar de las apelaciones de la comunidad internacional y de asociaciones como Amnistía Internacional.

Exiliada de su país natal, Shirin elige Londres como base de su nueva asociación, fundada en 2013 con el nombre de Centre for Supporters of Human Rights (CSHR). La mayoría de las personas que trabajaban en su asociación en Teherán están ahora en prisión y los abogados que siguen en libertad resultan gravemente vulnerables. El objetivo de su nueva asociación en Londres es ayudar tanto a los que luchan por los derechos, como a los que están acusados de delitos de opinión y encarcelados injustamente. Su sueño sigue siendo volver a su país y desde el exilio espera trabajar para construir un nuevo Irán para que su pueblo tenga la libertad y la justicia que merece.


Traduzione ucraina

Alina Petelko

Ширін Ебаді - іранська суддя та юрист, лауреат Нобелівської премії миру 2003 року за свої зусилля на користь демократії та поваги до прав людини. Вона стала першою жінкою-мусульманкою, яка отримала таку нагороду. Піддаючись серйозним погрозам з боку іранського уряду, вона зараз живе у вигнанні в Європі. Повернення на батьківщину означало б для неї тюремне ув'язнення або, що ще гірше, смертний вирок.

Народилася в Хамадані 21 червня 1947 року, виросла в Тегерані, де навчалася на юридичному факультеті та склала іспити на звання судді. У 1971 році вона також отримала ступінь доктора приватного права, а з 1975 по 1979 рік обіймала посаду голови судової секції в столиці. Після ісламської революції 1979 року і падіння шаха їй було відмовлено в ролі судді як жінці, і їй було дозволено працювати в суді лише в якості секретаря. Через кілька років їй дозволили займатися адвокатською діяльністю.

Заміжня і мати двох доньок, вона завжди відмовлялася покинути Іран, і їй неодноразово погрожували смертю. Як вона згадує в одній зі своїх книг, записки, які залишали її опоненти, завжди були в одному тоні: "Якщо ви будете продовжувати в тому ж дусі, ми будемо змушені покінчити з вашим життям". Незважаючи на не надто витончені погрози, Ширін Ебаді продовжує боротися за права жінок, політв'язнів та дітей. Іран є однією з небагатьох країн, де досі виносяться смертні вироки неповнолітнім: у 2004 році 16-річна дівчина була засуджена за дошлюбні статеві стосунки і визнана винною у "злочині проти цнотливості". Суддя супроводжував її до шибениці, зав'язавши їй очі та керуючи краном, який мав підняти її над землею, вбиваючи її. У 2000 році Ширін була заарештована за звинуваченням у розголошенні доказів причетності іранської держави до нападу на студентів. Вона проводить 25 днів у в'язниці Евін, розуміючи, в яких жахливих умовах утримуються там люди. Коли вона отримала Нобелівську премію миру в 2003 році, уряд зробив все можливе, щоб приховати цю новину, але, незважаючи на це, населення все одно дізналося про це, і з цього моменту правозахисниця стала якорем порятунку для тих, кому відмовляють у їхніх фундаментальних правах. На кошти від Нобелівської премії вона купує квартиру, яка швидко стає штаб-квартирою Центру захисту прав людини, де юристи працюють над захистом жінок-ув'язнених і політв'язнів. На ці гроші йому вдається надавати широку безкоштовну юридичну допомогу дисидентам і противникам ісламського режиму. Він також заснував Асоціацію зі співробітництва в галузі розмінування, першу в Ірані неурядову організацію, яка має на меті вилучення наземних мін, розкиданих по землі після закінчення війни з Іраком. Внаслідок цієї небезпеки багато людей стали жертвами мін, отримавши важкі каліцтва або загинувши. Завдяки роботі своєї громадської організації Ширін була запрошена на конференцію "Міжнародна кампанія за заборону наземних мін", яку проводила Джоді Вільямс, Нобелівський лауреат 1997 року за свою відданість справі розмінування великих територій. З цієї ж нагоди вона зустрілася з Вангарі Маатаї, лауреатом Нобелівської премії за боротьбу за захист навколишнього середовища. Завдяки цій зустрічі три активістки вирішили заснувати Нобелівську жіночу ініціативу - спільноту жінок, які прагнуть миру та покращення становища жінок у світі.

У грудні 2008 року агенти іранської розвідки увірвалися до офісу її правозахисної асоціації в самому центрі Тегерану, заарештували її секретаря та опечатали бізнес, помилково вважаючи, що вони поклали край її роботі. Насправді Ширін продовжує захищати всіх, хто її потребує, зі свого особистого юридичного відділу, навіть потерпаючи від вилучення урядом деяких приватних документів її клієнтів та кількох погроз вбивством за свою роботу. У 2009 році стається непоправне: Ширін їде на Майорку, щоб виступити з промовою про свободу слова, в той самий момент, коли консерватора Ахмадінежада переобирають президентом. Перевибори викликають переляк серед іранського населення, яке виходить на вулиці з протестами проти фальсифікації виборів, але протести, хоча і мирні, але придушуються з насильством і кровопролиттям. Міліція відкрила вогонь по протестувальниках, кілька людей загинули. Ширін розуміє, що повернення до Ірану означатиме арешт в аеропорту і втрату можливості продовжувати свій бізнес. Тому вона вирішує оселитися в Лондоні разом з дочкою. Співробітники спецслужб переслідують не лише її, але й її родину, вилучаючи паспорт доньки, який згодом повертають, а також заарештовують її чоловіка та сестру, яких згодом відпускають. Її чоловік змушений під тиском заявити у відеоролику, показаному по національному телебаченню, що його дружина є шпигуном Заходу і працює не на іранський народ, а на інтереси іноземних імперіалістів, які намагаються послабити Іран. Втім, Ширін вдається відстоювати права свого народу і з-за кордону.

У 2009 році іранський уряд відключив перські канали BBC та Voa Persian, які подають правдиві новини про те, що відбувається всередині країни, а державні теле- та радіостанції подають упереджену та викривлену інформацію, уникаючи висвітлення кривавих репресій проти учасників виступів проти режиму. Європейська компанія, що управляє каналами, перенаправляє їх на другорядний супутник, саме для того, щоб уникнути зіткнення з іранським урядом, але наполегливості Ширін, яка звертається до різних асоціацій, відомих особистостей і ООН, вдається розпалити інтерес міжнародної громадської думки до того, що відбувається, і до права іранського населення на вільний доступ до інформації. Незабаром те ж саме європейське суспільство, яке відгородило Іран від решти світу, змушене буде зробити крок назад. Уряд навіть пішов на те, щоб конфіскувати її Нобелівську медаль і заявити, що вона не сплатила податки з премії. За кілька днів вона виявилася позбавленою всіх своїх активів, хоча знала, що виграш не підлягає оподаткуванню, а отже, вона не була винна в ухиленні від сплати податків. Її адвокат та подруга Насрін Сотоуде, яка займалася її захистом, була заарештована і до цього часу утримується у в'язниці Тегерана, незважаючи на заклики міжнародної спільноти та асоціацій, таких як "Міжнародна амністія".

Вигнана з рідної країни, Ширін обрала Лондон як базу для своєї нової асоціації, заснованої у 2013 році під назвою "Центр прихильників прав людини" (ЦПЧ). Більшість людей, які працювали в її асоціації в Тегерані, зараз перебувають у в'язниці, а адвокати, які ще залишаються на волі, перебувають у дуже вразливому стані. Його нова лондонська асоціація має на меті допомагати як тим, хто бореться за права, так і тим, кого звинувачують у злочинах на ґрунті переконань і несправедливо ув'язнюють. Його мрією залишається повернення до своєї країни, і він сподівається, що у вигнанні зможе працювати над побудовою нового Ірану, щоб його народ міг мати свободу і справедливість, на які він заслуговує.

 

Linda B. Buck
Simona Serafin





Laura Zernik

 

Come percepiamo gli odori di ciò che annusiamo? La risposta ce l’ha data la biologa statunitense Linda Brown Buck, svelando un mistero al quale molti altri e altre scienziate, per anni, avevano cercato di trovare una spiegazione, ma senza successo. Così, nel 2004, la dottoressa Buck riceve il Premio Nobel per la Medicina proprio come riconoscimento delle sue innovative scoperte nel campo della percezione olfattiva. 

Linda Brown Buck nasce a Seattle (nello Stato di Washington, Usa), il 29 gennaio 1947. L’educazione ricevuta dalla sua famiglia e l’ambiente in cui è cresciuta hanno sicuramente contribuito a plasmare l’indole di questa donna che, per sua stessa ammissione, ha imparato a ragionare in maniera indipendente e determinata e a sviluppare presto un forte senso di altruismo. Cresce, infatti, con un padre ingegnere elettrico e una madre amante degli enigmi. Due personalità accomunate da quelle stesse creatività, apertura mentale e inventiva che hanno portato, poi, Linda Buck a fare le grandi scoperte che oggi le vengono riconosciute e alle quali, lei stessa, mai avrebbe immaginato di arrivare. Terminato il liceo, Buck decide di rimanere nella sua città natale, studiando psicologia presso l’University of Washington, con l’intento di diventare psicoterapeuta. Un corso in immunologia, però, la appassiona a tal punto da farle cambiare rotta, portandola a sognare di diventare biologa. Nel 1975 si laurea, dunque, in microbiologia e psicologia, per poi proseguire con un dottorato – che terminerà nel 1980 – in Immunologia all'University of Texas Southwestern Medical Center. Qui impara a condurre esperimenti di ricerca che porranno le basi per i suoi importanti lavori futuri. In seguito, grazie alle ricerche svolte nel laboratorio di biologia molecolare della Columbia University, la dott.ssa Buck fa la conoscenza del medico Richard Axel con il quale, senza ancora saperlo, arriverà a scoperte talmente rilevanti da stravolgerle per sempre la vita. A ispirare il suo interesse per il sistema olfattivo è, però, l’appassionante lettura di un paper di Solomon Snider sui possibili meccanismi alla base della rilevazione degli odori. L’argomento, sul quale la scienziata non si era ancora soffermata, la affascina e la incuriosisce al punto da farle avviare le ricerche in tale campo. Nel 1991, insieme al dott. Axel, pubblica sulla rivista Cell proprio quel suo lavoro sull’organizzazione del sistema olfattivo che, nel 2004, porta entrambi a vincere il Premio Nobel per la Medicina.

«Il tutto è stato molto drammatico e insolito, ma è stato meraviglioso avere lì con me la mia famiglia e i miei amici. È stata una di quelle esperienze che si vivono una sola volta nella vita».

È così che, all’indomani della premiazione in un'intervista con lo scrittore scientifico Peter Sylwan (11 dicembre 2004), Linda Buck descrive uno degli eventi più importanti della sua vita.

Per noi, annusare qualcosa, sentirne il profumo e reagire a esso sono azioni scontate, naturali e sulle quali forse non ci soffermiamo neanche troppo. Per Linda, invece, rappresentavano e rappresentano tuttora qualcosa di affascinante, una sorta di “mistero”, a lungo dibattuto e, allora, ancora irrisolto. Da quel primo imprinting avuto a seguito della lettura di Snider, sino alle scoperte che l’hanno portata al Nobel, il cammino verso le tanto attese risposte non è stato affatto semplice. Per lei, però – da classica scienziata empirica quale è – si trattava di una sorta di gioco; era un po’ come risolvere un puzzle. Partendo da un’ipotesi – l’immagine sulla scatola del puzzle – quale l’esistenza di proteine nel naso capaci di riconoscere gli odori, ha iniziato a elaborare delle strategie al fine di corroborare tale teoria. Per individuare queste proteine – i pezzi del puzzle – doveva trovare dei geni che le codificassero. Quando ha comunicato a colleghi e colleghe quali fossero le sue intenzioni, non aveva grandi aspettative; ha messo immediatamente in conto il fatto che molti/e potessero giudicare questo suo progetto come una missione impossibile che nessuno avrebbe voluto sovvenzionare, ma ciò non l’ha fermata.

«Sono sempre stata attratta dalle grandi domande e le sfide non mi hanno mai spaventata». Proprio come le avevano insegnato i suoi genitori, Buck ha deciso di portare avanti il suo progetto, per non doversi limitare alle cose semplici, mediocri o “possibili”. Il suo sogno era fare qualcosa di grande, di importante, senza ancora immaginare, però, di poter arrivare tanto lontano e vincere un Nobel. E così, facendo le ore piccole, dopo svariate correzioni, modifiche e riformulazioni, un sabato notte, mentre lavorava tra fogli e penne colorate sparse sul tavolo della cucina, Linda ha completato il puzzle: ha trovato i recettori. Per l’esattezza, ha scoperto che ne esistono circa 350 diversi tipi negli esseri umani e circa mille nei topi. Il passo successivo? Determinare come i segnali provenienti da questi recettori nel naso venissero tradotti dal cervello in percezioni. Grazie alla collaborazione di studenti e dottorandi/e, ha individuato come i recettori organizzano le informazioni, prima nel naso e poi in due dei principali centri di trasmissione del cervello. Tuttavia, la comprensione di ciò che avviene esattamente nel cervello quando percepiamo qualcosa e quando proviamo delle sensazioni rappresenta ancora un mistero al quale, però, la scienziata tutt’oggi non si arrende, ritenendo quest’area di studio la più impegnativa, ma anche la più stimolante tra le scienze biologiche.

Il riconoscimento del suo enorme lavoro non si è arrestato alla consegna del Premio Nobel; le pubblicazioni riguardanti le sue scoperte hanno scatenato, per anni, reazioni più che positive da parte dell’intera comunità scientifica e in particolare da quella americana che l’ha inondata di grandi onori e ammirazione. Uno degli esempi più emblematici è l’attribuzione, nel 2015, di un dottorato onorario da parte della Harvard University. Per non parlare del fatto che le tecniche da lei elaborate e i dati raccolti nell’ambito del sistema sensoriale sono applicati, ancora oggi, nei laboratori di tutto il mondo, cosa di cui lei si dichiara altamente soddisfatta. «Amo fare scienza. Amo pensare a essa. Amo cercare soluzioni a un problema e amo lavorare con le persone del mio laboratorio […], scambiarci idee, trovare strategie e interpretare i risultati». Descrive così la dott.ssa Buck il suo lavoro, nonché la sua passione più grande. Per lei, la ricerca è un gioco e, che si vinca o si perda, il divertimento è assicurato. Le sconfitte sono molto più utili delle vittorie, poiché servono a estendere la propria immaginazione, a pensare al passo successivo, a programmare la prossima strategia da attuare. I veri successi, invece, sono quelli inattesi, improvvisi, perché è quando non ci si aspetta un risultato che avvengono le maggiori scoperte. E a coloro che le domandano quale sia la chiave del suo successo, lei risponde con tre soluzioni: perseveranza, coraggio e visione chiara dei propri obiettivi.


Traduzione francese

Guenoah Mroue

Comment percevons-nous les odeurs de ce que nous sentons? La réponse nous a été donnée par la biologiste américaine Linda Brown Buck, révélant un mystère auquel beaucoup d’autres scientifiques, pendant des années, avaient tenté de trouver une explication, mais sans succès. Ainsi, en 2004, le Dr Buck reçoit le prix Nobel de médecine en reconnaissance de ses découvertes innovantes dans le domaine de la perception olfactive.

Linda Brown Buck est née le 29 janvier 1947 à Seattle (État de Washington, États-Unis). L’éducation reçue par sa famille et l’environnement dans lequel elle a grandi ont certainement contribué à façonner le tempérament de cette femme qui, de son propre aveu, a appris à raisonner de manière indépendante et déterminée et à développer rapidement un fort sentiment d’altruisme. Elle a grandit, en effet, avec un père ingénieur électricien et une mère qui aime les énigmes. Deux personnalités unies par la même créativité, l’ouverture d’esprit et l’inventivité qui ont conduit Linda Buck à faire les grandes découvertes qui lui sont aujourd’hui reconnues et auxquelles, elle-même, elle n’aurait jamais imaginé arriver. Après avoir terminé ses études secondaires, Buck décide de rester dans sa ville natale, en étudiant la psychologie à l’Université de Washington, avec l’intention de devenir psychothérapeute. Un cours en immunologie la passionne au point de la faire changer de cap et de rêver de devenir biologiste. En 1975, elle obtient un diplôme en microbiologie et en psychologie, puis poursuit un doctorat - qu’elle terminera en 1980 - en immunologie à l’Université du Texas Southwestern Medical Center. Ici, elle apprend à mener des expériences de recherche qui poseront les bases de ses futurs travaux importants. Par la suite, grâce aux recherches effectuées dans le laboratoire de biologie moléculaire de l’Université Columbia, le Dr Buck fait la connaissance du médecin Richard Axel avec lequel, sans le savoir encore, elle arrivera à des découvertes si importantes qu’elle bouleversera à jamais sa vie. Mais ce qui inspire son intérêt pour le système olfactif, c’est la lecture passionnante d’un papier de Solomon Snider sur les mécanismes possibles de la détection des odeurs. Le sujet, sur lequel la scientifique ne s’était pas encore arrêtée, la fascine et l’intrigue au point de lui faire entreprendre des recherches dans ce domaine. En 1991, avec le Dr. Axel publie dans le magazine Cell son propre travail sur l’organisation du système olfactif qui, en 2004, les conduit tous les deux à gagner le prix Nobel de médecine.

«Tout était très dramatique et inhabituel, mais c’était merveilleux d’avoir ma famille et mes amis avec moi. Ce fut une de ces expériences que l’on ne vit qu’une seule fois dans la vie»

C’est ainsi qu’au lendemain de la remise des prix dans une interview avec l’écrivain scientifique Peter Sylwan (11 décembre 2004), Linda Buck décrit l’un des événements les plus importants de sa vie.

Pour nous, sentir quelque chose, en sentir le parfum et y réagir sont des actions évidentes, naturelles et sur lesquelles nous ne nous arrêtons peut-être même pas trop. Pour Linda, au contraire, ils représentaient et représentent encore quelque chose de fascinant, une sorte de "mystère", longtemps débattu et, alors, encore non résolu. Depuis cette première impression, après la lecture de Snider, jusqu’aux découvertes qui l’ont amenée au Prix Nobel, le chemin vers les réponses tant attendues n’a pas été simple. Pour elle, cependant - en tant que scientifique empirique classique qu’elle est - c’était une sorte de jeu; c’était un peu comme résoudre un puzzle. Partant d’une hypothèse - l’image sur la boîte à puzzle - comme l’existence de protéines dans le nez capables de reconnaître les odeurs, elle a commencé à élaborer des stratégies afin de corroborer cette théorie. Pour trouver ces protéines - les pièces du puzzle - il devait trouver des gènes qui les encodaient. Lorsqu’elle a fait part à ses collègues de ses intentions, elle n’avait pas de grandes attentes; elle a immédiatement pris en compte le fait que beaucoup puissent considérer son projet comme une mission impossible et que personne ne voudrait subventionner, mais ça ne l’a pas arrêtée.

«J’ai toujours été attirée par les grandes questions et les défis ne m’ont jamais effrayée». Tout comme ses parents lui avaient appris, Buck a décidé de poursuivre son projet, afin de ne pas se limiter aux choses simples, médiocres ou "possibles". Son rêve était de faire quelque chose de grand, d’important, sans imaginer, cependant, pouvoir aller si loin et gagner un Nobel. Et ainsi, faisant les petites heures, après plusieurs corrections, modifications et reformulations, un samedi soir, tout en travaillant entre des feuilles et des stylos colorés éparpillés sur la table de la cuisine, Linda a complété le puzzle : elle a trouvé les récepteurs. Pour être précis, elle a découvert qu’il en existe environ 350 différents types chez l’homme et environ 1000 chez la souris. L’étape suivante ? Déterminer comment les signaux provenant de ces récepteurs dans le nez sont traduits par le cerveau en perceptions. Grâce à la collaboration d’étudiants et de doctorants, elle a identifié comment les récepteurs organisent l’information, d’abord dans le nez, puis dans deux des principaux centres de transmission du cerveau. Cependant, la compréhension de ce qui se passe exactement dans le cerveau quand nous percevons quelque chose et quand nous ressentons des sensations représente encore un mystère auquel, cependant, la scientifique ne cède toujours pas, estimant que ce domaine d’étude est le plus difficile, mais aussi la plus stimulante des sciences biologiques.

La reconnaissance de son énorme travail ne s’est pas arrêtée à la remise du Prix Nobel; les publications concernant ses découvertes ont déclanché, pendant des années, des réactions plus que positives de la part de toute la communauté scientifique et en particulier de la communauté américaine qui l’a inondée de grands honneurs et d’admiration. L’un des exemples les plus emblématiques est l’attribution, en 2015, d’un doctorat honorifique par l’Université Harvard. Sans parler du fait que les techniques qu’elle a élaboré et les données recueillies dans le cadre du système sensoriel sont encore appliquées aujourd’hui dans les laboratoires du monde entier, ce dont elle déclare en être très satisfaite. «J’aime faire de la science. J’aime penser à elle. J’aime chercher des solutions à un problème et j’aime travailler avec les gens de mon laboratoire [...], échanger des idées, trouver des stratégies et interpréter les résultats». C’est ainsi que le Dr Buck décrit son travail et sa plus grande passion. Pour elle, la recherche est un jeu et, qu’elle gagne ou qu’elle perde, le plaisir est assuré. Les défaites sont beaucoup plus utiles que les victoires, car elles servent à étendre son imagination, à réfléchir à l’étape suivante, à planifier la prochaine stratégie à mettre en œuvre. Les vrais succès, en revanche, sont ceux inattendus, soudains, parce que c’est quand on ne s’attend pas à un résultat que se produisent les plus grandes découvertes. Et à ceux qui lui demandent quelle est la clé de mon succès, elle leur répond par trois solutions : persévérance, courage et vision claire de vos objectifs.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

How do we perceive the odors of things we smell? U.S. biologist Linda Brown Buck gave us the answer, unraveling a mystery which many other scientists had been trying to solve for years, but without success. Thus, in 2004, Dr. Buck received the Nobel Prize in Medicine in recognition of her groundbreaking discoveries in the field of olfactory perception.

Linda Brown Buck was born in Seattle (in Washington State, USA), on January 29, 1947. The upbringing she received from her family and the environment in which she grew up certainly helped shape the character of this woman who, by her own account, learned to think independently and determinedly and developed a strong sense of altruism early on. She grew up with an electrical engineer father and a word puzzle-loving mother. Their two personalities were united by the same creativity, open-mindedness and inventiveness that led Linda Buck, later on, to make the great discoveries that she is credited with today, which she never imagined she would make. After finishing high school, Buck decided remain in her hometown, studying psychology at the University of Washington, with the intention of becoming a psychotherapist. A course in immunology, however, so enthralled her that she changed course, leading her to dream of becoming a biologist. As a result, she graduated in 1975 with degrees in microbiology and psychology, and then went on to earn, in 1980, a doctorate in immunology at the University of Texas Southwestern Medical Center. There she learned to conduct research experiments that would lay the foundation for her important future work. Later, through research at Columbia University's molecular biology laboratory, Dr. Buck made the acquaintance of physician Richard Axel, with whom, without yet knowing it, she would arrive at discoveries so significant that they would forever change her life. Inspiring her interest in the olfactory system, however, was her reading of an exciting paper by Solomon Snider on the possible mechanisms underlying odor detection. The topic, on which she had not yet worked, fascinated and intrigued her to the point that she began research in that field. In 1991, together with Dr. Axel, she published in the journal Cell her work on the organization of the olfactory system that, in 2004, led to both of them winning the Nobel Prize in Medicine.

«The whole thing was very dramatic and unusual, and it was wonderful to have my family and friends there with me. It was one of those once-in-a-lifetime experiences».

This is how, in the aftermath of the award in an interview with science writer Peter Sylwan (Dec. 11, 2004), Linda Buck described one of the most important events of her life.

For us, smelling something, detecting an aroma and reacting to it are taken for granted - natural actions that we may not even dwell on too much. For Linda, however, they represented and still represent something fascinating, a kind of "mystery," long debated and, at the time, still unresolved. From the initial imprinting she had as a result of reading Snider, to the discoveries that led her to the Nobel Prize, the path to the long-awaited answers was by no means easy. For her, however - as the classic empirical scientist that she is - it was a kind of game. It was a bit like solving a puzzle. Starting with a hypothesis - the image on the puzzle box - such as the existence of proteins in the nose capable of recognizing odors, she began to devise strategies in order to corroborate that theory. To identify these proteins - the puzzle pieces - she had to find genes that encoded them. When she told colleagues and associates what her intentions were, she did not have high expectations. She initially thought that many might judge this project of hers as an impossible mission that no one would want to subsidize. But that did not stop her.

«I have always been attracted to big questions, and challenges have never scared me». Just as her parents had taught her, Buck decided to pursue her project so that she would not have to limit herself to simple, mediocre or "possible" things. Her dream was to do something big, something important, without yet imagining, however, that she could go so far as to win a Nobel Prize. Keeping late hours, after many corrections, edits and reformulations, one Saturday night, while working among colored papers and pens scattered on the kitchen table, Linda completed the puzzle: she found the receptors. To be exact, she found that there are about 350 different types in humans and about a thousand in mice. The next step? Determining how signals from these receptors in the nose were translated by the brain into perceptions. With the collaboration of students and other PhDs, she identified how the receptors organize information, first in the nose and then into two of the brain's major transmission centers. However, understanding what exactly goes on in the brain when we perceive something and when we experience sensations still represents a mystery - which Dr. Buck to this day has never abandoned, believing this area of study to be one of the most challenging but also one of the most stimulating among the biological sciences.

Recognition of her enormous contributions did not stop with the awarding of the Nobel Prize. Publications concerning her discoveries have, for years, triggered very positive reactions from the entire scientific community and particularly from the American community, which has showered her with great honors and admiration. One of the most emblematic examples is the awarding, in 2015, of an honorary doctorate from Harvard University. Not to mention that the techniques she developed and the data she collected in the area of the sensory system are applied, even today, in laboratories around the world, something she says she is highly satisfied with. «I love doing science. I love thinking about it. I love looking for solutions to a problem and I love working with people in my lab..., exchanging ideas, finding strategies and interpreting results». This is how Dr. Buck describes her work, as well as her greatest passion. For her, research is a game, and win or lose, enjoyment is guaranteed. Defeats are much more useful than wins, as they serve to stretch one's imagination, to think about the next step and to plan the next strategy to be implemented. The real successes, on the other hand, are the unexpected, sudden ones, for it is when one does not expect an outcome that the greatest breakthroughs occur. And to those who ask her what the key to her success is, she responds with three critical elements: perseverance, courage and a clear vision of one's goals.


Traduzione spagnola

Vanessa Dumassi

¿Cómo percibimos los olores de lo que olfateamos? La bióloga estadounidense Linda Brown Buck nos ha dado la respuesta desentrañando un misterio al que muchos otros científicos llevaban años intentando encontrar una explicación, aunque sin éxito. Así, en 2004, la Dra. Buck recibió el Premio Nobel de Medicina como reconocimiento por sus descubrimientos pioneros en el campo de la percepción olfativa.

Linda Brown Buck nació en Seattle (Estado de Washington, EE.UU.) el 29 de enero de 1947. La educación que recibió de su familia y el entorno en el que se crió contribuyeron sin duda a forjar el carácter de esta mujer que, como ella misma admite, aprendió a pensar con independencia y determinación y desarrolló muy pronto un fuerte sentido del altruismo. En efecto, se crió con un padre ingeniero eléctrico y una madre amante de los rompecabezas. Dos personalidades unidas por la misma creatividad, la misma amplitud de miras y la misma inventiva que llevaron a Linda Buck a realizar los grandes descubrimientos que hoy se le reconocen y a los que ella misma nunca imaginó que iba a llegar. Tras terminar el instituto, Buck decidió quedarse en su ciudad natal y estudiar psicología en la Universidad de Washington con la intención de ser psicoterapeuta. Sin embargo, un curso de inmunología la apasionó hasta tal punto que le hizo cambiar de rumbo y soñar con convertirse en bióloga. En 1975 se licenció en microbiología y psicología y luego prosiguió con un doctorado –que terminará en 1980– en inmunología en la universidad de Texas Southwestern Medical Center. Ahí aprende a realizar experimentos de investigación que sentarán las bases de su importante trabajo futuro. Más tarde, gracias a las investigaciones realizadas en el laboratorio de biología molecular de la Universidad de Columbia, la doctora Buck conoce al doctor Richard Axel con quien, sin saberlo aún, llegará a unos descubrimientos tan notables que su vida cambiará para siempre. Sin embargo, lo que inspiró su interés por el sistema olfativo fue la apasionante lectura de un artículo de Solomon Snider sobre los posibles mecanismos de la percepción de los olores. El tema, en el que la científica aún no se había detenido, la fascinó e intrigó hasta tal punto que empezó a investigar en este campo. En 1991, junto con el Dr. Axel, publicó en la revista Cell su trabajo sobre la organización del sistema olfativo que les valió a ambos el Premio Nobel de Medicina en 2004.

«Todo fue muy dramático e inusual, pero fue maravilloso tener a mi familia y a mis amigos allí conmigo. Fue una de aquellas experiencias que se viven una vez en la vida».

Así, al día siguiente de la ceremonia de entrega del premio, en una entrevista con el escritor científico Peter Sylwan (11 de diciembre de 2004), Linda Buck describe uno de los acontecimientos más importantes de su vida.

Oler algo, olfatearlo y reaccionar ante ello son acciones que nosotros damos por sentadas y naturales y en las que, quizá, no nos detenemos demasiado. Para Linda, en cambio, representaban y siguen representando algo fascinante, una especie de "misterio", ampliamente debatido y, en aquel momento, aún irresuelto. A partir de aquel imprinting tras la lectura de Snider y hasta los descubrimientos que la llevaron al Nobel, el recorrido hacia las tan anheladas respuestas no fue nada fácil. Sin embargo para ella –en cuanto científica empírica– era una especie de juego: era como resolver un rompecabezas. Partiendo de una hipótesis –la imagen en una caja de rompecabezas–, la existencia de proteínas en la nariz capaces de reconocer olores, empezó a desarrollar estrategias para corroborar esta teoría. Para identificar estas proteínas –las piezas del rompecabezas– tenía que encontrar los genes que las codificaban. Cuando comunicó sus intenciones a sus colegas, no tenía grandes expectativas; en efecto había tenido en cuenta que muchos podían juzgar su proyecto como una misión imposible que nadie querría subvencionar, pero eso no la detuvo.

«Siempre me han atraído las grandes preguntas y los retos nunca me han asustado». Tal y como le habían enseñado sus padres, Buck decidió perseguir su propio proyecto y no limitarse a cosas simples, mediocres o "posibles". Su sueño era hacer algo grande, algo importante, sin imaginar que podría llegar tan lejos y ganar un premio Nobel. Y así, trasnochando, después de varias correcciones, modificaciones y reformulaciones, un sábado por la noche, mientras trabajaba entre hojas de papel y bolígrafos de colores esparcidos por la mesa de la cocina, Linda completó el puzzle: encontró los receptores. Para ser exactos, descubrió que existen unos 350 tipos distintos en los seres humanos y unos mil en los ratones. ¿Y el siguiente paso? Determinar cómo el cerebro traduce las señales de estos receptores nasales en percepciones. Gracias a la colaboración de estudiantes y de doctorandos, identificó cómo los receptores organizan la información primero en la nariz y luego en dos de los principales centros de transmisión del cerebro. Sin embargo, entender lo que ocurre exactamente en el cerebro cuando percibimos algo y cuando experimentamos sensaciones sigue siendo un misterio al que la científica aún no se rinde, considerando esta área de estudio la más desafiante, pero también la más estimulante entre las ciencias biológicas.

El reconocimiento a su inmenso trabajo no se detuvo con la concesión del premio Nobel. Las publicaciones sobre sus descubrimientos han suscitado durante años reacciones más que positivas por parte de toda la comunidad científica y, en particular, de la estadounidense que la ha colmado de grandes honores y admiración. Uno de los ejemplos más emblemáticos es la concesión de un doctorado honoris causa por la Universidad de Harvard en 2015. Y no hablemos del hecho de que las técnicas que desarrolló y los datos recogidos por ella en el marco del sistema sensorial se siguen aplicando hoy en laboratorios de todo el mundo; y esto es algo de lo que afirma sentirse muy satisfecha. «Me encanta hacer ciencia. Me encanta pensar en ella. Me encanta buscar soluciones a un problema y me encanta trabajar con la gente de mi laboratorio [...], intercambiarnos ideas, encontrar estrategias e interpretar los resultados». Así la Dra. Buck describe su trabajo, es decir su mayor pasión. Considera la investigación como un juego y, que ella gane o pierda, la diversión está garantizada. Las derrotas son mucho más útiles que las victorias, ya que sirven para extender la propia imaginación, para pensar en el siguiente paso y para planificar la siguiente estrategia. Los verdaderos éxitos, en cambio, son los inesperados e imprevistos porque cuando una no espera un resultado se producen los mayores avances. Y a quien le pregunta cuál es la clave de su éxito, responde con tres soluciones: perseverancia, valentía y visión clara de los propios objetivos.


Traduzione ucraina

Alina Petelko

Як ми сприймаємо запахи того, що ми відчуваємо? Американський біолог Лінда Браун Бак дала нам відповідь, розгадавши загадку, якій багато інших і не тільки вчених роками намагалися знайти пояснення, але безуспішно. Так, у 2004 році доктор Бак отримала Нобелівську премію з медицини на знак визнання її революційних відкриттів у галузі нюхового сприйняття.

Лінда Браун Бак народилася 29 січня 1947 року в м. Сіетл (штат Вашингтон, США). Виховання, отримане в сім'ї, і середовище, в якому вона зростала, безсумнівно, сприяли формуванню характеру цієї жінки, яка, за її власним визнанням, навчилася мислити самостійно і рішуче і рано розвинула в собі сильне почуття альтруїзму. Вона виросла з батьком-електриком і матір'ю, яка любила головоломки. Дві особистості, об'єднані тією ж креативністю, відкритістю та винахідливістю, які привели Лінду Бак до великих відкриттів, за які вона визнана сьогодні і до яких вона сама ніколи не уявляла, що прийде. Після закінчення середньої школи Бак вирішила залишитися в рідному місті, вивчати психологію у Вашингтонському університеті, маючи намір стати психотерапевтом. Однак курс імунології настільки захопив її, що вона змінила напрямок навчання, що привело її до мрії стати біологом. У 1975 році вона закінчила мікробіологію та психологію і продовжила навчання в докторантурі, яку закінчила у 1980 році, з імунології в Південно-Західному медичному центрі Техаського університету. Тут він навчився проводити наукові експерименти, які закладуть підвалини його важливої майбутньої роботи. Пізніше, завдяки своїм дослідженням в лабораторії молекулярної біології Колумбійського університету, доктор Бак познайомилася з лікарем Річардом Акселем, з яким, сама того не підозрюючи, зробить відкриття, настільки значущі, що змінять її життя назавжди. Однак її інтерес до нюхової системи був викликаний захопливим читанням статті Соломона Снайдера про можливі механізми виявлення запахів. Тема, на якій науковець ще не зупинялася, захопила та заінтригувала її настільки, що вона розпочала дослідження в цій галузі. У 1991 році разом з доктором Акселем вона опублікувала свою роботу про організацію нюхової системи в журналі Cell, яка привела їх обох до Нобелівської премії з медицини в 2004 році.

«Це було дуже драматично і незвично, але було чудово, що моя сім'я і друзі були там зі мною. Це був один з тих вражень, які бувають раз в житті».

Так після церемонії нагородження в інтерв'ю письменнику Пітеру Сілвану (11 грудня 2004 року) Лінда Бак описала одну з найважливіших подій свого життя.

Для нас нюхати щось, відчувати запах і реагувати на нього - це само собою зрозумілі, природні дії, на яких ми, можливо, навіть не надто замислюємося. Однак для Лінди вони були і залишаються чимось захоплюючим, своєрідною "таємницею", про яку довго сперечалися і яка на той час так і не була розгадана. Від першого враження, яке вона отримала після прочитання "Снайдера", до відкриттів, які привели її до Нобелівської премії, шлях до довгоочікуваних відповідей був аж ніяк не простим. Однак для неї - як для класичного емпіричного вченого, яким вона є - це була своєрідна гра; це було схоже на розв'язання головоломки. Почавши з гіпотези - зображення на коробці з пазлами - про існування білків у носі, здатних розпізнавати запахи, вона почала розробляти стратегії для підтвердження цієї теорії. Щоб ідентифікувати ці білки - шматочки пазлу - він повинен був знайти гени, які їх кодують. Коли вона розповідала колегам про свої наміри, то не мала великих очікувань, одразу врахувала той факт, що багато хто може сприйняти її проект як нездійсненну місію, яку ніхто не захоче фінансувати, але це її не зупинило.

"Мене завжди приваблювали великі питання, і виклики ніколи не лякали мене". Як і вчили її батьки, Бак вирішила продовжувати свій проект, не обмежуючись простими, посередніми або "можливими" речами. Вона мріяла зробити щось велике, щось важливе, ще не уявляючи, однак, що зможе зайти так далеко і отримати Нобелівську премію. І ось, рано-вранці, після декількох виправлень, модифікацій і переформулювань, одного суботнього вечора, працюючи серед кольорових паперів і ручок, розкладених на кухонному столі, Лінда склала пазл: вона знайшла рецептори. Якщо бути точною, то вона виявила, що у людини їх існує близько 350 різних типів, а у мишей - близько тисячі. Наступний крок? Визначити, як сигнали від цих рецепторів у носі переводяться мозком у сприйняття. У співпраці зі студентами і аспірантами він визначив, як рецептори організовують інформацію спочатку в носі, а потім у двох головних центрах передачі мозку. Однак розуміння того, що саме відбувається в мозку, коли ми щось сприймаємо і коли відчуваємо відчуття, досі залишається загадкою, перед якою науковець не здається, оскільки вважає цей напрямок досліджень найскладнішим, але й найбільш стимулюючим серед біологічних наук.

Визнання її величезної праці не обмежилося присудженням Нобелівської премії, публікації про її відкриття протягом багатьох років викликають більш ніж позитивну реакцію всієї наукової спільноти і, зокрема, американської, яка обдаровує її великими почестями і захопленням. Одним з найбільш показових прикладів є присудження у 2015 році почесного ступеня доктора Гарвардського університету. Не кажучи вже про те, що розроблені нею методики і зібрані дані в області сенсорної системи досі застосовуються в лабораторіях по всьому світу, чим вона, за її словами, дуже задоволена. «Я люблю займатися наукою. Мені подобається думати про це. Я люблю шукати рішення проблем і мені подобається працювати з людьми в моїй лабораторії [...], обмінюватися ідеями, знаходити стратегії та інтерпретувати результати». Так доктор Бак описує свою роботу і свою найбільшу пристрасть. Для неї дослідження - це гра, і, виграш чи програш, задоволення гарантоване. Поразки набагато корисніші, ніж перемоги, оскільки слугують для того, щоб розім'яти уяву, подумати над наступним кроком, спланувати наступну стратегію. Справжні ж успіхи - несподівані, раптові, адже саме тоді, коли не очікуєш результату, відбуваються найбільші відкриття. А тим, хто запитує її, що є запорукою її успіху, вона відповідає трьома рішеннями: наполегливість, сміливість і чітке бачення своїх цілей.

 

Elfriede Jelinek
Angela Scozzafava





Laura Zernik

 

Premio Nobel per la letteratura 2004 Per «[…] il flusso melodico di voci e controvoci in romanzi e testi teatrali, che con estremo gusto linguistico rivelano l’assurdità dei cliché sociali e il loro potere […]. «Viennese, ebrea, slava»: così si descrive Elfriede Jelinek in un’intervista attribuendosi un’identità composita, ai margini.

Nata in Stiria nel 1946, si trasferisce presto a Vienna. Il padre, Friedrich, è un chimico ebreo che si era salvato dalle persecuzioni perché impiegato in un’industria bellica; dagli anni Cinquanta soffre di crisi depressive. La madre, Olga Ilone Buchner, di origine rumena, provvede al mantenimento della famiglia. Elfriede, come dichiara nel 2020, vive in un ambiente in cui i ruoli erano capovolti: la madre «era la figura eccezionalmente forte, mentre il padre era il debole». A entrambi genitori rimprovera di averle rubato l’infanzia: il padre non l’ha difesa dalle ambizioni materne, la madre le ha imposto un programma educativo inflessibile. Fin da piccola viene orientata verso una carriera musicale: studia pianoforte, violino, organo, composizione, frequenta il conservatorio di Vienna dove si diploma come organista nel 1971. Non completa gli studi universitari a causa di crisi di agorafobia, disturbo che l’accompagna per tutta la vita. Vive un periodo d’isolamento durante il quale s’immerge nella lettura dei classici, scopre Roland Barthes e coltiva la passione per la scrittura. Comincia a pubblicare poesie e romanzi e si avvicina ai movimenti contestatari del Sessantotto. Nel 1974 aderisce al Partito comunista austriaco dal quale uscirà nel 1991. La sua produzione è molto varia e ricca: spazia da raccolte di poesie (L’ombra di Lisa, 1967) a romanzi, sceneggiature cinematografiche, testi teatrali.

Jelinek è anche traduttrice, autrice di libretti d’opera e di tre Lieder dodecafonici. Numerosi sono i premi che ha ricevuto: tra di essi il premio Heinrich Böll nel 1986, il Georg Büchner nel 1998 e nel 2004 il premio Franz Kafka e il Nobel. Elfriede Jelinek è un’autrice corrosiva, controcorrente. I temi che tratta sono scomodi, lo stile sperimenta forme innovative ed è tagliente come frammenti di vetro. Quando le viene conferito il Nobel molti reagiscono con sconcerto: per citare un solo caso, ma significativo, va ricordato che Knut Ahnlund, membro della Commissione del Nobel, si dimette dall’Accademia in dissenso con questa decisione. Per la stessa Jelinek il premio è inaspettato, è “confusa e imbarazzata”. A causa della sua persistente agorafobia non ritira il premio di persona, ma invia un video in cui legge il suo discorso In disparte. In esso è possibile rintracciare alcuni elementi significativi della sua poetica. La realtà «non si lascia mettere in ordine», è «spettinata», spinge in disparte il poeta, il cui «posto è sempre al di fuori»; l’intellettuale cammina accanto agli altri, ma non sa vivere come loro, il suo sguardo è obliquo: per questo ha la possibilità di superare il «dire» della chiacchiera, del discorso superficiale per approdare al «parlare», che parte dalla superficie delle cose, dalla descrizione della realtà, ma la destruttura, «penetrando fino al nocciolo. Come un verme nella mela». Alle parole Jelinek attribuisce un compito gravoso e un grande potere; la sua scrittura, che lei stessa definisce una «partitura di linguaggio», lavora sulla dimensione acustica, ritmica, è una lunga onda sonora, debitrice alla sua formazione musicale. Amplificazioni, estensioni, aumenti si riconoscono nei suoi testi, i temi si intrecciano secondo una tecnica contrappuntistica, si ha una processione ripetuta e ossessiva di frasi, ricca di graffianti virtuosismi, di citazioni letterarie, di scarti nel registro linguistico, di giochi di parole delle quali distorce il senso. Attraverso questa tecnica, raffinata e dissacratoria, vuole «costringere lo stesso linguaggio […], anche contro la sua volontà, a restituire la verità che sta dietro le cose». Jelinek disseziona la società capitalistica neoliberista per mostrarne la ferocia ed è particolarmente critica verso il suo Paese, amato e odiato. L’Austria vive nell’ipocrisia di una menzogna storica: non ha fatto i conti con la sua storia antisemita, col disprezzo per le minoranze che sono state «cultura batterica» per il nazismo.

Il tema della memoria negata, presente in molte opere, è evidente nel romanzo Gli esclusi in cui segnala l’impunità di tanti nazisti (il padre del protagonista) e la violenza che si perpetua nella società avvelenando anche i giovani che, infatti, la riproducono rabbiosamente. In Burgtheater, un’opera teatrale del 1985, denuncia le complicità col nazismo di alcuni attori attivi e noti anche nel dopoguerra. L’Austria continua a essere un paese chiuso, paternalista, che esclude le donne dagli apici delle produzioni culturali e musicali. Il suo essere femminista («cos’altro dovrebbe essere una donna?») la porta a sviscerare senza pietà il rapporto tra i sessi – e la sessualità – come rapporto di predominio, che si aggiunge alle disuguaglianze sociali. Nel romanzo Le Amanti le due giovani protagoniste, vittime e complici, vedono l’unica possibilità di futuro nel matrimonio e nei figli, e non riescono a liberarsi, a liberare le loro voci, le loro potenzialità. «Se qualcuno ha un destino è un uomo, se qualcuno riceve un destino è una donna». Erika, l’insegnante di pianoforte protagonista del romanzo La Pianista, vive un rapporto morboso e autolesionista con la madre, ambiziosa e inquisitrice. Vive una sessualità voyeuristica, ma quando si illude di poter stabilire un rapporto (amoroso?) con un suo studente, tutto precipita nella violenza: Klemmer, libero dalla disciplina musicale e posto su un piano di parità con la maestra, ora che ha imparato «a conoscere la libertà», rivela la vera natura fallocratica del rapporto tra i sessi esercitando una violenza bruta e primordiale contro la donna. Nel romanzo La voglia, uno dei più discussi, definito pornografico per la sua crudezza, descrive con audaci strategie narrative (tra l’altro, collage di liriche d’amore di grandi autori ottocenteschi) il tema della donna ridotta a oggetto sessuale in qualunque forma di relazione, dalle produzioni pornografiche fino al matrimonio, anche se qui in maniera più nascosta.

Il romanzo è del 1989 ma ancora oggi – come scrive nel 2020 – nella sostanza «si perpetuano i medesimi rapporti di potere». «Danno ai nervi, i testi! Sono faticosi e penetranti», scrive di lei Nicolas Stemann. È vero, è una lettura impegnativa, provocatoria, perturbante, ma necessaria: i suoi personaggi non sollecitano l’identificazione empatica ma la riflessione razionale. Jelinek apre domande inquietanti e urgenti sulla contemporaneità.

«Il narrare è una necessità, a volte urgenza, ma sempre un atto politico»: un martello nelle mani di Elfriede Jelinek.


Traduzione francese

Guenoah Mroue

Prix Nobel de littérature 2004 Pour «[... ] le flot mélodique de voix et de contre-voix dans les romans et les textes théâtraux, qui révèlent avec un goût linguistique extrême l’absurdité des clichés sociaux et leur pouvoir [...]. «Viennoise, juive, slave» : c’est ce que décrit Elfriede Jelinek dans une interview en s’attribuant une identité composite, en marge.

Née en Styrie en 1946, elle s’installe bientôt à Vienne. Son père, Friedrich, est un chimiste juif qui s’était sauvé des persécutions parce qu’il était employé dans une industrie de guerre; depuis les années 1950, il souffre de crises dépressives. Sa mère, Olga Ilone Buchner, d’origine roumaine, subvient aux besoins de la famille. Elfriede, comme elle le déclare en 2020, vit dans un environnement où les rôles étaient inversés : la mère «était la figure exceptionnellement forte, tandis que le père était le faible». Les deux parents lui reprochent de lui avoir volé son enfance : le père ne l’a pas défendue des ambitions maternelles, la mère lui a imposé un programme éducatif inflexible. Dès son plus jeune âge, elle est orientée vers une carrière musicale : elle étudie le piano, le violon, l’orgue,et la composition et fréquente le conservatoire de Vienne où elle obtient son diplôme d’organiste en 1971. Elle ne termine pas ses études universitaires à cause d’une crise d’agoraphobie qui l’accompagne toute sa vie. Elle vit une période d’isolement au cours de laquelle elle s’immerge dans la lecture des classiques, elle découvre Roland Barthes et cultive la passion pour l’écriture. Elle commence à publier des poèmes et des romans et se rapproche des mouvements contestataires de Soixante-huit. En 1974, elle adhère au Parti communiste autrichien duquel elle sortira en 1991. Sa production est très variée et riche : elle va des recueils de poésie (L’Ombre de Lisa, 1967) aux romans, scénarios cinématographiques, textes théâtraux.

Jelinek est également traductrice, auteur de livrets d’opéra et de trois Lieder dodecafonici. Elle a reçu de nombreux prix, dont le prix Heinrich Böll en 1986, le prix Georg Büchner en 1998 et le prix Franz Kafka et le prix Nobel en 2004. Elfriede Jelinek est une auteur corrosive à contre-courant. Les thèmes qu’elle aborde sont inconfortables, le style expérimente des formes innovantes et il est tranchant comme des éclats de verre. Lorsqu’on lui décerne le prix Nobel, beaucoup réagissent de manière déconcertante : pour ne citer qu’un cas, mais significatif, il faut rappeler que Knut Ahnlund, membre de la Commission du prix Nobel, démissionne de l’Académie en désaccord avec cette décision. Pour Jelinek elle-même, le prix est inattendu, elle est "confuse et embarrassée". En raison de son agoraphobie persistante, elle ne retire pas le prix en personne, mais envoie une vidéo dans laquelle elle lit son discours à l’écart. On peut y retrouver quelques éléments significatifs de sa poétique. La réalité «ne se laisse pas mettre en ordre», c’est « échevelée », pousse à l’écart le poète, dont «la place est toujours à l’extérieur»; l’intellectuel marche à côté des autres, mais ne sait pas vivre comme eux, son regard est oblique : c’est pour cela qu’il a la possibilité de dépasser le «dire» du bavardage, du discours superficiel pour arriver au « parler », qui part de la surface des choses, de la description de la réalité, mais la déstructuration, «en pénétrant jusqu’au noyau. Comme un ver dans une pomme». Jelinek attribue aux mots une lourde tâche et un grand pouvoir; son écriture, qu’elle définit elle-même comme une « partition de langage », travaille sur la dimension acoustique, rythmique, est une longue onde sonore, débiteur de sa formation musicale. Amplifications, extensions, et augmentations sont reconnues dans ses textes, les thèmes sont entrelacés selon une technique de contrepoint, il y a une procession répétée et obsessionnelle de phrases, riche de virtuoses rugissantes, de citations littéraires, de rebuts dans le registre linguistique, de jeux de mots dont elle déforme le sens. A travers cette technique, raffinée et désacralisante, elle veut «contraindre le même langage [...], même contre sa volonté, à restituer la vérité qui est derrière les choses». Jelinek dissèque la société capitaliste néolibérale pour montrer sa férocité et elle est particulièrement critique envers son pays, aimé et haï. L’Autriche vit dans l’hypocrisie d’un mensonge historique : elle n’a pas tenu compte de son histoire antisémite, du mépris pour les minorités qui ont été «culture bactérienne» pour le nazisme.

Le thème de la mémoire niée, présent dans de nombreuses œuvres, il est évident dans le roman Les exclus où elle signale l’impunité de nombreux nazis (le père du protagoniste) et la violence qui se perpétue dans la société en empoisonnant même les jeunes qui, en effet, la reproduisent avec colère. Dans Burgtheater, une pièce de théâtre de 1985, elle dénonce les complicités avec le nazisme de certains acteurs actifs et connus même après la guerre. L’Autriche reste un pays fermé, paternaliste, qui exclut les femmes des sommets des productions culturelles et musicales. Son être féministe (« quoi d’autre devrait-elle être une femme ») l’amène à explorer sans pitié le rapport entre les sexes - et la sexualité - comme rapport de domination, qui s’ajoute aux inégalités sociales. Dans le roman Le Amanti, les deux jeunes protagonistes, victimes et complices, voient l’unique possibilité d’avenir dans le mariage et dans les enfants, et ne parviennent pas à se libérer, à libérer leurs voix, leurs potentialités. «Si quelqu’un a un destin, c’est un homme, si quelqu’un reçoit un destin, c’est une femme». Erika, le professeur de piano protagoniste du roman La Pianista, vit une relation morbide et autodestructrice avec sa mère, ambitieuse et inquisitrice. Elle vit une sexualité voyeuriste, mais quand elle croit pouvoir établir une relation (amoureuse ?) avec un de ses étudiants, tout s’enfonce dans la violence : Klemmer, libéré de la discipline musicale et placé sur un pied d’égalité avec la maîtresse, maintenant qu’il a appris «à connaître la liberté» révèle la véritable nature fallocratique de la relation entre les sexes en exerçant une violence brute et primordiale contre la femme. Dans le roman La Voglia, l’un des plus discutés, défini pornographique pour sa cruauté, elle décrit avec des stratégies narratives audacieuses (entre autres, des collages de lyriques d’amour de grands auteurs du XIXe siècle) le thème de la femme réduite à un objet sexuel dans toute forme de relation, des productions pornographiques jusqu’au mariage, même si c’est ici de manière plus cachée.

Le roman date de 1989 mais encore aujourd’hui - comme elle l’écrit en 2020 - en substance «se perpétuent les mêmes rapports de pouvoir». « Ils donnent aux nerfs, les textes ! Ils sont fatigants et pénétrants», écrit d’elle Nicolas Stemann. C’est vrai, c’est une lecture exigeante, provocante, et perturbante, mais nécessaire : ses personnages ne sollicitent pas l’identification empathique mais la réflexion rationnelle. Jelinek ouvre des questions inquiétantes et urgentes sur la contemporanéité.

«Le récit est une nécessité, parfois urgente, mais toujours un acte politique» : un marteau dans les mains d’Elfriede Jelinek.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

For her "…musical flow of voices and counter-voices in novels and plays that, with extraordinary linguistic zeal, reveal the absurdity of society's clichés and their subjugating power." "Viennese, Jewish, Slavic" - this is how Elfriede Jelinek describes herself in an interview, attributing to herself a composite identity, on the margins.

Born in Styria, Austria in 1946, she soon moved to Vienna. Her father, Friedrich, was a Jewish chemist who had saved himself from persecution because, during the Nazi era, he was employed in a war industry. Beginning in the 1950s, he suffered from bouts of depression. Her mother, Olga Ilone Buchner, of Romanian descent, provided for the family. Elfriede, as she stated in 2020, lived in an environment where roles were reversed. Her mother "was the exceptionally strong figure, while her father was the weak one." She blamed both parents for stealing her childhood - her father did not defend her from her mother's ambitions, and her mother imposed an inflexible educational program on her. From an early age she was oriented toward a musical career. She studied piano, violin, organ, composition, and attended the Vienna Conservatory of Music where she graduated as organist in 1971. She did not complete her university studies because of bouts of agoraphobia, a disorder that has accompanied her throughout her life. She lived through a period of isolation during which she immersed herself in reading the classics, discovering Roland Barthes and cultivating a passion for writing. She began publishing poetry and novels and became involved in the protest movements of 1968. In 1974 she joined the Austrian Communist Party, which she left in 1991. Her output is varied and rich - it ranges from collections of poems (Lisa's Shadow, 1967) to novels, film scripts, and plays.

Jelinek is also a translator, author of opera librettos and three twelve-tone Lieder. She has received numerous awards, including the Heinrich Böll Prize in 1986, the Georg Büchner Prize in 1998, and the Franz Kafka Prize and Nobel Prize in 2004. Elfriede Jelinek is a corrosive, countercultural author. Her themes are uncomfortable, her style experiments with innovative forms and is as sharp as shards of glass. When she was awarded the Nobel Prize many reacted with dismay. To cite just one but significant example, it should be mentioned that Knut Ahnlund, a member of the Nobel Committee, resigned from the Academy in disagreement with this decision. For Jelinek herself, the award was unexpected; she was "confused and embarrassed." Because of her persistent agoraphobia, she did not accept the award in person, but sent a video in which she read her speech Sidelined. It is possible, in the speech, to trace some significant elements of her poetics. Reality "does not let itself be put in order," it is "disheveled," it pushes aside the poet, whose "place is always on the outside." The intellectual walks beside others, but does not know how to live like them, his or her gaze is oblique. That is why he or she has the possibility of overcoming the "restating" of chatter, of superficial discourse, to rather arrive at "speaking," which starts from the surface of things, from the description of reality, but deconstructs it, "penetrating to the core. Like a worm in an apple." Jelinek attributes an onerous task and great power to words. Her writing, which she calls a "language score," works on the acoustic, rhythmic dimension. It is one long sound wave, indebted to her musical training. Amplifications, extensions, augmentations can be recognized in her texts, themes are interwoven according to a contrapuntal technique, there is a repeated and obsessive procession of phrases, full of biting virtuosity, literary quotations, deviations in linguistic register, wordplay in which she distorts the meaning of the words. Through this refined and desecrating technique, she wants to "force language itself [...], even against its will, to restore the truth behind things." Jelinek dissects neoliberal capitalist society to show its ferocity and is particularly critical of her beloved and hated country. Austria lives in the hypocrisy of a historical lie. It has not come to terms with its anti-Semitic history, with its contempt for the minorities who were a "bacterial culture" for Nazism.

The theme of denied memory, present in many of her works, is evident in the novel Die Ausgesperrten [translated into English as Wonderful, Wonderful Times], in which she points out the impunity of so many Nazis (the protagonist's father) and the violence that is perpetuated in society by poisoning even the young, who, rabidly reproduce it. In Burgtheater. Farce with Songs, a 1985 play, she denounces the complicity with Nazism of some active and well-known actors even after the war. Austria continues to be a closed, paternalistic country that excludes women from the pinnacles of cultural and musical productions. Her being a feminist ("what else should a woman be?") leads her to mercilessly eviscerate the relationship between the sexes - and sexuality - as a relationship of dominance, adding to social inequalities. In the novel Die Liebhaberinnen [Women as Lovers], the two young female protagonists, victims and accomplices, see their only chance for a future in marriage and children, and are unable to free themselves, to release their voices or their potential. "If someone has a destiny it is a man, if someone receives a destiny it is a woman." Erika, the protagonist of the novel Die Klavierspielerin [The Piano Teacher], lives a morbid and self-defeating relationship with her ambitious and inquisitive mother. She lives a voyeuristic sexuality, but when she deludes herself into the illusion that she can establish a (loving?) relationship with one of her students, everything plunges into violence. The student, Klemmer, free from musical discipline and placed on an equal footing with the teacher, now that he has learned "to know freedom," reveals the true phallocratic nature of the relationship between the sexes by exerting brute and primal violence against the woman. In the novel Lust, one of her most talked-about novels, labeled pornographic for its rawness, she describes with daring narrative strategies (among other things, collage of love lyrics by great nineteenth-century authors) the theme of woman reduced to a sexual object in any form of relationship, from pornographic productions to marriage, though there in a more covert manner.

The novel is from 1989 but in essence even today - as she writes in 2020 - "the same power relations are perpetuated." "They get on one's nerves, these writings! They are exhausting and penetrating," Nicolas Stemann wrote about her work. True, it is challenging, provocative, disturbing, but necessary reading. Her characters do not solicit empathic identification but rational reflection. Jelinek raises disturbing and urgent questions about the contemporary world.

«Storytelling is a necessity, sometimes urgently, but always a political act». A hammer in Elfriede Jelinek's hands.


Traduzione spagnola

Syd Stapleton

Premio Nobel de Literatura 2004 Por «[...] el flujo melódico de voces y contravoces en novelas y en obras de teatro que, con extremo gusto lingüístico, revelan lo absurdo de los clichés sociales y su poder [...]». «Vienesa, judía, eslava»: así Elfriede Jelinek se describe a sí misma en una entrevista, atribuyéndose una identidad compuesta y al margen.

Nacida en Estiria en 1946, pronto se traslada a Viena. Su padre, Friedrich, era un químico judío que se había salvado de la persecución porque estaba empleado en una industria bélica; desde los años cincuenta sufría de crisis de depresión. Su madre, Olga Ilone Buchner, de origen rumano, era quien mantenía a la familia. Elfriede, como afirma en 2020, vivió en un entorno en el que los papeles estaban invertidos: su madre «era la figura excepcionalmente fuerte, en cambio su padre era el débil». A ambos padres les reprocha haberle robado su infancia: su padre no la protegió de las ambiciones de su madre y esta última le impuso un programa educativo inflexible. Desde muy joven la orientaron hacia una carrera musical: estudió piano, violín, órgano, composición y asistió al Conservatorio de Viena donde se graduó como organista en 1971. No completó sus estudios universitarios a causa de su agorafobia, un trastorno que la acompañó durante toda su vida. Vivió un periodo de aislamiento durante el cual se sumergió en la lectura de los clásicos, descubrió a Roland Barthes y cultivó la pasión por la escritura. Comenzó a publicar poemas y novelas y se implicó en los movimientos de protesta de 1968. En 1974 se afilió al Partido Comunista Austriaco que sin embargo abandona en 1991. Su producción es variada y amplia: abarca desde poemarios (como Lisas Schatten, conocido como Las sombras de Lisa de 1967) hasta novelas, guiones cinematográficos y obras de teatro.

Jelinek es también traductora, autora de libretos de ópera y de tres Lieder dodecafónicos. Ha recibido numerosos galardones: entre ellos en 1986 el Premio Heinrich Böll, en 1998 el Premio Georg Büchner y en 2004 el Premio Franz Kafka y el Premio Nobel. Elfriede Jelinek es una autora corrosiva y contracorriente. Los temas que trata son incómodos, el estilo experimenta con formas innovadoras y es afilado como fragmentos de cristal. Muchos reaccionaron con consternación cuando se le concedió el Premio Nobel: por mencionar sólo un caso, pero significativo, Knut Ahnlund, miembro del Comité Nobel, dimitió de la Academia en desacuerdo con esta decisión. Para la misma Jelinek el premio es inesperado y se siente "confusa y avergonzada". Debido a su persistente agorafobia no recoge el premio en persona, sino que envía un vídeo en el que lee su discurso Im Abseits (En mi ausencia) en el cual podemos rastrear algunos elementos significativos de su poética. La realidad «no se deja poner en orden», está «despeinada», aparta al poeta, cuyo «lugar está siempre fuera»; el intelectual camina junto a los demás, pero no sabe vivir como ellos, su mirada es oblicua: pues esto tiene la posibilidad de superar el «decir» de la cháchara, del discurso superficial, para llegar al «hablar» que parte de la superficie de las cosas, de la descripción de la realidad, pero la deconstruye, «penetrando hasta el fondo. Como un gusano en la manzana». Jelinek atribuye una pesada tarea y un gran poder a las palabras; su escritura, que ella denomina una «partitura del lenguaje», trabaja en la dimensión acústica, rítmica, es una larga onda sonora, deudora de su formación musical. En sus textos se reconocen amplificaciones, extensiones, aumentos y los temas se entrecruzan según una técnica contrapuntística; se verifica una procesión repetida y obsesiva de las frases, llenas de virtuosismos mordaces, citas literarias, desviaciones en el registro lingüístico y juegos de palabras que distorsionan el sentido. Mediante esta técnica depurada y profanadora quiere «obligar al propio lenguaje [...], incluso contra su voluntad, a restablecer la verdad que hay detrás de las cosas». Jelinek disecciona la sociedad capitalista neoliberal para mostrar su ferocidad y se muestra muy crítica con su país, tanto amado como odiado. Austria vive en la hipocresía de una mentira histórica: no ha respondido de su historia antisemita y su desprecio por las minorías que fueron una «cultura bacteriana» para el nazismo.

El tema de la memoria negada, presente en muchas de sus obras, es evidente en la novela Die Ausgesperrten (Los excluidos), en la que señala la impunidad de muchos nazis (su padre es el protagonista) y la violencia que se perpetúa en la sociedad envenenando incluso a los jóvenes, que, de hecho, la reproducen rabiosamente. En Burgtheater, una obra teatral de 1985, denunció la complicidad con el nazismo de algunos actores activos y conocidos incluso después de la guerra. Austria sigue siendo un país cerrado y paternalista que excluye a las mujeres de la cumbre de la producción cultural y musical. Su ser feminista («¿qué otra cosa puede ser una mujer?») la lleva a destripar sin piedad la relación entre los sexos –y la sexualidad– como una relación de dominación que se suma a las desigualdades sociales. En la novela Die liebhaberinnen (Las amantes), las dos jóvenes protagonistas, víctimas y cómplices, ven en el matrimonio y en los hijos la única posibilidad de futuro y son incapaces de liberarse, de dar rienda suelta a su voz y a su potencial. «Si alguien tiene un destino es un hombre, si alguien recibe un destino es una mujer». Erika, la profesora de piano protagonista de la novela Die Klavierspielerin (La pianista) vive una relación morbosa y autodestructiva con su ambiciosa e inquisitiva madre. Vive una sexualidad voyeurista, pero cuando se ilusiona pensando que puede establecer una relación (¿amorosa?) con uno de sus alumnos, todo desciende a la violencia: Klemmer, libre de la disciplina musical y situado en un plano de igualdad con su maestra, ahora que ha aprendido «a conocer la libertad», revela la verdadera naturaleza falocrática de la relación entre los sexos ejerciendo una violencia bruta y primaria contra la mujer. En la novela Lust (Deseo), una de las más polémicas, definida como pornográfica por su crudeza, describe con atrevidas estrategias narrativas (entre otras cosas, collages de líricas de amor de grandes autores del siglo XIX) el tema de la mujer reducida a objeto sexual en cualquier tipo de relación, desde las producciones pornográficas hasta el matrimonio, aunque aquí de forma más disimulada.

Esta novela es de 1989, pero aún hoy –como escribe en 2020– en sustancia «se perpetúan las mismas relaciones de poder». «Los textos te ponen de los nervios. Son agotadores y penetrantes», escribe Nicolas Stemann. Es cierto: se trata de una lectura desafiante, provocadora, inquietante, pero necesaria: sus personajes no provocan una identificación empática, sino una reflexión racional. Jelinek abre inquietantes y urgentes interrogantes sobre la contemporaneidad.

«Contar historias es una necesidad, a veces es una urgencia, pero siempre es un acto político»: un martillo en las manos de Elfriede Jelinek.


Traduzione ucraina

Alina Petelko

Нобелівська премія з літератури 2004 року Для «[...] мелодійний потік голосів і контрголосів у романах і театральних текстах, які з надзвичайним мовним смаком розкривають абсурдність соціальних кліше та їх силу [...]. «Віденка, єврейка, слов’янка»: так описує себе в інтерв’ю Ельфріда Єлінек, приписуючи собі складну ідентичність. 

Народившись у Штирії в 1946 році, вона незабаром переїхала до Відня. Її батько, Фрідріх, був єврейським хіміком, який врятувався від переслідувань, оскільки працював у військовій промисловості; з 1950-х років страждав від депресивних кризів. Утримання сім'ї забезпечує мати Ольга Ілоне Бюхнер румунського походження. Ельфріда, як вона заявила в 2020 році, живе в середовищі, де ролі помінялися: мати «була виключно сильною фігурою, а батько — слабкою». Вона звинувачує обох батьків у тому, що вони вкрали її дитинство: батько не захистив її від материнських амбіцій, мати нав'язала їй безкомпромісну програму виховання. З ранніх років вона була орієнтована на музичну кар’єру: вивчала фортепіано, скрипку, орган, композицію, відвідувала Віденську консерваторію, де закінчила органістку в 1971 році. Вона не завершила навчання в університеті через кризу агорафобії, розлад, який супроводжує її все життя. Вона переживає період ізоляції, під час якого вона занурюється в читання класики, відкриває для себе Ролана Барта та плекає пристрасть до письма. Починає публікувати вірші та романи та наближається до протестних рухів 68-го. У 1974 році вона вступила в Комуністичну партію Австрії, з якої вийшла в 1991 році. Її творчість дуже різноманітна і багата: від збірок віршів (Lisas Schatten, 1967) до романів, кіносценаріїв, п’єс.

Єлінек також є перекладачем, автором оперних лібрето та трьох дванадцятитонових Lieder пісень. Вона отримала численні премії: серед них премія Генріха Бьолля в 1986 році, премія Георга Бюхнера в 1998 році, а в 2004 році премія Франца Кафки та Нобелівська премія. Ельфріда Єлінек — їдкий, ексцентричний автор. Теми, які вона опрацьовує, незручні, стиль експериментує з інноваційними формами і є різким, як осколки скла. Коли їй присуджують Нобелівську премію, багато хто реагує з подивом: якщо згадати лише один випадок, але знаменний, то варто згадати, що Кнут Анлунд, член Нобелівської комісії, який залишає членство в Академії на знак незгоди з цим рішенням. Для самої Єлінек приз несподіваний, вона «збентежена і зніяковіла». Через стійку агорафобію вона не забирає приз особисто, а надсилає відео, на якому читає свою промову в кулуарах. У ньому можна простежити деякі суттєві елементи її поетики. Реальність «не дає себе привести в порядок», вона «розпатлана», відсуває поета, чиє "місце завжди поза межами"; інтелектуал крокує поруч з іншими, але не вміє жити, як вони, його погляд косий: з цієї причини він має можливість подолати «говоріння» балаканини, щоб дійти до «говоріння», яке починається з поверхні речей, з опису реальності, але деконструює її, «проникаючи до серцевини. Як хробак у яблуці». Словам Єлінек приписує важке завдання і велику силу; її письмо, яке вона сама визначає як «мовну партитуру», працює на акустичному, ритмічному вимірі, це довга звукова хвиля, завдячена її музичній підготовці. У її текстах впізнаються підсилення, розширення, посилення, теми переплітаються за технікою контрапункту, є повторювана і нав’язлива хода фраз, сповнених уїдливої ​​віртуозності, літературних цитат, прогалин у мовному регістрі, каламбурів, зміст яких вона спотворює. За допомогою цієї вишуканої та профанаційної техніки вона хоче «змусити саму мову […], навіть проти її волі, відновити правду, яка лежить за речами». Єлінек аналізує неоліберальне капіталістичне суспільство, щоб показати його жорстокість, і особливо критично ставиться до своєї улюбленої та ненависної країни. Австрія живе в лицемірстві історичної брехні: вона не змирилася зі своєю антисемітською історією, з презирством до меншин, які для нацизму були «бактеріальною культурою».

Тема позбавленої пам'яті, присутня в багатьох творах, є очевидною в романі Die Ausgesperrten (За дверима), в якому вона вказує на безкарність багатьох нацистів (батько головного героя) і насильство, яке продовжується в суспільстві, отруюючи навіть молодих людей, які, по суті, гнівно відтворюють його. У Burgtheater (Міський театр), п'єса 1985 року, вона засуджує співучасть із нацизмом деяких акторів, відомих навіть після війни. Австрія продовжує залишатися закритою патерналістською країною, яка виключає жінок з висот культурного та музичного виробництва. Її феміністична позиція («якою ще повинна бути жінка?») спонукає її до безжального аналізу стосунків між статями — і сексуальності — як стосунків домінування, які посилюють соціальну нерівність. У романі Die Liebhaberinnen (Коханки) дві молоді героїні, жертви та спільники, вони бачать єдине можливе майбутнє в шлюбі та дітях, і не можуть відчути себе вільними, вивільнити свій голос, свій потенціал. «Якщо в когось є доля, то це у чоловіка, якщо хтось отримує долю, то це жінка». Еріка, вчителька фортепіано, яка є головною героїнею роману Die Klavierspielerin (Піаністка), живе в хворобливих і принизливих стосунках зі своєю амбітною та допитливою мамою. Вона живе вуаєристською сексуальністю, але коли вона вводить себе в оману, що може встановити стосунки (любовні?) з одним із своїх учнів, усе перетворюється на насильство: Клеммер, вільний від музичної дисципліни та поставлений нарівні з вчителькою, тепер, коли він навчився «пізнати свободу», розкриває справжню фалократичну природу стосунків між статями, застосовуючи жорстоке та первісне насильство проти жінки. У романі Lust (Хіть), одному з найбільш обговорюваних, визначеному як порнографічний через його грубість, письменниця описує за допомогою сміливих наративних стратегій (між іншим, колаж із любовної лірики великих авторів дев’ятнадцятого століття) тему жінки, зведеної до сексуального об’єкта в будь-якій формі стосунків, від порнографічної продукції до шлюбу (хоча тут і в більш прихованій формі).

Роман написаний у 1989 році, але й сьогодні, як він писав у 2020 році, по суті «зберігаються ті самі відносини влади між статями». «Вони діють тобі на нерви, тексти!» Вони виснажливі та пронизливі», – пише про неї Ніколас Стеманн. Це справді складне, провокаційне, тривожне, але необхідне читання: її герої вимагають не емпатичного ототожнення, а раціонального осмислення. Єлінек відкриває хвилюючі й нагальні питання про сучасність.

«Розповідь — це необхідність, інколи термінова потреба, але завжди політичний акт»: як молоток у руках Ельфріде Єлінек.

 

Wangari Maatha
Rosanna De Longis





Laura Zernik

 

Il Comitato norvegese per il Nobel ha deciso di assegnare il Premio Nobel per la Pace 2004 a Wangari Maathai per il suo contributo allo sviluppo sostenibile, alla democrazia e alla pace.

Wangari Maathai Muta nasce il 1° aprile del 1940 a Nyeri, nella regione montuosa centrale del Kenya britannico, in una famiglia poligamica contadina di etnia kikuyu dedita all’allevamento del bestiame. Per volere della madre e di uno dei fratelli maggiori, riceve un’istruzione primaria nelle scuole locali e prosegue gli studi nelle scuole cattoliche di lingua inglese. Gli ottimi risultati scolastici le valgono l’ammissione all’unico liceo femminile del Kenya, la Loreto High School di Limuru, dove manifesta i suoi interessi per le discipline scientifiche. Al tempo, poche erano le giovani che completavano le scuole superiori e, nella maggioranza dei casi, concludevano il loro percorso di formazione accedendo a un impiego come insegnanti o infermiere. Ma Wangari punta ad essere ammessa nella “Oxford dell’Africa orientale”, l’Università di Makerere. È la fine degli anni Cinquanta: in quel periodo prossimo alla decolonizzazione gli Stati Uniti attuano programmi di promozione degli studi e di formazione per la gioventù africana, la futura classe dirigente del continente. Wangari verrà selezionata tra le/i 300 studenti kenyoti che usufruiranno di una borsa di studio della Fondazione Joseph P. Kennedy per frequentare l’università negli Stati Uniti e viene indirizzata al Mount St. Scholastica College in Atchison (Kansas), gestito da suore benedettine, dove conseguirà il Bachelor of Science nel 1964; successivamente, nel 1966, otterrà la laurea di secondo livello in Biologia all’Università di Pittsburgh.

Gli anni statunitensi sono stati per lei «un periodo liberatorio, ma anche inquietante… Fino a quel momento ero vissuta fra le suore, come una suora». Il ritorno in patria, ormai divenuta indipendente, è carico di aspettative: Wangari è impaziente di mettere a frutto il suo ricco bagaglio di istruzione e di impegnarsi nella ricerca e nell’insegnamento universitario ponendosi al servizio delle persone deboli e indifese. Il suo entusiasmo entra in collisione con le logiche di spartizione “tribale” che affliggono l’amministrazione e l’accademia: dopo le prime delusioni per un lavoro promesso e poi negato, accetta di andare ancora una volta all’estero. Nel 1967 è in Germania, a Giessen e a Monaco, per proseguire le sue ricerche sui tessuti animali, già iniziate negli Stati Uniti, che la porteranno nel 1971 a conseguire un dottorato di ricerca in Anatomia veterinaria all’Università di Nairobi. Nel 1969 il matrimonio con Mwangi Maathai, un uomo d’affari che intende dedicarsi alla politica, dal quale avrà due figlie e un figlio. Ma inizia allora anche per Wangari un’intensa attività pubblica. Collabora con il marito, che nel 1974 è stato eletto nel parlamento keniota, nell’intento di creare nuovi posti di lavoro e fonda Envirocare, una società che crea vivai e intende finanziarsi con la vendita di alberi. Envirocare fallisce poco dopo, anche per la gestione clientelare dei finanziamenti da parte del governo, che porta avanti ampi programmi di disboscamento per far posto alle grandi e redditizie piantagioni di tè e caffè. Ma la strada di Wangari è ormai segnata. Sulla scorta dei suoi studi di veterinaria e delle conoscenze scaturite dall’appartenenza a una famiglia di allevatori, ha modo di notare i mutamenti che stanno intervenendo nell’ambiente, specie la desertificazione dei territori e il deterioramento delle condizioni della zootecnia, un àmbito nel quale il Kenya aveva ricoperto fino ad allora un ruolo di eccellenza nel continente africano.

In quegli anni, oltre a divenire militante della Croce Rossa, Wangari è invitata a far parte dell’Environment Liaison Centre, una Ong fondata da alcune organizzazioni ambientaliste per cooperare al Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep), e del National Council of Women of Kenya, fondato nel 1964, dove ricoprirà ben presto cariche di rappresentanza anche a livello internazionale. Durante la Giornata mondiale per l’ambiente del 1977, con altre donne del Consiglio nazionale, Wangari pianta sette alberi in un parco di Nairobi: è l’inizio del Green Belt Movement, che si batterà non solo contro il degrado ambientale, ma anche contro la corruzione del governo e del partito unico di Daniel Arap Moi, succeduto nel 1978 a Jomo Kenyatta alla presidenza del Kenya.

Il movimento cresce e con esso la popolarità della sua fondatrice. Il Green Belt riesce a coinvolgere una larga parte della popolazione femminile dal momento che sostiene anche la lotta per la democrazia, per l’uguaglianza e i diritti umani e civili, per la libertà di espressione e, successivamente, per la cancellazione del debito estero dei Paesi più poveri. A quel punto il governo keniota scatena contro il movimento campagne di diffamazione e una forte repressione. Per le attiviste si spalancano le porte del carcere: anche per Wangari, che già nel 1977 ha subito un arresto nel corso della causa di divorzio per colpa che il marito le ha intentato. La repressione contro le manifestazioni ambientaliste è così violenta e brutale da suscitare le proteste di governi stranieri. Tra le battaglie condotte da Wangari e dal Green Belt Movement, quella mirata a impedire la costruzione nel parco Uhruri di Nairobi di un grattacielo di 60 piani ha assunto un particolare significato anche simbolico per aver costretto gli investitori stranieri a recedere dal progetto, che avrebbe sottratto alla fruizione pubblica ulteriori spazi. Tutti gli anni Novanta vedono il Kenya scosso da lotte intestine violente e da feroci repressioni del dissenso politico e sociale da parte del governo: repressioni che colpirono a più riprese il Green Belt Movement e Wangari stessa, nuovamente imprigionata. Gli anni Duemila si aprono all’insegna di parziali aperture del Paese a una via democratica, ma Wangari non si sente ancora pienamente sicura che le persecuzioni verso di lei siano terminate. Tuttavia, dopo un breve periodo trascorso a Yale a insegnare presso la School of Forestry and Environmental Studies, nel 2002 decide di cogliere le opportunità che si offrono grazie al nuovo corso intrapreso dal Kenya e di presentarsi alle elezioni nelle liste della National Rainbow Coalition (Narc): con sua sorpresa, viene eletta con una maggioranza schiacciante di voti, tanto da diventare, nel nuovo governo, vice-ministra dell’Ambiente e delle risorse naturali.

Nell’ottobre 2004 riceve il Premio Nobel per la Pace a riconoscimento del valore del suo approccio olistico all’ambientalismo e allo sviluppo sostenibile che, intrecciando ricerca scientifica, impegno sociale e militanza politica, mette al centro i diritti umani e i diritti delle donne e con essi la democrazia nel suo complesso e nel suo significato più profondo. Da tempo malata di tumore, Wangari Maathai muore a Nairobi il 25 settembre 2011.

In chiusura dell'autobiografia Solo il vento mi piegherà, Wangari scrive:

«Il lavoro della mia vita è andato ben oltre il piantare semplicemente alberi.[…] Piantando alberi, le mie colleghe e io abbiamo piantato idee. Le idee, come gli alberi, sono cresciute. Fornendo istruzione, accesso all’acqua e uguaglianza, il nostro movimento dà potere alle persone – che per la maggior parte sono povere e donne – che possono così agire e migliorare direttamente la vita dei singoli e delle famiglie. La nostra esperienza di circa trent’anni ha anche dimostrato che azioni ritenute semplici possono portare a grandi cambiamenti, al rispetto dell’ambiente, al buongoverno e a una cultura di pace. Un tale mutamento non è limitato al Kenya o all’Africa. Le sfide che aspettano l’Africa, in particolare il degrado ambientale, riguardano il mondo intero».


Traduzione francese

Guenoah Mroue

Le Comité Nobel norvégien a décidé de décerner le prix Nobel de la paix 2004 à Wangari Maathai pour sa contribution au développement durable, à la démocratie et à la paix.

Wangari Maathai Muta naît le 1er avril 1940 à Nyeri, dans la région montagneuse du centre du Kenya britannique, dans une famille polygame paysanne d’ethnie Kikuyu dédiée à l’élevage du bétail. Par la volonté de sa mère et d’un des frères aînés, elle reçoit une instruction primaire dans les écoles locales et poursuit ses études dans les écoles catholiques anglophones. Ses excellents résultats scolaires lui valent l’admission au seul lycée féminin du Kenya, le Loreto High School de Limuru, où elle manifeste son intérêt pour les disciplines scientifiques. À l’époque, peu de jeunes terminaient leurs études secondaires et, dans la plupart des cas, terminaient leur formation en accédant à un emploi d’enseignant ou d’infirmier. Mais Wangari vise à être admise dans "Oxford de l’Afrique de l’Est", l’Université de Makerere. C’est la fin des années Cinquante : dans cette période proche de la décolonisation, les États-Unis mettent en œuvre des programmes de promotion des études et de formation pour la jeunesse africaine, la future classe dirigeante du continent. Wangari sera sélectionnée parmi/les 300 étudiants kenyans qui bénéficieront d’une bourse de la Fondation Joseph P. Kennedy pour fréquenter l’université aux États-Unis et sera adressée au Mount St. Scholastica College à Atchison (Kansas), géré par des religieuses bénédictines, en 1964, elle obtient un Bachelor of Science, puis en 1966 un Bachelor of Biologie à l’Université de Pittsburgh.

Les années américaines ont été pour elle « une période libératrice, mais aussi inquiétante... Jusqu’à ce moment j’avais vécu parmi les sœurs, comme une soeur ». Wangari est impatient de mettre à profit son riche bagage éducatif et de s’engager dans la recherche et l’enseignement universitaires en se mettant au service des personnes faibles et sans défense. Son enthousiasme entre en collision avec les logiques de partage "tribales" qui affligent l’administration et l’académie : après les premières déceptions pour un travail promis puis refusé, elle accepte d’aller une fois de plus à l’étranger. En 1967, elle est en Allemagne, à Giessen et à Munich pour poursuivre ses recherches sur les tissus animaux, déjà commencées aux États-Unis, qui l’amèneront en 1971 à obtenir un doctorat en anatomie vétérinaire à l’Université de Nairobi. En 1969, elle épouse Mwangi Maathai, un homme d’affaires qui veut se consacrer à la politique, avec qui elle aura deux filles et un fils. Mais une intense activité publique commence alors pour Wangari. Elle collabore avec son mari, qui a été élu au parlement kenyan en 1974, dans le but de créer de nouveaux emplois et fonde Envirocare, une société qui crée des pépinières et entend se financer par la vente d’arbres. Envirocare échoue peu de temps après, y compris pour la gestion clientéliste des financements par le gouvernement, qui mène de vastes programmes de déforestation pour faire place aux grandes plantations rentables de thé et de café. Mais la route de Wangari est désormais tracée. Sur la base de ses études vétérinaires et des connaissances issues de l’appartenance à une famille d’éleveurs, elle a pu noter les changements qui interviennent dans l’environnement, notamment la désertification des territoires et la détérioration des conditions de l’élevage, le Kenya avait jusqu’alors joué un rôle d’excellence sur le continent africain.

Pendant ces années, en plus de devenir militante de la Croix-Rouge, Wangari est invitée à faire partie de l’Environment Liaison Centre, une ONG fondée par des organisations environnementales pour coopérer au Programme des Nations Unies pour l’environnement (UNEP)Le Conseil national des femmes du Kenya, fondé en 1964, y occupera bientôt des postes de représentation au niveau international. Lors de la Journée mondiale de l’environnement de 1977, Wangari plante sept arbres dans un parc de Nairobi avec d’autres femmes du Conseil national: c’est le début du Green Belt Movement, qui se battra non seulement contre la dégradation de l’environnement, mais aussi contre la corruption du gouvernement et du parti unique de Daniel Arap Moi, qui a succédé en 1978 à Jomo Kenyatta à la présidence du Kenya.

Le mouvement augmente et avec lui la popularité de sa fondatrice. La ceinture verte parvient à impliquer une grande partie de la population féminine puisqu’elle soutient également la lutte pour la démocratie, pour l’égalité et les droits humains et civils, pour la liberté d’expression et, au final, pour l’annulation de la dette extérieure des pays les plus pauvres. Le gouvernement kényan déclenche alors des campagnes de diffamation et une forte répression. Pour les activistes, les portes de la prison s’ouvrent grand, y compris pour Wangari, qui a déjà été arrêté en 1977 dans le cadre de la procédure de divorce pour faute que son mari lui a intentée. La répression contre les manifestations environnementales est si violente et brutale qu’elle suscite des protestations de gouvernements étrangers. Entre les batailles menées par Wangari et le Green Belt Movement, celle visant à empêcher la construction dans le parc Uhruri de Nairobi d’un gratte-ciel de 60 étages a pris une signification particulièrement symbolique en obligeant les investisseurs étrangers à se retirer du projet, qui aurait soustrait à la jouissance publique des espaces supplémentaires. Dans les années 1990, le Kenya est secoué par des luttes intestines violentes et par de féroces répressions de la dissidence politique et sociale du gouvernement : des répressions qui ont frappé à plusieurs reprises le Green Belt Movement et Wangari elle-même, à nouveau emprisonnée. Les années 2000 s’ouvrent à des ouvertures partielles du pays vers une voie démocratique, mais Wangari ne se sent pas encore pleinement sûre que les persécutions contre elle soient terminées. Cependant, après une brève période passée à Yale pour enseigner à la School of Forestry and Environmental Studies, en 2002, elle décide de saisir les opportunités qui s’offrent grâce au nouveau parcours entrepris par le Kenya et de se présenter aux élections dans les listes de la National Rainbow Coalition (NARC) : à sa surprise, elle est élue avec une majorité de voix écrasante, elle est devenue vice-ministre de l’environnement et des ressources naturelles dans le nouveau gouvernement.

En octobre 2004, elle reçoit le prix Nobel de la paix pour la reconnaissance de la valeur de son approche holistique de l’environnementalisme et du développement durable qui, mêlant recherche scientifique, engagement social et militantisme politique, met au centre des droits de l’homme et des droits de la femme, et avec eux la démocratie dans son ensemble et son sens le plus profond. Wangari Maathai meurt d’un cancer à Nairobi le 25 septembre 2011.

En conclusion de l’autobiographie Seul le vent me pliera, Wangari écrit:

«Le travail de ma vie est allé bien au-delà de la simple plantation d’arbres. [... ] En plantant des arbres, mes collègues et moi avons planté des idées. Les idées, comme les arbres, ont grandi. En fournissant l’éducation, l’accès à l’eau et l’égalité, notre mouvement donne du pouvoir aux personnes - qui sont pour la plupart des pauvres et des femmes - qui peuvent ainsi agir et améliorer directement la vie des individus et des familles. Notre expérience d’environ trente ans a également montré que des actions considérées comme simples peuvent conduire à de grands changements, au respect de l’environnement, à la bonne gouvernance et à une culture de paix. Un tel changement ne se limite pas au Kenya ou à l’Afrique. Les défis qui attendent l’Afrique, en particulier la dégradation ambiante, concernent le monde entier».


Traduzione inglese

Syd Stapleton

The Norwegian Nobel Committee awarded the 2004 Nobel Peace Prize to Wangari Maathai for her contributions to sustainable development, democracy and peace.

Wangari Maathai Muta was born on April 1, 1940, in Nyeri, in the central mountainous region of British Kenya, into a polygamous ethnic Kikuyu peasant family dedicated to cattle ranching. At the behest of her mother and one of her older brothers, she received a primary education in local schools and continued her studies in English-speaking Catholic schools. Her excellent academic performance earned her admission to Kenya's only girls' high school, Loreto High School in Limuru, where she manifested her interests in science subjects. At the time, few young women completed high school and, in most cases, finished their education by accessing employment as teachers or nurses. But Wangari aimed to be admitted into the "Oxford of East Africa," Makerere University. It was the late 1950s. In that period close to decolonization, the United States was implementing programs to promote studies and train African youth, the continent's future ruling class. Wangari was selected to be among the 300 Kenyan students who would take advantage of a Joseph P. Kennedy Foundation scholarship to attend university in the United States, and was directed to Mount St. Scholastica College in Atchison, Kansas, run by Benedictine nuns, where she earned a Bachelor of Science degree in 1964. Later, in 1966, she earned a Bachelor of Science degree in Biology from the University of Pittsburgh.

The U.S. years were for her "a liberating period, but also a disturbing one... Until then I had lived among nuns, like a nun." Her return to her homeland, now independent, was full of expectations. Wangari was eager to put her rich educational background to good use and to engage in research and university teaching, placing herself at the service of the weak and helpless. Her enthusiasm collided with the logic of "tribal" partition that plagued the administration and the schools. After initial disappointments over a job promised and then denied, she agreed to go abroad once again. In 1967 she was in Germany, in Giessen and Munich, to continue her research on animal tissues, already begun in the United States, which led, in 1971, to a Ph.D. in Veterinary Anatomy from the University of Nairobi. In 1969 she married Mwangi Maathai, a businessman who intended to go into politics, by whom she would have two daughters and a son. But then an intense period of public activity also began for Wangari. She collaborated with her husband, who was elected to the Kenyan parliament in 1974, in an effort to create new jobs and founded Envirocare, a company that created nurseries and intended to finance itself by selling trees. Envirocare failed shortly thereafter, in part because of the government's crony management of funding, which pursued extensive logging programs to make way for large and profitable tea and coffee plantations. But Wangari's path was now chosen. On the basis of her veterinary studies and the knowledge derived from belonging to a family of livestock farmers, she had a way of noticing the changes that are taking place in the environment, especially the desertification of the territories and the deteriorating conditions of animal husbandry, an area in which Kenya had until then played a role of excellence on the African continent.

In those years, in addition to becoming a Red Cross militant, Wangari was invited to join the Environment Liaison Centre, an NGO founded by a number of environmental organizations to cooperate with the United Nations Environment Program (UNEP), and the National Council of Women of Kenya, founded in 1964, where she soon held representative positions also at the international level. On World Environment Day 1977, with other women from the National Council, Wangari planted seven trees in a Nairobi park. It was the beginning of the Green Belt Movement, which came to fight not only against environmental degradation, but also against the corruption of the government and single party of Daniel Arap Moi, who succeeded Jomo Kenyatta as president of Kenya in 1978.

The movement grew and with it the popularity of its founder. The Green Belt succeeded in engaging a large section of the female population since it also supported the struggle for democracy, equality and human and civil rights, freedom of expression, and, later, the cancellation of the foreign debt of the poorest countries. At that point, the Kenyan government unleashed smear campaigns and severe repression against the movement. For the activists, the gates of prison opened wide, including for Wangari, who as early as 1977 suffered an arrest in the course of her husband's wrongful divorce suit against her. Repression against environmentalist demonstrations was so violent and brutal that it provoked protests from foreign governments. Among the battles waged by Wangari and the Green Belt Movement, the one aimed at preventing the construction in Nairobi's Uhruri Park of a 60-story skyscraper took on particular symbolic significance for forcing foreign investors to withdraw from the project, which would have taken additional space away from public enjoyment. The entire 1990s saw Kenya shaken by violent infighting and fierce government crackdowns on political and social dissent: crackdowns that repeatedly affected the Green Belt Movement and Wangari herself, who was again imprisoned. The 2000s began under the banner of the country's partial openings to a democratic path, but Wangari still did not feel fully confident that her persecution had ended. However, after a brief stint at Yale teaching at the School of Forestry and Environmental Studies, in 2002 she decided to seize the opportunities afforded by Kenya's new course and stand for election on the National Rainbow Coalition (NARC) lists. To her surprise, she was elected with an overwhelming majority of votes, so much so that she became, in the new government, deputy minister of Environment and Natural Resources.

In October 2004, she received the Nobel Peace Prize in recognition of the value of her holistic approach to environmentalism and sustainable development, which, by interweaving scientific research, social engagement and political activism, focused on human rights and women's rights and with them democracy as a whole and in its deepest meaning. Long ill with cancer, Wangari Maathai died in Nairobi on September 25, 2011.

In closing her autobiography Only the Wind Will Bend Me, Wangari writes:

«My life's work has gone far beyond simply planting trees... By planting trees, my colleagues and I have planted ideas. Ideas, like trees, have grown. By providing education, access to water, and equality, our movement empowers people - most of whom are poor and women - who can then take action and directly improve the lives of individuals and families. Our experience of nearly three decades has also shown that actions that are considered simple can lead to great change, respect for the environment, good governance and a culture of peace. Such change is not limited to Kenya or Africa. The challenges facing Africa, particularly environmental degradation, affect the whole world».


Traduzione spagnola

Vanessa Dumassi

El Comité Noruego del Nobel decidió conceder el Premio Nobel de la Paz de 2004 a Wangari Maathai por su contribución al desarrollo sostenible, a la democracia y a la paz.

Wangari Maathai Muta nació el 1 de abril de 1940 en Nyeri, región montañosa central de la Kenia británica, en el seno de una familia polígama de agricultores de etnia kikuyu que se dedicaba a la cría de ganado. Por la voluntad de su madre y de uno de sus hermanos mayores, fue educada en una escuela primaria local y luego continuó sus estudios en la escuela católica de habla inglesa. Sus brillantes resultados escolares le proporcionaron la posibilidad de ser admitida en el único instituto femenino de Kenia, la Loreto High School de Limuru, donde manifestó su interés por las asignaturas científicas. En aquella época las mujeres jóvenes que terminaban el bachillerato eran muy pocas y, en la mayoría de los casos, completaban su formación obteniendo un empleo como maestras o enfermeras. A pesar de esta tendencia, Wangari aspira a ingresar en la "Oxford de África Oriental", la Universidad de Makerere. Estamos a finales de los años 50: en ese periodo, próximo a la descolonización, los Estados Unidos activan programas para promover los estudios y la formación de la juventud africana, futura clase dirigente del continente. Wangari será seleccionada entre las/los 300 estudiantes keniatas que reciben una beca de la Fundación Joseph P. Kennedy para cursar los estudios universitarios en Estados Unidos y destinada al Mount St. Scholastica College de Atchison (Kansas), dirigido por monjas benedictinas, donde se licenciará en 1964; posteriormente, en 1966, se especializará en Biología en la Universidad de Pittsburgh.

Los años que pasó en Estados Unidos fueron para ella «un periodo liberador, pero también inquietante... Hasta entonces había vivido entre monjas, como una monja». El regreso a su patria, ahora país independiente, está lleno de expectativas: Wangari desea emplear su rico bagaje educativo y dedicarse a la investigación y a la enseñanza universitaria en beneficio de los débiles y desamparados. Pero su entusiasmo choca con la lógica de la partición "tribal" que aflige la administración y la academia: tras las decepciones iniciales por un trabajo prometido y luego denegado, acepta irse al extranjero una vez más. En 1967 se encuentra en Alemania, en Giessen y en Múnich, para continuar sus investigaciones sobre los tejidos animales, que ya había iniciado en Estados Unidos y que la llevaron a doctorarse en Anatomía Veterinaria en la Universidad de Nairobi en 1971. En 1969 se casa con Mwangi Maathai, un hombre de negocios que se dedica a la política, con quien tendrá dos hijas y un hijo. Entonces también para Wangari comienza una intensa actividad pública. Colabora con su marido, elegido diputado en el Parlamento keniano en 1974, para crear nuevos puestos de trabajo y funda Envirocare, una empresa que fabrica viveros y pretende financiarse vendiendo árboles. Envirocare fracasó poco después, en parte a causa de la gestión clientelar de la financiación por parte del gobierno, que llevó a cabo amplios programas de deforestación para dejar paso a grandes y rentables plantaciones de té y café. Sin embargo, el camino de Wangari ya está marcado. Gracias a sus estudios de veterinaria y a los conocimientos adquiridos por pertenecer a una familia de ganaderos, se da cuenta de los cambios que se producen en el medio ambiente y, especialmente, de la desertización de los territorios y del deterioro de las condiciones de la zootecnia, un ámbito en el que hasta entonces Kenia había desempeñado un papel de excelencia en el continente africano.

En aquellos años, además de convertirse en militante de la Cruz Roja, Wangari fue invitada a formar parte del Environment Liaison Centre –una ONG fundada por un conjunto de organizaciones ecologistas para cooperar con el Programa de las Naciones Unidas para el Medio Ambiente (PNUMA)– y del National Council of Women of Kenya, fundado en 1964, donde pronto ocupó cargos de representación a escala internacional. Durante la Jornada mundial del medio ambiente de 1977, junto a otras mujeres del Consejo Nacional, Wangari planta siete árboles en un parque de Nairobi: este es el inicio del Green Belt Movement que no luchará solo contra la degradación del medio ambiente, sino también contra la corrupción del gobierno y del partido único de Daniel Arap Moi que sucedió a Jomo Kenyatta como presidente de Kenia en 1978.

El movimiento crece junto a la popularidad de su fundadora. El Green Belt involucra a gran parte de la población femenina ya que también apoya la lucha por la democracia, por la igualdad y por los derechos humanos y civiles, por la libertad de expresión y, posteriormente, por la condonación de la deuda externa de los países más pobres. Debido a ello, el gobierno de Kenia emprende campañas de difamación y una fuerte represión contra el movimiento. Las puertas de la cárcel se abren para las activistas: también para Wangari que ya había sido detenida en 1977 por la causa legal de divorcio presentada por su marido. La represión contra las manifestaciones ecologistas es tan violenta y brutal que provoca las protestas de los gobiernos extranjeros. Entre las batallas emprendidas por Wangari y por el Green Belt una –más concretamente la destinada a impedir la construcción de un rascacielos de 60 pisos en el parque Uhruri de Nairobi– adquirió un significado simbólico especial, ya que obligó a los inversores extranjeros a retirarse del proyecto que hubiera privado a la población de otro espacio público. En la década de 1990 Kenia se vio sacudida por violentas luchas internas y por una feroz represión relacionada al disentimiento político y social del gobierno: represiones que afectaron reiteradamente al Green Belt Movement y a la misma Wangari que fue encarcelada otra vez. La década de 2000 empieza con la apertura parcial de su país a una vía democrática, pero Wangari aún no está segura de que la persecución contra ella haya terminado. A pesar de esto, tras una breve temporada en Yale enseñando en la Escuela de Silvicultura y Estudios Medioambientales, en 2002 decide aprovechar las oportunidades que ofrece el nuevo rumbo de Kenia y se presenta a las elecciones en las listas de la Coalición Nacional Arco Iris (NARC): sorprendentemente para ella, es elegida con una aplastante mayoría de votos y se convierte en Viceministra de Medio Ambiente y Recursos Naturales del nuevo gobierno.

En octubre de 2004 recibió el Premio Nobel de la Paz en reconocimiento al valor de su enfoque holístico al ambientalismo y al desarrollo sostenible que, entrelazando investigación científica, compromiso social y militancia política, se centra en los derechos humanos y los derechos de las mujeres y, con ellos, en la democracia en su totalidad y en su significado más profundo. Wangari Maathai, enferma de cáncer desde hacía mucho tiempo, fallece en Nairobi el 25 de septiembre de 2011.

Al final de su autobiografía Unbowed. A memoir, Wangari escribe:

«La labor de mi vida ha ido mucho más allá de la simple plantación de árboles [...]. Plantando árboles, mis colegas y yo, hemos plantado ideas. Las ideas, como los árboles, han crecido. Al proporcionar educación, acceso al agua e igualdad, nuestro movimiento empodera a las personas –en su mayoría pobres y mujeres– que pueden así actuar y mejorar su propia vida y la de sus familias. Nuestra experiencia, de unos treinta años de duración, también ha demostrado que acciones consideradas sencillas pueden conducir a grandes cambios, al respeto del medio ambiente, a la buena gobernanza y a una cultura de paz. Este cambio no se limita a Kenia o a África. Los retos a los que se enfrenta África, en particular la degradación del medio ambiente, afectan a todo el mundo».


Traduzione ucraina

Alina Petelko

Норвезький Нобелівський комітет прийняв рішення присудити Нобелівську премію миру 2004 року Вангарі Маатаї за її внесок у сталий розвиток, демократію та мир.

Вангарі Маатаї Мута народився 1 квітня 1940 року в місті Ньєрі, в центральному гірському районі Британської Кенії, в полігамній фермерській родині племені кікуйю. За бажанням матері та одного зі старших братів отримала початкову освіту в місцевих школах, а продовжила навчання в англомовних католицьких школах. Відмінні результати у навчанні дозволили їй вступити до єдиної в Кенії середньої школи для дівчат "Лорето" в Лімуру, де вона виявила інтерес до природничих дисциплін. У той час мало хто з дівчат закінчував середню школу і, в більшості випадків, завершував свою освіту, влаштовуючись на роботу вчителями або медсестрами. Але Вангарі прагне вступити до "Оксфорду Східної Африки" - Університету Макерере. Це кінець 1950-х років: у той час, близький до деколонізації, Сполучені Штати впроваджують програми сприяння навчанню та підготовці африканської молоді - майбутнього правлячого класу континенту. Вангарі була відібрана як одна з 300 кенійських студентів для отримання стипендії Фонду Джозефа П. Кеннеді для навчання в університетах США і була направлена до коледжу Маунт Сент-Схоластика в Атчісоні (штат Канзас), яким керують монахині-бенедиктинки, де у 1964 році отримала ступінь бакалавра природничих наук. Пізніше, у 1966 році, вона отримала ступінь бакалавра біології в Піттсбурзькому університеті.

Американські роки були для неї "періодом визволення, але й тривожним періодом... До того часу я жила серед монахинь, як черниця". Її повернення додому, тепер уже незалежної, сповнене надій: Вангарі прагне застосувати свій багатий освітній досвід і зайнятися науковими дослідженнями та викладанням в університеті, присвятивши себе служінню слабким і беззахисним. Його ентузіазм наштовхується на логіку "родового" поділу, що панує в адміністрації та академії: після перших розчарувань у обіцяній, а потім відмовленій роботі, він знову погоджується виїхати за кордон. У 1967 році вона перебувала в Німеччині, в Гіссені та Мюнхені, щоб продовжити свої дослідження тканин тварин, розпочаті ще в Сполучених Штатах, які приведуть її до здобуття наукового ступеня доктора ветеринарної анатомії в Університеті Найробі в 1971 році. У 1969 році вийшла заміж за Мвангі Маатаї, бізнесмена, який мав намір присвятити себе політиці, від якого народила двох дочок і сина. Але потім для Вангарі почалася й інтенсивна громадська діяльність. Разом з чоловіком, який був обраний до кенійського парламенту в 1974 році, вона працює над створенням нових робочих місць і засновує компанію Envirocare, яка створює розсадники і має намір фінансувати себе за рахунок продажу дерев. Невдовзі після цього компанія "Енвірокеар" зазнала невдачі, частково через те, що урядовці, які керували фінансуванням, здійснили масштабні програми вирубки лісів, щоб звільнити місце для великих і прибуткових чайних та кавових плантацій. Але шлях Вангарі тепер позначений. На основі своєї ветеринарної освіти та знань, отриманих у родині тваринників, він помітив зміни, що відбуваються в навколишньому середовищі, особливо опустелювання земель та погіршення умов ведення тваринництва - галузі, в якій Кенія до цього часу відігравала провідну роль на африканському континенті

У ті роки, окрім того, що Вангарі стала бойовиком Червоного Хреста, її запросили приєднатися до Центру зв'язку з навколишнім середовищем - неурядової організації, заснованої низкою екологічних організацій для співпраці з Програмою ООН з навколишнього середовища (ЮНЕП), а також до Національної ради жінок Кенії, заснованої у 1964 році, де вона незабаром обійматиме представницькі посади також і на міжнародному рівні. У Всесвітній день охорони навколишнього середовища 1977 року разом з іншими жінками з Національної ради Вангарі посадила сім дерев у парку в Найробі: це стало початком Руху зелених поясів, який боротиметься не лише проти деградації довкілля, а й проти корупції уряду та єдиної партії Даніеля Арапа Мой, який змінив Джомо Кеніатту на посаді президента Кенії у 1978 році.

Рух зростає, а з ним і популярність його засновника. Зеленому поясу вдається залучити значну частину жіночого населення, оскільки він також підтримує боротьбу за демократію, за рівність і права людини і громадянина, за свободу вираження поглядів і, згодом, за списання зовнішнього боргу найбідніших країн. Тоді кенійський уряд розгорнув проти руху наклепницькі кампанії та потужні репресії. Для активістів широко відчинилися ворота в'язниці, в тому числі і для Вангарі, яка вже була заарештована в 1977 році в ході неправомірного шлюборозлучного процесу її чоловіка проти неї. Репресії проти демонстрацій екологів є настільки жорстокими і брутальними, що викликають протести з боку іноземних урядів. Серед битв, які вели Вангарі та Рух зелених поясів, особливого символічного значення набула боротьба за недопущення будівництва 60-поверхового хмарочоса в парку Урурі в Найробі, що змусило іноземних інвесторів вийти з проекту, який мав би вилучити з громадського користування ще більшу площу. Всі 1990-ті роки Кенію стрясали жорстокі міжусобиці і жорстокі репресії проти політичного і соціального інакомислення з боку уряду: репресії, які неодноразово зачіпали Рух Зеленого поясу і саму Вангарі, яка в черговий раз була ув'язнена. 2000-ні роки розпочалися з часткового відкриття країни на демократичний шлях, але Вангарі все ще не відчуває повної впевненості в тому, що переслідування її закінчилися. Однак, після короткого періоду, проведеного в Єльському університеті, де вона викладала в Школі лісового господарства та екологічних досліджень, в 2002 році вона вирішила скористатися можливостями, запропонованими новим напрямком розвитку Кенії, і висунула свою кандидатуру на виборах від Національної коаліції "Райдуга" (Narc). На її подив, вона була обрана переважною більшістю голосів, настільки, що стала заступником міністра навколишнього середовища і природних ресурсів в новому уряді.

У жовтні 2004 року він отримав Нобелівську премію миру на знак визнання цінності його цілісного підходу до екології та сталого розвитку, який, переплітаючи наукові дослідження, соціальні зобов'язання та політичну активність, зосереджується на правах людини та правах жінок, а разом з ними і на демократії в цілому та в її найглибшому значенні. Багатостраждальний від раку Вангарі Маатаї помер у Найробі 25 вересня 2011 року.

Завершуючи свою автобіографію "Тільки вітер зігне мене", Вангарі пише:

«Робота мого життя вийшла далеко за межі простого садіння дерев. [...] Саджаючи дерева, я і мої колеги саджали ідеї. Ідеї, як дерева, розрослися. Забезпечуючи освіту, доступ до води та рівність, наш рух розширює можливості людей - більшість з яких є бідними та жінками - які таким чином можуть діяти та безпосередньо покращувати життя окремих людей та сімей. Наш 30-річний досвід також показав, що дії, які вважаються простими, можуть призвести до великих змін, поваги до навколишнього середовища, належного врядування та культури миру. Такі зміни не обмежуються Кенією чи Африкою. Виклики, з якими стикається Африка, зокрема, погіршення стану довкілля, впливають на весь світ».

 

Sottocategorie

 

 

 Wikimedia Italia - Toponomastica femminile

    Logo Tf wkpd

 

CONVENZIONE TRA

Toponomastica femminile, e WIKIMEDIA Italia